Se riuscite a ritagliarvi mezz’ora di svago e divertimento (scontati: 26 minuti per la precisione) durante le vostre frenetiche giornate lavorative, EASTSIDE BULLDOG il nuovo disco di Todd Snider potrebbe fare da buona colonna sonora. A qualche anno dall'ultimo album solista e dopo i due lavori più seri con il supergruppo Hard Working Americans, Snider riveste i panni stropicciati del suo alter ego, da prendere poco sul serio, Elmo Buzz, si chiude in studio con alcuni amici e registra 10 canzoni con lo stesso spirito con cui suonerebbe sopra al palco del peggior pub della città davanti a un pubblico distratto, poco esigente ma con il bicchiere sempre pronto per il brindisi. Una cosa alla Blues Brothers dietro a una rete, o come quando Neil Young si vestì di rosa e si impomatò i capelli e ci prese per il culo, per intenderci. Un pianoforte sgangherato, fiati, cori stonati che spuntano da dietro, e testi che raccontano di donne e motori, musicisti con pochi soldi e bevute, con l’aria di East Nashville che tira di lato e il fiato di Hank Williams Jr. che sbuffa dall’altro. Il gioco è fatto. Non cercate premi Nobel qua dentro, troverete solo una manciata di minuti di puro e alticcio divertimento rock’n’roll con ritmi swinganti annegati in un r&b alticcio. "It's songs about East Nashville, chicks, cars, fighting, partying and Bocephus and that’s it. No bullshit... just the good stuff." Firmato Elmo Buzz o Todd Snider, fate voi.
Dopo l'unica data europea della reunion svoltasi a Londra il 29 Ottobre 2016, Little Steven e i Disciples Of Souls hanno annunciato un nuovo disco e un nuovo tour per il 2017. Ecco tre dischi da avere...
LITTLE STEVEN AND THE DISCIPLES OF SOUL Men Without Women (1982)
Tra i tanti album mai usciti con la dicitura Bruce Springsteen in fronte, ma che a tutti gli effetti potrebbero rientrare nella sua discografia, il debutto di Little Steven con i Disciples Of Soul brilla particolarmente, unitamente ai dischi di GARY US BONDS del periodo (DEDICATION e ON THE LINE). In verità, anche se non accreditato ufficialmente per problemi con l’etichetta CBS, Springsteen appare nei cori di almeno tre canzoni: la trascinante ‘Angel Eyes’, ‘Until the Good is Gone’ e la title track ispirata dal libro di racconti di Ernest Hemingway. Così come accanto a Miami Steve Van Zandt-ma da ora chiamatemi pure Little Steven!-c’è buona parte della E STREET BAND: Max Weinberg alla batteria, Garry Tallent al basso, Danny Federici alle tastiere e Clarence Clemons ai cori. Insomma, manca solo Roy Bittan. Compaiono anche gli ex Young Rascals, Dino Danelli e Felix Cavaliere, Gary US Bonds e il bassista di colore con il taglio alla Mohawk John Beauvoir, allora nei Plasmatics della povera Wendy O.Williams, che in seguito formerà i mai troppo lodati Crown Of Thorns . L’album parte in quarta con ‘Lyin’ In A Bed Of Fire’ che riassume il mood dell’intero disco: un concentrato di chitarre garage rock (‘Under The Gun’) accompagnate dalla possente sezione fiati dei La Bamba’s Mambomen (formata da membri degli Asbury Jukes di Southside Johhny) che contornano il tutto con forti dosi di soul e R&B (‘Forever’) e testi che ruotano intorno all’amore, quello focoso e quello sbiadito (perdite). Una menzione particolare per la le armonie folkie di ‘Princess Of Little Italy’. L’unico neo di un disco quasi perfetto potrebbe essere la voce debole, ma comunque caratterizzante, di Miami Steve: queste canzoni con la personalità vocale di Springsteen volerebbero ancora più alte? Comunque sia, il già ricco The River si troverà, in un colpo solo, tante facciate della stessa medaglia, al bellissimo Dedication di Gary US Bonds il merito di offrirne altre due.
Alcuni anni fa, in un post lasciato al proprio sito ufficiale, il grande amico Southside Johnny scrisse: “oggi in macchina ho ascoltato nuovamente MEN WITHOUT WOMEN e non riesco a credere che non sia diventato un successo enorme. Grandi canzoni, grandi arrangiamenti e una band killer, insieme alla voce più autentica e interessante che abbia mai sentito."
Se Little Steven fino ad allora si era pregevolmente nascosto alla sinistra di Springsteen o dietro le quinte come autore e produttore di Southside Johnny e Gary Us Bonds, da qui in avanti cercherà un po’ di gloria personale, lasciando il capo nel momento del maggiore successo mondiale (BORN IN THE USA e rispettivo tour erano alle porte) ed esponendo idee politiche e lotte sociali a tutti fin dal successivo VOICE OF AMERICA (1984). Gloria culminata con la collettiva esperienza anti-apartheid denominata Sun City, datata 1985.
LITTLE STEVEN Voice Of America (1984)
Musicalmente preferisco il debutto solista MEN WITHOUT WOMEN (1982) ancora legato al New Jersey sound, anche grazie alla schiera dei numerosi ospiti pescati dalla "famiglia", ma non si può negare a questo seguito, uscito nel 1984, un certo coraggio nelle convinte (anche se alcuni le leggeranno come ingenue) prese di posizione politiche e sociali che culmineranno con il mega evento collettivo anti-apartheid denominato Sun City, e messo in piedi nel 1985. LITTLE STEVEN abbandona la nave del capo dopo aver coprodotto il disco che cambierà per sempre la rotta di Springsteen, che nelle note di copertina di BORN IN THE USA gli augura “buon viaggio mio fratello Little Steven”. Little Steven replica con “ un grande grazie a Bruce Springsteen, senza i vent’anni d’amicizia questo disco non avrebbe visto la luce”. Ancora amici, comunque? Little Steve racconterà: “avevo la sensazione che la nostra amicizia cominciasse a essere a rischio. E pensai che il modo migliore per salvaguardarla fosse andarmene. Sapevo che se fossi rimasto le nostre divergenze, che erano ancora piuttosto civili, lo sarebbero state progressivamente meno”. Siamo nei pieni anni ottanta e qualcosa di plastificato inizia a farsi largo nei suoni dei suoi DISCIPLES OF SOULS (Jean Beauvoir, Dino Danelli, Monti Louis Ellison, Pee Wee Weber, Zoe Yanakis) che non compaiono più nel monicker in copertina. Quello che potrebbe essere un buon disco di garage rock puro e duro (bisognerà aspettare il sempre sottovalutato BORN AGAIN SAVAGE del 1999 per quello), viene limato e fatto rimbalzare dalla presenza di synth e tastiere, e da sconfinamenti che toccano perfino il reggae (‘Solidarity’) . A contare sono però i testi: dalla chiamata alla presa di coscienza a velocità punk di ‘Voice Of America’, all’esortazione a combattere senza paura (‘Fear’), alla denuncia della repressione che attanaglia alcuni stati del Sud America in ‘Los Desaparecidos’, al patriottismo convinto di ‘I Am A Patriot’ che l’amico Jackson Browne, unitamente alla title track, farà sue. I due daranno voce a Sun City e combatteranno insieme per un buon periodo. Da segnalare, infine, la presenza di Gary Us Bonds nell’altro reggae ‘Among The Believers’, comunque lontano dalla perfezione di dischi come DEDICATION e ON THE LINE.
LITTLE STEVEN Born Again Savage (1999) "Questo è il disco che avrei voluto fare nel 1969... è un tributo ai pionieri dell'hard rock con i quali sono cresciuto... The Kinks, The Who, Yardbirds e i tre gruppi nati da loro: Cream, Jeff Beck group e Led Zeppelin...". Basterebbero queste poche righe, scritte per presentare l’album, per avere un'idea del contenuto. Uscito nel 1999, ma frutto di anni di stesura, è praticamente il quinto album che chiude la serie dei suoi dischi politicizzati iniziata nei lontani anni ottanta in era “reganiana” (anche se il rapporto con le religioni-tutte- è qui protagonista): dallo stupendo Jersey Sound di ‘Man Without Women’ al culmine raggiunto con l’esperienza Sun City, Artist United Against Apartheid. Ma questo album qualcosa di diverso lo contiene veramente, è a tutti gli effetti un album di garage rock grezzo e di hard rock fumante ed intransigente che da Little Steven non ti aspetteresti più. Uscito fuori tempo massimo. Il sogno della sua vita da musicista si concretizza a più di trent'anni dall'inizio di carriera. Formazione a tre con Little Steven alla voce (mai così incazzata) e chitarre (vere protagoniste del lavoro), Jason Bonham (figlio di cotanto padre) alla batteria e Adam Clayton (sì proprio quello che sta alla sinistra di Bono) al basso. Bastano i primi due brani per presentare un Little Steven che può finalmente farsi valere e far vedere a tutti quanto la chitarra la sappia suonare alla grande, senza dover sottostare a nessun “boss padrone”. ’Born Again Savage’ e ‘Camouflage of Righteousness’ sono dure rock songs con chitarre in grande spolvero e l’umore fumoso dell’ hard blues settantiano. ‘Guns, Drugs and Gasoline’ veloce e galoppante racchiude un coro che sembra uscito dalla London punk '77, così come ‘Organize’. ‘Face of God’, uno spoken rock, anticipa la stupenda e stratificata ‘Saint Francis’, con una grande e accorata prova vocale di Van Zandt: la migliore canzone del disco, senza dubbio. Chiudono: la dilatata e psichedelica ‘Lust for Enlightenment’ e la rock oriented ‘Tongues of Angels’, che ricorda qualcosa dei migliori U2 degli anni ottanta. L’album passò totalmente inosservato all’uscita, ed ora con un po’ di fortuna lo si può trovare impolverato nel banchetto degli usati. Qualche anno fa, Steven parlò di una rimasterizzazione del catalogo che avrebbe compreso anche quest'ultimo lavoro. Un ascolto lo merita.
"I miei amici erano fuori a bere e credo che stessero facendo bene
Volevo unirmi a loro, ma avevo paura di offuscare la loro luce
Così ho messo su un vecchio disco e ho ballato con il suo fantasma tutta la notte"
da 'Sunday Morning Feeling'
Dopo il trittico di uscite con la produzione di Tony
Visconti e l'aiuto di Chuck Prophet(l’ultimo fu il più sperimentale e coraggioso BIG STATION del 2012), ALEJANDRO
ESCOVEDO ritorna con un disco dal carattere forte e deciso come si dice per
certi liquori invecchiati bene, dove le chitarre prendono spesso possesso della
scena durante le tredici canzoni: ora più affilate, aspre e taglienti (‘Horizontal’ scava nel passato punk dei Nuns, ‘Luna De Miel’, 'Heartbeat Smile' è un buon compromesso pop rock) ora
glitterate (‘Shave The Cat’) sulla scia della polvere di stelle seminata da
Marc Bolan, ora pigre, sonnacchiose e desertiche (‘Redemption Blues’, ‘Johnny Volume’ sembra rievocare gli spiriti dell'amato Lou Reed),
poi ancora acustiche (‘Suit Of Lights’, ‘Beauty And The Buzz’, la bella 'Farewell To The Good Times'), pure ciondolanti verso
un sound che rimanda a Phil Spector (‘I Don’t Want To Play Guitar
Anymore’). Questa volta a produrre e aiutare nella scrittura troviamo un inedito duo
formato da PETER BUCK (ex-ma speriamo ancora per poco-chitarrista dei R.E.M.) e
SCOTT McCAUGHEY (Minus 5), mentre allo studio Type Foundry a Portland, dietro
agli strumenti è passata gente come il chitarrista Kurt Bloch (The Fastbacks),
il batterista John Moen (the Decemberists), il sax di Steve Berlin (Los Lobos)
e le cantanti Kelly Hogan e Corin Tucker. Un vero lavoro di squadra: “abbiamo
scritto, arrangiato e suonato le canzoni insieme” scrive Escovedo nel libretto, portandosi alla pari di Buck e McCaughey.
“Penso che Pete e Scott abbiano fatto un lavoro che mi ha portato fuori dalla
mia comfort zone, ma era tutto nel campo di mio piacimento”, aggiunge in una
recente intervista. Mentre Peter Buck su remhq.com racconta: "Sono statounfandellamusicadi Alejandroperoltre30anni,eregistrareconlui è stato positivo comemiaspettavo. Credo che lui,ScottMcCaughey ed io abbiamo davveroesteso il nostrovocabolariocomescrittoriemusicisti. Quello che è uscito è qualcosa di diverso rispetto a qualsiasi cosache abbiamofattosingolarmenteinpassato."
Escovedo raccoglie le parole dalla strada (nel disco tutte le sue influenze: dalle luci urbane al CBGB di New York al sole che illumina i deserti Texani) e canta di perdite, amori, volgendo pure lo sguardo
più avanti verso un futuro che prima o
poi dovrà presentarsi, e lo fa dall’alto di una persona che in vita ne ha viste tante, superando mille ostacoli: la morte della moglie a cui dedicò i primi album solisti
GRAVITY (1992) e 13 YEARS (1994), la
vittoria più importante sull'epatite C negli anni duemila e uscendo vivo dall'uragano che ha spazzato via la sua casa in California nel 2014. Ora si è trasferito a Dallas. Un altro capitolo importante nella vita di un autore mai fermo, sempre
onesto, sanguigno e rispettato dai tanti colleghi. Uno dei suoi album migliori che conferma quanto l'ispirazione , in certi casi, può continuare a brillare anche superati i 65 anni.
Se nel 1978 avessi avuto quattordici anni mi sarei innamorato perdutamente di Nicolette Larson. Tutto sommato è quello che avvenne dieci anni dopo con Edie Brickell. Ho sempre pensato che si assomigliassero, fisicamente. Riguardandole oggi, però, non è poi così vero. Quando la Larson, nativa del Montana, incise q...uesto primo disco solista, alle spalle ha già alcune importanti esperienze in studio come corista in California (le più importanti con Commander Cody e Jesse Colin Young), ma la vera svolta per la sua vita artistica arriva per pura coincidenza quando la già affermatissima Emmylou Harris non si rende disponibile per le registrazioni di AMERICAN STARS ‘N BARS (1977) di Neil Young. L’amica cantante Linda Ronstadt suggerisce a Young il nome dell’allora venticinquenne Larson. La Larson non si fece pregare e raggiunse lo studio preparatissima. Sono così della coppia Rondstadt-Larson (le “Saddlebags”) i tanti cori che possiamo sentire in ‘Old Country Waltz, ‘Saddle Up the Palomino’, ‘Bite the Bullet’ e altre. Passa un anno e la Larson si prende ancora più spazio all’interno di un disco del canadese: è quel COMES A TIME che vuole recuperare le atmosfere country del grande successo HARVEST. Nicolette Larson arriva a duettare nel blues ‘Motorcycle Mama’, lasciando il suo personale graffio. Ma sarà la sua versione del perfetto pop country ‘Lotta Love’ di Neil Young, che praticamente esce in contemporanea con la versione ufficiale contenuta in COMES A TIME, a farla conoscere al grande pubblico, arrivando a toccare le vette delle classifiche. NICOLETTE è un album estremamente vario, fatto di cover e due nuove canzoni tra cui la bella ‘Give A Little’, in grado di mettere in mostra le sorprendenti sfumature della sua voce: intorno al tanto soft rock (‘Rhumba Girl’) spiccano numeri R&B (‘You Send Me ‘ di Sam Cooke) e qualche country (‘Come Early Mornin’ di Bob McDill). Tanti e importanti anche i musicisti coinvolti: alcuni membri di Little Feat e Doobie Brothers, l’amica Linda Rodstadt e perfino l’astro nascente della sei corde Eddie Van Halen, chitarra in ‘Can’t Get A Way From You’.
Nicolette Larson proseguirà la sua carriera solista senza mai più raggiungere le fortune di ‘Lotta Love’, unitamente a quella di corista (la sua voce la possiamo trovare in tantissimi dischi west coast degli anni settanta ma non solo), sposerà il batterista Russ Kunkel da cui avrà una figlia, fino alla prematura scomparsa avvenuta a soli quarantacinque anni per le complicazioni di un edema cerebrale. Ci sono pure due importanti apparizioni nella tv italiana: -Nel 1978 una emozionata Larson è ospite a Domenica In, presentata da Corrado così: "Nicolette Larson è la più giovane di quella famiglia americana che comprende superstar come Neil Young e Linda Rondstadt, cioè quella famiglia americana che ha portato quel nuovo suono americano al crocevia tra il rock e la tradizione". Vabbè aggiungo io. Poi Corrado tirò fuori un metro e le misurò la lunghezza dei capelli: 103! Naturamente cantò 'Lotta Love'." -Nel 1990 partecipò al Festival di Sanremo riproponendo la versione inglese (‘Me And My Father’) di ‘Io e Mio Padre’ di Grazia Di Michele, negli anni in cui al festival si decise di ritornare alla vecchia formula degli anni sessanta, quando ad ogni cantante italiano si accoppiava un interprete straniero.
Ci sono dischi che entrano in circolo subito, senza chiedere permesso. Che prendono fuoco all’istante. Bruciano. Rendono gli occhi luminosi. RUMINATIONS di Conor Oberst è uno di questi, nonostante l’ascolto preveda un buon impegno e la situazione adatta. La mia parentesi di vita è la situazione adatta. È stato scritto e registrato da Oberst in pochi giorni durante un auto esilio in pieno inverno (quello del 2015) rinchiuso nella sua casa ad Omaha in Nebraska. Rifugio sicuro per fuggire dal mondo e riprendersi dalle batoste della vita (dalle pesanti accuse di violenza carnale piombatigli addosso all’improvviso, poi smentite e ritirate, alla diagnosi di una ciste al cervello, ad una depressione sempre dietro l’angolo). Un disco nato per caso, durante le ore della notte, mentre la legna alimentava il fuoco e la neve faceva scomparire il paesaggio fuori, cancellando le ultime orme di vita prima del lungo letargo. Un pianoforte, una chitarra acustica, un’armonica e testi personalissimi che compongono un autoritratto crudo e sincero, a tratti persino disturbante. Minimale. Folk. In giro si leggono già paragoni pesanti e ingombranti: il Nebraska di Conor Oberst, il Blood On The Tracks di Conor Oberst. Semplicemente il Ruminations di Conor Oberst. Bellissimo (preso a piccole dosi durante la giornata).
Il GREATEST HITS uscito nel 1993 oltre a diventare, con il tempo, un campione di vendite, sancì la fine della collaborazione con l’etichetta MCA. Ma proprio nel fondo di quella raccolta brillavano due brani inediti (‘Mary Jane’s Last Dance’ e la cover ‘ Something In The Air’) che scrivevano il nuovo presente e il prossimo futuro di TOM PETTY & The HEARTBREAKERS: la collaborazione con il produttore Rick Rubin e il passaggio alla Warner Bros. La precedente, ricca e colorata produzione di Jeff Lynne viene accantonata, favorendo la semplicità (‘Only A Broken Heart’, i ’60 di ‘A Higher Place’, la stupenda’ It’s Good To Be King’), l’immediatezza folk (‘Wildflowers’, ‘To Find A Friend’ con Ringo Starr alla batteria),ma anche quella ruvidezza (‘Honey Bee’, ‘You Wreck Me’) che tanto spopola in quei primi anni novanta a Seattle e dintorni. Il risultato è immediato: WILDFLOWERS si gioca il podio della sua produzione con DAMN THE TORPEDOES. Un album solido e coeso pur mettendo in luce tutte le influenze musicali di una carriera, lo zenit assoluto di Petty che rincorre il tempo con ottimismo, raggiungendo la maturità assoluta al traguardo. Pur uscendo senza il monicker degli HEARTBREAKERS in copertina, i fidi compagni di sempre ci sono eccome e a Mike Campbell spetta il compito di collaborare anche in produzione. Tra i miei dischi fondamentali degli anni ’90 (e oltre). Aspettando All The Rest…ossia tutto quello che è
rimasto nei cassetti.
TOM PETTY and THE HEARTBREAKERS- Echo (Warner Bros, 1999)
Spesso dimenticato, nonostante vendite rispettose e buone critiche, ECHO rimane uno dei dischi più personali, amari e sinceri di Tom Petty, anche se portato a termine in fretta e furia per rispettare alcuni impegni già presi. Un disco di cicatrici e adii. Il capolavoro nascosto che pure l’autore ha rinnegato per troppo tempo, salvo poi rivalutare quando le acque iniziarono a calmarsi, gli orizzonti ritornarono ad essere ben a fuoco e le cicatrici diventare dei brutti segni da guardare con rispetto. Troppo tardi per rimediare a certe cose (nessun video, nessun singolo traino, poche canzoni vennero eseguite nei tour in seguito), ma mai per apprezzarlo come merita. Certo: arrivare dopo un capolavoro come WILDFLOWERS (1994) (in mezzo la colonna sonora di SHE’S THE ONE), un’anonima, sfocata e triste copertina in bianco e nero, la separazione dalla moglie Jane Benyo dopo vent’anni di matrimonio (Petty attacca il disco con ‘Room At The Top’ dove recita “I wish I could feel you tonight, little one.You're so far away. I want to reach out and touch your heart. Yeah like they do in those things on TV, I love you. Please love me, I’m not so bad , And I love you so”, anche ‘Lonesome Sundown’, ‘Free Girl Now’, ‘Echo’ parlano di questo), le condizioni di salute del bassista Howie Epstein-nemmeno presente nello scatto di copertina- sempre più trascinato in basso dalla droga che lo portò nel baratro senza uscita dell’overdose nel 2003, non aiutarono la promozione del disco ma furono una buona fonte d’ispirazione per ben quindici canzoni (forse troppe? Ma tutte dannatamente buone), in bilico tra vero malessere e velata ironia, che lo stesso Petty non esiterà a definire le più oscure della sua carriera.
Tutte nate dopo un periodo di forte depressione: “ho preso dei duri colpi, mi sono ritirato dal mondo per vivere nella mia piccola capanna. Non ho visto gente per un sacco di tempo. Non ero felice, e non volevo farmi vedere. Anche quando ero in pubblico, non volevo essere lì. È una sensazione terribile. Mi ci è voluto un po' per ritrovare la voglia di tornare." Racconterà Petty a USA Today. Rick Rubin aiuta ancora in produzione, per la seconda e ultima volta. Un disco che si divide tra ballate e rock'n'roll con pochi fronzoli, eseguito con l’antico e ruvido piglio da garage band. Negli Heartbreakers c’è da segnalare l’entrata in pianta stabile del polistrumentista Scott Thurston (Iggy And The Stooges, Jackson Browne e tanti altri nel suo curriculum). Un buon giro in giostra per assaporare gli umori di ECHO potrebbe essere l’ascolto, a metà disco, dell’accoppiata ‘I Don’t Wanna Fight’ cantata, straordinariamente, da Mike Campbell (straordinario pure il suo lavoro chitarristico in tutto il disco) e ‘This One’s For Me’ dove escono tutte le inconfondibili influenze Byrdsiane di sempre.
It's Just Another Town Along The Road, tappa 1 (Firenze-Ravenna, distanza 190 km)
GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALSDirty Boulevard (Black Candy, 2016)
Si parte da Firenze, appuntamento sulle rive dell'Arno dove incontriamo i musicisti più esperti, forse anche più vecchi (scusate, quando ci vuole, ci vuole) di questa prima tappa: Iacopo "Jack" Meille, cantante con in piedi in mille attività, la più importante è sicuramente la sua presenza dietro il microfono degli inglesi Tygers Of Pan Tang (appena usciti sul mercato con il nuovo album), Alessandro Nutini, batterista con gran cervello dei Bandabardò, la chitarra che segna tutto il disco del generale Fabio Fabbri , il basso esperto di Richard Ursillo già nei Sensation Fix e Campo di Marte e Pacio al piano e organo.
La passione per l'hard rock/blues degli anni settanta tiene tutto insieme ancora una volta, ma spesso e volentieri le strade portano verso alcuni lidi americani più tranquilli, a volte stonati (è il caso di 'Thank You Bob', con la voce di Ursillo, e indovinate un po' chi è quell'amato Bob? Esatto!) Dirty Boulevard è il loro terzo disco e stanco di ripetermi posso affermare, ancora una volta, che la band toscana rimane una delle realtà classic rock più entusiasmanti che possiate trovare vagabondando tra le strade dell' Italia del rock. Ciò che brilla di più è quell'amore mai sopito per la musica che li spinge con estrema naturalezza a saltare da una sponda all'altra dell'oceano senza perdere colpi, risultando sempre credibili e genuini: ci troviamo così di fronte alle loro influenze british (Free, Uriah Heep) in brani come 'Built To Lust' e 'Going Down To Velvet Underground' e quelle americane ('Piece Of Mind', il rock'n'roll di 'All My Ride', il country folk di 'Starring At My Face', il soul 'A Matter Of Guts And Pride'). Ecco così che mi viene spontaneo rispolverare quella vecchia frase che usai per parlare del loro esordio nel 2011 e diceva più o meno questo: "quando la calda polvere americana del southern/country rock si sparge lungo le verdi vallate dell'hard rock/blues britannico finendo la sua corsa lungo gli argini dell'Arno nasce la musica di questi straordinari cinque musicisti.
In viaggio con i General Stratocuster And The Marshals
1) I km nel vostro disco. IL viaggio ha influenzato le vostre canzoni? Alessandro Nutini: per chi come noi si sente fortemente attratto dall'America e dai suoi spazi l'idea del viaggio è fondante. E anche se magari la nostra visione può essere edulcorata, non di prima mano, derivante da visioni altrui che artisti diversi - non solo musicisti ma anche scrittori, registi o quant'altro - ci hanno quasi inoculato...alla fine quella visione diventa nostra, ed inevitabilmente la nostra produzione artistica non può rimanere indifferente rispetto a ciò che siamo. Iacopo Meille: la musica è "un viaggio". Ricordo quando, adolescente, sono andato in Inghilterra. Prendendo il treno per Canterbury e guardando dal finestrino sono tornate in mente le note di "heavy horses" dei Jethro Tull e "Meet On The Ledge" dei Fairport Convention. Il viaggio mentale trovava conferma nei profumi, colori e paesaggi che stavo vedendo. I miei ricordi sono stati influenzati dai viaggi e così di conseguenza i testi delle canzoni che ho scritto.
2) Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove tornate spesso e volentieri? Alessandro Nutini: ho sempre avuto la fortuna di suonar molto dal vivo e, anche se adoro lavorare in studio, per me il viaggio è davvero parte integrante e fondamentale del divertimento. Non potrei davvero fare a meno dei concerti e di tutto quello che c'è intorno. Per questo anche in un paese come l'Italia, pieno di difficoltà e contraddizioni, gli aspetti positivi superano sempre quelli negativi in ragione di quel paio d'ore di gioia che provo quando suono dal vivo. Li passa tutto, anche le eventuali beghe organizzative o le sfighe varie che possono accadere, ad ogni livello tu faccia questo mestiere. Ed è bello, bellissimo tornare. Ogni volta, ovunque, tornare dove sei già stato e ritrovare le facce della volta prima, che tornano a sentirti. Iacopo Meille: Faccio musica per suonarla dal vivo. Non potrebbe essere altrimenti. La vita on the road è imprescindibile. Troppi i luoghi da ricordare, ma di sicuro il Velvet Underground di Castiglion Fiorentino, La Grange di Mondovì e La Piola di Borgiallo. Non me nè vogliano gli altri.
3) Radici o
vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita? Alessandro Nutini: Beh, questa è la più rapida...ho 46 anni, non sono sposato e non ho figli. Diciamo che ancora non mi sento pronto per certe cose, mi piace ancora l'idea di occuparmi solo di me stesso. Un'esistenza molto centrata sui miei bisogni, un po'egocentrica se vuoi, ma felice e sincera. Ancora però mi piace troppo non avere nessun tipo di vincolo, assaporo la libertà ogni giorno passato così. Iacopo Meille: Firenze è una bellissima città da cui fuggire di tanto in tanto per poi provare l'emozione quando ritorni. La vista dell'Arno e dei suoi ponti non ha eguali per me.
4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Alessandro Nutini: Avrei voluto vedere tanta di quella gente, suonarci poi. Da tempi della Chess Chicago fino ai Clash faccio fatica a scegliere, poi magari per i miei gusti diventa tutto un po' più semplice, nel senso che si entra nella modernità. Lo so, faccio ridere, ma i Clash per me sono un gruppo "nuovo" ahahahah Comunque per dirne uno, non mi sarebbe dispiaciuto salire sul palco con la Rolling Thunder Revue, ecco. Invio subito, così non cambio idea dieci volte al minuto.
Tra vent'anni spero di essere come adesso, in essenza...cioè di fare quello che avrò voglia di fare, sia quel che sia. Non posso vedere il futuro, neanche se ci sarà. Non ci penso troppo per la verità. Iacopo Meille: Mi sono tolto un bel po' di soddisfazioni negli anni ma credo che mi sarebbe piaciuto aprire per un qualsiasi tour di Robert Plant. Tra vent'anni continuerò a suonare e a scrivere musica. Acciacchi permettendo.
5) La canzone da viaggio che non manca mai durante i vostri spostamenti.
Alessandro Nutini: negli ultimi anni quando viaggio - più che una canzone - ci sono alcuni album che non lascio mai. Sono gli American Recordings, specialmente il III. Li trovo adatti ad ogni viaggio e ad ogni momento, da quelli più limpidi fino agli invitabili istanti più crepuscolari, perché in viaggio ci sono anche quelli. La voce di Cash riesce ad essere adatta ad una miriade di stati mentali, o forse dovrei dire spirituali. È una calda coperta quando hai freddo, e una frusta quando devi saltare Icopo Meille: 'After the Gold Rush' - Neil Young
'Long Gone Before Daylight' - The Cardigans
'The Who Hits 50!' - The Who
Con il duo ravennate ci spostiamo a est di Firenze, fino a raggiungere la costa adriatica, seconda meta di questa prima tappa, mentre loro arrivano a bissare il primo disco HAPPY ISLAND, un lavoro che ha ottenuto buoni riscontri da parte di critica e pubblico, tanto da attirare l'attenzione dell'etichetta Route 61 di Ermanno Labianca, che ristampò quell'esordio e che prosegue la collaborazione con rinnovato entusiasmo. E di entusiasmo Luca "Hernandez" Damassa (voce e chitarre) e Mauro "Sampedro" Giorgi (chitarre e seconda voce) sembrano averne da vendere pur scegliendo di viaggiare nella corsia di mezzo tra i chiaro scuri della musica e dei sentimenti umani.
Rispetto all'esordio, la sostanza musicale cambia comunque poco, se non per la scelta di creare una sorta di personale Rust Never Sleeps in salsa romagnola a stelle e strisce, dividendo le canzoni in due lati ben definiti. Da una parte (Acoustic Side) cinque canzoni acustiche, dall'altra (Electric Side) cinque canzoni dal taglio rock ed elettrico (ricordando il passato stoner grunge), tenendo sempre fede al filo conduttore che tiene unito tutte le canzoni: la dicotomia. Un disco di contrasti dunque: di tematiche e di suoni. Le loro strade a differenza dei sopracitati General Stratocuster And The Marshals portano tutte verso la musica americana: impasti vocali alla CSNY, Byrds, America ('Rainbow'), la velata nostalgia country in stile Harvest di Neil Young ('Time To Go'), l'elettricità da garage rock dei Crazy Horse ('Hate & Love', 'Rise Up'), il western strumentale ('Morricone'), e gli amati REM sono sempre i punti di riferimento più marcati. Da segnalare la presenza in 'Everywhere In The World' (Acoustic Side) della cantautrice americana Mary Cutrufello e la sua inconfondibile voce che segna il finale della canzone. Autrice di un buonissimo ritorno discografico uscito l'anno scorso, e che ha diviso il palco con il duo durante l'ultimo tour italiano. Da qui l'amicizia e la collaborazione.
In viaggio con Hernandez & Sampedro
1) I km nel vostro disco. Il viaggio ha influenzato le vostre canzoni? Luca Hernandez: il viaggio è la vita del musicista. Si percorrono km e km ascoltando musica ( sempre più spesso il luogo in cui si ascoltano i cd è proprio l'auto) in attesa di arrivare sul luogo del concerto e in attesa di tornare a casa.
Durante il viaggio nascono gli spunti per nuove idee, si incontrano persone nuove, si ascoltano racconti. Sicuramente il viaggio ha influenzato in parte questo disco. 2) Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove tornate spesso e volentieri? Luca Hernandez: il tour è la parte più bella di un disco, è il momento in cui ti confronti sia con te stesso che col pubblico è adrenalina, sudore e soddisfazione. In Italia è sempre più difficile, ma penso come nel resto del mondo. Purtroppo c'è sempre meno interesse, attenzione e curiosità verso l'arte in generale. Noi ci riteniamo molto fortunati perchè abbiamo un pubblico davvero caloroso che ci segue durante i nostri "viaggi".
I luoghi dove abbiamo riscosso maggior calore sono sicuramente La Romagna (giochiamo in casa) ma anche Liguria, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Anche nel nostro primo minitour in Germania abbiamo trovato un pubblico speciale. 3) Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita? Luca Hernandez: nella mia vita hanno sempre prevalso le radici, ma ho sempre sognato e a volte provato il vagabondaggio.. chissà se un giorno il vagabondaggio avrà la meglio?! 4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni? Luca Hernandez: beh gli artisti sono davvero molti...sicuramente Sampedro avrebbe voluto aprire Neil Young, suo idolo da sempre. Io avrei voluto aprire i Pearl Jam ( magari un giorno duettare con Eddie Vedder) oppure Bowie. Fra vent'anni vorrei essere proprio come il mio socio Sampedro (abbiamo esattamente vent'anni di differenza), vorrei credere ancora in ciò che faccio, vorrei avere ancora passione per la musica, per la mia musica, vorrei guardarmi alle spalle e vedere si errori, ma sapere di non essermi mai svenduto. Vorrei essere credibile, coerente e ancora felice.. 5) La canzone da viaggio che non manca mai durante i vostri spostamenti. Luca Hernandez: sulla macchina di Sampedro non manca mai Neil Young, la mia è molto più variabile, ma sicuramente un live dei Pearl Jam, un album di Bowie ( molto probabilmente Ziggy Stardust) oppure Social Distortion o Rem...come canzone che mette d'accordo entrambi potremmo essere una a caso di Bruce Springsteen da Born to Run a Born in the Usa.
GRANT-LEE PHILLIPS The Narrows (yepROC Records, 2016)
☆☆☆☆☆
Arrivo un po' in ritardo, ma credo fosse giusto segnalare quello che per me rimane uno dei dischi più ispirati usciti quest'anno in ambito Americana, unitamente a THE WESTERNER di John Doe. I tempi dei Grant Lee Buffalo e dei loro dischi più rappresentativi FUZZY (1993) e MIGHTY JOE MOON (1994) sembrano un lontano ricordo da raccontare a figli e nipoti. La carriera solista, giunta all’ottavo disco, si è invece trascinata tra alti e bassi per troppo tempo ma questa volta Grant-LeePhillips decide di spingersi ancora più indietro per rinascere artisticamente: riparte da Nashville, lì ha scelto di vivere dopo anni trascorsi a L.A., per ritrovare il suo passato e quello remoto dei suoi antenati pellerossa Cherokee. Ne esce uno dei migliori dischi in carriera dove gli ultimi diventano i primi, dove si riflette in modo amaro sulla morte (il disco è dedicato al padre scomparso tre anni fa) e sull’importanza di luoghi (‘Tennesse Rain’) e radici (‘Mocassin Creek’). Le ballate acustiche lente, ipnotiche, nostalgiche e bagnate da lacrime e polvere (la bella ‘Cry, Cry’) fanno più rumore di tante chitarre, che però ogni tanto sembrano ripresentarsi con forti accenti southern (‘Rolling Pin’) o per galoppare sul vecchio cavallo sellato a rockabilly (‘Loaded Gun’). Ad accompagnarlo solo la batteria di Jerry Roe e il basso di Lex Price. Un ritratto estremamente personale e veritierio impresso su disco. Tra le storie che hanno girato di più nel mio stereo in questi primi dieci mesi dell'anno.
E' difficile descrivere a parole quel misto di eterea nostalgia e ribelle provocazione che l'ascolto dei testi di IVAN GRAZIANI mi hanno sempre provocato. Più di qualunque altro cantautore italiano, nonostante l'ascolto delle sue canzoni sia più saltuario rispetto a tanti altri (De Gregori, De André, Fossati, Rino Gaetano). La sua grazia ribelle, ma allo stesso tempo nostalgica e fortemente radicata nel quotidiano, il suo romanticismo delicato quanto, a volte, sanamente sboccato, la sua autoironia mi hanno sempre lasciato qualcosa dentro, qualcosa di assolutamente inspiegabile.Ho provato a capirci qualcosa qualche anno fa a Barolo (CN), quando suo figlio Filippo Graziani, che ha fortemente voluto il disco tributo, si è presentato sul palco prima di un colosso come Patti Smith e ha cantato le canzoni del papà. I risultati furono solo piccole (grandi) scosse di brividi ascoltando 'Firenze', 'Pigro' e 'Lugano Addio'. Mi feci bastare queste vibrazioni e lasciai da parte le domande.O come quel Sanremo del 1985, a cui partecipò con poca convinzione. Quando i suoi grossi e caratteristici occhiali colorati, la sua amata chitarra elettrica (qualcuno avrà un occhio di riguardo per lei, ora?) e il testo di quella fuga d'amore assolutamente in linea con la tradizione rock'n'roll tra ricordi, speranze, murales, ferrovie, vagoni, polizia e un padre incazzato nero nel pop di 'Franca, Ti Amo' mi avevano fatto capire che Graziani era fuori dal comune, e sperare. Sperare che la sua canzone potesse arrivare a vincere quel Festival. Avevo dodici anni e sognavo il rock and roll.
Foto: Cesare Monti
Che delusione vederlo al diciassettesimo posto, poco più in alto di Eugenio Finardi, Mimmo Locasciulli, New Trolls, Zucchero e Garbo. Solo anni dopo capii che gli ultimi di quella classifica sarebbero diventati i primi nella mia. Questa è l'Italia delle canzonette. A Sanremo ci tornò nel 1994 con 'Maledette Malelingue'. Andò meglio.Quando nell'adolescenza i tuoi gusti musicali cambiano come le stagioni, la voce e i vestiti, scopri che dentro l'audiocassetta di IVANGARAGE (1989), comperata per quel titolo così rock, dedica una canzone ai metallari ('I Metallari)', giocando, a suo modo, con i soliti luoghi comuni e tu sei appena tornato a casa con la tua nuova copia di NO PRAYER FOR THE DYING degli Iron Maiden. Un nuovo mito da idolatrare che cantava: "I metallari, condannati a ricucirsi da soli". Quando scopri il sesso e capisci che la sua ostentata, e mai nascosta, ossessione per il corpo femminile con le sue colline bianche e solchi misteriosi, un poco, è anche la tua e quella di tutti i maschietti come te. "Le scarpe da tennis bianche e blu, seni pesanti e labbra rosse ..." da 'Lugano Addio'. "E se tu le vuoi incontrare, uguali come gocce d'acqua Dada la grande e Ivette senza tette, le due cugine strette" da 'Dada'. Il titolo del suo album SENI E COSENI (1981). E poi l'apoteosi finale in 'Poppe, Poppe, Poppe' da MALEDETTE MALELINGUE (1994), il suo ultimo testamento di studio...Oggi, 6 Ottobre 2016, avrebbe compiuto i suoi 71 anni.
Qualche settimana fa, assistendo allo spettacolo teatrale Waterface, dedicato alla “ditch trilogy” di Neil Young (acchiappatelo se vi capita a tiro), mentre passava ‘I Don’t Want To Talk About It’ mi sono domandato: “ma quanto è bella questa canzone?”. Non che avessi bisogno di ulteriori conferme. Esistono cover in grande quantità per capirlo. Dalla prima volta che la ascoltai fino ad oggi, la considero una delle mie canzoni della vita, oppure chiamatela struggente ballata (della vita!) come fa Rod Stewart. Rod Stewart durante il suo primo lungo passo che attraversava l’Atlantico, ne fece una versione che stazionò pure in classifica. “Nel Giugno del 1977 avevo fuori un singolo con due lati A: ‘I Don’t Want To Talk About It’ insieme a ‘The First Cut Is The Deepest’. Due ballate se volete. Il singolo si piazzò al primo posto delle classifiche britanniche per tutto il mese di giugno 1977. E il singolo che restava al secondo posto era ‘God Save The Queen’ dei Sex Pistols. Colpito e affondato”. Così racconta Stewart nell’ autobiografia uscita qualche anno fa. ‘I Don’t Want To Talk About It’ fu scritta da Danny Whitten, un fuoriclasse del rock, ruolo fantasista, che ci ha lasciato troppo presto e con pochi goal nel pallottoliere. Sono proprio le composizioni di Whitten (la straniante e psichedelica ’Look At All The Things’, la galoppante ‘Downtown’ scritta insieme a Neil Young e che poi finirà su TONIGHT’S THE NIGHT, l’oscuro incedere blues di ‘Dirty, Dirty’, la byrdsiana ‘I’ll get You’) a fare da colonna portante a questa prima uscita solista del cavallo pazzo. La forte personalità di Whitten aleggia in tutte le undici tracce pur se complessivamente frutto di un lavoro collettivo . I Crazy Horse, prima Danny And The Memories, poi Rockets (incisero anche un disco nel 1968 con questo nome), avevano già accompagnato Neil Young in EVERYBODY KNOWS THIS IS NOWHERE (1969) e AFTER THE GOLDRUSH (1970) , ma è in questa prima uscita varia e dinamica tra le infinite praterie del rock, e con questa insuperabile formazione, che dimostrarono un potenziale altissimo, e un futuro che sembrava già scritto: diventare uno dei gruppi guida del country rock degli anni settanta. Oltre a Whitten c’erano Billy Talbot al basso, Ralph Molina alla batteria (sua la voce nel contagioso country bluegrass ‘Dance, Dance, Dance’ scritta da Neil Young e che arriverà poi alle orecchie del nostro Roberto Vecchioni, che si prese la musica per la nota ‘Samarcanda’), l’allora giovanissimo Nils Lofgren alle chitarre e firma in 'Nobody' e del rock ‘Beggars Day’ dove canta, il già esperto Jack Nitzsche, produttore, pianista e autore (l’iniziale e roboante ‘Gone Dead Train’-quanto Tom Petty in questa canzone!-e il finale honk tonk ‘Crow Jane Lady’ a cui presta pure la voce). Infine, l’importante chitarra slide di Ry Cooder e il violino di Gib Gilbeau come ospiti.
Nel Novembre del 1972 l’eroina ben travestita da overdose di alcol e valium portò a termine il suo sporco gioco ai danni del ventinovenne Whitten (che nel frattempo, prima del tour di TIME FADES AWAY, fu cacciato dalla band dallo stesso Young con un biglietto da 50 dollari in regalo, destinazione Los Angeles), i Crazy Horse continueranno e incideranno altro ma per tutti rimarranno solo e per sempre il gruppo di Neil Young. “I Crazy Horse stanno a Neil Young come The Band stanno a Bob Dylan” dirà Jack Nitzsche. Il resto della storia la conosciamo: dai qui in avanti tutto giocò, cinicamente, a favore dell’ispirazione di Neil Young (tornando alla “Ditch Trilogy” iniziale) che però… Nella sua autobiografia ‘Il Sogno Di Un Hippie’ chiude il cerchio e cerca di rimarginare una ferita che sembra ancora bruciare intensamente: “All’epoca pensavo che Danny fosse un grande chitarrista e cantante. Ma non avevo idea di quanto fosse grande. Ero troppo pieno di me per capirlo. Oggi lo capisco chiaramente. Vorrei tanto poter fare tutto di nuovo, così ci sarebbero più cose di Danny”. Un disco spesso sottovalutato, schiacciato tra AFTER THE GOLDRUSH, HARVEST e la forte personalità di Neil Young.