domenica 4 novembre 2012

RECENSIONE: AEROSMITH (Music From Another Dimension!)

AEROSMITH  Music From Another Dimension! (Columbia Records, 2012)

La rovinosa caduta dal palco di Steven Tyler avvenuta nel South Dakota nel 2009 è quanto di più lontano si possa accostare all'immagine in bilico tra bravi ragazzi sbarbati e le cattive rock'n'roll star lungocrinite sospese in alto tra le nuvole, come apparvero nella copertina del loro disco d'esordio nel 1973. La parabola degli Aerosmith da Boston è però stata, a ben vedere, sempre costellata da picchi e rovinosi baratri umani e artistici. Le ultime poco incoraggianti istantanee di cronaca (vera) che arrivavano dall'universo Aerosmith erano pressochè simili, con Tyler sempre sfortunato protagonista: di un altra caduta, dalla doccia stavolta e vittima delle voci sulla sua estromissione dal gruppo, presto rientrate, nonchè chiacchierato giudice di un programma televisivo come American Idol, poco vicino all'icona di quello che qualche anno fa era considerato la metà di un duo soprannominato gemelli tossici.
"Non eravamo troppo ambiziosi quando abbiamo iniziato. Volevamo solo essere la più grande cosa che abbia mai camminato sul pianeta, la più grande rock'n'roll band di sempre.Volevamo solamente tutto" Steven Tyler.
Determinati lo sono sempre stati però: hanno avuto tutto, l'hanno perso, l'hanno riottenuto e non importa come. La loro ultima rinascita artistica è figlia della Mtv generation, anche se Just Push Play(2001) ha rappresentato il punto più basso e stanco della loro carriera artistica e fare di peggio sarebbe stato impossibile, mentre l'ultimo disco uscito, il bello Honkin' on Bobo, lasciava intravedere un riavvicinamento al blues grazie a belle e convincenti riproposizioni di classici del genere legati ai loro esordi. 
Music From Another Dimension era quindi un punto interrogativo che ha fluttuato nell'aria per ben otto anni. Il singolo Legendary Child, presentato in primavera cercava di dare una risposta. Un ritorno alle radici hard/blues dei '70 (anche il produttore Jack Douglas è stato riesumato da quegli anni)  che incoraggiava, trovando conferma solamente in minima parte durante l'ascolto di tutto il disco che rappresenta bensì una summa di tutta la loro carriera. Una raccolta di canzoni un po' sconclusionata e lunga (15 canzoni per un totale di 68 minuti) che purtroppo lascia trasparire ancora una stanchezza di fondo-chiamiamola così- alimentata dalla presenza massiccia (Tell Me, la poco incisiva What Could Have Been Love, la stucchevole Can't Stop Lovin' You in duetto con Carry Underwood, We All Fall Down, Closer, la bella, pianistica e conclusiva Another Last Goodbye) di quelle ballads che sanno diventare epiche se rappresentano l'eccezione nel mucchio ma che rischiano di affossare un disco rock quando costituiscono quasi la metà della tracklist, sopprattutto se poco ispirate e odoranti di routine. Insomma, Dream On, suonata pochi giorni fa per le vittime dell'uragano Sandy durante una trasmissione televisiva e Home Tonight rimangono uniche e l'easy listening che abbonda, rinsaldando la collaborazione con songwriters di eccezione come Desmond Child, Diane Warren e Marti Frederiksen non giova troppo ad un disco lanciato sul mercato con proclami che annunciavano un ritorno al passato.
E dire che il resto convince. Già l'inizio sembra veramente incoraggiante grazie ad una doppietta hard rock: Luv xxx con l'ospite Julian Lennon ai cori, e la stonesiana e soul Oh Yeah in cui la longeva band bostoniana (quarant'anni con la stessa identica formazione non è da tutti, escludendo qualche scaramuccia nei primi anni '80) dimostra ancora di saper graffiare se non proprio come ai tempi di Rocks, almeno come ai tempi della rinascita di Permanent Vacation (1987) e Pump(1989), con la chitarra di Joe Perry in bella mostra e la voce di Tyler ancora viva e sfacciata, nonostante tutto, e la prova da crooner nella ballad Another Last Goodbye lo dimostra. C'è perfino una Beautiful, che rivendica la paternità del genere crossover tra rock/rap a suo tempo tenuto a battesimo con quella Walk This Way entrata di diritto nella teca dei classiconi rock e un trascinante boogie nero come Out Go The Lights. 
Poi, alcune piacevoli gemme di rock'n'roll come la combattiva ed anarchica Street Fighter cantata da Perry (che nel frattempo ha fatto uscire il suo discreto disco omonimo nel 2005) con Johnny Depp che lascia il segno ai cori pure qui-impercettibile in verità-, dopo aver presenziato sull'ultimo disco di Patti Smith, o l'urgenza di Lover Alot con il basso incisivo di Tom Hamilton a guidare le danze, ma soprattutto nella miglior traccia del disco Street Jesus che sembra uscire direttamente dai loro capolavori Toys in The Attic e  Rocks con le chitarre di Joe Perry e Brad Whitford sugli scudi, libere di inseguirsi in veloci accelerazioni proprio come allora (Rats in the Cellar docet), o ancora il blues acido e chitarristico di Something.
Un disco che cerca di accontentare tutte le categorie dei loro fan, gli eterni nostalgici del periodo "Toxic Twins" con alcuni rimandi ben studiati e chi, i più giovani, ha conosciuto gli Aerosmith attraverso i video di Pink o I Don't Want To Miss A Thing. Io rimango un nostalgico ed ingenuo che ha creduto ancora una volta alle roboante campagna pubblicitaria che strombazzava il ritorno agli anni settanta. Un disco che riscatta l'ultimo Just Push Play ma che rimane ancora senz'anima e identità propria, continuando a ripetere quella formula da "greatest hits" che li accompagna da Get A Grip in avanti. Dopo Honkin' On Bobo credevo che il maturo blues si fosse rimpossessato di loro come in gioventù, invece fu un colpo improvviso e isolato di nostalgia. La stessa che ho io, ora. VOTO 6,5







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