giovedì 14 novembre 2013

RECENSIONE: CHET O'KEEFE (Because Of You)

CHET O'KEEFE  Because Of You (Rootsy.Nu/IRD, 2013)


Ombre e luci giocano una partita importante dentro alle liriche del quarantasettenne Chet O'Keefe, cantastorie del Massachusetts giunto al terzo disco. Serpeggia in continuazione un'aura di bieca, grigia e desolata solitudine accompagnata immediatamente da rari sprazzi di sincera vitalità aggregativa e umoristica. Figlio naturale di un padre jazzista, ma in tutto e per tutto della sua vera madre: "la grande e desolata America". Quanto nipote musicale di veri "outlaws" come Guy Clark, John Prine e Town Van Zandt nel suo modo di esporre le emozioni, le storie e la vita in musica; nonostante nasca con la chitarra elettrica in mano, l'incontro con la musica di questi eroi americani così underground quanto importanti fu determinante per imboccare la giusta strada in carriera. Una via di delicati, intimi, quanto aspri e cupi affreschi acustici a partire dalla bellezza dopo il baratro alcolico sfiorato nell'apertura Not Drunk Yet-l'alcol è spesso presente (Drinkin' Day)- che mostrano una mano, nonostante tutto, personale ed originale, quasi da vecchio veterano-il nuovo look con lunga barba ascetica potrebbe ingannare veramente-, affinata ulteriormente grazie alla possibilità avuta, nel tempo, di confrontarsi con i grandi, suonando nella band di Bo Diddley e scrivendo per altri numerosi artisti. Al resto ci ha pensato una vita "vagabonda" che lo ha portato a spostarsi in lungo e in largo: dall'infanzia nel New England, passando per il New Ampshire, a Nashville dove ha scritto i due precedenti dischi e quella  Ring The Bell che lo ha sdoganato ai più, tanto che nel 2010 fu nominata canzone dell'anno dall'Intl Bluegrass Music Association-presente nel precedente disco Game Bird (2010) che vedeva la prestigiosa partecipazione di Nanci Griffith-poi ancora buone esperienze di passaggio nel nord  Europa, fino ad arrivare a Washington dove conduce una vita da eremita senza troppi agi, e dove ha preso forma questo Because Of You.
Esperienze di vita che scavano nella quotidianità delle strade, dei vizi, delle emozioni, del duro "tirare avanti" giornaliero, cercando i protagonisti (oltre a se stesso) tra le vie più nascoste e poco lucenti: pigro girovagare tra i marciapiedi e i locali di Nashville nella folkie Down At The Star Cafe e incursioni tra la dura vita di una giovane madre di tre figli alla ricerca illusoria(?) del vero amore che possa diventare salvifico, protettivo e far svoltare la vita a lento passo di valzer in True Love. Esercizi di buona scrittura (Blue Martin), dove colpisce la fredda e dimessa introspezione della più che buona title track che pare uscire direttamente da The Ghost Of Tom Joad di springsteeniana memoria, e incontenibili fiumi di parole in stile dylaniano che scorrono senza freno in Hick Tech(Nology) e Talkin Kerrville Blues, aiutato dall'essenzialità di una band ridotta all'osso, composta da Lynn Williams (batteria), Mark Fain (basso) e Thomm Jutz (anche produttore) alle chitarre, che confermano l'autenticità di un cantastorie minimalista che dalla scarna intimità riesce a tirare fuori il meglio, spogliandosi di tutto il superfluo.






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lunedì 11 novembre 2013

RECENSIONE:THE QUIREBOYS (Beautiful Curse)

THE QUIREBOYS   Beautiful Curse  (Off Yer Rocka, 2013)


Ci sono band che non hanno bisogno di uscite "alternative" di sicurezza. Ai Quireboys sono sempre bastati i marciapiedi lungo i docks londinesi, i locali fumosi con i banconi appiccicaticci che raccontavano di serate bagorde dove sesso e romanticismo stringevano patti che duravano notti intere. Le loro storie le hanno raccolte tutte lì, lungo quei metri d'asfalto disseminati di mozziconi di sigarette, vetri infranti e romantici petali di rose rosse gettati in pasto al vento, fin dal loro esordio con l'incredibile successo di A Bit Of What You Fancy (1990) che li fece diventare re del rock'n'roll per una sola notte, tra i più credibili epigoni-in quegli anni insieme ai concittadini Dogs D'Amour e ai cugini d'oltreoceano Black Crowes- di tutte quelle band che su quell'asfalto ci lasciarono impronte ben più indelebili (Rolling Stones, Faces, Rod Stewart, Mott The Hopple). Il collante ideale e perfetto tra il colorato hard rock "sleaze" ottantiano e la decadenza del più classico classic rock dei settanta. Da re caddero presto in acqua, non solo per colpa loro naturalmente, trasformandosi presto in pirati del rock'n'roll che navigavano a vista su scialuppe di salvataggio, paladini di un modo retrò di intendere la musica che la modernità ed il voler essere al passo con i tempi, sempre e comunque, non riusciva più a concepire. Fedeli al verbo del rock'n'roll duro e puro, corroso solamente dall'alcol, guidati dalla voce-con il tempo sempre più aspra e raschiosa-e dal carisma di Spike, uno che ne ha cantate tante (se la sua bandana potesse solo parlare...), e da una girandola di comprimari che si sono succeduti in formazione; da alcuni anni hanno ripreso il timone e navigano con sicurezza tra piccole isole sperdute ma sicure, tenute a galla dai devoti fan, e portando avanti la missione in modo onesto come dimostrato nelle recentissime date live italiane. Ora che il mare della modernità si è acquietato, c'è ancora spazio per il loro hard rock'n'roll di vecchio stampo, dove ibridi abrasivi tra AC/DC e Stones ( Too Much Of A Good Thing) con le chitarre in primo piano dell'altro veterano Guy Griffin e di Paul Guerin si sposano alla perfezione con quelle ballate evocative, come si facevano una volta (Mother Mary), sporcate dall'ugola si Spike, tanto
convenzionali e già sentite ma che sogneresti di ascoltare ancora per una volta in un disco di Rod Stewart. Anche la linguaccia sbavante degli Stones fa capolino più volte tra gli honky tonk di King Of Fools e For Crying Out Loud che potrebbero uscire dalle sessions del forzato "esilio" francese di Jagger e soci, al groove irresistibile giocato dalla sezione ritmica (Pip Mailing alla batteria e Nick Mailing al basso) di Diamonds And Dirty Stones che fa l'occhiolino agli Stones più funky e danzerecci.
Una raccolta varia di canzoni sanguigne, coerenti con la loro storia, il loro passato, il loro presente: classic rock songs imbevute nel brandy e perse nell' hammond di Keith Weir (Talk Of The Town, I Died Laughing), di soul blues (Homewreckers And Heartbreakers che era anche il titolo dell'ultimo album uscito nel 2008), perfette drive songs ma con il pensiero ben catalizzato a quell'età maledetta nel rock (Twenty Seven Years), ballate pianistiche (Don't Fight It).
Un disco che emana buona freschezza compositiva, tanto piacevole e
brillante da far sperare che la scialuppa di salvataggio con la bandiera a brandelli che li ha condotti fino ad oggi dopo trent'anni di onorata carriera, si possa trasformare ancora una volta in veliero con le vele spiegate e Spike con i suoi bucanieri possano ridiventare re per almeno un altra notte.





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giovedì 7 novembre 2013

RECENSIONE: JOHNNY FLYNN (Country Mile)

JOHNNY FLYNN   Country Mile (Transgressive Records, 2013)



A Larum, debutto di Johnny Flynn uscito nel 2008 colpì nel segno, facendosi forza trainante di tutto un nuovo movimento folk che stava per invadere e sovraffollare le isole britanniche, riuscendo anche a nuotare oltre oceano e conquistare nuovi approdi. Un disco essenziale e ricco di forti e trascinanti melodie acustiche in chiaro-scuro che mettevano a nudo l'ancor giovane vita di Flynn, un attore teatrale shakespeariano prestato al folk. Un piccolo nuovo talento da coltivare. Il successivo Been Listening (2010)-che in verità ho ascoltato pochissimo- fu il classico passo più lungo della gamba, tanto che il biondo folk singer, dalla faccia perennemente adolescenziale e nato in Sudafrica, sembrò inciampare su arrangiamenti più elaborati, ricchi di strumenti a fiato, ma meno immediati, nonostante il duetto con l'amica Laura Marling in Water valesse da solo il prezzo dell'acquisto. Uno sforzo compositivo apprezzabile ma che sembrò ritorcegli contro piuttosto che lanciarlo definitivamente a livello mondiale, dove invece iniziarono ad impossessarsi della scena i colleghi e amici Mumford And Sons. Un successo quasi inspiegabile, il loro. In questo terzo disco, Flynn fa un passo indietro, a discapito del titolo (Country Mile) e ritrova l'essenzialità folk di quell'esordio senza abbandonare piacevoli incursioni in altri campi come avviene nella trascinante danza tribale Fol-De-Rol dove un organo malandrino imperversa tra la world music e i cori "black". Un disco che fin dall'iniziale title track, una struggente marcia che affonda i piedi nel viaggio, metafora- ma anche qualcosina in più-di vita. Forse ancora alla ricerca di se stesso, Flynn cammina a passo veloce e ben disteso dentro alla vita, cercando nuovi significati e risposte in giro per il mondo: "libero dalle mie radici, mi sono perso nel vento/Il vento sulla montagna e la montagna è mia amica" , sognando ed immaginando un nuovo mondo per lui e per il piccolo figlio da poco nato. Scritto in viaggio tra l'asse Londra-New York, e prodotto interamente da se stesso, Flynn preferisce vestire i panni dell'antico menestrello: After Eliot, Murmuration, Gypsy Hymn, ballata per sola voce e pianoforte con i cori della sorella Lillie Flynn, la bella intuizione di Einstein's Idea con quel "Oh My Darling" che ci fa venire in mente altre cose, la carezzevole melodia di violoncello e violino nella finale Time Unremembered o le adulte atmosfere di Bottom Of The Sea Blues, una delle mie preferite.
Testi pieni di metafore, imprevedibili, fervida immaginazione che a volte travalica un po' troppo, arrangiamenti semplici sui cui si applicano bene interventi a sorpresa di trombe e organo (The Lady Is Risen). Una forma arcaica di canzone che si nutre dai padri Fairport Convention, si mette le vesti buone, melodiche e gentili del pop e approda alle nostre orecchie in modo carezzevole e garbato, senza mai sbavare fuori dal disco. Manca sempre quello scatto in più da vero fuoriclasse (quale potrebbe diventare), ma ciò non toglie la genuinità che pervade le sue composizioni che hanno quell'aura decadente che conquista e ammalia. Il 23 Novembre sarà in Italia per un'unica data al Tunnel di Milano.




vedi anche RECENSIONE:ANDERS OSBORNE-Peace (2013)





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domenica 3 novembre 2013

RECENSIONE:MOTÖRHEAD (Aftershock)

MOTÖRHEAD Aftershock   (UDR, 2013)


"...molti dicono: "una volta ascoltavo i Motörhead", con il sottointeso che, crescendo, non si può più. Be', sono felice che dicano questo perchè non voglio dei fottuti adulti tra il mio pubblico. Sono sempre gli adulti quelli che mandano tutto a puttane. Rispetto a quando avevo venticinque anni non sono cambiato per niente, sono solo diventato più furbo e più saggio...". da La Sottile Linea Bianca, biografia di Lemmy Kilmister.
Caro Lemmy,
una volta ascoltavo i Motörhead. Ora anche. Sai perché? Perché nella vita ci si aggrappa anche alle certezze. Con le unghie consumate e i polpastrelli sanguinanti ma con la forza e la passione che non ti fanno crollare giù. Perché, quando so che arriva il momento di un nuovo disco (regolarmente ogni due anni, questa volta tre)- lo so che arriva, lo so, anche se questa estate hai spaventato tutti cancellando alcune date per motivi di salute-mi catapulto indietro ad ascoltare i vecchi dischi, anche quelli più recenti, quelli riusciti e quelli così così: mi piacciono Sacrifice Inferno ma non butto via nemmeno Hammered o Snake Bite Love. Tanto dicono che i vostri dischi sono tutti uguali, per cui...Ho bisogno di scaldare i motori, di mettere olio ai stantuffi, forse già arrugginiti ma ancora funzionanti, di rientrare in quel mondo fatto di sicurezze, perché so che ci troverò tutto quello che voglio da voi. Un bel poker di pezzi tirati fast and furious (Heartbreaker, il burrascoso speed End Of Time, Paralyzed), quei mid tempo schiacciasassi (Death Machine, il groove di Silence When You Speak To Me non me l'aspettavo e mi elettrizza), quei blues tanto canonici quanto resi unici dalla tua voce inconfondibilmente corrosiva  che si insinua tra il lento incedere di Lost Woman Blues con il finale vorticosamente accelerato, e tra la più psichedelica e fumosa Dust And Glass che catapulta direttamente nei '70 e ricorda le tue origini musicali. Canzoni che potrebbero indicare la strada futura, quando il cuore sarà veramente in panne e chiederà pietà una volta per tutte, il più tardi possibile, naturalmente. Ci sono viaggi oltre frontiera, perché dopo il Brasile- vi ricordate di Going To Brazil del '91?- vai in Messico (Going To Mexico); c'è anche l'amato rock'n'roll delle origini riscritto alla tua maniera (Crying Shame). Avete mai ascoltato Lemmy,Slim Jim & Danny B, disco del 2000 con Lemmy alle prese con i classici del rock'n'roll primigenio? Poi, hard boogie che nemmeno più gli AC/DC riescono a fare (Keep Your Powder Dry) e il punk alla tua maniera (Queen Of The Damned). Gli assoli di Phil Campbell, la batteria da prima linea di Mikkey Dee, la migliore e più longeva formazione di sempre.
C'è pure qualche riempitivo di troppo. Ci sono sempre anche quelli, e questa volta hai esagerato mettendo addirittura 14 canzoni.
E dire che sembrava andare tutto a puttane questa estate. Ma come? Lemmy cancella un tour per motivi di salute? Nessuno ci poteva credere. Forse nemmeno tu ci hai creduto, o forse sì, visto il titolo ironico che hai piazzato all'album, prendendoti beffe del tuo defibrillatore impazzito. Abrasivo, solido con la stessa copertina di sempre, cambiano solo i colori per distinguerle, l'una dall'altra. Perché solo Aces Of Spades (poi venne anche Overnight Sensation che effettivamente non è come il capolavoro della vostra carriera) meritava una copertina senza l'inconfondibile Snaggletooth  .
Perché, alla fine, non c'è miglior cosa di un disco che sai già come suona. Potrei averlo scritto io, mettendoci tutto quello che ho elencato poco più sopra. Difficilmente delude. L'originalità? Veramente c'è ancora qualcuno che la cerca in un disco dei Motörhead? Quando al giorno d'oggi milioni di band di sbarbatelli suona vintage rock vecchio e già sentito e vengono pure osannati? I Motorhead suonavano già vecchio nel lontano 1977. E i vostri coetanei, invece? Negli ultimi quarant'anni si sono sciolti, riuniti, fatto dischi senza un perché e patetici tour di reunion. Voi no.
Troppe domande? Una sola risposta, sempre uguale: Motörhead. E' quello che voglio sentire, almeno una volta ogni due anni.
Intanto, mentre scrivo: il tour sospeso questa estate e rifissato a Novembre è stato nuovamente posticipato nel 2014. Forza Lemmy!





vedi anche RECENSIONE: MOTORHEAD-The World Ir Yours (2010)



martedì 29 ottobre 2013

RECENSIONE: GREG TROOPER (Incident On Willow Street)

GREG TROOPER  Incident On  Willow Street  (Appaloosa Records, IRD, 2013)


Doveroso, prima di tutto, dare un nuovo benvenuto all'etichetta indipendente italiana Appaloosa Records specializzata in "roots" americana fondata nel lontano 1979 dal compianto Franco Ratti che torna, dopo uno stop di alcuni anni, grazie alla passione musicale di Tommaso Demuro, Simone Veronelli (cugino di Ratti) e Andrea Parodi (cantautore e musicista).
A festeggiare nel migliore dei modi ci pensa il nuovo disco del cinquantasettenne songwriter nativo del New Jersey ma girovago per vocazione (New York, Texas e Kansas tra le sue mete di gioventù, poi anche Nashville e soprattutto tanta Europa ad ispirare le liriche), un cantautore tanto rispettato e osannato dai colleghi musicisti (si sono serviti delle sue liriche e hanno speso parole d'elogio personaggi come Steve Earle, Tom Russell, Billy Bragg) quanto con una onesta carriera condotta inspiegabilmente ai margini del successo e della notorietà, nonostante undici dischi sulle spalle dopo l'esordio We Won't Dance del 1986 ed una capacità di scrittura con pochi eguali.
Incident On Willow Street, già uscito in Olanda, ha visto la luce dopo un lungo travaglio, finanziato anche grazie ad una raccolta fondi a New York che la dice lunga sul carattere indipendente che ha sempre caratterizzato la carriera di Trooper, ma che ora, grazie al lavoro dell'etichetta italiana, è nobilitato da un prezioso booklet che riporta le traduzioni in italiano dei testi ed una speciale bonus track: Ireland, canzone registrata live a Houston, in origine presente su Ewerywhere, disco del 1992; un trascinante ballo condotto dalla fisarmonica che ci culla fino all'oscurità, svelando tutto l'amore di Trooper per i suoni della vecchia Europa.
La forza di Trooper è proprio nei testi, ricchi di quella quotidianità da instancabile girovago sempre pronto a scattare fulgide e poetiche istantanee di quello che lo circonda. Un osservatore attento a quel che succede dentro e fuori il cuore dell'umanità.
"Sto Camminando per gli scuri e freddi vicoli della città/Alla ricerca di un uomo onesto/Sto portando una Lampada per i vicoli della città/Alla ricerca di un uomo onesto" canta in One Honest Man. Come nella ballata alla Tom Petty che apre il disco All The Way To Amsterdam (quando una ragazza americana sogna l'Olanda, oppressa da una famiglia che le va troppo stretta); o pieni di autentica introspezione messa in musica, che si tratti di rimpianti verso amori finiti male nella bella giga irlandese Mary Of The Scots In Queens, o sempre amori, finiti, ma affrontati senza versamento di lacrime, con fiducia e ottimismo nella "vanmorrisoniana" Everything's A Miracle, lento valzer notturno che galleggia nel soul. Stregante.
Canzoni che non perdono mai di vista la melodia sia che serpeggi in mezzo al fiume di parole riversate nel talkin' rock'n'roll (Living With You), nelle trascinanti ballate folkie (Good Luck Heart), nelle country songs (Diamond Heart, la tresca amorosa di This Shitty Deal, l'omaggio a tutte le donne in The Girl In The Blue), tra le pedal steel che conducono Amelia e Steel Deck Bridge, o negli affreschi in bianco e nero che sanno di vecchio Grenwich Village (The Land Of No Forgiveness), palestra di strada da frequentare per ogni buon folk singer.
Suonato insieme all'onnipresente Larry Campbell, Kenneth Blevins, Jack Saunders, Oli Rockberger, Stewart Lerman (anche produttore), e con il figlio Jack alla batteria e Lucy Wainwright Roche ai cori.
Dodici canzoni perfette che compongono un album lineare, tradizionale e piacevole, prodotto senza sbavature e senza inutili filler. Canzoni che sanno legare cento anni di musica americana con quel prezioso filo dorato che non tutti possono permettersi, e che, a fine disco, lasciano ancora quella speranzosa fiducia nel futuro. Potere della bellezza. Consigliato.





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vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013) 
 
 


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venerdì 25 ottobre 2013

RECENSIONE: EVASIO MURARO (Scontro Tempo)

EVASIO MURARO   Scontro Tempo ( Dischi VoloLibero, 2013)



Confesso di peccare spesso di superbia con gli amici. Succede quando ci si mette intorno ad un tavolo a disquisire di musica italiana: al fronte dei loro soliti e pochi nomi noti (si proprio quelli!), io snocciolo nomi che loro ignorano ed è quasi un piacere guardare lo sguardo che si tramuta in smorfia a forma di punto di domanda. "Sì ok, ma chi è?". Evasio Muraro rientra nella mia lunga lista. Cantautore che qualcuno ricorderà nei Settore Out, gruppo che insieme a moltissimi altri popolava il bello e prolifico sottobosco del rock italiano nei primi anni novanta, passato poi nei Groovers ed infine, da alcuni anni, come solista dove continua a non sbagliare un colpo, e l'ultima trilogia (Canzoni Per Uomini di Latta-2009 e O Tutto O l'Amore-2010) che questo Scontro Tempo (il quarto in assoluto) va a completare non fa eccezione, a partire dalla confezione in digipack, ricca di un ampio e pantagruelico libretto di circa cento pagine con foto, testi e un bel racconto (Radar) scritto da Marco Denti, ispirato al trascorrere del tempo e alle stesse canzoni di Muraro. Un piccolo concept che mette in fila i giorni, nel teso incedere chitarristico di Scontro Tempo, in Giorni, nell'avanzare tribale di Contiene Il Cielo (un'idea di libertà) che contiene un estratto di Strade Blu di William Least -Heat Moon recitato da Gianni Del Savio; corre incontro alle speranze in Venti Volte e si allontana dalle tristi realtà in Infinito Viaggio (" corro in direzione opposta/da quei fulmini insistenti/e mi lascio alle spalle l'aria umida e inquieta/e mi trovo inaspettatamente all'inizio/del mio viaggio/infinito viaggio"); si fa domande esistenziali (Il Mondo Dimentica).
Cantautore attento e intuitivo, che non si lascia sfuggire nulla di quello che lo circonda ma anche con la spiccata sensibilità nel riversare in testi ad alta gradazione poetica la sua più profonda intimità (Lettera Da Spedire Prima O Poi). Succede così che i temi sociali di fresca attualità come Puzzo di Fame, un rock/blues incisivo che scava tra la dignità perduta di chi ha perso lavoro e stipendio ("...se la sveglia non strilla/ se la luce non brilla/con che coraggio ti guarderò negli occhi domattina...") vada ad affiancarsi a desolati e plumbei affreschi acustici come le memorie personali di Il Maestro E La Sua Chitarra dedicata a Mario Zucca, suo primo maestro di chitarra scomparso pochi anni fa, e di Un Grido, canzone che chiude un disco che proprio di questa alternanza ne fa un valore aggiunto.
Accompagnato dal gruppo FaNs, composto da Fabio Cerbone alle chitarre (belle, presenti e incisive su tutto il disco), Lorenzo Rota al sax, Cucu al basso e Cesare Bernasconi alla batteria, dai cori  dei Gobar, e prodotto in modo magistrale da Chris Eckman dei Walkabouts che attraverso un pregevole lavoro di sottrazione riesce a dare risalto ad ogni componente strumentale facendo suonare il disco in modo asciutto, deciso ma estremamente moderno e avvolgente.
Alla fine, il più grande pregio di Evasio Muraro è proprio quello di riuscire a collocarsi esattamente in mezzo alle due maggiori correnti musicali del panorama musicale italiano: tra il classico cantautorato tricolore ed il rock alternativo. Una posizione privilegiata che meriterebbe ben altri numeri di ascoltatori, anche a scapito di  ridurre la mia superbia con gli amici, magari ci guadagnerei in simpatia.





vedi anche RECENSIONE: MASSIMO PRIVIERO-Ali Di Libertà (2013)




domenica 20 ottobre 2013

RECENSIONE: JOE GRUSHECKY (Somewhere East Of Eden)


JOE GRUSHECKY  Somewhere East Of Eden   (Schoolhouse Records, 2013)

Joe Grushecky ha sempre avuto il passo dei grandi songwriter americani, solo la fama è corsa più veloce, lasciandolo indietro. Troppo indietro. I veri misteri del rock sono anche questi. Ma poco importa, perché a chi lo segue fin dal suo esordio solista, passando ancor prima per i dischi insieme agli Iron City Houserockers (il vero debutto è Love's So Tough del 1979), questo diciassettesimo lavoro consente di segnare un'altra piccola tacca nella lavagna che ci ricorda i duri e puri con le palle e il cuore grandi così. Il cantautore di Pittsburgh ha tagliato il traguardo dei sessant'anni e si vede costretto a dare un'occhiata intorno e dietro a sé: prende il titolo dall'amato romanzo East of Eden di John Steinbeck, rimane colpito dai seri problemi di droga e alcol di un veterano della guerra in Iraq, ci scrive una canzone dal taglio rock (Somewhere East Of Eden) che diventa anche il titolo dell'album-già in odor di classico- e da lì in avanti non si ferma più. Nascono canzoni sincere, sudate, viscerali e genuine, coerenti con la sua carriera da "duro e puro", come sempre, scritte con il braccio che sconfina dalla parte dei più deboli, gli ultimi, gli emarginati: c'è il veterano, ma anche il working class hero che si fa un sedere tanto al lavoro mentre quello che ottiene indietro dalla vita è il diavolo che gli bussa continuamente alla porta, ci sono i bambini ai quali insegna (la solitaria e acustica The First Day Of School), ci sono le nuove generazioni di musicisti come quella del giovane figlio ventenne in cui si immedesima e lascia idealmente il testimone (Changhing Of The Guard), c'è lui stesso nell'autoironico rock'n'roll/doo-wop acustico I Still Good (For Sixty), c'è la crisi dei tempi duri.
"Sono nato per il rock" canta in modo inequivocabile in I Was Born To Rock dal taglio diretto e "garagista", e capisci che ha ragione, ascoltando tutti quei tosti blue collar rock-la sua specialità- (I Can Hear The Devil Knocking, Who Cares About Those Kids) con le chitarre elettriche in primo piano, quelle che vorremmo tanto sentire nelle canzoni dell'amico fraterno Bruce Springsteen (che gli produsse uno dei migliori dischi in carriera, American Babylon del 1995).
Ma non solo, Somewhere East Of Eden è tra i lavori più vari della sua discografia, "il migliore" dice lui, peccando in buona fede della famosa sindrome da "elogio all'ultimo nato", tanto che già alla terza traccia piazza una spiazzante versione a cappella con percussioni in loop del traditional blues/gospel John The Revelator, e poi il soul di Save The Last Dance For Me  portata al successo dai Drifters, il funk di Prices Going Up, oppure come in When Castro Came down From The Hills dove nasconde tracce di musica cubana nelle percussioni ed in una tromba che serpeggiano tra le strade dell'Havana nel lontano e seppiato 1958, anno della rivoluzione. Canzone stupenda dal taglio cinematografico.
Non lo troverete mai nelle grandi arene rock, ma più probabilmente nel pub sotto casa, dalle undici di sera in avanti. Lo stivale che batte il tempo sulle assi è il segnale d'inizio. Non perdetevelo.




vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013) 




vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)




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vedi anche RECENSIONE/REPORT Live GRAHAM PARKER live@ Suoneria, Settimo Torinese(TO), 11 Ottobre 2013



vedi anche RECENSIONE: GREG TROOPER-Incident On Willow Street (2013)





giovedì 17 ottobre 2013

RECENSIONE: KINGS OF LEON (Mechanical Bull)

KINGS OF LEON  Mechanical Bull  (RCA Records/Sony Music, 2013)

Abbandonato o superato lo status di "band sull'orlo di una crisi di nervi" che ne ha caratterizzato gli ultimi due anni di travagliata carriera, la famiglia Followill si rimetta nella giusta carreggiata, riuscendo anche a dare una piccola scossa (comunque senza troppe esagerazioni, chi non li ha mai amati continuerà a farlo, sia chiaro) alla pochezza musicale degli ultimi due lavori in studio. Il grande ed inaspettato successo mondiale sembrava essere piombato quasi a sorpresa sui testoni dei tre fratelli  Caleb, Nathan e Jared e su quella del cugino Matthew, cogliendoli impreparati, sommersi da troppi impegni promozionali e attratti dai più convenzionali vizi delle rockstar cattive e "arrivate" che alla lunga hanno portato più danni che benefici (una "malattia" contagiosa che sta colpendo anche i Mumford & Sons che hanno appena annunciato una lunga pausa "purificatrice" per gli stessi identici motivi-non tutti nascono Keith Richards) piuttosto che seguire umilmente il buon percorso intrapreso fin dal debutto che prometteva strade meno mainstream, artificiose e "poppeggianti" ma più malconce e polverose. Strade presto interrotte per lavori in corso. Incapaci di portare in giro per il mondo l'ingombrante titolo di band planetaria che qualcuno voleva cucire loro addosso, sono riusciti a smarcarsi, prendendo le distanze in estremis-almeno apparentemente- dalla compagnia delle più acclamate pop e rockstar mondiali che occupano stabilmente le grandi arene. E dire che un po' erano andati a cercarsele le grane: dopo un paio di dischi (il debutto Youth And Young Manhood-2003 ed il seguito Aha Shake Heartbreak-2004), sì derivativi e poco originali, ma comunque puri e genuini che sembravano proiettarli sulle stesse vie vintage e terrose del southern rock'n'roll come la loro terra natia, il Tennessee, imponeva, le stesse che il padre e zio, predicatore pentecostale, avrà percorso mille volte in vita. Entrarono invece dalla porta principale del successo con tormentoni indie/pop viziosi come  Sex On Fire (da loro stessi ripudiato in tempi recenti) e Use Somebody. Ecco, le hits: i tormentoni sono quelli che mancano in questo sesto lavoro della band che riesce a recuperare un po' del passato, con il ritorno delle chitarre incisive e rock, quelle che escono prepotenti fin dall'avvio Supersoaker, ma soprattutto da Don't Matter dal tiro garage punk diretto e senza fronzoli quasi alla QOTSA, nell'accattivante blues con le buone chitarre di Rock City, dalla melodia  in crescendo di Temple, ma anche da una sezione ritmica che martella a dovere nel funkettone Family Tree che si imparenta con il soul e il gospel.
Il resto sono notturne ballads: qualcuna riuscita come Wait For Me, altre come Comeback Story puntellata da arrangiamenti orchestrali troppo melensi, Tonight e Coming Back Again fanno l'occhiolino un po' troppo agli U2, On The Chin sfiora il country senza mai incontrarlo.
Purtroppo gli scossoni non bastano a cancellare del tutto quello che reputo uno dei maggiori difetti della band: quella piattezza che si trasforma-alle mie orecchie- in calo d'interesse che da metà disco in avanti inizia a prevalere (sarà  una loro scelta ponderata?) e che non riesce a convincermi in modo totalitario. I segni di ripresa ci sono, cercateli tutti nella prima parte di disco, ma ci sono.




vedi anche RECENSIONE:THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)




vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)




sabato 12 ottobre 2013

RECENSIONE/REPORT LIVE: GRAHAM PARKER live @ Suoneria, Settimo Torinese (TO) 11 Ottobre 2013

"Non fatemi domande". Se proprio volete farne una, chiedetemi come è andata la serata. Volete farne un'altra? Chiedete alla gente là fuori, perché Graham Parker non è mai diventato la grande star che meritava d'essere: veramente tutta colpa delle etichette discografiche? O ha pagato a caro prezzo-quello della impopolarità sulla lunga distanza perché i suoi esordi fecero un grande eco- la sua sanguigna perseveranza nel non scendere a compromessi, infischiandone sempre di tutto e tutti, in primis delle etichette, quelle musicali questa volta. Alla prima domanda saprò rispondervi, all'altra nessuno ci riuscirà; durante la serata anche lo stesso Parker ci scherzerà su, presentandoci ironicamente una canzone (non ricordo più quale) come il suo più grande successo in Italia, la "numero uno" come dice lui simpaticamente, pretendendo le giuste ovazioni  ed esultanze, quelle che si concedono solamente agli evergreen immortali. Costringendoci a bluffare al suo comando.
Abbandonata per una volta la solita "routine" del venerdì sera al pub, mi abbandono tra la musica di qualcuno che in Inghilterra nella seconda metà degli anni settanta, del "pub rock"(che vuole dire tutto e niente, soprattutto oggi) ha fatto il suo vessillo e che i fine settimana li trasformava in esibizioni incandescenti dove rock'n'roll, punk, RnB, soul, pop, reggae e la nascente new wave si univano in una miscela esplosiva di carica, urgenza, energia, sfrontatezza, sudore, romanticismo e genuinità che in quegli anni non avevano tanti eguali. In anticipo sul nascente punk inglese con il suo debutto Howlin'Wind (1976), ma troppo musicista per rientrare in quella scena, è spesso accomunato ad altri due notevoli personaggi del periodo, quasi fossero una sacra triade: Elvis Costello, Joe Jackson e Graham Parker. Parker è lo spirito santo, quello che c'è ma non si vede. Un inglese arrabbiato, romantico e disincantato che sognava l'America, il successo a stelle e strisce. Rimarrà solo un sogno, tanto che perfino Bruce Springsteen (che prestò la sua voce in Endless Night, canzone contenuta nel perfetto The Up Escalator del 1980)  si è spesso domandato il perché di tutta questa indifferenza. Ci andò poi a vivere in America, sul finire degli anni '80.
Alex Seel
2013. Poteva essere il momento giusto per vedere all'opera Parker con i suoi Rumour. Il disco della reunion dopo trent'anni di silenzio, il più che buono Three Chords Good uscito solo l'anno scorso meritava di toccare anche l'Italia. Non è stato così: il sessantaduenne artista londinese, assente dai nostri palchi da una quindicina d'anni, si presenta da lupo solitario (come avvenne già con Live! Alone In America del 1989) in un concerto che non sarà di quelli sudati e tirati come in quei fulminanti esordi, ma quello di un maturo e autoironico signore dal carattere spigoloso limato dal trascorrere degli anni, con tantissimi dischi alle spalle, diciamo pure una infinità-lo stesso Parker scherzerà sulla sua prolificità durante la serata- una voce ancora più caratterizzante e marchiata in positivo dal tempo, tante storie ed un bel presente da raccontare, tanto che l'ultimo disco con  i Rumour è ben rappresentato in scaletta (Stop Cryin' About The Rain, Old Soul, Long Emotional Ride) e fa una buonissima figura incastrato tra i vecchi successi durante i due set (acustico ed elettrico) che hanno dato vita  ai 90 minuti dell'esibizione, preceduta dal talento chitarristico del britannico Alex Seel che ha avuto il tempo di dimostrare la sua bravura di virtuosista in acustico ma anche di compositore gentile, poetico e crepuscolare, dalla voce sognante. Notevole la sua riproposizione di There's A Rhythm di Ron Sexsmith. Spero di sentirne parlare ancora. Merita.
Parker, dal canto suo ci mette poco per conquistare l'audience, dopo Watch The Moon Come Down che apre alla grande, alla terza canzone ha già fatto breccia nei nostri cuori: ringranziando il pubblico-alla fine numeroso e partecipe-che in una serata da tregenda segnata da tuoni, fulmini e secchiate d'acqua, ha abbandonato il tepore domestico per venire da lui nella accogliente e bella sala-a misura di musica-"Combo" del centro polivalente Suoneria di Settimo Torinese, alla porte di Torino e che farà lo stesso, armato di coraggio ma con il sorriso stampato, per fare ritorno a casa. Per tutta la serata le sue spiccate doti ironiche da entertainer usciranno prepotenti, accompagnando le canzoni: vecchi ricordi, divertenti battute su quanto sia difficile suonare il kazoo per un "vecchietto" come lui, strumento che per una canzone, la countryeggiante Last Bookstore In Town, sostituisce l'armonica, sketch sulla personalizzata chitarra elettrica color rosa "la sua parte femminile" dice, sbeffeggia pure i suoni plastificati degli anni ottanta, "grandi anni per il rock" ironizza, imitando con la voce il suono tipico delle batterie "synthetizzate" dell'epoca da cui, alla fine, sono passati tutti, ed esorcizzando il tutto tirando fuori un rock'n'roll alla vecchia maniera estrapolato dal suo album uscito in pieni anni ottanta, Steady Nerves (1985).
Tra il reggae di Problem Child,  una stupenda Lady Doctor, un breve accenno a Here Comes The Sun (i Beatles furono la scintilla primordiale come per gran parte della sua generazione) sul finire di Don't Let It Break You Down,  Life Gets Better, il finale, dopo una breve uscita, è tutto per Heat Treatment, e l'immancabile Don't Ask Me Questions.
Un venerdì da incorniciare, e se mi avete fatto la domanda "come è andata la serata?", vi rispondo con sole tre parole, parafrasando i"tre accordi buoni" nel titolo del suo ultimo album: prezioso, anima e cuore. Ci aggiungo un enorme "rispetto".

lunedì 7 ottobre 2013

RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Peace)

ANDERS OSBORNE  Peace  (Alligator Records, 2013)


Una candidatura per la copertina dell'anno se l'è assicurata. Per il disco dell'anno, la lotta è più dura, ma il songwriter e (ottimo) chitarrista Anders Osborne-già abituato a premi e riconoscimenti-ci prova con il dodicesimo disco in carriera, il quarto consecutivo uscito per la Alligator Records, prodotto insieme a Warren Riker: undici canzoni multiformi e piacevoli, da centro al primo ascolto, che seguono a breve distanza il recente buonissimo EP acustico Three Free Amigos uscito a inizio anno. Un buon periodo di vita che lo stesso cantautore svedese, di casa a New Orleans da più di venticinque anni, indica come uno dei più solari e "cool" della carriera: "la pace è la luce dalle tenebre. Sto scrivendo da una prospettiva più luminosa. C'è meno crepuscolo e oscurità, molta più luce solare. I risultati sono più grandi di quanto mi aspettassi...". Difficile contraddirlo. Bastano le due tracce iniziali per verificare la marcata eterogeneità del lavoro e di una carriera tutta: l'iniziale elettro-acustica Peace, sembra portata a riva dalle stesse profonde onde chitarristiche di Neil Young che bagnavano acidamente On The Beach, la stessa chitarra istintiva ricama i sette epici minuti necessari a Osborne per  ritrovare la tanto agognata pace interiore che va cercando e che ci conducono alla successiva e ugualmente autobiografica 47 (i suoi anni), canzone lanciata come singolo che, come tale, viaggia tranquilla sul rassicurante groove funk, anche un po' gigione, puntellata dalla suadente voce, fino all'assolo di chitarra piazzato nel finale. La vocalità sardonicamente soul (Let It Go), la sempre presente e ficcante stratocaster, il campionario musicale continua ad essere quella visionario di sempre ma concretamente aggrappato alla terra e ai sentimenti più umani e terreni, come il racconto di una vera sparatoria, uscente come fresca cronaca nera da Five Bullets o le tante dediche alla famiglia: alla adorata moglie in  Sarah Anne, alla madre in Sentimental Times, e al figlio nella esplicita My Son; cartine al tornasole che ci confermano quanto il cantautore domiciliato in Lousiana stia attraversando una fase estremamente positiva della propria vita. Positività che non ha inficiato per nulla la sua arte, creando invece nuovi spazi da cui attingere creatività. Anche il sole può ispirare. 
Non più la sorpresa di Which Way To Here (1995) e  Living Room (1999), ma sulla stessa linea delle conferme come i recenti molto più cupi e scuri American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy(2012), con un ampio caleidoscopio da funamboliere della musica che gli permette di passare dal rock acido di Let It Go, agli scarabocchi da studio di registrazione di Brush Up Against Me, all'accecante trip solare dentro all'oscurità di Windows, al pop beatlesiano di Dream Girl che si prolunga ottimamente nella jam finale, al crossover "boombastico" in pieno stile '90 alla RHCP della già citata Five Bullets, alle atmosfere solari, caraibiche, in levare di Sarah Anne , i ricordi estremamente personali sulla madre scomparsa  dieci anni fa nella sentimentale e sixties-con quelle tastiere a ricordare 'A Whiter Shade Of Pale'- Sentimental Times, la semplicità acustica di I'm Ready. Tutto, con la capacità innata di stupire grazie a soluzioni musicali mai scontate e sorprese presenti dietro ogni piccolo angolo: che siano i fiati (il sax in Windows), fiammate di B3 o suoi assoli. 
Versatilità e profondità in un corpo solo. Anche se Anders Osbourne inizia a fare i conti con gli anni che se ne vanno ed un certo smarrimento da "giro di boa imminente" ("...non succede nulla a 47 anni/ Sto camminando nel grande, grande parco/Scavando nel mio profondo cuore debole/ Sto cercando aiuto" canta in 47), riesce ad aggrapparsi agli affetti più cari e ce ne rende partecipi, con somma gioia per le orecchie. Ancora una volta.


vedi anche RECENSIONE: JJ GREY & MOFRO-This River (2013)




vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)


mercoledì 2 ottobre 2013

RECENSIONE: MASSIMO PRIVIERO ( Ali Di Libertà)

MASSIMO PRIVIERO  Ali Di Libertà (MPC Records, 2013)

Nella bella confezione che accompagna il disco, c'è la presentazione di Massimo Priviero, uno scritto semplice, sentito e profondo-come i suoi testi- che spiega quanto  Ali Di Libertà sia uno dei suoi dischi più autobiografici in carriera. Ma una frase mi ha colpito più di altre: "tante volte in questa vita sono caduto ed altrettante mi sono rialzato". Poche parole che sembrano racchiudere anche il mio rapporto da ascoltatore con il cantautore veneto, un incontro fatto di alti e bassi, interesse e amnesie. Dopo lo sfolgorante esordio San Valentino (1988) seguito da Nessuna Resa Mai (1990), quello prodotto da Little Steven (E Street Band), dischi che aprirono più di una porta a tutti quei cantautori italiani con la musica americana nel cuore, lo persi di vista, facendomi bastare la sua seconda opera che, ancora oggi, venero e considero uno dei migliori dischi italiani usciti negli anni novanta. Uno di quei dischi da "avere", e Dio solo sa che fatica fu ritrovarlo in CD dopo aver consumato una vecchia e logora musicassetta. L'interesse è tornato prepotente in tempi recenti con Dolce Resistenza (2006) disco "impegnato" che ha rappresentato anche una forte rinascita artistica. Negli ultimi anni è stato prolifico in quantità e qualità: Rock And Poems (2007) è un disco di cover che rileggeva i suoi miti musicali, Sulla Strada (2009) un best of con inediti e vecchi brani risuonati, Rolling Live (2010) un monumentale live -ed io che lo vidi per la prima volta durante un sabato sera qualunque in un piccolissimo locale sperduto tra le risaie vercellesi-fino a FolkRock (2012), ultimo ed ottimo lavoro in compagnia di Michele Gazich (presente anche qui con il suo violino) che sembra rappresentare il  nuovo punto di partenza musicale per affrontare il futuro con tutta la libertà artistica che lo ha contraddistinto, permettendogli di smarcarsi dalle logiche di mercato, certamente più remunerative, ma imprigionanti. Il folk ed il rock si mischiano e si contagiano fin dall'apertura Ali Di Libertà, toccando il culmine in Libera Terra-a)La Forza b)Il Sogno (con tanto di cornamusa suonata da Keith Eisdale).
In Ali Di Libertà ci sono tutte le tracce della carriera di un cantautore coerente, passionale, onesto che è andato sempre diritto per la sua strada- con relative cadute e passi falsi (Priviero del 1998 non l'ho mai digerito)- seguendo le orme dei grandi modelli americani ma riuscendo a creare il solco per una propria via al rock, con il tempo diventata riconoscibilissima, mai assservita a facili e illusorie scorciatoie per arrivare al grande pubblico-come meriterebbe-ma andando incontro ai fan senza scendere a compromessi, avvicinandoli e spronandoli con la sola forza della passione e facendo leva sui veri valori della vita.
Ecco che rock elettrici e diretti: gridano rabbia e libertà a voce alta come In Verità (con la chitarra di Paolo Bonfanti), ricca dei suoi sapori irish, diventano nuovi inni da palcoscenico come Alzati, un urlo forte e chiaro, un invito a farsi sentire in mezzo ai ruderi morenti di tutte le speranze, con la chitarra elettrica di Alex Cambise a graffiare. " Ho visto un vecchio al mercato, chiedere il costo della pazzia, ho visto figli chiedere sogni che dare a loro tu non potrai, ho visto padri senza più voce, dire che l'alba non nasce mai...".
Tutta l'intimità esce invece dalla forza delle ballate: preghiere come Madre Proteggi, legata tanto alla fede quanto al cordone ombelicale degli "ultimi", cartoline d'amore sbiadite dal tempo nella pianistica e springsteeniana Il Mare, i ricordi interiori, narrativi e autobiografici  di La Casa Di Mio Padre, la folkie e solitaria bonus track Bacio D'Addio.
foto: Cristina Arrigoni
E poi c'è Occhi Di Bambino, un folk in crescendo che mano a mano sale di intensità, indicando la strada ed i giusti valori da seguire a tutte le nuove generazioni tra cui quella del giovane figlio Tommy che partecipa suonando la chitarra acustica: "non l'amore, non i soldi, non la fede, non la fama, datemi...la libertà". Credo sia la canzone che rappresenti meglio Massimo Priviero oggi, mi sbilancio nell'indicarla come una delle sue migliori canzoni di sempre.
Partendo dai "marciapiedi di una città" fino ad arrivare alla sua parte di cuore più intimamente nascosta, il cammino è stato lungo ed impegnativo, ma il cartello con la scritta arrivo è ancora lontano e le ali non hanno ancora smesso di sbattere.




vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake UpNation (2013) 




vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)