NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS live@Parco Estivo PalaBrescia, 23 Giugno 2017
La manifestazione si chiama “dal Mississippi al Po”, anche se stasera
bagna Brescia, ma durante il lungo tragitto qualche volantino che
pubblicizzava l’evento dev'essere caduto in acqua senza arrivare a
destinazione. Peccato. La prossima volta occorre più pubblicità! Eravamo
in pochi nell’area esterna del PalaBrescia dove, a sorpresa, tirava
un’arietta fresca dopo l’insopportabile calura del giorno. Pochi
ma buoni come si dice. Così come pochi sopra al palco sono i North
Mississippi Allstars. Tre: la chitarra e voce, e che chitarra, di Luther
Dickinson e due batterie, tra cui quella dello straordinario e
simpatico fratello Cody, all’occorrenza alla seconda chitarra per un
paio di pezzi ('Deep Ellum'), voce e poi con una mano imprestata alle
tastiere e quant’altro quando necessario. “Abbiamo fatto il disco
on the road: abbiamo registrato un po’ di ore a Brooklyn, un po’ a New
Orleans, un po’ a St. Louis, una giornata al Royal Studios a Memphis”.
Così Luther Dickinson ha presentato le genesi del nuovo disco PRAYER FOR
PEACE, il primo su major, durante una recente intervista. Un disco
blues nato per le strade che non ha impiegato molto a intrufolarsi e
mimetizzarsi dentro a quello che ai fratelli Dickinson riesce meglio da
sempre: suonare live. Come potrebbe essere diversamente per due persone
cresciute a fianco di una leggenda della musica americana come il padre
Jim? Live dove ipnotica energia, e qui la geniale trovata delle due
batterie gioca un ruolo importante (imponetene il sempre sorridente
Brady Blade) rispetto per la tradizione (anche se non manca quel tocco
di innovazione che li ha sempre distinti- ecco ‘You Gotta Move’) hanno
accompagnato quella straordinaria gioia di suonare che traspare ad ogni
loro movimento. Un’intesa tra fratelli che va aldilà dei vent’anni di
carriera musicale, dei dischi fatti, della bastarda miscela tra cover e
pezzi propri, dell’importante e lungo curriculum accumulato, e che a
conti fatti vince su tutto. Straordinario il finale con il rompete le
righe (pubblico finalmente in piedi davanti al palco) e Luther Dickinson
alle prese con la piccola chitarra artigianale costruita con un
barattolo di pelati, due corde e un bastone. Il mio momento della
serata: la jam tra ‘Hear My Train A-Comin’ e ‘Mistery Train’.
"Non avevamo abbastanza musica per riempire quattro facciate, ma ne avevamo troppa per solo due. Decidemmo di farne tre. Non so perché la CBS ci disse di farlo. Ma lo fecero”. Così Johnny Winter, il più nero dei texani bianchi, racconta una delle particolarità più significative di questo doppio disco con un lato completamente vuoto, uscito a soli pochi mesi dal debutto. Un tentativo di ripeterne immediatamente lo straordinario successo, anche se SECOND WINTER spingeva maggiormente sul lato rock, rafforzando la band, fino ad allora un power trio, con l’entrata in formazione del fratello Edgar alle tastiere e sax. Un innesto importante. Ne esce un disco incendiario e in continuo movimento ben rappresentato dallo scatto fotografico di Richard Avedon in copertina. Un approccio live che si ripercuote anche in studio di registrazione:“ Se non si riusciva a registrare una canzone in uno o due take si passava alla successiva” dirà il fratello Edgar. Registrato a Nashville con Tommy Shannon al basso e Uncle John Turner alla batteria, se le prime due facciate sono un omaggio alla storia della musica con personali riletture di Percy Mayfield, con ‘Johnny B. Goode’ (Chuck Berry) e una ‘Highway 61 Revisited’ di Bob Dylan che poteva rivaleggiare in contemporanea con la ‘All Along The Watchtower’ di Hendrix, (“Bob Dylan è sempre stato uno dei miei favoriti. Non puoi avere la mia età senza amare Dylan” dirà in seguito) nel terzo lato la slide di Winter compie voli pindarici giocando di contrasto: ‘I Love Everybody’ è tanto acida quanto ‘I Hate Everybody’ è jazzy. Il finale con ‘Fast Life Rider’ è un fuoco d’artificio che fatica a stemperarsi. Tanto che ci vuole un’intera facciata di silenzio per riprendersi. Ecco a cosa serve un lato vuoto. Essenziale. Qualcuno (chi? Scaruffi!) arrivò a definire patetici e noiosi i suoi primi tre dischi, le ristampe più recenti riempirono il lato vuoto con inediti e live. Il resto è storia. “Suonavamo il blues con la forza e l’energia del rock’n’roll. Le stesse cose che feci più tardi con Stevie Ray Vaughan” Tommy Shannon. Amen.
LUCA ROVINI- Figure Senza Età (autoproduzione/IRD, 2017)
Avevo già scritto la recensione di FIGURE SENZA ETÀ da qualche settimana, ero in attesa di pubblicarla quando pochi giorni, fra le tante parole che viaggiano confuse nel social network, lo stesso che mi ha fatto conoscere il simpatico Luca Rovini, ho trovato un buono spunto per descrivere e presentarvi in primis la sua attitudine, il che, molte volte, è più esplicativa di una noiosissima recensione track by track. Per la musica, comunque, vi rimando anche alle recensioni dei due dischi precedenti che troverete nei link sotto.
Pochi giorni fa Rovini ha pubblicato sulla sua bacheca Facebook, con giusto orgoglio, il ritaglio di una recensione molto positiva uscita nel più venduto mensile italiano che tratta musica americana. Naturalmente sono fioccate le congratulazioni degli amici, tranne la voce fuori dal coro di un noto ex direttore di riviste musicali che scriveva, con fare abbastanza provocatorio, visto il passato e le sue relazioni con la rivista: "ti cambierà la vita?".
Luca non ha aspettato molto nel dare la sua risposta: "ma nemmeno te hai mai cambiato la vita a qualcuno. E poi io sto bene nella mia vita. È solo una bella soddisfazione" . Ecco, in queste parole di risposta c'è tutto lo spirito del cantautore pisano. A voi le conclusioni.
Non nascondo nemmeno che una tra le principali ispirazioni per questa piccola rubrica dedicata alla musica italiana e la sua strada (chilometri, locali, viaggi nel tempo e nel futuro), mi è arrivata da Luca Rovini, anche se lui sembra smentirmi qualche riga più sotto nell'intervista, dicendo di essere molto legato alle sue radici. Credo che Luca rappresenti bene in modo metaforico la strada di un musicista. Arrivato piuttosto tardi al primo disco, nel giro di tre anni ha macinato sia tanti chilometri di passione che altrettanti in crescita musicale: e la bella ballata di frontiera 'Companeros' con la tromba di Mike Perillo è lì a dimostrarlo. Figure Senza Età è il lavoro più centrato fino ad ora: a livello di testi quanto sotto l'aspetto musicale, curatissimo. Un disco piuttosto uniforme se togliamo l'up tempo di 'Boogie Finchè Mi Va' e la bella 'Vite di Contrabbando', ma in grado di mettere in fila alcune delle sue principali figure di riferimento: da Guy Clark (che qui rappresenta un po' tutto l'universo di una generazione di cantautori americani che ha lasciato il segno senza troppo clamore mediatico, amiamo chiamarli ancora loser) del quale rifà quella 'Desperados Waiting For The Train (che diventa 'Disperati In Cerca Di Una Vita') estrapolata dallo splendido OLD No 1, alla mitica figura di Carlo Carlini in 'L'ultimo Hobo', colui che per primo portò e fece conoscere in Italia e a un giovane Rovini in trasferta a Sesto Calende, una buona parte di quei cantautori.
"Non ho niente nelle mani, solo un boogie..." canta in 'Boogie Finchè Mi Va'.
Questa recensione è come avere nulla tra le mani, non cambierà la vita di nessuno, ne sono conscio, spero solo possa renderla più piacevole a più persone possibili. Almeno per quarantacinque minuti, tanto quanto la durata del disco. Noi stiamo bene nella nostra vita.
In viaggio con Luca Rovini
1) I km nel tuo disco. Il viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Indubbiamente sì, qualsiasi tipo di viaggio ha influenzato le mie canzoni. Non solo lo stare sulla strada, andare in giro per paesi, osservare la gente, credo in molti tipi di viaggio, c’è quello delle emozioni, quello dell’amore, quello della solitudine e spesso anche quello del dolore. Sono tutti viaggi che ti sbattono in qua e là, ti girano attorno e poi spariscono all’improvviso, magari non li vedi più ma restano dentro di te. Questo succede a tutti. Poi un giorno ti svegli e te li ritrovi lì che vogliono venire a trovarti, da me si materializzano con la voglia di scriverli come canzoni. E’ un viaggio della vita, io ho scelto di raccontarlo così, con una chitarra.
2) Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Adoro viaggiare per andare a suonare in giro, è una bella esperienza, si incontrano un sacco di persone, vedo anche molto entusiasmo, ci sono veri appassionati là fuori. Si fanno km su km per suonare 2 ore, questo è amore e quando è ripagato con gli applausi non c’è cosa più bella. Il palco, qualsiasi palco, è il luogo della vera libertà, quando sei lì sei libero e io lo adoro. Non c’è un locale che amo particolarmente, mi piace suonare ovunque sia ben accetto. Se proprio devo dirti un posto in cui amo ritornare ogni tanto è per strada, è bello suonare mentre la gente passa, tutti così carichi dei loro problemi, mi piace offrire un momento di leggerezza e svago. Quello è un luogo senza compromessi, quando suoni e i bambini si fermano ad ascoltare, loro che non hanno preconcetti, sono puri, è bello averli lì davanti, gli regalo sempre dei cd anche se i genitori non vogliono mai.
Il lato negativo è quando le luci si spengono e torni a casa, ma dura un momento perché lì hai tre figlie meravigliose che ti aspettano, è un altro tipo di palco ed è bellissimo anche quello. 3) Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Sicuramente radici, mi piacciono le mie radici. Tante volte ho pensato di andarmene ma poi ho sempre pensato che non puoi andartene veramente se non con la tua testa. E mi piace far sentire le mie radici, credo anche che sia giusto. Ad esempio in molti mi dicono che quando canto si sente troppo il mio accento toscano, che dovrei studiare dizione, ma proprio è una cosa che non farò mai.
Amo le radici e odio i confini.
4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Avrei voluto aprire per Willy Deville o per Steve Earle, oggi mi piacerebbe aprire per Francesco De Gregori.
Tra vent’anni avrò 64 anni, non so se avrò fatto altri dischi ma di sicuro avrò una chitarra in mano e qualche nuova canzone da cantare a qualcuno. 5) La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
Mi porto sempre un sacco di cd quando viaggio, Drive South di John Hiatt mi ha accompagnato per tantissimi anni, tutto Slow Turning in realtà ma quella è proprio la canzone che mi fa sentire bene. Mentre guido mi piace ascoltare anche Steve Earle, Elliott Murphy, David Johansen, Dwight Yoakam.
Credo di non aver mai fatto un viaggio ascoltando i programmi alla radio.
La grande forza di creare l’atmosfera giusta. Un lungo viaggio strumentale in crescendo, quasi un blocco unico dall’inizio alla fine con la capacità di incollare davanti al palco e contemporaneamente trasportare lontano. Vibrazioni positive, circolari e dilatate. Ryley Walker, cantautore folk rock dell'Illinois ma di casa a Chicago (anche musicalmente) rilascia sul palco tutta la libertà compositiva tenuta a freno nei quattro dischi incisi fino ad ora, creando saliscendi vincenti tra continue scosse e rallentamenti. Accompagnato da tre strumentisti eccezionali che hanno nel sempre sorridente batterista il punto faro da seguire con gli sguardi. Così come è capitato al pubblico: vi ho visti! Ryley Walker conduce dando gli attacchi ma si confonde e mimetizza presto in mezzo alle sue psichedeliche visioni e a quella libertà che ha solo come punto di partenza il folk (un bilanciato mix tra America e terra d’Albione) ma presto sconfina nella jam di stampo jazz e nella psichedelia californiana galoppante tra i 60 e i 70. Il cantato rapito seguendo i maestri Van Morrison e David Crosby (ma per descrivere la sua musica sono stati tirati in ballo anche Tim Buckley, Nick Drake e John Martin) diventa così solo uno sporadico contorno. Una enorme nota di merito ai suoni e alla location sempre accogliente di Cigole: limpidi, bilanciati e curati i primi, estiva, distensiva e rilassante la seconda. Un piacere per le orecchie e gli occhi. Nutrivo una certa curiosità per vedere all'opera sul palco Ryley Walker: a fine serata sono uscito dal concerto e ne volevo ancora. Soddisfatto!
DAN AUERBACHWaiting On A Song (Easy Eye Sound, 2017)
WAITING ON A SONG è il disco di un uomo che ama troppo la musica: Dan Auerbach ha recentemente confessato di passare tutte le sue giornate in sala di registrazione. Da mattina a sera. Volete esempi calzanti? ‘Malibu Man’ è dedicata a Rick Rubin, uno dei produttori più richiesti degli ultimi trent'anni, ‘Waiting On A Song’ che apre il disco è stata scritta insieme a John Prine, cantautore tanto influente nel folk americano degli ultimi quarant'anni quanto spesso dimenticato (a quanto pare questa collaborazione è stata fruttuosa: i due hanno scritto almeno altri sette pezzi che però qui non ci sono), nella divertente ‘Shine On Me’ che ricorda qualcosa dei magnifici Travelling Wilburys compare la chitarra di Mark Knopfler, la chitarra del mitico Duane Eddy, leggenda vivente della chitarra rock'n'roll è presente in almeno quattro pezzi, presenti anche Bobby Wood e Gene Chrisman, musicisti dei Memphis Boys, la band fissa degli American Sound Studio di Memphis che suonarono pure alla corte di Elvis Presley, e poi un pletora di altri musicisti di Nashville che potete trovare tutti in posa nella foto interna di copertina. Già Nashville, è lì che Dan Auerbach vive da circa sette anni, e lì che ha registrato come si faceva un tempo, tutto in presa diretta, al fianco di questi musicisti leggendari. DAN AUERBACH si è preso una seconda vacanza solista dai BLACK KEYS (era stanco della vita da tour e infatti per questo disco non ci saranno date live) dopo il bellissimo KEEP IT HID del 2009. Si potrebbe aggiungere anche la parentesi con gli Arcs. Ma non cercate tracce di quel disco di debutto, perché Auerbach questa volta è andato in altre direzioni. Vie che portano indietro nel tempo, partono dai settanta e arrivano ai cinquanta, ai gruppi vocali, alla black music d’atmosfera (‘Undertow’), a un gusto soul retrò che viaggia lungo tutto il disco (le orchestrazioni di ‘King Of One Horse Town’ e 'Cherrybomb’), a leggere pennellate che sfociano volentieri nel pop di vecchia scuola (‘Show Me’, ‘Stand By My Girl’). Un disco costruito da fan della musica, totalmente disimpegnato, leggero, spontaneo, spensierato e poco pretenzioso, ma molto rispettoso verso le leggende che vi suonano. Un omaggio dichiarato a Nashville. Alla musica americana. “ Le canzoni non crescono sugli alberi. Bisogna afferrarle nell’aria” canta nella title track. Dan Auerbach ne ha afferrate una decina, talmente leggere che potrebbero volare alte in questa estate.
Corvi che tornano a volare insieme.
RICH ROBINSON e MARC FORD sono le due chitarre che non si parlavano e sentivano dal lontano 2006, secondo quanto dichiarato da Rich Robinson a Rolling Stone, insieme hanno registrato due dei migliori dischi dei Black Crowes (THE SOUTHERN HARMONY AND MUSICAL COMPANION e AMORICA, il terzo fu THREE SNKES AND ONE CHARM, il tutto tra il 1992 e il 1996), insieme hanno limato antichi screzi e messo in piedi questa nuova e allargata big band: MAGPIE SALUTE. “Come Delaney & Bonnie, uno dei miei gruppi preferiti. O gli inglesi Mad Dogs di Joe Cocker. Abbiamo tante persone sul palco e tutti sono così musicalmente abili che sembra funzionare tutto da solo”, dice Rich Robinson a Rolling Stone.
Aggiungete il tastierista Eddie Harsch, purtroppo scomparso lo scorso Novembre e che qui la lasciato le sue ultime impronte su una tastiera (cercate il commovente video in rete), il bassista Sven Pipien, e i vecchi corvi spelacchiati sembrano nuovamente ricompattati in stormo con piume nuove e lucenti. Come dite? Chris Robinson? No, lui rimane il corvo nero da allontanare e non chiamare. CHris è impegnato con la confraternita e sembra stare bene così. Il fratello Rich, incalzato sempre da Rolling Stone su una prossima eventuale reunion, sembra molto chiaro: “voglio dire, adesso... ? Non credo. Non si può mai dire mai per il futuro, sai? Ma in questo momento no “.
Quindi mettiamo l’anima in pace e godiamoci questo primo piccolo passo, costruito in totale libertà artistica e d’ispirazione tra southern rock, soul, country e spiritual. Anche se giustamente Rich Robinson incarta tutto in un più ruspante rock’n’roll. Questo debutto è stato registrato live in soli tre giorni all’ Applehead Studios di Woodstock, davanti a uno sparuto pubblico, proprio come fu registrato l’ultimo album dei Black Crowes BEFORE THE FROST…UNTIL THE FREEZE. C’è la voce nera di John Hogg, ci sono tre coriste e altri tre musicisti (Matt Slocum, Joe Magistro e Nico Bareciartua). Il repertorio comprende alcuni classici come 'Comin' Home' (Delanie & Bonnie), 'Goin' Down South' (Bobby Hutcherson), 'War Drums' (War), 'Fearless' (Pink Floyd) e 'Glad And Sorry' dei Faces, alcune canzoni già nel repertorio dei vecchi Black Crowes ('What Is Home', 'Wiser Time' e 'Time Will Tell') e l’unico inedito in studio ‘Omission’ con la voce di John Hogg e la forza di risvegliare antichi fantasmi da anni dormienti. Un singolo dal gran tiro che svolge benissimo il compito di presentazione e apripista. Poche vere novità in scaletta è vero, ma durante i live tutto si amplia ancora di più (una buona parte delle canzoni superano i sei minuti di durata). A proposito: è stato confermato un tour europeo a Luglio, che naturalmente non toccherà il nostro paese. Un primo passo verso qualcosa di importante? Un progetto estemporaneo? Un nuovo gruppo per il futuro? Rich Robinson sembra ben propenso per quest’ultima opzione e visto il buon stato di forma di Marc Ford, confermata dall’ispiratissimo THE VULTURE uscito l’anno scorso, il prossimo passo potrebbe comprendere qualcosa di nuovo, originale e molto interessante.
'For a Spanish Guitar’ l’avrebbe voluta scrivere Bob Dylan. Se con gli attestati di stima che contano si potesse vivere più a lungo, Gene Clark, dopo questa dichiarazione d’amore, sarebbe ancora qui con noi a vivere i suoi infiniti anni di vita eterna. Invece nel 1991, a soli quarantasei anni, ci lasciò, sconfitto dalle pesanti e irrimediabili consegue...nze lasciate da quei vizi con cui cercò di innaffiare una vita schiva, vissuta spesso in solitaria (ben raccontata in ‘One In A Hundred’) e con tante fobie che ne ridussero l’alto potenziale di successo commerciale. Anche se la sfortuna e la critica ebbero la loro buona mano pesante a riguardo. Dopo la straordinaria parentesi con i Byrds con cui scrisse almeno un poker di classici e i dischi con i fratelli Gosdin e Doug Dillard, l’avventura solista iniziò proprio con questo disco: un piccolo gioiello che splende di luce propria, fin dalla stupenda e evocativa foto di copertina, scattata da John Dietrich, che ne ritrae la sagoma davanti al caldo sole posato sulle sabbie del deserto Californiano. WHITE LIGHT (titolo che non compare in copertina) è un disco di country folk perfetto con l’ombra di Dylan che spesso si allunga (l’apertura ‘Virgin’), senza tempo, adatto per tutte le occasioni: intimista, visionario, malinconico, romantico, delicato e intenso che si regge in piedi e vola alto con pochissimo. Registrato nel suo personale rifugio a Mendocino, nel nord della California, si avvale della chitarra di Jesse Ed Davis, il basso di Chris Ethridge, la batteria di Gary Mallaber, la sua armonica, la sua chitarra acustica e poco altro. Pure l’unica cover, la già perfetta‘ Tears Of Rage’ di Dylan/The Band, riesce ad acquistare nuove sfumature. Gene Clark, a ventisei anni dalla morte, lo ricordiamo come quel poeta introverso del Missouri con metà sangue pellerossa, spesso dimenticato ma che diede il suo grande contributo al via della splendente stagione californiana dei settanta. Non da meno, anzi, fu il più complesso NO OTHER del 1974. Raccolse piccoli frutti ma piantò i semi migliori.
Chissà, forse non è proprio un caso che per il compleanno alcuni cari amici mi abbiano regalato il nuovo disco di Rodney Crowell. Un regalo apprezzato, perché CLOSE TIES è disco autobiografico, sincero, senza filtri. Proprio come dovrebbero essere gli amici. Un disco ricco di vita come pochi. Proprio come quella costruita con gli amici più fedeli, anno dopo anno. Legami stretti, appunto.
Il cantautore texano ha attraversato gli ultimi quarant’anni di musica americana da gran protagonista, nonostante il suo nome non abbia mai bucato il vero mainstream a livello mondiale, soprattutto alle nostri latitudini. Non così in patria: a partire da DIAMOND & DUST del 1988, che fu un successo clamoroso, la sua fama, unita alla stima dei musicisti, è cresciuta in continuazione. Qui riscrive un nuovo capitolo della sua carriera guardando a 360 gradi indietro, avanti e nel presente della sua esistenza. Amori, vittorie, sconfitte, confessioni, debolezze, morte, luoghi, presagi futuri, amicizie musicali e private. Non manca nulla. Partecipano pure la ex moglie Susanna Cash e John Paul White in ‘It Ain’t Over Yet’, canzone scritta inizialmente per Guy Clark (“Stavo scrivendo questa canzone mentre gli facevo visita regolarmente durante gli ultimi mesi di vita.”), e Sheryl Crowe in ‘I’m Tied To Ya’. Anche musicalmente c'è tutto il meglio del repertorio: dalla dolente ballata folk country della finale ‘Nashville 1972’ che dice tutto nel titolo e racconta il primo incontro con la mecca del country con tanto di illustri protagonisti, che diventeranno poi colleghi (Guy Clark, Townes Van Zandt,Steve Earle) al rock bello tirato di ‘Storm Warning’. Dai momenti più lontani e privati riconducibili all’adolescenza, ben raccontati nell’apertura ‘East Houston Blues’, alle storie d’amore finite (‘Forgive Me Annabelle’), fino alle confessioni che sanno quasi di tardiva dichiarazione: ‘Life Without Susanna’ è dedicata a Susanna Clark, compagna di Guy Clark, una delle prime persone a credere nelle capacità artistiche di Crowell. Tra gli autori più ricercati, una delle ultime grandi penne della tradizione musicale americana. Nelle sue mani tutto può ancora diventare prezioso.
Per una band che ha preso forma nel 2011 sopra i palchi, questo disco è pura routine. Il giusto palcoscenico per la vera natura della band (i 14 minuti di ‘Ride’ il loro passaporto). Libertà di movimento in un flusso continuo e cangiante di ispirazione (forse non sempre al top, con la voce di Robinson non più ai massimo come ai vecchi tempi, ma da accontentarsi) che trova terreno fertile tra il blues, la psichedelia, il southern rock, il soul, là da qualche parte in mezzo alle strade che dai campi assolati della Florida arrivano alle vie trafficate della San Francisco in acido. Pura gioia di suonare, non mi viene in mente altra frase. Questa è la terza uscita della serie live denominata BETTY’S BLENDS, dischi che si vanno ad aggiungere ai cinque di studio già usciti. Tredici canzoni registrate nel 2015 in tre diverse date del tour nel Sud degli states, ad Atlanta in Georgia, Raleigh in North Carolina e Charleston in South Carolina, con l'aiuto della storica Betty Cantor Jackson, archivista e fonico dei Grateful Dead. Un tour che toccò anche l’Italia. Accanto alle canzoni di Chris Robinson e soci (l’inconfondibile chitarra di Neal Casal, le tastiere sempre più presenti di Adam MacDougall , la batteria dell’ultimo entrato Tony Leone) troviamo alcune cover, vero punto d’interesse di queste uscite: ‘Get Out Of My Life Woman’ di Allen Toussaint, ‘ The Music’s Hot’ (Slim Harpo), ‘I’m A Hog For You’ (Leiber/Stoller), per concludere con i sette minuti di ‘She Belongs To Me’ di Dylan. Nessun calcolo e tanto cuore, da Chris Robinson e la sua congrega. Come sempre.
Da quando qualche anno fa lessi una recensione di un suo disco dove il giornalista scriveva di lui al passato, confondendolo evidentemente con qualche altro Elliott passato a miglior vita (Smith?), ad ogni nuova uscita di Elliott (Murphy), dentro di me una vocina dice “ah però, non male per uno che non c'è più”.Dopo aver rivisitato l’esordio AQUASHOW (uscito nel 1973), Elliott Murphy ritorna con un bel disco di nuove canzoni, intenso e ispirato, registrato a Parigi sotto la regia del figlio Gaspard (“l’album si intitola Prodigal Son ispirandosi alla storia nella Bibbia, anche se un sacco di gente pensa che sia dedicato al mio talentuoso figlio Gaspard Murphy che ha prodotto, arrangiato e mixato l'album”) e con i fedeli Normandy All Star ad accompagnarlo: Alan Fatras (batteria), l’inseparabile Olivier Durand alla chitarra e Laurent Pardo (basso), scomparso poco dopo le registrazioni. Il disco, che esce per l’etichetta Route 61 di Ermanno Labianca a quattro anni dall’ultimo IT TAKES A WORRIED MAN, è dedicato proprio al bassista. Nove canzoni tra cui le suggestioni rock dell’apertura ‘Chelsea Boots’, già in odor di classico nel suo repertorio e la lunga, cinematografica ‘Absalom, Davy & Jackie O’ che con i suoi undici minuti chiude il disco e diventa la sua canzone più lunga di sempre, “Ho provato a scrivere una canzone che si può ascoltare come si potrebbe guardare un film”. In mezzo il rutilante folkie ‘Alone In My Chair’, e un filo conduttore che si potrebbe individuare in uno spirito gospel soul che aleggia in parecchie canzoni tra cui la title track ‘The Prodigal Son’ con il pianoforte di Leo Cotton in cattedra, in ‘Let Me In’, nel crescendo di ‘Wit’s End’ con il violino di Melissa Cox. Elliott Murphy sembra non aver perso quella preziosa penna che ne faceva uno dei migliori e più coerenti songwriter della sua generazione (non per nulla è pure scrittore) che dopo aver camminato nei marciapiedi del Village, vissuto la New York glam degli anni '70, arrivò in Europa nel 1989 (nei settanta visse anche a Roma), e da qui non se n'è più andato. Lontano dai grandi circuiti che contano ma sempre più vicino ai cuori e all'anima. Quello che conta davvero, in fondo. Lunga vita a Elliott Murphy.
WILLIE NELSON God's Problem Child (Legacy/Sony, 2017)
84 anni compiuti lo scorso 29 Aprile per WILLIE NELSON. Ancora auguri! In concomitanza è uscito il nuovo GOD’S PROBLEM CHILD. Un disco dove il vecchio Willie fa volutamente veleggiare lo spettro della morte sopra alle sue canzoni. A volte ad alta quota, altre sfiorando quasi l’impatto. Presentato da una copertina che lo mostra assorto e pensieroso, e in mezzo ad alcuni episodi che mettono in risalto una visione romantica, mai sopita, ma ancora scalpitante della vita (la bellissima ‘True Love’, ‘A Woman’ s Love’), "credo non ci si possa occupare troppo del passato e degli errori fatti" disse in una recente intervista, tra le pieghe di qualche decisa e feroce opinione sulla politica odierna (‘Delete And Fast Forward’), tra un testo che sa di confessione al Signore ('I Made A Mistake'), fa però calare un pesante velo di malinconia. Ricordando i tempi andati (la ballata pianistica ‘Old Timer’) e vecchi amici della sua generazione che da pochissimo non ci sono più (‘Lady Luck’): da Merle Haggard (‘He Won’t Ever Be Gone’) con il quale incise l’ultimo album DJANGO & JIMMIE nel 2015 , a Leon Russell che proprio nella title track, un blues notturno scritto e suonato con Jamey Johnson e Tony Joe White, ha lasciato le sue ultime tracce in uno studio di registrazione. Ma poi esce allo scoperto lo spirito ironico e sbeffeggiante a stemperare tutto: nell'honk tonk ‘Still Not Dead’ canta “Well I woke up still not dead again today. The internet said I had passed away. But if I died, I wasn’t dead to stay”. Mettendo a tacere, una volta per tutte, le reiterate bufale sulla sua morte presenti in rete. Difficile fermare le leggende. Già: mentre esce questo, lui è già al lavoro con i figli Lukas e Micah, proprio quelli che hanno accompagnato l'amico Neil Young ultimamente. Ne vedremo ancora della belle.
CHRIS STAPLETON From A Room, Volume I (Mercury Nashville, 2017)
“Il luogo dove registri può influenzare, nel mio caso anche elevare, quello che fai”. Con queste parole CHRIS STAPLETON, 38 anni, sintetizza il titolo scelto per l’ambizioso progetto musicale di questo 2017. Il 5 Maggio sono uscite le prime nove canzoni raccolte sotto il titolo: From A Room, Volume I. A fine anno arriverà il volume II. Chris Stapleton ha registrato il seguito del fortunato debutto TRAVELLER, negli stessi studi di Nashville dove registrarono i suoi grandi idoli: Waylon Jennings, Willie Nelson, Elvis Presley. Mura piene di storia che un paio d’ anni fa furono salvate dal triste destino a cui stavano andando incontro: la demolizione. Scongiurata la wrecking ball rimane la magia. Prodotto con il fido Dave Cobb, che ci suona anche la chitarra acustica, Stapleton cerca di bissare il grande successo di un debutto nato sulle highway, durante un lungo viaggio con la moglie in cui cercò di recuperare il meglio di se stesso, dopo alcune delusioni di vita, e le sue esperienze musicali, comprese le parentesi con i suoi vecchi gruppi, e le tante canzoni scritte per altri come autore. Con lui in studio: la moglie Morgane Stapleton ai cori, il batterista Derek Mixon, il basso di J.T. Cure e le ospitate di Mickey Raphael all’ armonica, Robby Turner alla pedal steel e le tastiere di Mike Webb.
Volume I ripete bene la formula, bilanciando le varie anime della sua musica anche se a prevalere, come già anticipato dal debutto, è sempre quella più soul e nera grazie soprattutto alla sua straordinaria voce: ‘I Was Wrong’, l’incidere soffuso e notturno della finale ‘Death Row’, la splendida ‘Either Way’ che insieme a ‘Last Thing I Needed , First Thing This Morning’ (rubata a Willie Nelson) sono il punto più alto del disco e sembrano uscite da impolverati dischi motown abbandonati su una vecchia diligenza guidata da vecchi cowboy e persa tra le strade del Texas. Come se Otis Redding camminasse, senza fretta, sotto braccio a Waylon Jennings. Outlaw soul. Maggiore omogeneità rispetto al debutto, spezzata solamente da un lento walzerone country dominato dalla lap steel (‘Up To No Good Livin’’), un vecchio blues con l’armonica (‘Them Stems’), e l’incalzante rock di ‘Second One To Know’, il momento più elettrico e movimentato del disco. Chris Stapleton si conferma uno degli ultimi depositari di una vecchia formula che tra gli anni sessanta e i settanta cercò di riscrivere la musica americana. Anche se un punto inferiore al debutto, che poteva giocarsi la carta sorpresa, rimane pur sempre due punti superiore per spessore e intensità alla media delle uscite odierne nel suo campo. Ora non rimane che aspettare il secondo volume previsto per fine anno, che potrebbe riservare ulteriori sorprese, altrimenti non si spiegherebbe questa divisione, vista l’esigua durata del disco.
Ieri in rete è andata in onda l’ennesima puntata di: "anche in musica i soldi possono dividere le persone". Il tutto riferito al prezzo dei biglietti del concerto dei Rolling Stones con pro e contro annessi. Passiamo oltre. Lasciamo parlare la musica. Fortunatamente in nome della musica ci si unisce anche e l’esordio di questa inedita quanto affiatata coppia di musicisti ne è la testimonianza più fresca e attuale. Un connubio cementificato dopo un tributo a Duane Allman e proseguito in questi due anni, culminato con questa raccolta di undici canzoni. “ E’ stato divertente. Questa collaborazione era nell’aria da diverso tempo, ma ora che si è compiuta sono veramente colpito. Keb’Mo’ è davvero bravo a tenere la palla in aria. È un inferno di chitarrista. Sono stupito dalle cose che è riuscito a tirare fuori”. Così Taj Mahal ha raccontato il feeling nato con il chitarrista di Los Angeles. L’alunno segue il maestro e il maestro lascia spazio all’alunno (comunque classe 1951), tanto che Keb’ Mo’ non si fa remore nel chiamare “guida” il suo esperto compagno. Comunque sia, due maestri nel loro campo. Due esperti in contaminazione. E il campo di gioco è lo stesso che Taj Mahal contribuì a svecchiare fin dal lontano esordio del 1968, allungando le radici versi tanti altri orizzonti sonori, rivestendo il blues di abiti moderni e all’avanguardia per l’epoca. Qui, nel 2017, in aggiunta: l’intreccio delle loro voci e delle chitarre. Tutto l’amore per il blues libero e contaminato che sa: essere elettrico (‘Don’t Leave Me Here’, ‘Show Knows How To Rock Me’), acustico, riprendendo quella ‘Diving Duck Blues’ di Sleepy John Estes dal debutto di Majal appunto, soul in ‘Shake In Your Arms’ con la chitarra ospite di Joe Walsh, stringere la mano al reggae nella cover degli Who ‘Squeeze Box’, bagnarsi nei mari dei Caraibi (‘Soul’), esprimere tutto l’amore per il Sud degli States (‘Don’t Lleave Me Here’), salutarci con la cover ‘Waiting On The World To change’ di John Mayer che ospita la voce di Bonnie Raitt. Il tutto senza mai perdere per strada eclettismo e freschezza. Niente di nuovo, nulla di rivoluzionario, non il disco dell’anno, ma certamente sarà il miglior disco da ascoltare in macchina durante le prossime lunghe (e corte) trasferte estive verso le mete dei vostri concerti. Pure se andrete a qualche concerto troppo costoso. Perché la musica, alla fine, ricuce e unisce tutto. Chiedere a Taj Mahal.
GARLAND JEFFREYS14 Steps To Harlem (Luna Park Records, 2017)
C’è chi della contaminazione ne fa una malattia, si inventa guerre puntellate sulle assi cigolanti dell’odio e della supremazia razziale, e poi c’è chi ne trae fuori bellezza e giovamento. Lasciamo i primi girare senza meta intorno al loro livore basato sull’invidia (“molta gente non è ancora pronta” dice Jeffreys) e facciamo un monumento a GARLAND JEFFREYS che dalla contaminazione (il suo sangue è di tanti colori e parla diverse lingue, la sua musica pure) si ècostruito una carriera, non sempre ai vertici del successo, ondulante tra picchi, cadute di tono e assenze prolungate, ma sicuramente degna di essere raccontata e rispettata. 14 STEPS TO HARLEM non sfugge a quello che ha sempre mostrato con la sua musica: di essere aperto a ogni suggestione musicale, a ogni genere, ad ogni luogo e ogni tempo. Da Brooklyn a Firenze dove studiò e abitò in gioventù, il passo è sempre più breve di quanto ci si aspetti. Se il disco si apre in leggerezza con un chorus pop rock quasi danzereccio (‘When You Call My Name’) dominato dai shynth che ti si stampa in testa, continua poi sulle antiche strade del blues, dell’amato reggae, del soul, del rock, della musica latina, dei linguaggi musicali più moderni del ghetto (‘Colored Boy Said’), delle classiche ballate newyorchesi. L’ambientazione è la stessa di sempre: parte dalle strade di New York , suggestiva la ballata ‘Luna Park Love Theme’ ambientata a Coney Island e che ospita Laurie Anderson al violino, e si propaga in giro verso le strade del mondo. Lo sguardo è spesso rivolto al passato. Principalmente a suo padre in ’14 Steps To Harlem’ , un onesto lavoratore che con i soldi guadagnati con tanta fatica gli permise di studiare all’università e lo introdusse alla musica, “quand’ero giovane mio padre mi introdusse nel mondo del jazz, ho visto grandi artidsti ad Harlem. Ho visto Nina Simone al Village Gates, l’ho conosciuta, suonava con Sonny Rollins”, alla sua infanzia (‘Schollyard Blues’), alla vecchia New York del 1981 che ospitava i Clash in tour mentre lui promuoveva l’acclamato ESCAPE ARTIST (‘Reggae On Broadway’) e tra gli spettatori c’era Joe Strummer . Ma anche al presente con i pensieri rivolti alla moglie (‘Venus’ potrebbe essere scritta da Van Morrison) e alle sue origini portoricane (‘Spanish Heart’). Piazza pure due cover: una carezzevole ‘Help’ dei Beatles dedicata a John Lennon, conosciuto al Record Plant e ‘Waiting For The Man’ dei Velvet Underground, un dichiarato omaggio al vecchio amico Lou Reed. “Ho incontrato Lou Reed alla mensa della Syracuse University nel 1961. Lou era al sencondo anno, Io una matricola. Nessuno ci ha presentato. Ci siamo fiutati a vicenda. Lui arrivava da Long Island io da Brooklyn”.
Produce James Maddock.
In questi giorni stavo cercando qualcosa di fresco che potesse sostituire gli abituali abitanti della mia autoradio. Sapete quei lunghi viaggi sulla lingua d’asfalto? 14 STEPS TO HARLEM si è guadagnato il primo posto con poca fatica!
Luglio 1990. Il gol del pareggio di Claudio Caniggia, o se volete l’uscita avventata di Walter Zenga (imbattuto fino a quel momento), spensero la terz’ultima stella di quelle notti magiche italiane. A far calare il buio completo ci pensarono i rigori falliti di Donadoni e Serena. Tutte le stelle spente, le notti perdono la scia magica, anche gli occhi di Schillaci non luccicano più. Argentina in finale. Il sipario calò miseramente... anche su quel tormentone (ascoltato fino allo sfinimento ovunque) musicato da Giorgio Moroder con il testo dell’inedita coppia Bennato/Nannini che ci accompagnò dal Dicembre dell’anno prima fino a quel 3 Luglio. Rivelandosi comunque, a fine anno, il singolo più venduto in Italia. Ma Edoardo Bennato aveva già pensato a tutto, nuovamente: dal 20 al 28 Maggio, a pochissimi giorni dall’inizio dei mondiali chiamò con sé i vecchi amici Roberto Ciotti (l’ultima apparizione del bluesman romano in un disco di Bennato risaliva a BURATTINO SENZA FILI del 1977), Lucio Bardi e Luciano Ninzetti alle chitarre, Andy Forest all’armonica e in soli otto giorni, chiusi dentro ai Baby Record Studios di Milano, registrarono in presa diretta EDO RINNEGATO, un disco totalmente acustico con il non trascurabile primato di essere il primo (live) unplugged sul mercato italiano, prima ancora che MTV iniziasse a staccare le spine a tutti quanti. Nella copertina, disegnata dallo stesso Bennato, c’era tutto il misero armamentario usato: chitarre acustiche, armoniche, tamburelli e kazoo. Stop. Ancora adesso se qualche neofita di Bennato, esiliato dal mondo fino a ieri in qualche isola (che non c’è), mi chiedesse un “disco iniziazione” all’opera di Bennato, lo farei partire da qui. Un riepilogo di carriera che parte dalle lontane ‘ Venderò’, ‘Rinnegato’, ‘Arrivano i Buoni’ ‘La Bandiera’, ‘Franz è il mio Nome’, ‘Ma Che Bella Città’ e arriva fino alle allora più recenti ‘Abbi Dubbi’, ‘Sogni’, ‘La Luna’, ‘La Chitarra’ completamente messe a nudo, svestite dai pesanti abiti anni 80. Il disco uscì a mondiali finiti, nell’autunno del 1990. Ma l’estate di Bennato non terminò con il terzo posto dell’Italia: il 13 Luglio partecipò a Pistoia Blues, dividendo il palco con sua maestà B.B. King e con il nuovo (e sfortunato) astro nascente della chitarra blues Jeff Healey. In quel Luglio del 1990 il campione del mondo fu Edoardo Bennato. Abbi dubbi? No!