domenica 4 novembre 2012

RECENSIONE: AEROSMITH (Music From Another Dimension!)

AEROSMITH  Music From Another Dimension! (Columbia Records, 2012)

La rovinosa caduta dal palco di Steven Tyler avvenuta nel South Dakota nel 2009 è quanto di più lontano si possa accostare all'immagine in bilico tra bravi ragazzi sbarbati e le cattive rock'n'roll star lungocrinite sospese in alto tra le nuvole, come apparvero nella copertina del loro disco d'esordio nel 1973. La parabola degli Aerosmith da Boston è però stata, a ben vedere, sempre costellata da picchi e rovinosi baratri umani e artistici. Le ultime poco incoraggianti istantanee di cronaca (vera) che arrivavano dall'universo Aerosmith erano pressochè simili, con Tyler sempre sfortunato protagonista: di un altra caduta, dalla doccia stavolta e vittima delle voci sulla sua estromissione dal gruppo, presto rientrate, nonchè chiacchierato giudice di un programma televisivo come American Idol, poco vicino all'icona di quello che qualche anno fa era considerato la metà di un duo soprannominato gemelli tossici.
"Non eravamo troppo ambiziosi quando abbiamo iniziato. Volevamo solo essere la più grande cosa che abbia mai camminato sul pianeta, la più grande rock'n'roll band di sempre.Volevamo solamente tutto" Steven Tyler.
Determinati lo sono sempre stati però: hanno avuto tutto, l'hanno perso, l'hanno riottenuto e non importa come. La loro ultima rinascita artistica è figlia della Mtv generation, anche se Just Push Play(2001) ha rappresentato il punto più basso e stanco della loro carriera artistica e fare di peggio sarebbe stato impossibile, mentre l'ultimo disco uscito, il bello Honkin' on Bobo, lasciava intravedere un riavvicinamento al blues grazie a belle e convincenti riproposizioni di classici del genere legati ai loro esordi. 
Music From Another Dimension era quindi un punto interrogativo che ha fluttuato nell'aria per ben otto anni. Il singolo Legendary Child, presentato in primavera cercava di dare una risposta. Un ritorno alle radici hard/blues dei '70 (anche il produttore Jack Douglas è stato riesumato da quegli anni)  che incoraggiava, trovando conferma solamente in minima parte durante l'ascolto di tutto il disco che rappresenta bensì una summa di tutta la loro carriera. Una raccolta di canzoni un po' sconclusionata e lunga (15 canzoni per un totale di 68 minuti) che purtroppo lascia trasparire ancora una stanchezza di fondo-chiamiamola così- alimentata dalla presenza massiccia (Tell Me, la poco incisiva What Could Have Been Love, la stucchevole Can't Stop Lovin' You in duetto con Carry Underwood, We All Fall Down, Closer, la bella, pianistica e conclusiva Another Last Goodbye) di quelle ballads che sanno diventare epiche se rappresentano l'eccezione nel mucchio ma che rischiano di affossare un disco rock quando costituiscono quasi la metà della tracklist, sopprattutto se poco ispirate e odoranti di routine. Insomma, Dream On, suonata pochi giorni fa per le vittime dell'uragano Sandy durante una trasmissione televisiva e Home Tonight rimangono uniche e l'easy listening che abbonda, rinsaldando la collaborazione con songwriters di eccezione come Desmond Child, Diane Warren e Marti Frederiksen non giova troppo ad un disco lanciato sul mercato con proclami che annunciavano un ritorno al passato.
E dire che il resto convince. Già l'inizio sembra veramente incoraggiante grazie ad una doppietta hard rock: Luv xxx con l'ospite Julian Lennon ai cori, e la stonesiana e soul Oh Yeah in cui la longeva band bostoniana (quarant'anni con la stessa identica formazione non è da tutti, escludendo qualche scaramuccia nei primi anni '80) dimostra ancora di saper graffiare se non proprio come ai tempi di Rocks, almeno come ai tempi della rinascita di Permanent Vacation (1987) e Pump(1989), con la chitarra di Joe Perry in bella mostra e la voce di Tyler ancora viva e sfacciata, nonostante tutto, e la prova da crooner nella ballad Another Last Goodbye lo dimostra. C'è perfino una Beautiful, che rivendica la paternità del genere crossover tra rock/rap a suo tempo tenuto a battesimo con quella Walk This Way entrata di diritto nella teca dei classiconi rock e un trascinante boogie nero come Out Go The Lights. 
Poi, alcune piacevoli gemme di rock'n'roll come la combattiva ed anarchica Street Fighter cantata da Perry (che nel frattempo ha fatto uscire il suo discreto disco omonimo nel 2005) con Johnny Depp che lascia il segno ai cori pure qui-impercettibile in verità-, dopo aver presenziato sull'ultimo disco di Patti Smith, o l'urgenza di Lover Alot con il basso incisivo di Tom Hamilton a guidare le danze, ma soprattutto nella miglior traccia del disco Street Jesus che sembra uscire direttamente dai loro capolavori Toys in The Attic e  Rocks con le chitarre di Joe Perry e Brad Whitford sugli scudi, libere di inseguirsi in veloci accelerazioni proprio come allora (Rats in the Cellar docet), o ancora il blues acido e chitarristico di Something.
Un disco che cerca di accontentare tutte le categorie dei loro fan, gli eterni nostalgici del periodo "Toxic Twins" con alcuni rimandi ben studiati e chi, i più giovani, ha conosciuto gli Aerosmith attraverso i video di Pink o I Don't Want To Miss A Thing. Io rimango un nostalgico ed ingenuo che ha creduto ancora una volta alle roboante campagna pubblicitaria che strombazzava il ritorno agli anni settanta. Un disco che riscatta l'ultimo Just Push Play ma che rimane ancora senz'anima e identità propria, continuando a ripetere quella formula da "greatest hits" che li accompagna da Get A Grip in avanti. Dopo Honkin' On Bobo credevo che il maturo blues si fosse rimpossessato di loro come in gioventù, invece fu un colpo improvviso e isolato di nostalgia. La stessa che ho io, ora. VOTO 6,5







venerdì 2 novembre 2012

RECENSIONE: DANKO JONES (Rock And Roll Is Black And Blue)

DANKO JONES  Rock And Roll Is Black And Blue ( Bad Taste Records, 2012)

Quel ragazzaccio di un Danko Jones non manca occasione per predicare il suo verbo da rocker marpione e sporcaccione come andava di moda una volta. Watt, sudore e "gnocca" (a volte con eccesso maniacale di machismo) sono ancora ingredienti basilari per divertirsi senza dare o chiedere troppo in più-Kiss docet. E Danko Jones lo sa bene. I suoi fan lo sanno bene, e non pretendono altro, ovviamente. I suoi primi dischi (Born A Lion-2002 rimane ancora il suo migliore) votati ad un hard/blues/garage/punk metropolitano che enfatizzava la lezione dei Jon Spencer Blues Explosion, hanno piano piano lasciato il posto alle chitarre sempre più veloci, pesanti e hard, svelando la vera natura e l'amore musicale di questo mulatto canadese di Toronto cresciuto con il chiodo di pelle nera appiccicato addosso, con il vecchio hard/heavy degli eighties nelle orecchie e i riff di Kiss, Thin Lizzy e AC/DC nelle corde della chitarra, ma anche un anfratto pop da "vizioso" tormentone-sempre ben presente- che lo rendono appetibile a chiunque mastichi rock a 360° e non pretende troppe "seghe mentali" da chi sale sopra al palco con una chitarra.
Nulla di nuovo per chi già mastica il rock ad alto testosterone del canadese, ma la solita ripetitiva ma piacente formula rock'n'roll che Danko Jones sa rielaborare a suo piacimento, caricando di sex appeal ogni singola parola cantata dei suoi testi diretti e allusivi. Un instancabile lavoratore del rock, tutto dischi, sudore e tour che in quindici anni è riuscito a guadagnarsi il rispetto dei grandi (dal povero R.J.Dio all'intramontabile Lemmy, passando da John Garcia dei Kyuss) senza usare "finte" scorciatoie.
Un trio che oltre a Danko Jones alla voce e chitarra "spara riff" e al fido bassista John Calabrese, vede l'entrata in formazione del batterista Atom Willard già con i Rocket From The Crypt. Una band che continua a caricare le canzoni di urgenza interpretativa sia quando escono i riff zeppeliniani di You Wear Me Down, quelli pesanti e circolari di Conceited, o quelli heavy e taglienti al limite del thrash metal/hardcore di The Masochist. 
Piace un po' meno-all'orecchio rock-quando si ammicca troppo alla melodia come in Type Of Girl, un banale esercizio alla Offspring che convince poco e sa tanto di furbizia, o come in Always Away, un pop/rock con riff alla Ac/Dc che potrà anche fare il botto radiofonico, ma che affoga in troppa melassa. Insomma ci piace di più quando pesta e fa il cattivone.
Da gran cerimoniere del rock'n'roll può permettersi di chiudere il disco cantando la sua messa profana: il sermone gospel che precede I Believed In God (concluso da una reprise di organo da chiesa), una canzone che è un tormentone già al primo ascolto, proprio come tradizione di Danko Jones, e che diventerà sicuramente un bel momento durante i suoi infuocati e bagnati live.
C'è anche il tempo per una bonus track: In Your Arms, un classic Dark/Heavy alla Glenn Danzig che lascia trasparire anche il suo lato viziosamente oscuro.  
Danko Jones rimane uno dei pochi rocker odierni ad aver ereditato la vecchia formula del divertimento messo in musica: irriverente, ironico, abrasivo e ancora tanto ma tanto motherfucker. Un vizio "duro" a morire.



mercoledì 31 ottobre 2012

RECENSIONE: LOWLANDS ( Beyond )

LOWLANDS   Beyond ( Gypsy Child Records, 2012)

"Hail Hail Rock'n'Roll" è l'inno che esce dalla seconda traccia Hail Hail. Una dichiarazione forte e che lascia pochi dubbi sul carattere battagliero e ruspante che Beyond, terzo disco ufficiale dei pavesi Lowlands, vuole prendere, confermato dall'iniziale Angel Visions, un terremotante e dissonante assalto punk and roll, non lontano dai Social Distortion di Mike Ness. Anche se poi, lungo i 39 minuti del disco, escono anche le vecchie radici della band a riportare le cose come le abbiamo conosciute prima, l'inizio è di quelli che non lascia indifferenti.
Questo 2012 sembra essere un anno importante per i Lowlands. Se le profezie Maya dovessero portarsi a compimento (via con gli scongiuri), la band di Edward Abbiati potrebbe vantarsi di aver raggiunto un livello assoluto con due strepitose uscite discografiche nel giro dell'ultimo anno solare a disposizione, senza troppi rimpianti, prima della imminente fine del mondo (avanti con gli scongiuri, per chi ci crede, ovviamente).
Anche se il tutto sa più di nuova ripartenza piuttosto che arrivo. Beyond è stato anticipato di pochi mesi da Better World Coming, un disco tributo, uscito a cento anni dalla nascita di Woody Guthrie, suonato con la compagnia di tanti amici (da Alex Cambise a Daniele Zanenga, passando da Nicola Crivelli dei Green Like July a Maurizio "Gnola"Glielmo già con Davide Van de Sfroos e molti altri ancora) e con il rispetto dovuto ad uno dei padri della folk music americana, senza tralasciare l'originalità e imponendo un pezzo del proprio trademark. Un disco che non ha mancato di suscitare ammrirazione fuori dai confini nazionali, dimostrando che il rock italiano quando ci si mette può competere ad armi pari con chiunque e meritarsi il rispetto internazionale.
Beyond ne è il giusto seguito, prodotto da Joey Huffman. Dieci canzoni originali che rafforzano il concetto, spingendo il limite musicale verso la continuazione di quel lavoro iniziato da Guthrie: c'è il rock'n'roll mainstream americano della già citata Hail Hail a metà strada tra Springsteen e Willie Nile, c'è l'irrequieta immediatezza di Lovers and Thieves che sembra ancora uscire da qualche disco del piccolo folletto di Buffalo, due canzoni impreziosite dall'armonica ospite di Richard Hunter. L'incedere impetuoso di Waltz in Time, guidata dal pulsante basso, dalle lap steel di Mike Brenner e dalla chitarra di Roberto Diana che taglia l'aria e ferisce a fondo. 
Da tutte queste chitarre, le liriche e la voce"graffiante" di Abbiati emergono ancora più vivacemente, mentre da canzoni più meditate e riflessive esce il carattere intimistico e da "deserto al buio" della sua scrittura: il country di Ashes, l'oscurità acustica e solitaria di Homeward Bound tra sogni e polverose strade di provincia, il suggestivo folk da falò di Fragile Man con il violino di Chiara Giacobbe (ex componente del gruppo) a ricamare la solitudine. Il crescendo da E-Street Band di Down On New Street, la natura incontaminata e il mistero della vita di Beyond, fino ad arrivare alla finale Keep On Flowing, dove traspare anche un filo di sole. 
Diverso dai precedenti The Last call(2008) e Gypsy Child(2010), come diversa è la formazione che ci ha lavorato. Questa volta al fianco di Abbiati, oltre a Francesco Bonfiglio e Roberto Diana, troviamo due vecchie conoscenze del rock italiano: due pionieri del rock americano "made in Italy" come  Robby Pellati alla batteria e Antonio Rigo Righetti al basso, insieme nei seminali The Rocking Chairs con Graziano Romani negli anni ottanta, insieme nella prima band di Ligabue, ed insieme oggi, a fornire la sezione ritmica ai nuovi Lowlands. Proprio al carattere internazionale dell'ultima incarnazione dei Rocking Chairs sembra volgersi questo nuovo corso della band di Abbiati. L'augurio è di seguirne le orme con un po' di fortuna in più e sfruttando al meglio le strade già aperte da questi pionieri. I numeri ci sono tutti ed i primi riscontri internazionali lo stanno già testimoniando.







venerdì 26 ottobre 2012

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Psychedelic Pill)

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE  Psychedelic Pill  (Reprise Records, 2012)

Non c'è nulla da fare. Ci sono incontri che sono frutto del destino, scritti per durare nel tempo, più forti dei lutti, delle sbandate artistiche, delle enfatuazioni passeggere, della vita stessa. Quello tra Neil Young e i Crazy Horse è uno di questi. Quando nel lontano 1969 i Crazy Horse, che si chiamavano ancora Rockets, incrociarono la vena creativa del giovane Neil Young e uscirono fuori i primi semi che costruirono una parte importante della loro intera carriera (a partire da Cowgirl in the sand, passando da Cinnamon Girl) nessuno poteva immaginare che quarantatré anni dopo, il mondo musicale fosse ancora lì ad aspettare con trepidante attesa una loro nuova collaborazione. I Crazy Horse sono sempre stati lì ad aspettare e Neil Young non ha mai nascosto il suo piacere nell'alzare i volumi per suonare con loro, tanto da lasciare, in passato, lusinghieri attestati di stima, definendoli i "Rolling Stones americani" e facendoli sempre primeggiare quando doveva confrontarli con le altre band della sua carriera, CSN in primis. Terminati gli ispirati anni settanta in bilico tra buchi neri e vena creativa ai massimi livelli, Billy Talbot, Ralph Molina e Frank"Poncho"Sampedro (l'ultimo arrivato in sostituzione dello scomparso Danny Whitten) hanno saputo aspettare gli esperimenti solitari del grande capo: partiti dai primi anni ottanta e passati attraverso il country plastificato e ordinario, l'amore per i synth, il rock'n'roll revival tutto rosa shocking e brillantina, il rhythm and blues, la reiterata voglia di rispolverare a più riprese i tempi andati, quelli gravitanti intorno ad Harvest(1972), e riuscendoci a metà, la voglia di confrontarsi con quei giovani gruppi (Pearl Jam in testa) che proprio da Young e i Crazy Horse si sentivano ispirati; ma i Crazy Horse hanno saputo tornare quando chiamati in causa, in modo convincente come in Ragged Glory(1990), ispirato e riflessivo in Sleep with Angels(1994), squassante in Broken Arrow(1996) e qualche volta anche in modo sommesso, poco convincente e deludente come in Life (1987).
Questo 2012 sarà ricordato, ancora una volta, come "l'anno del cavallo". L'aperitivo Americana, uscito solo pochi mesi fa, era, in verità, uno strambo ma riuscito antipasto. Un modo originale per riscaldare i motori e ricordare le proprie origini musicali perse nella tradizione, dopo diciotto anni di assenza, interrotti solamente dalle due ultime apparizioni live insieme, quella del 2004 e l'ultima nel febbraio di quest'anno, occasione in cui si sono gettate le basi per gli allora futuri impegni ora concretizzatosi e mantenuti: 2 dischi e nuovo tour iniziato ai primi di Ottobre negli States, con la speranza che tocchi anche l'Europa e perchè no, l'Italia.
Psychedelic Pill, con un titolo che sembra rimandare inevitabilmente ai periodi "stonati" di Tonight's The Night(1975), si presenta subito in modo sontuoso ed estremo, incutendo pure un po' di timore reverenziale: 2 CD (o 3 LP) con solamente otto tracce (più una bonus track) tra cui spiccano immediatamente all'occhio i 28 minuti di Driftin'Back e i 16 di Ramada Inn e Walk Like A Giant. Dentro, tutto quello che il connubio ci ha regalato negli anni: lunghe jam chitarristiche, assalti ruvidi, cavalcate, feedback, ma anche folk e nostalgiche melodie '50. Prodotto da John Hanlon e Mark Humphreys e registrato nello studio Audio Casablanca come il precedente Americana.
L'iniziale e lunga Driftin'Back sembra essere la traduzione in musica dell'autobiografia "Waging Heavy Peace"appena uscita in America, musicata su un mid-tempo che da folk si trasforma presto in rock ondivago, e che purtroppo ha l'unico difetto nella eccessiva e strabordante lunghezza. Un ostacolo che si lascia comunque superare anche se messo proprio lì, all'inizio, potrebbe indurre a malsane azioni di skip.
Born In Ontario è l'omaggio alla sua verde terra canadese, dipinto con leggerezza, ironia e armonia, cosa che ai Crazy Horse riesce anche bene. "You might see me down in Alabama/Or Baton Rouge down in Louisiana/I might make it up to Detroit City/Where people work hard and life is gritty/It don't really matter where I am/It's what I do, it's what I can/This old world has been good to me/So I try to give back and I want to be free/I was born in Ontario".
I sedici minuti sui sogni infranti della sua gioventù in Walk like A Giant sono pura carta vetrata corrosiva e pericolosa, ma maneggiata con cura e indirizzata, con tutto l'amore possibile, verso gli anni cinquanta nei cori doo-wop e incanalata verso la strada della spensieratezza con un fischiettio (umano) contagioso che si staglia in mezzo al grattugiare terremotante e i fischi (disumani) delle chitarre. Intanto passeggi e ti ritrovi a cantare:"Voglio camminare come un gigante sulla terra".
Il muro chitarristico di She's Always Dancing potrebbe diventare un nuovo classico se  Like A Hurricane non fosse già stata scritta qualche anno prima.
La title track Psychedelic Pill, con i suoi 3:26 minuti è la canzone più corta, straniante e disturbante, piena di effetti che pare uscita dai primi anni ottanta, da Re-Ac-Tor(1981) o da Trans(1982). Ripresa anche a fine disco in una versione Alternate Mix"You're never gonna see a tear in her eye/Never see her break a frown/She's lookin' for a good time". E scopri che una donna, a volte, può essere meglio di certe sostanze allucinogene, e viceversa.
Twisted Road è pura nostalgia messa in musica che rievoca i primi fremiti rock'n'roll che passavano le radio, la prima conoscenza con il diavolo musicale, la prima volta che la dylaniana Like A Rolling Stone entrò in circolo. Da allora, nulla fu più come prima, e non ci fu più una prima (vera) volta.
Ramada Inn sembra rappresentare fedelmente  la quintessenza del suono dei Crazy Horse: crudezza da buona alla prima, assoli e psichedelia chitarristica dilatata che si traducono in un chorus nostalgico-ma appassionato-sui rapporti di coppia che ti si stampa presto in testa "...and every morning comes the sun/ and they both rise into the day/ holding on to what they've done...". Tutto è inconfondibilmente da Neil Young e Crazy Horse. Difficile sbagliarsi. I signori continuano a divertirsi come fosse la prima prova in garage, incuranti se davanti a loro ci siano centinaia di Chevrolet parcheggiate e tirate a lucido o centinaia di rockers rumoreggianti e sfatti. In modo semplice, divertente, rumoroso, senza pensarci troppo come da sempre nella indole di Neil Young e con i testi che indagano nelle pieghe del suo passato e un po' nel suo presente altamente tecnologico ma rispettoso verso la natura.
Infine la dolcezza ipnotica di For The Love Of Man, canzone già conosciuta nei primissimi anni ottanta con il titolo di I Wonder Why, messa nei cassetti dei suoi archivi e qui rispolverata e tirata a lucido. Una delicata e sentita dedica al figlio Ben, nato con gravi disfunzioni cerebrali. "Let The Angels/Ring The Bells/In The Holy Hall/Let Them Hear/The Voice That Calls/For The love Of Man/Who Will Understand/It's Alright/But I Wonder Why" .
"Il Rock'n'Roll non può morire". Neil Young e il suo cavallo pazzo ce lo dissero già, più di trent'anni fa. Psychedelic Pill è qui a ribadirlo in modo epico, coraggioso, testardo, a suo modo ancora nuovo e stimolante, una sfida lanciata a 66 anni, che piaccia o meno. A me piace (ancora una volta).  









mercoledì 24 ottobre 2012

RECENSIONE: JEFF LYNNE ( Long Wave )

JEFF LYNNE   Long Wave  (Frontiers Records, 2012)


Totalmente incurante della stasi del mercato discografico, Jeff Lynne fa uscire in contemporanea due nuovi lavori che di nuovo non hanno pressoché nulla, se non la data 2012 stampata sul retro copertina. Uno, di pochissima utilità, è la fittizia raccolta degli ELO, Mr.Blue Sky, in verità trattasi di un greatest hits che racchiude le canzoni più gettonate del suo vecchio gruppo risuonate totalmente da se stesso, giustificando il tutto con un semplice ed eloquente "mi piace suonare". L'altro è questo Long Wave.
Strano destino quello di Jeff Lyne. Nei primi anni settanta ereditò e si mise sulle spalle il successo degli Electric Light Orchestra (ELO), dopo la dipartita di Roy Wood. Un successo commerciale costruito assumendosi tutte le responsabilità di un suono pomposo,altisonante ed orchestrale con manie di grandezza che elevavano la tradizione del rock'n'roll, e soprattutto l'amore per i Beatles, ad un suono che spesso travalicava il consentito pur di accontentare il suo smisurato ego produttivo, con buona pace dei puristi del rock. Eppure il successo gli arrise per buona parte degli anni settanta, sfruttando e tappando i buchi lasciati dai quattro baronetti, mentre la sua ossessione, anche maniacale, per la perfezione dei suoni lo portò a divenire uno dei produttori più richiesti degli anni ottanta e novanta. Dagli ex Beatles, George Harrison, Ringo Starr e Paul McCartney che cercavano il loro passato ed in lui rivedevano il nuovo George Martin (lo stesso Lynne, in un momento di alta autostima, si autoproclamò suo erede), da Dylan, a Tom Petty fino a Roy Orbison, finendo per diventare parte integrante, e anello debole per caratura artistica, del supergruppo Travelling Wilburys ( in bella compagnia di Bob Dylan, Roy Orbison, Tom Petty e George Harrison) che finì anche per produrre, naturalmente a suo modo (il primo Volume). Sono sempre stato convinto che da questi artisti ci si poteva aspettare veramente di più, anche se le registrazioni nacquero con il carattere "divertito" e di svago. 
Non sorprende che il suo ritorno solista (un solo altro album a suo nome, ma di canzoni originali, Armchair Theatre del 1990) avvenga con un album di cover raccolte nella profondità della sua memoria di adolescente quando negli anni cinquanta davanti al solo canale radio della BBC ascoltava questi brani, un po' come è avvenuto con gli ultimi lavori di  Paul McCartney e Phil Collins. Quasi a voler confermare questa sua incapacità dallo staccarsi da certi stilemi musicali, che da ispirazione iniziale, si sono trasformati in ossessione, vivendo un po' la sindrome del secondo arrivato. Cosa darebbe per trasformarsi nel "quinto beatle" o prendere il posto di Paul McCartney lungo le striscie pedonali di Abbey Road
11 canzoni per la risicata durata di 28 minuti, che escono per la partenopea Frontiers Records. Canzoni che lo stesso Lynne si suona completamente da solo, senza nessun aiuto esterno se non per gli arrangiamenti orchestrali ad opera di Marc Mann e l'aiuto di Steve Jay; a tal proposito, eloquente il divertente e ironico video registrato per Mercy,Mercy, che lo ritrae clonato più volte a formare una fittizia band che di finto, a questo punto, ha ben poco. Un altro modo per affermare la sua megalomania.
Ascoltando She di Charles Aznavour, If I Loved You canzone del 1945 del musical Carousel, Smile di Chaplin, So Sad degli Everly Brothers datata 1960, At Last portata al successo da Etta James, la curiosità si trasforma presto in sbadiglio, constatando quanto la maggior parte delle canzoni siano state trasferite verso la sua cifra stilistica che continua a rimanere quella legata ai Beatles più melodici e orchestrali, meno sperimentali, finendo presto per stancare ed uniformare la quasi totalità del disco verso le fin troppe rassicuranti, avolgenti e calde atmosfere melodiche dei sixties.    
Un disco che passerebbe via in un batter d'occhio (complice anche la risicata durata, e possiamo aggiungerci anche l'aggettivo "benedetta"), anche in modo piacevole e divertente se i punti più movimenti come il soul di Mercy, Mercy, o il rock di Let It Rock di Chuck Berry non fossero rimasti in netta minoranza.
Rimane da chiedersi quanto un prodotto di questo genere possa interessare ad un pubblico che non ascolta nulla di originale da Lynne da circa vent'anni, se non constatare quanto sia solamente un mero sfizio e capriccio che Lynne si toglie aspettando che una ventata di originale ispirazione passi vicino alla sua zazzera di capelli. Per chi ha ancora voglia di aspettarlo. 

lunedì 22 ottobre 2012

RECENSIONE: THE PROCLAIMERS (Like Comedy)



THE PROCLAIMERS  Like  Comedy  ( Cooking Vinyl, 2012)

Per chi li segue attentamente fin dall' esordio This Is The Story (1987), la vera novità risiede in copertina: per la prima volta i due fratelli Reid non sono raffigurati in foto con i tipici occhiali da nerd (o da Buddy Holly se preferite), bensì sostituiti da una classica mascherina da teatro. E dire che la loro doppia figura fu uno tra gli elementi caratterizzanti e di curiosità che li fece spiccare nell'inflazionato panorama pop britannico di metà anni ottanta. I Clash non c'erano più, e il video di Letter From America, con le immagini dei due biondi fratelli immersi nelle verdi campagne scozzesi che si inframezzavano con quelle in bianco e nero degli emigranti che attraversavano l'oceano in cerca di fortuna, erano una rarità (condivisa con The Smiths e Housemartins), in mezzo a tante acconciature cotonate e vestiti colorati. Due mosche bianche poco appariscenti che finirono per brillare e farsi notare, pur se una breve stagione. Mentre new wave e pop da classifica continuavano ad imperversare, in Scozia, i due gemelli Craig e Charlie Reid imbracciavano le chitarre acustiche e come un Woody Guthrie allo specchio e seguendo la strada aperta da Billy Bragg iniziarono a suonare folk e cantare la loro personalissima protesta. Con l'aiuto prima di Kewin Roland, poi degli Housemartins iniziarono ad uscire da Edimburgo e far conoscere il loro verbo, costituito da canzoni che rivendicavano l'indipendenza della patria natia, senza risparmiare stoccate al Regno Unito, ma anche di sentimenti ed emozioni, senza mancare mai di sarcastica ironia. Folk britannico e americano, acustico ed elettrico uniti, con il tempo sempre più saldamente, armonie vocali cantate con il tipico accento scozzese, che diventerà presto oggetto di scherzo e scherno da parte dei saccenti vicini di regno. Qualche hit ben piazzata: la già citata Letter From America, la trascinante I'm Gonna Be(500 Miles) che sicuramente qualcuno avrà ascoltato nella colonna sonora di Shrek senza riuscire a dare un volto ed un nome agli interpreti, o ancora I'm On My Way dal secondo disco Sunshine On Leith (1988) ed uno stile che con il tempo si affina sempre più, direttamente ad una popolarità internazionale che va piano piano scemando, rimanendo altissima solamente in Scozia.
I Proclaimers non hanno mai smesso di registrare dischi, Like Comedy è il nono album e arriva dopo due prove interessanti come Life With You( 2007) e Notes & Rhymes (2009), arrivando anche a toccare il ragguardevole traguardo dei 25 anni di carriera. Like Comedy gioca spesso di fino nelle sue dodici tracce, facendo prevalere il carattere più sofisticato del loro songwriting, conseguenza della loro maturità musicale e di vita (quest'anno si sono spente le 50 candeline), divenendo, forse, il loro disco più blando e meno diretto in carriera. Niente più stoccate velenose ma canzoni d'amore, con qualche eccezione  folk/rock come la trascinante apertura Whatever You've Got, veloce e memore dei vecchi tempi, o come la rockeggiante The Throught Of You con il prezioso aiuto alla chitarra elettrica del produttore Steve Evans (anche al pianoforte). Il folk lascia spazio al sentimentalismo di mezza età, all'amore, all'evocazione del tempo che toccano quasi tutte le composizioni, giocate spesso sul pianoforte e sui toni morbidi degli archi come in Simple Things o There's. Non mancano comunque i pezzi di rilievo e bravura come Spinning Around In The Air con le loro tipiche ed inconfondibili armonie vocali che emergono prepotenti, la sognante After You're Gone,  l'esuberanza compositiva di Women and Wine o la scarna teatralità di I Think That's What I Believe per sola voce, chitarra acustica e pianoforte.
Nella limited edition, come da tradizione da alcuni dischi, un bonus CD con cinque canzoni registrate live al SECC di Glagow nel Novembre del 2009, tra cui spicca My Old Friend The Blues, cover di Steve Earle, comparsa per la prima volta su Sunshine On Leith  
Non esattamente il disco da consigliare a chi si avvicina ai due fratelli Reid per la prima volta, ma un disco che in modo onesto porta avanti una carriera che non ha mai fatto uso di sensazionalismi per emergere. Ai gemelli Reid la loro piccola Scozia non è mai andata stretta-chissà quanta felicità a sapere che nel 2014 si farà uno storico referendum per l'indipendenza della Scozia-, anche se musicalmente hanno sempre sognato l'America.  
E se qualcuno (l'attore inglese Matt Lucas) disse "... Sunshine On Leith mi dice più della mia vita e di come mi sento di quanto Morrisey e Cobain abbiano mai scritto" un motivo ci sarà.




giovedì 18 ottobre 2012

RECENSIONE: WANDA JACKSON ( Unfinished Business )

WANDA JACKSON  Unfinished Business ( Sugar Hill records, 2012)

Quando solo l'anno scorso ci diceva che la festa non era finita (The Party Ain't Over), bisognava crederle, non stava mica scherzando, la signora Jackson. Nè con la vita nè con l'età e nemmeno con la musica. Meno lustrini, meno fiati a festa, meno chitarre protagoniste ed invadenti e più tradizione, e il party continua al piano inferiore, in veranda, sopra le assi di legno, sotto i  gonfaloni e le bandiere americane ben in vista, tra i fondi di cocktail annacquati e rimasugli di tramezzini e tortillas. Quasi una festa da dopo sbronza. Con la pettinatura sempre in ordine, lo smalto ed il rossetto ancora al loro posto, ma con meno luci artificiali a farli luccicare.
Mi fa tenerezza che giovani musicisti si stiano prendendo cura di una icona del rock'n'roll come Wanda Jackson. Il precedente album, prodotto da Jack White, ci aveva dimostrato che la regina del rockabilly all'età di 74 anni è ancora in forma sgargiante. La festa era ai piani alti e White ci mise tanto di suo, anche troppo, per divertire e presentare ai suoi giovani invitati la vecchia zia dal passato ribelle. Fu successo e il nome dell'arzilla Jackson tornò a circolare come una volta, anche se un po' adombrato dalla stella di White che sembrava impossessarsi indebitamente del titolo di  primadonna
Dopo i bagordi della notte, si fa mattina. Questa volta tocca al più defilato figlio d'arte Justin Townes Earle, classe 1982, che con un colpo di spugna cancella le atmosfere più festose, funk e ballabili del precedente disco per dare alle canzoni un tocco da vecchia America: più rilassato, rootsy e accomodante ma con la voce della Jackson ancora inconfondibilmente graffiante, tra ruggiti e teneri miagolii da teenager, a volte anche piacevolmente irritante, tenuta in allenamento-nell'ultimo anno-addiritura aprendo i concerti di una nuova e giovane icona musicale come Adele.
Che Unfinished Business sia un disco diverso dal suo predecessore lo si capisce andando a leggere gli autori delle canzoni, divise tra cover ed altre scritte appositamente dal giovane Earle, come The Graveyard Shift, ballroom song con il piano di Skylar Wilson a dettare i tempi e What Do You Do You're Lonesome?. I due duettano anche, tra la pedal steel sognante di Am I Even A Memory, scritta appositamente dal cantautore country Greg Garing, e sembra quasi di vederli ballare come madre e figlio, con le suole delle scarpe che rigano il parquet e il sole che piano piano lascia il posto all'oscurità. 
Un ritorno al country (registrazione rigorosamente avvenuta a Nashville) e al blues che Wanda Jackson sembra aver apprezzato fin dal primo momento, definendolo un ritorno alle sue radici, quando, negli anni cinquanta, per prima colorò e abbellì il country con lustrini e tacchi alti, prima ancora che avvenisse l'incontro decisivo con Elvis e il battessimo nella blasfema chiesa del rock'n'roll.
California Stars, canzone persa di Woody Guthrie, musicata da Wilco e Billy Bragg nel primo capitolo "Mermaid Avenue" potrebbe essere la canzone simbolo del disco, anche se è piazzata lì, alla fine.
Non mancano comunque i momenti più divertenti come nel precedente disco, anche se resi meno sensazionali-e ad effetto- da una produzione più povera e attenta alle sfumature: come l'iniziale blues Tore Down di Sonny Thompson portata al successo da Freddy King, come il civettuolo doo-wop Pushover interpretato con piglio da ragazzina, come in It's All Over Now di Bobby Womack- conosciuta per essere stato il primo grande successo dei Rolling Stones- ed il gospel di Two Hands di Townes Van Zandt.
Fra pochi giorni (20 Ottobre), gli anni saranno 75. Auguri. 



domenica 14 ottobre 2012

RECENSIONE/REPORT live: WILCO+The Hazey Janes live@Teatro della Concordia, Venaria Reale (TO) 12 Ottobre 2012

Cosa fai stasera? Vado a vedere i Wilco. E cosa suonano? Se qualche amico sprovveduto vi ha fatto una domanda del genere, sono contento per voi. Vuol dire che almeno una volta nella vita avete visto la band di Jeff Tweedy, se siete riusciti anche a rispondere, avete pure tutta la mia stima. Io non ci sono riuscito, mi sono barcamenato, mettendo sul piatto due possibilità: o li invitate al prossimo concerto in modo da renderli partecipi in prima persona e fare in modo che se ne innamorino (possibilità accertata e garantita), o cercate di spiegarlo, tirando fuori la parabola della puntura del buon Mario Brega alle prese con una siringa e la sora Lella nel film Bianco, Rosso e Verdone. La musica dei Wilco "pò esse' piuma e pò esse' fero", proprio come la mano del buon Brega. In alcuni momenti anche tutte e due le cose contemporaneamente, come avviene nella pazzesca e terremotante esecuzione di Via Chicago, primo dei tanti encores di stasera. Possono farti nuotare comodamente nel velluto con la leggerezza di una piuma e un momento dopo penetrarti la pelle e scorticarla a carne viva, come un ferro incandescente che marchia indelebilmente. Aprirti le porte del sogno americano con la visione di infiniti paesaggi assolati che saporano di libertà, elevarti a mille miglia da terra fino a farti vedere le stelle (nel senso meno doloroso del termine), per poi farti ripiombare sul suolo, infierendo ulteriormente e frustandoti nel retro bottega della periferia più sporca di una metropoli, mettendoti a nudo di fronte ai vuoti labirinti della mente.
Prima di tutto questo, ad aprire la serata, i giovani scozzesi The Hazey Janes (tre ragazzi ed una ragazza), in giro già da un decennio, un paio di dischi incisi, ma sconosciuti ai più. Il loro set strappa timidi applausi grazie ad una miscela di alt-folck/pop che va tanto di moda oggi. Nulla di nuovo ma una occasione che sfruttano a dovere per far circolare il nome.
Le radiazioni dei Wilco volano subito alte nell'aria satura del Teatro della Concordia a Venaria Reale(TO), illuminata dagli abat-jour al contrario, appesi in sala come già avvenuto nelle date dei concerti della scorsa primavera. Un modo per farti sentire comodo come sul divano di casa, in ciabatte ed un televisore 3D davanti, mentre invece: i piedi da terra sono già sollevati alle prime note di Misunderstood e i suoni, che sembrano provenire ed attaccarti da tutte le parti, arrivano dal palco che hai di fronte, dagli strumenti di 6 musicisti al massimo della ispirazione e di livello artistico eccelso.
Jeff Tweedy è un capobanda che comanda senza alzare troppo la voce, imbardato dentro al suo stretto giubbotto di jeans, al cappellaccio stampato in testa e alle sue grandi scarpe, indice di cervello fino, come si diceva una volta. Un cervello che ha attraversato momenti più bui e sofferenti ma di grande ispirazione, mentre ora sembra godersi il meritato successo con disincantata serenità, complice una formazione che ha ormai trovato la quadra ideale, dopo aver superato anche il lutto per la morte di Jay Bennett. Alla sua destra, la geniale schizofrenia chitarristica di Nels Cline, le sue performance sono una gioia per orecchie e occhi, e portano il suono del gruppo a livelli inimmaginabili; tecnica, virtuosismo e follia unita ad una esaltazione interpretativa che ha pochi eguali. Alla sua sinistra, il fido bassista John Stirratt unico membro originale insieme a Tweedy, sempre preciso ed utile a cori, poi il solido "tutto fare" british -style Patrick Sansone a chitarre e tastiere. Infine, la retroguardia formata dall'instancabile martellatore Glenn Kotche alla batteria e l'occhialuto Mikael Jorgensen alle tastiere e valvole varie, che sa giocare di fino ma anche strappare i tasti quando serve.
L'ultimo album The Whole Love è un buon biglietto da visita che la band di Chicago ci ha rilasciato nel 2011. Un disco di totale indipendenza. Dentro c'era tutto l'immenso immaginario della mente ondivaga di Tweedy, c'era il posto per i vecchi ricordi alt-country alla Uncle Tupelo di Born Alone e Whole love, l'amore per il pop/sixties di I Might, il tormentone power-pop trascinante di Dawned On Me, la psichedelia. Le stesse mille sfumature (altro che quelle di grigio colorate che vanno di moda in libreria, qui si gode e si sogna di più) che permeano i loro live. Art Of Almost è pura bizzaria musicale contaminata da effetti ad incastro che permette alla band di scatenare le tre chitarre. I momenti migliori del concerto si vivono, infatti, durante questi assalti che vedono i Wilco esaltarsi, dimostrando coesione e precisione che attualmente poche band possono vantare, il tutto con estrema classe, senza mai cadere nella banalità che il rock spesso predilige.
Tweedy è meticoloso nel proporre ogni sera qualcosa di nuovo al suo pubblico, ne sono testimonianza le altre due scalette di Padova e Firenze. Ogni sera prepara ombre e radiazioni per stupire i suoi adepti. 
Raggi e oscurità che rapiscono i sensi nelle immancabili Impossible Germany da Sky Blue Sky(2007), diventata punto saldo di ogni loro concerto con la sua eleganza e con il suo finale jammato, la vecchia Passenger Side dal loro primo disco A.M.(1995), la controversa Jesus Etc. con Tweedy che invita tutto il pubblico a cantare, la beatlesiana Hate It Here, le scosse blues di Walken, e I'm the Man who loves you per l' iniziale trionfo personale del batterista Glenn Kotche.
Nell'ultimo quarto d'ora di concerto c'è tutta l'esaltazione del rock: le chitarre ruggiscono nei riff stonesiani di  Monday, e Outtaside (Outta Mind), accoppiata vincente del loro secondo album Being There(1996), mentre si fa festa in Hoodoo Voodoo, presa dal primo capitolo Mermaid Avenue(1998)(come anche California Stars), disco che musicava i testi perduti di Woody Guthrie insieme a Billy Bragg. Qui, a salire sul palco anche lo scatenato roadie baffuto rimasto a torso nudo, che partecipa alla festa, suonando il suo campanaccio. Ed un pensiero a salire con loro a far festa e ringraziarli ti assale. Ma è troppo tardi. Si esce dopo più di due ore, tutti con il sorriso stampato in faccia e solo buoni e lusinghieri commenti positivi. Tutto perfetto per essere vero. 

SETLIST:Misunderstood/Art Of Almost/Standing O/I Am Trying to Break Your Heart/I Might/Sunken Treasure/Born Alone/Laminated Cat/Impossible Germany/Shouldn't be Ashamed/Jesus Etc./Whole Love/HandShake Drugs/War On War/I'm Always in Love/Heavy Metal Drummer/Dawned on Me/Hummingbird/A Shot in The Arm/Via Chicago/Passenger Side/California Stars/Hate It Here/Walken/I'm The Man Who Loves You/Monday/Outtaside(Outta Mind)/Hoodoo Voodoo

venerdì 12 ottobre 2012

RECENSIONE: JAKE BUGG (Jake Bugg)

JAKE BUGG    Jake Bugg (Mercury Records, 2012)

Non fate quelle facce. Già immagino i vostri commenti mentre osservate la copertina di questo disco. No, lui non è il fratello gemello di Justin Bieber. Ha la stessa età, classe 1994, e per portarvi sulla retta via potrebbe anche permettersi-vista la raggiunta maturità- un accenno di barba come va di moda oggi tra gli hipster-folker, ma evidentemente l'aspetto fisico non gli interessa molto, preferendo mantenere la sua faccia pulita da bravo e broncioso ragazzo british in stile mod. L'unica cosa in comune con Bieber, fortunatamente, sono queste, l'età e il taglio dei capelli. Ora che siete più tranquilli, potete proseguire (non è un obbligo, comunque).
Pure io ho mancato il primo appuntamento con Jake Bugg e non sapevo nemmeno che faccia avesse. Complice del mio non avvenuto incontro è stato l'assurdo orario d'inizio del concerto di un altro giovane artista al suo debutto italiano: Michael Kiwanuka. Per dare spazio alla immancabile serata da discoteca del venerdì sera, ai Magazzini Generali di Milano si pensò di anticipare i tempi dei concerti e Jake Bugg che doveva aprire il set suonò quasi in orario da aperitivo. Me lo persi, e non ci feci caso più di tanto.
Ora però lo ritrovo con il primo disco omonimo, volutamento registrato quasi fosse un demo, anticipato di qualche mese dall'Ep Taste It che conteneva anche Kentucky (il suo sogno di musicista è chiuso qua dentro) e Green Man, qui non presenti .
Jake Bugg è nato nella operosa ed operaia Nottingham, ma potrebbe benissimo essere uscito da qualche Coffee House di Minneapolis, gli stessi frequentati dal giovane Bob Dylan. Sì, per il fiorente Bugg, l'appellativo di "nuovo Dylan" è già stato usato, e non così inutilmente. I riferimenti sono tanti, dalla fragile voce nasale che ricorda il primo Dylan, al carattere acustico delle sue canzoni, ai riferimenti artistici votati ai '50 (da Guthrie a Buddy Holly, da Hank Williams a Seeger) che sono gli stessi che influenzarono il giovane Zimmerman.
Arrivato alla musica quasi per caso a dodici anni, dopo l'abbandono del più popolare gioco del football, Jake Bugg ci è arrivato senza le scorciatoie, spesso illusorie di oggi. Niente talent show, quindi, ma una passione smodata tramandata dai genitori sia per il vecchio blues primigenio di Robert Johnson e quello contaminato di Hendrix, sia per il folk americano del primissimo Dylan, e di Donovan, ma anche per il rock'n'roll di Buddy Holly, e per le sue band preferite: i Beatles e gli Oasis. Proprio in questi mesi sta coronando un sogno, aprendo i concerti del suo idolo Liam Gallagher (che a sua volta stravede per lui), senza dimenticare i tour con Stone Roses, Snow Patrol e il già citato Michael Kiwanuka.
Lightning Bolt, il primo singolo, è un up-tempo a metà strada tra l'originario Dylan e quello prossimo alla scoperta elettrica di "Bringing It All Back Home", con un testo che sembra mettere subito in chiaro le cose: dichiarazione di vita precisa e dimostrazione di totale indipendenza dentro alla sua città (Sirens of an ambulance comes howling/Right through the centre of town and/No one blinks an eye/And I look Up to the sky in the path of a lightning Bolt), così come Trouble Town che potrebbe essere uscita dalle famose session tra Dylan e Johnny Cash del 1969.
Country Song ha la semplicità acustica e penetrativa del folk, così come la delicatezza da cuori infranti di Someone Told Me
Ma anche la potenzialità da tormentone sulla scia dei fratelli Gallagher di Seen It All, o l'accenno alla brit/beat generation di Two Fingers, (I drink to remember/I smoke to Forget) tra Beatles, Kinks e eredi (Oasis, Blur, Artic monkeys), o ancora il vecchio e veloce rock'n'roll alla Buddy Holly di Taste It . Insomma il ragazzo si presenta più che bene. La BBC e la Mercury Records non hanno perso molto tempo e il suo lancio a livello mondiale è imminente, con il conseguente rischio di bruciarlo prima di accenderlo. Anche se mi piace ancora credere alla favola di un ragazzo che ce la fa da solo grazie alle sue capacità. 
Dopo Johnny Flynn (che fine ha fatto?) e Mumford & Sons, l'Inghilterra piazza un altro bel colpo. Un talento che pur avendo ancora tantissima strada davanti e tempo per scrollarsi di dosso paragoni ingombranti ma utili per inquadrarlo (insomma non è Dylan, tanto per intenderci e scongiurare l'arrivo di insulti gratuti) dimostra uno straordinario carattere vincente, un buon songwriting e maturità. Ne sentiremo parlare, e spero nei posti più adatti e consoni.




vedi anche RECENSIONE-JAKE BUGG-Shangri La (2013)



 

mercoledì 10 ottobre 2012

RECENSIONE: KISS (Monster)

KISS  Monster  ( Universal, 2012)

I teatranti del rock, i veri depositari di quello che il rock'n'roll dovrebbe essere, portato all'estremo eccesso, per convincere anche i più scettici, scaltri uomini d'affari travestiti da rocker a loro volta travestiti, un modello per tante band hard rock in erba? I Kiss possono accontentare tutti, ammiratori e denigratori, e penso che, in questo momento, al conto in banca di un vero asshole come Gene Simmons non importi più di tanto sapere quanti siano a tifare da una parte e quanti dall'altra. La verità è racchiusa in quasi 40 anni di carriera. I Kiss sono stati tutte queste cose e continuano ad esserlo, incuranti dell'età e forse prigionieri del mostro da loro stessi creato. Un mostro che quando ha tentato di cambiare volto, abbracciando anche la serietà compositiva in dischi più articolati come Music From The Elder(1981), o seguire le mode del periodo con Carnival Of Souls(1996) ha faticato ad imporsi. 
Fossi stato in loro avrei continuato ancora senza maschere, ma vi parla uno che continua a considerare Revenge(1992) il loro miglior disco di sempre, e l'MTV Unplugged (1996) un signor live (senza dimenticare il primo epocale Alive-1975), dimostrazione di bravura della vecchia guardia in piena epopea grunge. Un marchio depositato nella storia del rock, volenti o nolenti: lo trovi in edicola nei fumetti, al supermarket, nei cartoons, nei film (chi si ricorda di  The Phantom Of The Park?), dal tabaccaio, scritto a pennarello negli zainetti di giovani scolari, e da chi progetterà il nostro funerale con bare di legno autografate. Ma anche nelle sale prova di giovani bands che vogliono ancora divertisrsi con il rock'n'roll, e qui sta il trionfo. 
Monster, accompagnato da una delle loro più brutte copertine della fase mascherata, poteva anche non venire alla luce. E' il destino di tutte le band dal passato importante ed ingombrante: fai pure uscire il tuo disco nuovo, ma l'importante è sentire dal vivo Deuce, Black Diamond, I Was Made for Lovin' You, Lick It Up, Love It Loud, Love Gun e tutte le altre 20 "imperdibili" in scaletta. E così sarà, a meno di clamorose e sporadiche sorprese, e Modern Day Delilah dal precedente Sonic Boom(2009) è un buona eccezione.
Invece Monster è qui, ripetizione riuscita (a metà) di quello che i Kiss hanno sempre rappresentato-quest'anno si è rifatto vivo anche il loro best seller Destroyer(1976) rimasterizzato ed ampliato, con un (Resurrected) in più nel titolo- ma una delle uscite migliori da quando la band ha deciso di ritornare sulle scene con il trucco. Meglio di Psycho Circus(1998) e alla pari di Sonic Boom.
C'è tutto l'immaginario che vogliamo da loro: sesso, divertimento, ruffianeria a palate, ammiccamenti, oscuro horror di serie B, la carica sensuale della voce maschia di Paul Stanley, i chorus efficaci, in più, il tutto è suonato da una delle migliori formazioni di sempre del "bacio". A parte i due masters Gene Simmons e Paul Stanley (co-produttore insieme a Greg Collins) c'è il batterista Eric Singer, il migliore e più completo mai avuto in formazione, entrato ed uscito dal gruppo a partire dagli anni '90, seguendo più o meno gli umori di Peter Criss ed il destino avverso del povero Eric Carr, ed il chitarrista Tommy Thayer che dopo il suo debutto nel precedente Sonic Boom(2009), si prende più spazio in fase di composizione, consacrandosi e seminando assoli lungo tutto il disco, senza far rimpiangere Ace Frehley, il solo e vero chitarrista dei Kiss per la fedele legione dei Kiss Army.
Parte benissimo Monster! Il singolo Hell Or Hallelujah, piazzata all'inizio e la seguente Wall Of Sound, che sembra addirittura omaggiare Helter Skelter dei Beatles (solo un caso?) hanno tutto il necessario per diventare due nuovi classici a metà strada tra i '70 e lo street degli '80: chorus immediati, incalzanti, grassi riff di chitarra e veloce dinamicità, la stessa che animava un disco come Lick It Up(1983). 
Freak (con l'unica concessione esterna al gruppo, affidata al piano di Brian Whelan) cala di ritmo, aumenta la pesantezza, quella che troviamo anche in Back To The Stone Age e più avanti in Devil In Me, con le sempre oscure vocals di Gene Simmons, non troppo lontane dal già citato Revenge, l'episodio più dark ed heavy della loro carriera.
You Wanted the best, You Got The Best....A questa domanda/affermazione vorrei rispondere sinceramente "Yes", ma diventa difficile farlo quando mancano vere sorprese, botti e fuochi di artificio. Un disco che parte in quarta e che arriva alla fine con un po' di ripetitiva stanchezza (o forse monotonia?) in alcuni episodi. A poco serve un nuovo inno al rock'n'roll come la più rootsy All For The Love Of Rock & Roll, cantata dal batterista Eric Singer, che difficilmente potrà scalzare dal trono nelle scalette dei loro concerti e nell'immaginario dei fan, canzoni come Rock and roll All Nite e God Gave Rock'n'roll to You, così come la finale Last Chance, travolgente e contagiosa se non l'avessimo già sentita centinaia di volte, celata sotto altri titoli. 
Gene Simmons nel 2001, apriva la sua autobiografia con queste parole:"...Dopo ventinove anni di gloria e tumulti, anni pieni di alti supremi e infimi bassi, l'America vedrà per l'ultima volta i Kiss in concerto...". Dieci anni dopo è tutto da aggiornare e riscrivere. In fondo il (hard) rock senza i Kiss non sarebbe lo stesso e si sa, un bacio tira sempre l'altro. Voto 7

vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Head Down (2012)