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martedì 24 settembre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 77 : BOB DYLAN (Oh Mercy)

BOB DYLAN  Oh Mercy (Columbia, 1989)


 E all’improvviso il capolavoro. Arriva dopo un disco mediocre e costruito a tavolino con scarti di magazzino come Down In The Groove, buon pretesto per chiudersi sopra a un palco, far partire il Never Ending Tour, e non scenderci più . Un contributo fondamentale arriva dal produttore Daniel Lanois, consigliato da Bono degli U2. Nel frattempo Dylan e gli U2 trovarono il tempo di collaborare tra loro su Rattle And Hum. C’era poco da annusarsi tra Dylan e Lanois : la persona giusta al momento giusto. “Nel giro di un’ora avevo già capito di poter lavorare con lui. Ne ero convinto” scriverà Dylan nell’autobiografia Chronicles che ha tante pagine fitte di aneddoti dedicati all’album . “Rimasi seduto al suo fianco per due mesi mentre scriveva i brani per l’album e fu straordinario. Continuava a intagliare i suoi versi”, replicherà Lanois.
Registrato a New Orleans, a Sonia Street con alcuni musicisti del posto scelti dal produttore, città da cui prenderà alcuni caratteri salienti, uno di questi la spettralità che avvolge alcune canzoni come la crepuscolare ‘Man in The Long Black Coat’, con i suoi grilli da notte fonda a fare da sipario, che Dylan paragonerà a ‘Walk The Line’ di Johnny Cash.

OH MERCY è un disco magniloquente, misterioso, senza tempo, che cattura lentamente su cui Dylan lavora bene di voce mentre Lanois cesella gli strumenti a dovere e con parsimonia. Dylan durante le registrazioni carbura lentamente ma una volta entrato nel metodo lavorativo di Lanois, non c'è ne sarà per nessuno. “Non sapevo che tipo di disco avevo in mente, non sapevo nemmeno se le canzoni fossero buone". Intanto la leggenda racconta di un Lanois incazzato intento a distruggere una chitarra dobro sul pavimento dello studio.
Non si butta via nulla, anche se a prodotto finito Dylan dirà “non saprei dire se questo è il disco che ciascuno di noi voleva”: dall’apertura tambureggiante di ‘Political World’, un carico di visioni apocalittiche che fa il paio con il lungo elenco di ‘Everything Is Broken’ alla ballata ‘Where Teardrop Falls’, i legami sentimentali toccati in ‘Most Of The Time’, la caritatevole ‘Ring Them Bells’, il male della presunzione di ‘Disease Of Conceit’, alle domande poste nei titoli di due canzoni (‘What Good Am I? ‘e ‘What Was If You Wanted? ‘), i dubbi che vengono a galla nella quiete finale di ‘Shooting Star’, dall’album finito resteranno fuori pure canzoni magnifiche come ‘Dignty’ e ’Series Of Dreams’ che fanno da ulteriore termometro all’ispirazione tarata al massimo di Dylan a quei tempi.
Qualcuno (Clinton Heylin) disse che fu il meno dylaniano dei dischi di Dylan (riferendosi alla modernità di registrazione) e francamente la prima cosa che viene da chiedersi è: perché qual’è il vero Dylan? Non era che: ognuno ha il suo? Questo è uno dei (tanti) miei. Buoni 30!




mercoledì 28 agosto 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 76: NEAL CASAL (Fade Away Diamond Time)

NEAL CASAL  Fade Away Diamond Time (1995)




buona la prima

Che esordio sorprendente! Tanto acclamato dalla critica quanto poco fortunato nelle vendite, complice un'etichetta che prima sembra puntare tutto su di lui per poi mollare il colpo improvvisamente. Neal Casal ha ventisei anni quando riesce a portare al debutto su disco le sue canzoni, raccolte negli anni lungo le tante città che ha già visitato, ma germogliate ancor prima di diventare un musicista professionista nel natio New Jersey tra i dischi e le chitarre di famiglia. Un debutto che da un lato evidenzia le sue grandi doti di songwriter e musicista, dall' altra sembra indicare il suo futuro artistico relegato ai lati della prima pagina, un po' anche per saggia scelta altruista (la sua chitarra nei Cardinals di Ryan Adams ad esempio ma non solo come sappiamo), ma non per questo minore rispetto ad altri artisti più acclamati o che in quella prima pagina riusciranno a mettere il loro faccione.
In questo disco Casal mette in fila canzoni profonde di American roots, amare, malinconiche, a tratti perfino disperate alla rincorsa di amori persi (la splendida 'Cincinnati Motel') o da conquistare, ma sempre con un tratto gentile e accomodante, senza troppi spigoli che sembrano rispecchiare il suo carattere puro, gioviale e senza orpelli. Ballate puntellate da Hammond ('Day In The Sun'), steel guitar ('Maybe California'), armonica ( il valzer finale 'Sunday River'), quasi gospel nel crescendo di 'One Last Time', suonate in compagnia dei suoi musicisti (John Ginty al pianoforte e all'organo, Don Heffington alla batteria e Fooch Fischetti alle pedal steel) e di esperti fuoriclasse come Greg Leiszt e Bob Glaub.

Ballate elettriche che sanno di libertà (lui, grande amante del surf e della fotografia) come 'Detroit Or Buffalo', come 'Free To Go' che va diritta dalle parti dell' amato Neil Young, anche la copertina sembra confermare, o quella 'Feel No Pain' battuta sui tasti di un pianoforte come fosse una canzone di Jackson Browne altro faro che illumina la sua arte.
Senza dimenticare il primo amore, i Rolling Stones: "i Rolling Stones sono stati la prima band che ho amato davvero da bambino e mi hanno fornito la più importante educazione musicale. Mi hanno insegnato il blues, il folk, il R n 'B, la musica giamaicana e il country. Tutte le cose che amo ancora oggi".
Anni 60, The Band, la West Coast dei settanta e nessun marchingegno moderno che possa tradire e svelare l'anno di uscita se non la freschezza del suo autore.
Musica che trasuda passione, suonata con il cuore che mai avremmo pensato così fragile.

NEAL CASAL (2 novembre 1968 – 26 agosto 2019)









mercoledì 14 agosto 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 75: CROSBY, STILLS & NASH (After The Storm)

CROSBY, STILLS & NASH  After The Storm (1994)




poteva andare peggio...
 “Nel 1994, considerando quello che avevamo passato insieme, fu gratificante osservare la parabola positiva di riabilitazione di David ma sul piano fisico sembrava che stesse subendo un crollo” così Graham Nash nella sua autobiografia ricorda le condizioni di salute dell'amico Crosby.
Con il trapianto di fegato di David Crosby si concluse quell’anno di anniversari: 25 anni da Woodstock, 25 anni dal primo disco del trio. Se per festeggiare il grande raduno di pace, musica e amore, Crosby, Stills & Nash risalirono nuovamente sul palco per la replica della manifestazione, per ricordare quel primo disco si pensò di ritornare in studio di registrazione. Fare peggio di Live It Up, uscito quattro anni prima, era cosa impossibile, quindi perché no? Merito anche di una vecchia volpe come Glyn Johns in produzione che cercò di sgomberare lo studio da strumenti e macchinari troppo moderni. Fu già un passo avanti, la perfezione si sarebbe raggiunta se i tre si fossero presentati con dei capolavori in mano. Purtroppo non fu proprio così, visto che alcune delle canzoni furono scarti o sottratte ai rispettivi album solisti dei tre con pochissime vere collaborazioni (‘These Empty Days’ della coppia Nash e Crosby e ‘Camera’ di Stills e Crosby).
Comunque sia, su tutto il disco aleggia un'atmosfera di pace e rilassatezza che tratteggia bene le anime musicali dei tre protagonisti: quella rock blues di Stephen Stills (l'iniziale ‘Only Waiting For You’, ‘It Won’t Go Away’,l’hard di ‘Bad Boyz’ e le immancabili concessioni latine della finale ‘Panama’), il tocco leggero e romantico di Graham Nash (le belle ‘Find A Dream’ e ‘After The Storm’, ‘Unequal Love’) e un David Crosby comunque in buona forma (‘Camera’, ‘Till It Shines’, ‘Street To Lean On’). Più una cover di ‘In My Life dei Beatles. Scorrendo invece la lista degli ospiti troviamo: l’Heartbreaker Benmont Tench, i figli d’arte Ethan Johns, Chris e Jennifer Stills, la chitarra di Michael Hedges, le percussioni di Rafael Padilla.
“Mentre gli infermieri stavano per spingere la barella di David dentro la sala operatoria, mi avvicinai a lui, lo guardai negli occhi e gli dissi: ‘Se mi abbandoni qui con Stills, ti ammazzo, cazzo’. Croz entrò in quella sala operatoria ridendo e sforzandosi di non ridere”, ricorda Nash.
Sono passati altri 25 anni: quest'anno si celebrano i 50 anni di Woodstock e i 50 anni di quel primo disco con il divano in copertina e i tre protagonisti sono ancora qui con noi, pure in discreta forma.







martedì 16 luglio 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 74: CACTUS (Cactus)

CACTUS Cactus (1970)


blues nel deserto
Il 3 Giugno 1982, Russell Edward Davidson per tutti Rusty Day, suo figlio, il fedele cane e l’amico Garth McRae furono trovati morti nella casa di Day a Longwood, Seminole County in Florida, colpiti ammazzati da un' arma da fuoco. L’omicidio a distanza di molti anni è tutt'ora irrisolto anche se la pista legata a vecchi conti di droga rimase a lungo la più battuta. Rusty Day non era uno stinco di santo.
Rusty Day, 36 anni, in quel momento era invece il cantante della sua band Uncle Acid & The Permanent Damage, ma solo pochi anni prima la leggenda narra che avesse rifiutato di entrare negli AC DC dopo la morte di Bon Scott. Sappiamo come andò finire per la band australiana, rimane il punto interrogativo di come sarebbe potuta cambiare la vita del cantante Rusty Day, quello dalla voce grezza e potente e uno stile di vita non propriamente sano, se avesse accettato il posto.
Rusty Day la sua prima grande occasione la ebbe nel 1969 quando la sezione ritmica dei Vanilla Fudge formata da Carmine Appice (batteria) e Tim Bogert (basso) cercò di mettere insieme un supergruppo insieme a Jeff Beck e Rod Stewart. Mentre Rod Stewart declinò gentilmente l’offerta, avendo già scelto la strada dei Faces, Jeff Beck fu costretto a farlo suo malgrado in quanto rimase coinvolto in un incidente d’auto che lo mise ko per un po’ di tempo.
Appice e Bogart non abbandonarono l’idea, visto che un contratto con l'etichetta Atco era già pronto e i CACTUS presero forma quando si aggiunsero Rusty Day, in quel momento cantante degli Amboy Dukes di Ted Nugent, e il chitarrista Jim McCarty.
Il primo album, presentato da una stupenda quanto semplice - iconica e ironica - copertina che è tutto un programma e un’ispirazione per tanti gruppi stoner degli anni novanta, esce nel Luglio del 1970 ed è un concentrato di hard blues potente, torrido, selvaggio e saturo come nell’apertura ‘Parchman Farm’, cover di Mose Allison, nell’hard rock di ‘Let Me Swim’, ma soprattutto nei sei minuti della finale ‘Feel So Good’ dove la chitarra di McCarty è protagonista della prima parte mentre l’assolo di batteria di Appice la conduce verso l'infuocata jam del finale. I Cactus si stavano immettendo sulla via pesante dei Grand Funk Railroad, band americane che cercavano di portarsi alla pari della ben più numerosa flotta britannica che in quel momento aveva Black sabbath, Led Zeppelin e Deep Purple in prima fila come cannonieri principali.
Le radici blues della loro musica affondano la terra in ‘Bro. Bill’ guidata dall’armonica, nell’esplosiva ‘You Can Judge A Book By The Cover’ di Willie Dixon, in ‘No Need To Worry’ e nella terremotante ‘Oleo’ che alterna repentine scariche a lente ripartenze.
I Cactus sapevano anche ricamare solarità psichedelica come avviene in ‘My Lady From South Of Detroit’ che potrebbe sovrapporsi all’immagine di copertina e creare un tutt’uno lisergico perfetto.
Durarono ancora altri due (buoni) dischi (salvo la reunion in tempi recenti) dopodichè tutti troveranno la loro strada: Appice e Bogert si uniranno finalmente a Jeff Beck, McCarty sarà sempre un po’ sottovalutato e il povero Rusty Day, da qualche parte, perso nel deserto dell'universo, aspetta ancora giustizia.







giovedì 24 gennaio 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 73: CINDERELLA (Long Cold Winter/Heartbreak Station)

CINDERELLA  Long Cold Winter (Mercury, 1988)



inizia il lungo inverno
Allora perché non tirare fuori un disco dalla candida ed elegante copertina che all’epoca spazzò via in un solo colpo i vestiti colorati e il trucco pesante di NIGHT SONGS, il pur buon debutto uscito solo due anni prima e messo in piedi con l’aiuto di Bon Jovi. Lo si capisce subito dalla slide che introduce ‘Bad Seamstress Blues’ e che si trasforma subito in ‘Fallin’ Apart At The Seams’ che qualcosa è maturato in meglio: la consapevolezza di essere una delle migliori band uscite negli Stati Uniti a metà anni ottanta prende forma. I Cinderella cambiano vestiti e pelle musicale e LONG COLD WINTER guidato dalle sue perle bianche come neve è un disco da conservare gelosamente: la trascinante ‘Gypsy Road’, la ballata pianistica ‘Don’t Know What You Got (Till It’s Gone)’ in grado di succhiare lacrime ad ogni ascolto e prenotarsi un posto nelle immancabili compilation in cassetta dell'epoca dedicate alle ballads, le chitarre di ‘The Last Mile’ e ‘Fire And Ice’ colpiscono tra hard e southern rock, mettendo in fila influenze catturate a Aerosmith, Led Zeppelin, Lynyrd Skynyrd e AC/DC. Nata a Philadelphia, la band di TOM KEIFER, fino compositore e voce aspra, abrasiva e graffiante come poche-e corde vocali delicate visti i tanti problemi che arriveranno dopo-del chitarrista Jeff Labar, del bassista Eric Brittingham e del batterista Fred Coury (ma sul disco ci suonarono Cozy Powell e Danny Carmassi) da qui in avanti metterà da parte l’iniziale sbandata glam così vicina a ciò che girava nei marciapiedi di Los Angeles all’epoca, per gettarsi dentro alle acque più torbide e stagnanti del blues (‘Long Cold Winter’ è un blues ammaliante e notturno, ‘la finale ‘Take Me Back’ va giù di slide), per poi asciugarsi sdraiata sull’erba sempre verde del country (l’altra ballata ‘Coming Home’), anticipando le mosse del successivo e altrettanto bello HEARTBREAK STATION (1990). Uno dei migliori album americani dell’epoca, in grado di raccogliere estimatori ad ogni latitudine musicale.






CINDERELLA Heartbreak Station (Vertigo, 1990)


Tra il portico in legno di una vecchia casa abbandonata in Pennsylvania, gli infiniti binari di una ferrovia che attraversa il nulla e gli stadi stracolmi di fan, i Cinderella di Tom Keifer registrano uno dei miei album americani perfetti, senza scomodare tanti altri nomi blasonati. C'è tutto quello che mi piace qui dentro: voce graffiante e unica, grandi chitarre slide ('The More Things Change'), rock alla Aerosmith vecchia maniera ('Love's Got Me Doin' Time'), rock'n'roll che strizza l'occhio a Keith Richards ('Sick Gor The Cure','Make Your Own Way'), country ('One For The Rock And Roll'), RnB ('Shelter Me'), ballad perfette ('Heartbreak Station'), western song ('Dead Man's Road'), anthem trascinanti ('Love Gone Bad'). E c'è pure John Paul Jones come arrangiatore di archi. Me lo porto dietro da quasi trent'anni...





martedì 15 gennaio 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 72: DENNIS WILSON (Pacific Ocean Blue)

DENNIS WILSON  Pacific Ocean Blue (1977)





ho scritto "oceano" sulla sabbia
Marina del Rey, Los Angeles. Dennis Wilson sembra in preda allo spirito del subacqueo cacciatore: si tuffa in acqua una volta, poi due, poi tre. Quando riemerge, ogni volta ha qualcosa di molto personale in mano. Oggetti che lui stesso aveva gettato in mare qualche anno prima dalla sua imbarcazione ormeggiata nel molo, in preda a qualche raptus isterico. Amore? Quella barca non era più sua da tempo, era stato costretto a venderla per recuperare i tanti soldi sperperati in vita, e quel 28 Dicembre del 1983 era ospite di amici, gli stessi che lo guardavano mentre un po’ alticcio da vodka entrava e riemergeva dalle acque dell'oceano. Uno, due, tre volte. Alla quarta il mare si quieta per troppo tempo. Sarà il solito scherzo di quel mattacchione di Dennis. Dennis Wilson muore inghiottito da quello stesso oceano che gli aveva dato tutto in vita, tanto che gli sembrò naturale intitolare il suo primo e unico disco solista, uscito cinque anni prima, proprio Pacific Ocean Blue. Fu il primo album solista di un membro dei Beach Boys e sorprese tutti perché arrivò dalla mente e dalla penna della pecora nera di famiglia, il piccolo Dennis che dentro ai Beach Boys ci finì perché lo mise la mamma e finì dietro la batteria perché solo quel posto era rimasto. Poco male perché proprio ispirandosi a lui, il fratello Brian tirò fuori le hit più balneari che fecero la fortuna del gruppo. Dennis era forse il meno dotato dal punto di vista artistico ma certamente era lo sportivo di famiglia a cui ispirarsi per scrivere testi: aveva il fisico, la passione del surf, grande successo con le ragazze (si sposò ben cinque volte) e quell'aurea da bello e maledetto che lo porteranno a intraprendere i vizi più pericolosi (la santa trinità: coca, eroina e alcol) e frequentazioni poco sane (vedasi la parentesi a casa Charles Manson, il quale cercò di sfruttare l'amicizia per entrare nel mondo della musica, fino a quando Wilson tagliò tutti ponti capendo con chi aveva a che fare ).
Quando Pacific Ocean Blue uscì, i Beach Boys erano ai minimi storici di ispirazione e successo, tenuti in piedi proprio da Dennis; nel mondo musicale non si parlava d'altro che di punk, a chi vuoi che interessi l’album del batterista degli (ex) ragazzi da spiaggia? Così sarà, perché l’album, una sorta di diario delle sue abilità costruito in sette anni grazie al supporto di James Guercio, non ebbe troppo successo commerciale anche se la critica lo promosse, accrescendo il suo valore con il tempo. Dennis forse lo sapeva e nelle note di copertina sembrava scusarsi già con troppo anticipo “questo è il mio primo disco lontano dai Beach Boys. Sono sicuro che capirete il mio nervosismo. Vi ringrazio per il supporto e vi invito a mandare commenti o suggerimenti dopo averlo ascoltato”. Invece, Dennis Wilson che in questo album le bacchette della batteria le lascia volentieri ad altri, suona tutti gli strumenti possibili, prediligendo il pianoforte e stupisce tutti con canzoni che esulano totalmente dalla discografia della band per raggiungere uno status emozionale che sa di malinconia e verità, di amori falliti, tormento e disperazione, disperata ricerca di una pace interiore che mai troverà e che la sua voce roca da trentatreenne già in pensione ma interessantissima sa rendere al meglio. Dal gospel iniziale di ‘River Song’ alla straziante dedica ad un amico scomparso ‘Farewell My Friend’ (che tornerà tristemente utile al suo funerale), dall’arcigna’Friday Night’ alla dolente ‘Thoughts Of You’, la corale ‘Rainbows’, i sospiri e il crescendo di ‘Time’, i fiati della felina ‘Dreamer’, la confidenziale ‘You And I’, alla profetica ‘End Of The Show’, Dennis Wilson gioca in musica nello stesso campo su cui ha giocato la sua vita, su quel bordo della scogliera che da sul precipizio, su quella onda cavalcata fino alla fine. Fino a quando ce n'è. Adrenalina e urgenza dettano lo struggente spartito scarabocchiato di pop soul, funky e psichedelia salata di iodio. Imperfetto ma vero come i suoi occhi e la pelle bruciata dal sole californiano del suo viso che riempie la copertina. Un disco che rimase introvabile per venti anni, poi la ristampa del 2008 lo fece riemergere insieme al disco perduto Bambu (che lo stesso Wilson riteneva superiore) che non fece mai in tempo a pubblicare perché troppo perso a vivere (male). Qualcuno ha trovato il tempo per sceneggiare la vita del fratello Brian in un bel film (Love & Mercy) , ma la vita di Dennis Wilson è altrettanto degna di essere ricordata (rimane il bel documentario della BBC) , magari partendo proprio dal fotogramma finale per poi andare a ritroso: la quiete delle acque dell'oceano in primo piano dopo che l’ultima onda della sera ha cancellato la scritta “Pacific Ocean Blue” disegnata sulla sabbia.



mercoledì 21 novembre 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #71: CALVIN RUSSELL (A Crack In Time)

CALVIN RUSSELL   A Crack In Time (New Rose, 1990)





born Halloween
Un disco che è un sogno. La salvezza. La libertà trovata a quarant’anni dopo un’infanzia di stenti e povertà nella sua Austin, quarto di nove figli, e una biografia che fino a quel momento aveva più indirizzi di galere che canzoni. A Russell non sono mai piaciute le autostrade sicure fin da quando a quindici anni decise di cercare fortuna a San Francisco trovandosi con il classico pugno di mosche nella mano, costretto a camminare nei marciapiedi stretti, quelli che gli altri chiamano “sbagliati” senza averci mai posato un piede. Lui li conosceva a memoria. Espedienti, droghe e una faccia poco raccomandabile con tante rughe e buche come una vecchia strada di campagna, appiccicata sue due occhi furbi e sinceri, illuminanti, lo stavano portando diritto verso l’inferno senza la possibilità di dare voce a quelle fiamme che gli ardevano dentro da sempre. Inizia tardi la sua carriera ma A Crack In Time è uno starter che pochi possono vantare. Un grazie all’etichetta francese New Rose che ci ha creduto, alla Francia che lo ha accolto, alla sua caparbietà, Calvin Russell nel suo debutto lo dice subito: “è dura sopravvivere”. Finalmente qualcuno a cui credere ciecamente. Canzoni con un sax a disegnare traiettorie poco convenzionali (‘A Crack In Time’), ballate che strappano il cuore (‘My Way’), tirate elettriche (‘Living At The End Of A Gun’), canzoni che lo mettono a nudo (‘Behind The 8 Ball’), sentiti omaggi a chi reputa un buon compagno di viaggio e di vita, ‘Nothin’ di Townes Van Zandt, uno che lo incoraggiò da subito. Polvere che non teme di oltrepassare i confini. Da qui in avanti, Russell recupera il tempo perso con tanti dischi (capolavori come Sounds From The Fourth World e Soldier, e di mestiere ma sempre coerenti) e quattro mogli, fino alla morte avvenuta il 3 Aprile 2011. Calvin Russell nacque il primo Novembre del 1948 (nel suo ultimo disco Dawg Eat Dawg’ uscito nel 2009 si autodedicò una bellissima ‘Halloween’) oggi ne avrebbe 70 di anni. Suo padre era un cuoco da fast food, sua madre la cameriera allo Sho’nuff Café di Austin, lui un affamato di vita. Sfortunato ma vero come pochi.




giovedì 25 ottobre 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 70: DIRE STRAITS (Dire Straits)

DIRE STRAITS    Dire Straits (1978)






Immaginate una piccola piazza di un paese in collina nei primi anni ottanta, domenica mattina, una macchina parcheggiata con le portiere aperte e una canzone che si diffonde tra i vicoli stretti mischiandosi con i profumi di cibo che uscivano dalle finestre delle case. È quasi mezzogiorno. Gente che torna dalla messa domenicale, gente la cui unica funzione è il bar cooperativa del paese, vecchi seduti sulle panchine e il parco giochi sempre pieno di schiamazzi. Io probabilmente ero lì, nell’ultimo dell’elenco. Quando qualcuno doveva battezzare la nuova autoradio non era così raro ascoltare ‘Sultans Of Swing’ per le strade del paese e vedere gente suonare l’air guitar sull’assolo finale. Ma cosa sarebbe stato di tutto questo senza l’intuito del dj della BBC Charlie Gillett che ancora prima della registrazione del disco, iniziò a diffondere quella canzone in radio? Forse lo squattrinato (ecco il nome della band!) e mancino Mark Knopfler avrebbe continuato il resto della sua vita a alternare il lavoro di insegnante d’inglese con la sua passione per la Stratocaster, dando lezioni serali di chitarra un giorno e suonando per pochi intimi nel pub sotto casa l’altro, accompagnato dalla chitarra ritmica del fratello David, dal basso di John Illsley e dallo straordinario e sottovalutato batterista Pick Withers, vecchia conoscenza per chi seguì i Primitives di Mal. Quando il debutto dei Dire Straits uscì, uno dei più straordinari debutti nel rock, alla faccia di chi non li ha mai potuti digerire (un nuovo quarantenne in splendida forma), non era così difficile additarlo come una mosca bianca all’interno del panorama musicale dominato da punk, new wave e disco music. Anacronistico e controcorrente, forse più punk del più grande gruppo punk, perché se ne fotteva altamente di cosa andava di moda ai tempi. Senza tempo se ascoltato oggi.
L’amore per Randy Newman e Bob Dylan (che una volta visti dal vivo a Los Angeles non se li lasciò sfuggire”Mark mi imita meglio di chiunque altro” dirà prima di chiamarlo per Slow Train Coming) , J. J. Cale, per il blues, il R&B, il folk e il country si traduceva in canzoni (‘In The Gallery’, ‘Lions’, ’Water Of Love’, ‘Down To The Waterline’, ‘Wild West End’, ‘Southbound Again’, ‘Six Blade Knife’) che sembravano tanto semplici, pulite e lineari ma che in realtà non lo erano affatto. L’omogeneità generale è il maggior pregio e il peggior difetto per i detrattori, opera della produzione di Muff Winwood, fratello di Steve, quella manciata di canzoni erano in grado di immergere l’ascoltatore dentro un mood di rilassatezza senza scadenza, parete di quadri agrodolci, riflessivi, notturni e malinconici che ritraevano amanti, amori finiti e pittori, tanto un fumoso club con una band jazz protagonista e una chitarra che suona “puro ritmo”, quanto le vie più battute o le più periferiche di Londra e di Leeds. O quelle meno trafficate del mio paese, una domenica mattina grigia di Ottobre nei primi anni ottanta, proprio come oggi.




mercoledì 3 ottobre 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 69: PSYCHEFUNKAPUS (Skin)

PSYCHEFUNKAPUS   Skin (1991)





con la benedizione di Talking Heads, Funkadelic e il re della chitarra surf Dick Dale

Il nome quasi impronunciabile non ha portato loro molto fortuna. Nonostante tutto ritengo SKIN uno dei migliori esempi della ricca scena crossover anni '90. La compagnia in quegli anni, fine ottanta primi novanta, era numerosa e variegata (Primus, Red Hot Chili Peppers, Jane’s Addiction, Fishbone, Living Colour, Faith No More e qui mi fermo ma si potrebbe andare avanti per molte righe) e le parole d’ordine erano osare, mischiare, stravolgere. Alcuni dischi hanno passato brillantemente la prova del tempo, rimanendo freschi e vitali a quasi trent’anni di distanza, altri meno tanto da risultare datati, a tutti però non si può negare un certo coraggio.
Gli Psychefunkapus da San Francisco, dentro al crossover ci sguazzano che è un piacere e la diversa etnia dei componenti non può che essere uno stimolo e un vantaggio per la composizione di brani surreali e folli. A produrli si scomodò Jerry Harrison, allora "seconda mente" dei geniacci TALKING HEADS da poco sciolti (“una delle band che ha una grossa influenza sulla nostra musica”) e con l'aiuto di Bernie Worrel gran compositore dei Funkadelic e dei Parliament (“un musicista geniale, dotato di tanta umiltà “) , due band cardine del funk settantiano, tra le principali influenze del gruppo californiano (il nome non è un caso) il ricco quadro è completo.
L’apertura del disco con ‘Evol Ving’, canzone cupa e psichedelica in odor di progressive, mette subito in chiaro la totale libertà di movimento del gruppo che subito dopo passa con ‘A New Beginning’ ad un funk rock sulla scia dei primi Red Hot Chili Peppers.

 L'ascolto del disco è un continuo sobbalzo da un genere musicale all'altro: il singolo scelto fu ‘Surfin On Jupiter’, surf song che rimanda tanto ai Beach Boys quanto ai primissimi Who. Ospite un vecchio chitarrista surf degli anni '60: l’oggi ottantenne Dick Dale, il re della chitarra surf. Anche se: "sinceramente prima che il management ci parlasse di lui non sapevamo nemmeno che esistesse, ma ha svolto bene il suo compito. A noi serviva proprio quel suono di chitarra per cui era famoso negli abbi '60".
Se i fiati di ‘Autumn Leaves’, canzone malinconica, rimandano a un castello medievale, il divertente country di ‘Hillbilly Happy Smash’ ci catapulta in un vecchio saloon del west. Non mancano canzoni piu' tirate e hard come ‘No Time’, ‘Syria’ o ‘Work like a horse/drink like a fish’ fino ad arrivare alla lunga e finale ‘Banana Slut King’, canzone che non avrebbe sfigurato su qualche disco dei Faith No More.
Questo secondo disco targato 1991 fu anche il loro canto del cigno, da allora di tali Jon Axtell, Atom B.Ellis, Mooshi Moo Moo e Manny Martinez si persero inspiegabilmente le tracce. Trovai solamente qualcosa sul vetusto Myspace a loro dedicato, alcune tracce e un video, la notizia di una reunion targata 2010 per scopi benefici e poi il nulla.




mercoledì 19 settembre 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 68: GUY CLARK (Old No1)

GUY CLARK   Old No 1 (1975)




 Con un debutto di questo genere ci campi in eterno. Guy Clark ci arrivò a piccoli passi, passando di città in città (dal natio Texas a Houston, da San Francisco a Los Angeles fino all’approdo in quel di Nashville), esperienze dopo esperienze: dai primi passi nel mondo degli adulti nell’hotel che apparteneva alla nonna a Monahans in Texas, alla prima chitarra ricevuta a sedici anni che gli aprì un nuovo mondo sperimentato con le canzoni in lingua spagnola, fino al lavoro presso un liutaio di chitarre dobro. L’amicizia con Townes Van Zandt, l’incontro con Susanna Talley, artista e musicista, che diventerà sua moglie e musa ispiratrice. Si conobbero nel 72 e non si lasciarono più fino alla morte di lei. Clark fece in tempo a dedicargli il suo ultimo disco, il magnifico My Favorite Picture Of You uscito nel 2013, prima di lasciarci pure lui nel Maggio del 2016 . Intanto in quei primi anni settanta, vagabondando di città in città, metteva via canzoni su canzoni: ‘LA Freeway’ (scritta dopo la deludente parentesi a Los Angeles)e ‘ Desperados Waiting For The Train’ (ecco il romantico fuorilegge ispirato da Jack, il compagno della sua vecchia nonna) finirono nelle mani di Jerry Jeff Walker che ne fece buon uso, altre finirono a Rita Coolidge e Billy Joe Shaver , tra i tanti. Il debutto arrivò tardi ma che debutto! Si riappropriò di alcune di quelle canzoni, già lì pronte solo da registrare. Clark vive ormai in città ma nei testi ci mette tutta la polvere del suo Texas e la vita delle persone più semplici e indifese, trasformando le immagini di vita reale in metafore- Bob Dylan apprezzerà tantissimo-stupende le immagini evocate dalla nostalgica ‘Texas 1947’ in questo senso: i vagabondi (‘Istant Coffee Blues’), le cameriere, le autostoppiste (‘She Ain’t Goin’ Nowhere’), gli ubriachi, gli ultimi, i fuorilegge e i perdenti. Gli amori. Dieci ritratti acustici, dagli arrangiamenti semplici che toccano il country, il folk e l’honky tonk, intimi ma carichi di poesia e malinconia con qualche bello scatto bluegrass (‘A Nickel For The Fiddler’). Intanto ai RCA Studios di Nashville, Tennesse, come la tradizione texana vuole, si riunisce una bella banda di musicisti a dare man forte: dai veterani Johnny Gimble (violino), David Briggs (piano), Chip e Reggie Young (chitarre) agli allora giovanissimi Steve Earle, Rodney Crowell e Emmylou Harris che non potevano avere maestro migliore. E non furono gli unici allievi di un songwriter cardine per tutte le generazioni che verranno.

ph.Jim Mcguire


 


lunedì 20 agosto 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 67: TOM PACHECO (Eagle In The Rain)


TOM PACHECO   Eagle In The Rain (1989)





 È spesso dimenticato TOM PACHECO, eppure il suo album Woodstock Winter che registrò nel 1997 è un pezzo pregiato dell’american music degli anni novanta. Un songwriter girovago per vocazione, cresciuto in una piccola fattoria a Darthmouth nel Massachusetts, classe '46, ma di casa nella vecchia Europa per molti anni (Norvegia e Irlanda). Per registrare quell’ album ritornò in America, a Woodstock, negli studi di Levon Helm che per l'occasione gli fece una sorpresa chiamando in studio anche Rick Danko e Garth Hudson: una buona fetta di The Band gira un altro walzer per Pacheco. Produce Jim Weider, a cui tocca anche il compito di fare (bene) le veci della chitarra di Robbie Robertson. EAGLE IN THE RAIN, invece, uscì nel 1989 e fu il primo disco ad uscire dopo il suo trasferimento a Dublino. Un disco prodotto dal folker irlandese Arty McGlynn che ottenne buone recensioni all’uscita accrescendo la sua reputazione in Europa a scapito di una madre patria poco benevola (controllate la sua scarna pagina su Wikipedia), e che mette fortemente in risalto la sua sopraffina scrittura folk, ricca di storie e particolari come solo il miglior Bob Dylan che incrociò pure nel periodo d’oro del Greenwich Village negli anni sessanta potrebbe fare.

Canzoni come ‘She Always Thought He’d Come Back’ e la lunga ‘Midnight At The Hot Club’ ne sono l’esempio più marcato, oltre a una certa dose d’impegno in ‘You’Will Not Be Forgotten’ che si riallaccia ad Amnesty International, in ‘Made In America’ attacca l’uso e l’abuso di armi da fuoco negli States, un tema sempre caldo, l’impegno ecologico di ‘The Last Blue Whale In The Ocean’. Pacheco percorre le stesse vie di Townes Van Zandt e Eric Andersen, di Ranblin’ Jack Elliott e Woody Guthrie. Tom Pacheco lungo quelle strade non ha mai incontrato troppa fortuna.




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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #21-NICOLETTE LARSON-Nicolette (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #23-ERIC ANDERSEN-Blue River (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #24-BADLANDS-Voodo Highway (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #25-GEORGE HARRISON-Living In The Material World (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA#26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH-Wind On The Water (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #29: STEPHEN STILLS (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #31: SUZI QUATRO-Suzi Quatro (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #34: EDOARDO BENNATO- Edo Rinnegato (1990)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #35: GENE CLARK-White Light (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #37: CAPTAIN BEYOND-Captain Beyond (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #38: ROD STEWART-Every Picture Tells a Story (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS-Bad To The Bone (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #40: THE ROLLING STONES-Their Satanic Majesties Request (1967)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH-Daylight Again (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #44: TERRY REID (River)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #45: JACKSON BROWNE-Running On Empty (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #46: THE ROLLING STONES-Emotional Rescue (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #47:TOM PETTY-Highway Companion (2006)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #48:STEVE FORBERT-Alive On Arrival (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #49:CRY OF LOVE -Brother (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #50:THE BLACK CROWES-By Your Side (1999 )
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #51: NEIL YOUNG-Re-Ac-Tor (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #52: DUST-Dust (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #53:THE GEORGIA SATELLITES-Open All Night (1988)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #54:LYNYRD SKYNYRD-1991/The Last Rebel (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #55:CHRIS WITLEY-Living With The Law (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #56:BOB DYLAN-Planet Waves (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #57:BOB DYLAN-Infidels (1983)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #58:GRINDERSWITCH-Honest To Goodness (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #59:THE DEL FUEGOS-Boston, Mass. (1985)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #60:BILLY JOEL-Cold Spring Harbor (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #61:GRAM PARSONS-G.P. (1973)
DISCHI DAISOLA AFFOLLATA # 62: LOVE/HATE-Wasted In America (1992)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #63: SCREAMING TREES-Dust (1996)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #64: LOU REED-Sally Can't Dance (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #65 BLACK SABBATH-Vol.4 (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #66: HEART-Little Queen (1977)
 

venerdì 13 luglio 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 66: HEART (Little Queen)

HEART  Little Queen (1977)





La prima vacanza in macchina (la mia) con gli amici non si scorda mai. Anno 1992. Rimini. Terzo giorno. Spiaggia: quattro teli mare, quattro zaini e otto ciabatte sulla sabbia. Avendo almeno l’accortezza di prendere i portafogli, ci si allontana per raggiungere le ragazze conosciute la sera prima, non sono lontane, il bagno è quello prima del nostro. Risultato: con le ragazze non si è combinato nulla, in compenso al nostro ritorno erano rimasti tre teli mare, tre zaini e sei ciabatte. I conti non tornano. Le bestemmie arrivano. Qualcuno pensò bene di trasformarsi in me, raccattare tutte le mie cose con estrema disinvoltura (credo) e sparire dalla spiaggia. Risultati: durante le vacanze non guidai più la macchina (nello zaino c’erano i miei occhiali da vista), ma soprattutto non ascoltai più musica. Nello zaino c’erano il mio amato walkman e alcune cassette preparate con tanta cura prima di partire. Tra queste ricordo una compilation con canzoni di Blue Oyster Cult, Meat Loaf, Argent, Boston, Motorhead, Gary Moore e gli (le) HEART, appunto. ‘Barracuda’ era tra le mie preferite, una cavalcata hard dal tiro micidiale che ho sempre affiancato a ‘Easy Livin’ degli Uriah Heep e ‘Running Free’ degli Iron Maiden e che ho sempre inserito nelle mie cassette artigianali dell’epoca. Il secondo disco delle sorelle Wilson, nate in California ma presto trasferitesi prima a Seattle e poi in Canada, uscito nel 1977, era più Led Zeppelin degli stessi Zeppelin di quell’anno. Un perfetto connubio tra la parte folk bucolica (‘Sylvan Song’,’ Dream Of The Archer’) e mediovaleggiante (il mandolino di ‘Say Hello’, ‘Cry To me’) con l’incendiario hard rock’n’roll (‘Barracuda’, 'Kick It Out’, la finale strumentale ‘ Go On Cry’). Roba più british che americana ( il funk di ‘Little Queen’ con l’evocativo finale con la voce di Ann Wilson in grande spolvero) che troverà la sublimazione al California Jam Festival del 1978. Ancora oggi quando ascolto ‘Barracuda’ penso a quello zaino e a quella cassetta, sicuramente passati a migliore vita da almeno ventiquattro anni. Anni dopo presi il vinile che la sabbia non l'ha mai vista.




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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #65 BLACK SABBATH-Vol.4 (1972)

 

lunedì 9 luglio 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 65: BLACK SABBATH (VOL. 4)


 BLACK SABBATH    Vol.4 (1972)
 
 
 
 
 
 
“Eravamo talmente impegnati a cazzeggiare che fu un miracolo riuscire a scrivere qualche pezzo.” Ozzy Osbourne.
Quella croce al collo di Tony Iommi che percuote le corde della chitarra, generando lo strano effetto che si sente su ‘FX’ e che poi finirà su disco, e quel sussurro appena percettibile di Ozzy Osbourne che pronuncia la parola “Cocaine” in ‘Snowblind’ potrebbero incarnare bene la direzione musicale e l’atmosfera stonata che si respirava nell’album VOL .4, il primo vero tentativo di andare oltre che caratterizzerà almeno i due successivi dischi. Ancora quelli fondamentali. Generato (a fine registrazioni tutti e quattro i componenti erano degli stracci da ricovero) tra la villa di Bel Air del 1930, con tanto di camerieri e giardinieri inclusi nel pacchetto, e i Record Plant Studios a Los Angeles, dove si erano rifugiati in buona compagnia di fumo e coca, quest’ultima fu l’ospite più gradito, presente in quantità massiccia, tanto che vennero spesi più soldi per le droghe che per la realizzazione del disco. “Metà del budget finì in cocaina…” rivelò Geezer Butler.
“Eravamo giovani e facevamo quello che fanno i giovani. Non ci controllavamo. Mi facevo di coca ogni volta che potevo, ma anche di altre cose che non riesco neanche a ricordare". Dirà Tony Iommi.
Grande protagonista anche nelle note di copertina: camuffata ma c’è. Ecco da dove arrivava l’ode, questa volta poco nascosta in verità, ‘Snowblind’ (titolo originale del disco che l’etichetta accantono’ subito). “In quel periodo mi cacciavo tanta di quella roba su per il naso che dovevo fumarci sopra un sacchetto di erba al giorno per impedire che mi esplodesse il cuore”. Così Ozzy Osbourne nella sua autobiografia, alla cui realizzazione di questo disco dedica un capitolo intero. Nascono così: una ballata al pianoforte, buona per ogni occasione, come ‘Changes’, voce, pianoforte e archi, la strumentale, arpeggiata ed evocativa ‘Laguna Sunrise’ e tutti i cambiamenti d’umore e le sperimentazioni che girano intorno ai pesanti riff di canzoni come ‘Under The Sun’, ‘Wheels Of Confusion’, ‘Supernaut’, scuola per le future generazioni. “‘Supernaut’ fu una delle canzoni preferite da John Bonham all’epoca” disse Bill Ward. Anche a Frank Zappa piaceva tantissimo.
E poi una delle mie preferite: ‘St.Vitus Dance’, un hard blues che i Led Zeppelin non avrebbero disdegnato di inserire in qualsiasi loro disco.
Lester Bangs che aveva distrutto i primi due dischi si esaltò per questo, arrivando addirittura a comparare i testi di Vol 4 a quelli di Bob Dylan. Rolling Stone, nella sua recensione tirò fuori un “ canzoni di heavy metal liquido”, aggiungiamo un “stonato”, una copertina iconica e abbiamo tutto.


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