KINGS OF LEON Mechanical Bull (RCA Records/Sony Music, 2013)
Abbandonato o superato lo status di "band sull'orlo di una crisi di nervi" che ne ha caratterizzato gli ultimi due anni di travagliata carriera, la famiglia Followill si rimetta nella giusta carreggiata, riuscendo anche a dare una piccola scossa (comunque senza troppe esagerazioni, chi non li ha mai amati continuerà a farlo, sia chiaro) alla pochezza musicale degli ultimi due lavori in studio. Il grande ed inaspettato successo mondiale sembrava essere piombato quasi a sorpresa sui testoni dei tre fratelli Caleb, Nathan e Jared e su quella del cugino Matthew, cogliendoli impreparati, sommersi da troppi impegni promozionali e attratti dai più convenzionali vizi delle rockstar cattive e "arrivate" che alla lunga hanno portato più danni che benefici (una "malattia" contagiosa che sta colpendo anche i Mumford & Sons che hanno appena annunciato una lunga pausa "purificatrice" per gli stessi identici motivi-non tutti nascono Keith Richards) piuttosto che seguire umilmente il buon percorso intrapreso fin dal debutto che prometteva strade meno mainstream, artificiose e "poppeggianti" ma più malconce e polverose. Strade presto interrotte per lavori in corso. Incapaci di portare in giro per il mondo l'ingombrante titolo di band planetaria che qualcuno voleva cucire loro addosso, sono riusciti a smarcarsi, prendendo le distanze in estremis-almeno apparentemente- dalla compagnia delle più acclamate pop e rockstar mondiali che occupano stabilmente le grandi arene. E dire che un po' erano andati a cercarsele le grane: dopo un paio di dischi (il debutto Youth And Young Manhood-2003 ed il seguito Aha Shake Heartbreak-2004), sì derivativi e poco originali, ma comunque puri e genuini che sembravano proiettarli sulle stesse vie vintage e terrose del southern rock'n'roll come la loro terra natia, il Tennessee, imponeva, le stesse che il padre e zio, predicatore pentecostale, avrà percorso mille volte in vita. Entrarono invece dalla porta principale del successo con tormentoni indie/pop viziosi come Sex On Fire (da loro stessi ripudiato in tempi recenti) e Use Somebody. Ecco, le hits: i tormentoni sono quelli che mancano in questo sesto lavoro della band che riesce a recuperare un po' del passato, con il ritorno delle chitarre incisive e rock, quelle che escono prepotenti fin dall'avvio Supersoaker, ma soprattutto da Don't Matter dal tiro garage punk diretto e senza fronzoli quasi alla QOTSA, nell'accattivante blues con le buone chitarre di Rock City, dalla melodia in crescendo di Temple, ma anche da una sezione ritmica che martella a dovere nel funkettone Family Tree che si imparenta con il soul e il gospel.
Il resto sono notturne ballads: qualcuna riuscita come Wait For Me, altre come Comeback Story puntellata da arrangiamenti orchestrali troppo melensi, Tonight e Coming Back Again fanno l'occhiolino un po' troppo agli U2, On The Chin sfiora il country senza mai incontrarlo.
Purtroppo gli scossoni non bastano a cancellare del tutto quello che reputo uno dei maggiori difetti della band: quella piattezza che si trasforma-alle mie orecchie- in calo d'interesse che da metà disco in avanti inizia a prevalere (sarà una loro scelta ponderata?) e che non riesce a convincermi in modo totalitario. I segni di ripresa ci sono, cercateli tutti nella prima parte di disco, ma ci sono.
vedi anche RECENSIONE:THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)
giovedì 17 ottobre 2013
sabato 12 ottobre 2013
RECENSIONE/REPORT LIVE: GRAHAM PARKER live @ Suoneria, Settimo Torinese (TO) 11 Ottobre 2013
"Non fatemi domande". Se proprio volete farne una, chiedetemi come è andata la serata. Volete farne un'altra? Chiedete alla gente là fuori, perché Graham Parker non è mai diventato la grande star che meritava d'essere: veramente tutta colpa delle etichette discografiche? O ha pagato a caro prezzo-quello della impopolarità sulla lunga distanza perché i suoi esordi fecero un grande eco- la sua sanguigna perseveranza nel non scendere a compromessi, infischiandone sempre di tutto e tutti, in primis delle etichette, quelle musicali questa volta. Alla prima domanda saprò rispondervi, all'altra nessuno ci riuscirà; durante la serata anche lo stesso Parker ci scherzerà su, presentandoci ironicamente una canzone (non ricordo più quale) come il suo più grande successo in Italia, la "numero uno" come dice lui simpaticamente, pretendendo le giuste ovazioni ed esultanze, quelle che si concedono solamente agli evergreen immortali. Costringendoci a bluffare al suo comando.
Abbandonata per una volta la solita "routine" del venerdì sera al pub, mi abbandono tra la musica di qualcuno che in Inghilterra nella seconda metà degli anni settanta, del "pub rock"(che vuole dire tutto e niente, soprattutto oggi) ha fatto il suo vessillo e che i fine settimana li trasformava in esibizioni incandescenti dove rock'n'roll, punk, RnB, soul, pop, reggae e la nascente new wave si univano in una miscela esplosiva di carica, urgenza, energia, sfrontatezza, sudore, romanticismo e genuinità che in quegli anni non avevano tanti eguali. In anticipo sul nascente punk inglese con il suo debutto Howlin'Wind (1976), ma troppo musicista per rientrare in quella scena, è spesso accomunato ad altri due notevoli personaggi del periodo, quasi fossero una sacra triade: Elvis Costello, Joe Jackson e Graham Parker. Parker è lo spirito santo, quello che c'è ma non si vede. Un inglese arrabbiato, romantico e disincantato che sognava l'America, il successo a stelle e strisce. Rimarrà solo un sogno, tanto che perfino Bruce Springsteen (che prestò la sua voce in Endless Night, canzone contenuta nel perfetto The Up Escalator del 1980) si è spesso domandato il perché di tutta questa indifferenza. Ci andò poi a vivere in America, sul finire degli anni '80.
2013. Poteva essere il momento giusto per vedere all'opera Parker con i suoi Rumour. Il disco della reunion dopo trent'anni di silenzio, il più che buono Three Chords Good uscito solo l'anno scorso meritava di toccare anche l'Italia. Non è stato così: il sessantaduenne artista londinese, assente dai nostri palchi da una quindicina d'anni, si presenta da lupo solitario (come avvenne già con Live! Alone In America del 1989) in un concerto che non sarà di quelli sudati e tirati come in quei fulminanti esordi, ma quello di un maturo e autoironico signore dal carattere spigoloso limato dal trascorrere degli anni, con tantissimi dischi alle spalle, diciamo pure una infinità-lo stesso Parker scherzerà sulla sua prolificità durante la serata- una voce ancora più caratterizzante e marchiata in positivo dal tempo, tante storie ed un bel presente da raccontare, tanto che l'ultimo disco con i Rumour è ben rappresentato in scaletta (Stop Cryin' About The Rain, Old Soul, Long Emotional Ride) e fa una buonissima figura incastrato tra i vecchi successi durante i due set (acustico ed elettrico) che hanno dato vita ai 90 minuti dell'esibizione, preceduta dal talento chitarristico del britannico Alex Seel che ha avuto il tempo di dimostrare la sua bravura di virtuosista in acustico ma anche di compositore gentile, poetico e crepuscolare, dalla voce sognante. Notevole la sua riproposizione di There's A Rhythm di Ron Sexsmith. Spero di sentirne parlare ancora. Merita.
Parker, dal canto suo ci mette poco per conquistare l'audience, dopo Watch The Moon Come Down che apre alla grande, alla terza canzone ha già fatto breccia nei nostri cuori: ringranziando il pubblico-alla fine numeroso e partecipe-che in una serata da tregenda segnata da tuoni, fulmini e secchiate d'acqua, ha abbandonato il tepore domestico per venire da lui nella accogliente e bella sala-a misura di musica-"Combo" del centro polivalente Suoneria di Settimo Torinese, alla porte di Torino e che farà lo stesso, armato di coraggio ma con il sorriso stampato, per fare ritorno a casa. Per tutta la serata le sue spiccate doti ironiche da entertainer usciranno prepotenti, accompagnando le canzoni: vecchi ricordi, divertenti battute su quanto sia difficile suonare il kazoo per un "vecchietto" come lui, strumento che per una canzone, la countryeggiante Last Bookstore In Town, sostituisce l'armonica, sketch sulla personalizzata chitarra elettrica color rosa "la sua parte femminile" dice, sbeffeggia pure i suoni plastificati degli anni ottanta, "grandi anni per il rock" ironizza, imitando con la voce il suono tipico delle batterie "synthetizzate" dell'epoca da cui, alla fine, sono passati tutti, ed esorcizzando il tutto tirando fuori un rock'n'roll alla vecchia maniera estrapolato dal suo album uscito in pieni anni ottanta, Steady Nerves (1985).
Tra il reggae di Problem Child, una stupenda Lady Doctor, un breve accenno a Here Comes The Sun (i Beatles furono la scintilla primordiale come per gran parte della sua generazione) sul finire di Don't Let It Break You Down, Life Gets Better, il finale, dopo una breve uscita, è tutto per Heat Treatment, e l'immancabile Don't Ask Me Questions.
Un venerdì da incorniciare, e se mi avete fatto la domanda "come è andata la serata?", vi rispondo con sole tre parole, parafrasando i"tre accordi buoni" nel titolo del suo ultimo album: prezioso, anima e cuore. Ci aggiungo un enorme "rispetto".
Abbandonata per una volta la solita "routine" del venerdì sera al pub, mi abbandono tra la musica di qualcuno che in Inghilterra nella seconda metà degli anni settanta, del "pub rock"(che vuole dire tutto e niente, soprattutto oggi) ha fatto il suo vessillo e che i fine settimana li trasformava in esibizioni incandescenti dove rock'n'roll, punk, RnB, soul, pop, reggae e la nascente new wave si univano in una miscela esplosiva di carica, urgenza, energia, sfrontatezza, sudore, romanticismo e genuinità che in quegli anni non avevano tanti eguali. In anticipo sul nascente punk inglese con il suo debutto Howlin'Wind (1976), ma troppo musicista per rientrare in quella scena, è spesso accomunato ad altri due notevoli personaggi del periodo, quasi fossero una sacra triade: Elvis Costello, Joe Jackson e Graham Parker. Parker è lo spirito santo, quello che c'è ma non si vede. Un inglese arrabbiato, romantico e disincantato che sognava l'America, il successo a stelle e strisce. Rimarrà solo un sogno, tanto che perfino Bruce Springsteen (che prestò la sua voce in Endless Night, canzone contenuta nel perfetto The Up Escalator del 1980) si è spesso domandato il perché di tutta questa indifferenza. Ci andò poi a vivere in America, sul finire degli anni '80.
Alex Seel |
Parker, dal canto suo ci mette poco per conquistare l'audience, dopo Watch The Moon Come Down che apre alla grande, alla terza canzone ha già fatto breccia nei nostri cuori: ringranziando il pubblico-alla fine numeroso e partecipe-che in una serata da tregenda segnata da tuoni, fulmini e secchiate d'acqua, ha abbandonato il tepore domestico per venire da lui nella accogliente e bella sala-a misura di musica-"Combo" del centro polivalente Suoneria di Settimo Torinese, alla porte di Torino e che farà lo stesso, armato di coraggio ma con il sorriso stampato, per fare ritorno a casa. Per tutta la serata le sue spiccate doti ironiche da entertainer usciranno prepotenti, accompagnando le canzoni: vecchi ricordi, divertenti battute su quanto sia difficile suonare il kazoo per un "vecchietto" come lui, strumento che per una canzone, la countryeggiante Last Bookstore In Town, sostituisce l'armonica, sketch sulla personalizzata chitarra elettrica color rosa "la sua parte femminile" dice, sbeffeggia pure i suoni plastificati degli anni ottanta, "grandi anni per il rock" ironizza, imitando con la voce il suono tipico delle batterie "synthetizzate" dell'epoca da cui, alla fine, sono passati tutti, ed esorcizzando il tutto tirando fuori un rock'n'roll alla vecchia maniera estrapolato dal suo album uscito in pieni anni ottanta, Steady Nerves (1985).
Tra il reggae di Problem Child, una stupenda Lady Doctor, un breve accenno a Here Comes The Sun (i Beatles furono la scintilla primordiale come per gran parte della sua generazione) sul finire di Don't Let It Break You Down, Life Gets Better, il finale, dopo una breve uscita, è tutto per Heat Treatment, e l'immancabile Don't Ask Me Questions.
Un venerdì da incorniciare, e se mi avete fatto la domanda "come è andata la serata?", vi rispondo con sole tre parole, parafrasando i"tre accordi buoni" nel titolo del suo ultimo album: prezioso, anima e cuore. Ci aggiungo un enorme "rispetto".
lunedì 7 ottobre 2013
RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Peace)
ANDERS OSBORNE Peace (Alligator Records, 2013)
Una candidatura per la copertina dell'anno se l'è assicurata. Per il disco dell'anno, la lotta è più dura, ma il songwriter e (ottimo) chitarrista Anders Osborne-già abituato a premi e riconoscimenti-ci prova con il dodicesimo disco in carriera, il quarto consecutivo uscito per la Alligator Records, prodotto insieme a Warren Riker: undici canzoni multiformi e piacevoli, da centro al primo ascolto, che seguono a breve distanza il recente buonissimo EP acustico Three Free Amigos uscito a inizio anno. Un buon periodo di vita che lo stesso cantautore svedese, di casa a New Orleans da più di venticinque anni, indica come uno dei più solari e "cool" della carriera: "la pace è la luce dalle tenebre. Sto scrivendo da una prospettiva più luminosa. C'è meno crepuscolo e oscurità, molta più luce solare. I risultati sono più grandi di quanto mi aspettassi...". Difficile contraddirlo. Bastano le due tracce iniziali per verificare la marcata eterogeneità del lavoro e di una carriera tutta: l'iniziale elettro-acustica Peace, sembra portata a riva dalle stesse profonde onde chitarristiche di Neil Young che bagnavano acidamente On The Beach, la stessa chitarra istintiva ricama i sette epici minuti necessari a Osborne per ritrovare la tanto agognata pace interiore che va cercando e che ci conducono alla successiva e ugualmente autobiografica 47 (i suoi anni), canzone lanciata come singolo che, come tale, viaggia tranquilla sul rassicurante groove funk, anche un po' gigione, puntellata dalla suadente voce, fino all'assolo di chitarra piazzato nel finale. La vocalità sardonicamente soul (Let It Go), la sempre presente e ficcante stratocaster, il campionario musicale continua ad essere quella visionario di sempre ma concretamente aggrappato alla terra e ai sentimenti più umani e terreni, come il racconto di una vera sparatoria, uscente come fresca cronaca nera da Five Bullets o le tante dediche alla famiglia: alla adorata moglie in Sarah Anne, alla madre in Sentimental Times, e al figlio nella esplicita My Son; cartine al tornasole che ci confermano quanto il cantautore domiciliato in Lousiana stia attraversando una fase estremamente positiva della propria vita. Positività che non ha inficiato per nulla la sua arte, creando invece nuovi spazi da cui attingere creatività. Anche il sole può ispirare.
Non più la sorpresa di Which Way To Here (1995) e Living Room (1999), ma sulla stessa linea delle conferme come i recenti molto più cupi e scuri American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy(2012), con un ampio caleidoscopio da funamboliere della musica che gli permette di passare dal rock acido di Let It Go, agli scarabocchi da studio di registrazione di Brush Up Against Me, all'accecante trip solare dentro all'oscurità di Windows, al pop beatlesiano di Dream Girl che si prolunga ottimamente nella jam finale, al crossover "boombastico" in pieno stile '90 alla RHCP della già citata Five Bullets, alle atmosfere solari, caraibiche, in levare di Sarah Anne , i ricordi estremamente personali sulla madre scomparsa dieci anni fa nella sentimentale e sixties-con quelle tastiere a ricordare 'A Whiter Shade Of Pale'- Sentimental Times, la semplicità acustica di I'm Ready. Tutto, con la capacità innata di stupire grazie a soluzioni musicali mai scontate e sorprese presenti dietro ogni piccolo angolo: che siano i fiati (il sax in Windows), fiammate di B3 o suoi assoli.
Versatilità e profondità in un corpo solo. Anche se Anders Osbourne inizia a fare i conti con gli anni che se ne vanno ed un certo smarrimento da "giro di boa imminente" ("...non succede nulla a 47 anni/ Sto camminando nel grande, grande parco/Scavando nel mio profondo cuore debole/ Sto cercando aiuto" canta in 47), riesce ad aggrapparsi agli affetti più cari e ce ne rende partecipi, con somma gioia per le orecchie. Ancora una volta.
vedi anche RECENSIONE: JJ GREY & MOFRO-This River (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
Una candidatura per la copertina dell'anno se l'è assicurata. Per il disco dell'anno, la lotta è più dura, ma il songwriter e (ottimo) chitarrista Anders Osborne-già abituato a premi e riconoscimenti-ci prova con il dodicesimo disco in carriera, il quarto consecutivo uscito per la Alligator Records, prodotto insieme a Warren Riker: undici canzoni multiformi e piacevoli, da centro al primo ascolto, che seguono a breve distanza il recente buonissimo EP acustico Three Free Amigos uscito a inizio anno. Un buon periodo di vita che lo stesso cantautore svedese, di casa a New Orleans da più di venticinque anni, indica come uno dei più solari e "cool" della carriera: "la pace è la luce dalle tenebre. Sto scrivendo da una prospettiva più luminosa. C'è meno crepuscolo e oscurità, molta più luce solare. I risultati sono più grandi di quanto mi aspettassi...". Difficile contraddirlo. Bastano le due tracce iniziali per verificare la marcata eterogeneità del lavoro e di una carriera tutta: l'iniziale elettro-acustica Peace, sembra portata a riva dalle stesse profonde onde chitarristiche di Neil Young che bagnavano acidamente On The Beach, la stessa chitarra istintiva ricama i sette epici minuti necessari a Osborne per ritrovare la tanto agognata pace interiore che va cercando e che ci conducono alla successiva e ugualmente autobiografica 47 (i suoi anni), canzone lanciata come singolo che, come tale, viaggia tranquilla sul rassicurante groove funk, anche un po' gigione, puntellata dalla suadente voce, fino all'assolo di chitarra piazzato nel finale. La vocalità sardonicamente soul (Let It Go), la sempre presente e ficcante stratocaster, il campionario musicale continua ad essere quella visionario di sempre ma concretamente aggrappato alla terra e ai sentimenti più umani e terreni, come il racconto di una vera sparatoria, uscente come fresca cronaca nera da Five Bullets o le tante dediche alla famiglia: alla adorata moglie in Sarah Anne, alla madre in Sentimental Times, e al figlio nella esplicita My Son; cartine al tornasole che ci confermano quanto il cantautore domiciliato in Lousiana stia attraversando una fase estremamente positiva della propria vita. Positività che non ha inficiato per nulla la sua arte, creando invece nuovi spazi da cui attingere creatività. Anche il sole può ispirare.
Non più la sorpresa di Which Way To Here (1995) e Living Room (1999), ma sulla stessa linea delle conferme come i recenti molto più cupi e scuri American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy(2012), con un ampio caleidoscopio da funamboliere della musica che gli permette di passare dal rock acido di Let It Go, agli scarabocchi da studio di registrazione di Brush Up Against Me, all'accecante trip solare dentro all'oscurità di Windows, al pop beatlesiano di Dream Girl che si prolunga ottimamente nella jam finale, al crossover "boombastico" in pieno stile '90 alla RHCP della già citata Five Bullets, alle atmosfere solari, caraibiche, in levare di Sarah Anne , i ricordi estremamente personali sulla madre scomparsa dieci anni fa nella sentimentale e sixties-con quelle tastiere a ricordare 'A Whiter Shade Of Pale'- Sentimental Times, la semplicità acustica di I'm Ready. Tutto, con la capacità innata di stupire grazie a soluzioni musicali mai scontate e sorprese presenti dietro ogni piccolo angolo: che siano i fiati (il sax in Windows), fiammate di B3 o suoi assoli.
Versatilità e profondità in un corpo solo. Anche se Anders Osbourne inizia a fare i conti con gli anni che se ne vanno ed un certo smarrimento da "giro di boa imminente" ("...non succede nulla a 47 anni/ Sto camminando nel grande, grande parco/Scavando nel mio profondo cuore debole/ Sto cercando aiuto" canta in 47), riesce ad aggrapparsi agli affetti più cari e ce ne rende partecipi, con somma gioia per le orecchie. Ancora una volta.
vedi anche RECENSIONE: JJ GREY & MOFRO-This River (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
mercoledì 2 ottobre 2013
RECENSIONE: MASSIMO PRIVIERO ( Ali Di Libertà)
MASSIMO PRIVIERO Ali Di Libertà (MPC Records, 2013)
Nella bella confezione che accompagna il disco, c'è la presentazione di Massimo Priviero, uno scritto semplice, sentito e profondo-come i suoi testi- che spiega quanto Ali Di Libertà sia uno dei suoi dischi più autobiografici in carriera. Ma una frase mi ha colpito più di altre: "tante volte in questa vita sono caduto ed altrettante mi sono rialzato". Poche parole che sembrano racchiudere anche il mio rapporto da ascoltatore con il cantautore veneto, un incontro fatto di alti e bassi, interesse e amnesie. Dopo lo sfolgorante esordio San Valentino (1988) seguito da Nessuna Resa Mai (1990), quello prodotto da Little Steven (E Street Band), dischi che aprirono più di una porta a tutti quei cantautori italiani con la musica americana nel cuore, lo persi di vista, facendomi bastare la sua seconda opera che, ancora oggi, venero e considero uno dei migliori dischi italiani usciti negli anni novanta. Uno di quei dischi da "avere", e Dio solo sa che fatica fu ritrovarlo in CD dopo aver consumato una vecchia e logora musicassetta. L'interesse è tornato prepotente in tempi recenti con Dolce Resistenza (2006) disco "impegnato" che ha rappresentato anche una forte rinascita artistica. Negli ultimi anni è stato prolifico in quantità e qualità: Rock And Poems (2007) è un disco di cover che rileggeva i suoi miti musicali, Sulla Strada (2009) un best of con inediti e vecchi brani risuonati, Rolling Live (2010) un monumentale live -ed io che lo vidi per la prima volta durante un sabato sera qualunque in un piccolissimo locale sperduto tra le risaie vercellesi-fino a FolkRock (2012), ultimo ed ottimo lavoro in compagnia di Michele Gazich (presente anche qui con il suo violino) che sembra rappresentare il nuovo punto di partenza musicale per affrontare il futuro con tutta la libertà artistica che lo ha contraddistinto, permettendogli di smarcarsi dalle logiche di mercato, certamente più remunerative, ma imprigionanti. Il folk ed il rock si mischiano e si contagiano fin dall'apertura Ali Di Libertà, toccando il culmine in Libera Terra-a)La Forza b)Il Sogno (con tanto di cornamusa suonata da Keith Eisdale).
In Ali Di Libertà ci sono tutte le tracce della carriera di un cantautore coerente, passionale, onesto che è andato sempre diritto per la sua strada- con relative cadute e passi falsi (Priviero del 1998 non l'ho mai digerito)- seguendo le orme dei grandi modelli americani ma riuscendo a creare il solco per una propria via al rock, con il tempo diventata riconoscibilissima, mai assservita a facili e illusorie scorciatoie per arrivare al grande pubblico-come meriterebbe-ma andando incontro ai fan senza scendere a compromessi, avvicinandoli e spronandoli con la sola forza della passione e facendo leva sui veri valori della vita.
Ecco che rock elettrici e diretti: gridano rabbia e libertà a voce alta come In Verità (con la chitarra di Paolo Bonfanti), ricca dei suoi sapori irish, diventano nuovi inni da palcoscenico come Alzati, un urlo forte e chiaro, un invito a farsi sentire in mezzo ai ruderi morenti di tutte le speranze, con la chitarra elettrica di Alex Cambise a graffiare. " Ho visto un vecchio al mercato, chiedere il costo della pazzia, ho visto figli chiedere sogni che dare a loro tu non potrai, ho visto padri senza più voce, dire che l'alba non nasce mai...".
Tutta l'intimità esce invece dalla forza delle ballate: preghiere come Madre Proteggi, legata tanto alla fede quanto al cordone ombelicale degli "ultimi", cartoline d'amore sbiadite dal tempo nella pianistica e springsteeniana Il Mare, i ricordi interiori, narrativi e autobiografici di La Casa Di Mio Padre, la folkie e solitaria bonus track Bacio D'Addio.
E poi c'è Occhi Di Bambino, un folk in crescendo che mano a mano sale di intensità, indicando la strada ed i giusti valori da seguire a tutte le nuove generazioni tra cui quella del giovane figlio Tommy che partecipa suonando la chitarra acustica: "non l'amore, non i soldi, non la fede, non la fama, datemi...la libertà". Credo sia la canzone che rappresenti meglio Massimo Priviero oggi, mi sbilancio nell'indicarla come una delle sue migliori canzoni di sempre.
Partendo dai "marciapiedi di una città" fino ad arrivare alla sua parte di cuore più intimamente nascosta, il cammino è stato lungo ed impegnativo, ma il cartello con la scritta arrivo è ancora lontano e le ali non hanno ancora smesso di sbattere.
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake UpNation (2013)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
Nella bella confezione che accompagna il disco, c'è la presentazione di Massimo Priviero, uno scritto semplice, sentito e profondo-come i suoi testi- che spiega quanto Ali Di Libertà sia uno dei suoi dischi più autobiografici in carriera. Ma una frase mi ha colpito più di altre: "tante volte in questa vita sono caduto ed altrettante mi sono rialzato". Poche parole che sembrano racchiudere anche il mio rapporto da ascoltatore con il cantautore veneto, un incontro fatto di alti e bassi, interesse e amnesie. Dopo lo sfolgorante esordio San Valentino (1988) seguito da Nessuna Resa Mai (1990), quello prodotto da Little Steven (E Street Band), dischi che aprirono più di una porta a tutti quei cantautori italiani con la musica americana nel cuore, lo persi di vista, facendomi bastare la sua seconda opera che, ancora oggi, venero e considero uno dei migliori dischi italiani usciti negli anni novanta. Uno di quei dischi da "avere", e Dio solo sa che fatica fu ritrovarlo in CD dopo aver consumato una vecchia e logora musicassetta. L'interesse è tornato prepotente in tempi recenti con Dolce Resistenza (2006) disco "impegnato" che ha rappresentato anche una forte rinascita artistica. Negli ultimi anni è stato prolifico in quantità e qualità: Rock And Poems (2007) è un disco di cover che rileggeva i suoi miti musicali, Sulla Strada (2009) un best of con inediti e vecchi brani risuonati, Rolling Live (2010) un monumentale live -ed io che lo vidi per la prima volta durante un sabato sera qualunque in un piccolissimo locale sperduto tra le risaie vercellesi-fino a FolkRock (2012), ultimo ed ottimo lavoro in compagnia di Michele Gazich (presente anche qui con il suo violino) che sembra rappresentare il nuovo punto di partenza musicale per affrontare il futuro con tutta la libertà artistica che lo ha contraddistinto, permettendogli di smarcarsi dalle logiche di mercato, certamente più remunerative, ma imprigionanti. Il folk ed il rock si mischiano e si contagiano fin dall'apertura Ali Di Libertà, toccando il culmine in Libera Terra-a)La Forza b)Il Sogno (con tanto di cornamusa suonata da Keith Eisdale).
In Ali Di Libertà ci sono tutte le tracce della carriera di un cantautore coerente, passionale, onesto che è andato sempre diritto per la sua strada- con relative cadute e passi falsi (Priviero del 1998 non l'ho mai digerito)- seguendo le orme dei grandi modelli americani ma riuscendo a creare il solco per una propria via al rock, con il tempo diventata riconoscibilissima, mai assservita a facili e illusorie scorciatoie per arrivare al grande pubblico-come meriterebbe-ma andando incontro ai fan senza scendere a compromessi, avvicinandoli e spronandoli con la sola forza della passione e facendo leva sui veri valori della vita.
Ecco che rock elettrici e diretti: gridano rabbia e libertà a voce alta come In Verità (con la chitarra di Paolo Bonfanti), ricca dei suoi sapori irish, diventano nuovi inni da palcoscenico come Alzati, un urlo forte e chiaro, un invito a farsi sentire in mezzo ai ruderi morenti di tutte le speranze, con la chitarra elettrica di Alex Cambise a graffiare. " Ho visto un vecchio al mercato, chiedere il costo della pazzia, ho visto figli chiedere sogni che dare a loro tu non potrai, ho visto padri senza più voce, dire che l'alba non nasce mai...".
Tutta l'intimità esce invece dalla forza delle ballate: preghiere come Madre Proteggi, legata tanto alla fede quanto al cordone ombelicale degli "ultimi", cartoline d'amore sbiadite dal tempo nella pianistica e springsteeniana Il Mare, i ricordi interiori, narrativi e autobiografici di La Casa Di Mio Padre, la folkie e solitaria bonus track Bacio D'Addio.
foto: Cristina Arrigoni |
Partendo dai "marciapiedi di una città" fino ad arrivare alla sua parte di cuore più intimamente nascosta, il cammino è stato lungo ed impegnativo, ma il cartello con la scritta arrivo è ancora lontano e le ali non hanno ancora smesso di sbattere.
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake UpNation (2013)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
venerdì 27 settembre 2013
RECENSIONE:THE WHITE BUFFALO (Shadows, Greys & Evil Ways)
THE WHITE BUFFALO Shadows, Greys & Evil Ways (Unison Music, 2013)
I due dischi precedenti avevano già contribuito ad inquadrare il personaggio (Jake Smith) che si cela dietro all’ingombrante nome The White Buffalo, l'ambientazione musicale e geografica entro la quale si muoveva, i suoi pregi ed i pochi difetti. Questo terzo disco, ne sono certo, sarà quello della consacrazione. Tutto viene amplificato, aumentato di spessore, di qualità, pur abbassando e smorzando i toni rock rimasti come rari ma abbaglianti lampi in poche tracce (When I’m Gone, la diretta ed elettrica Joey White, Joe And Jolene), soprattutto grazie al contributo dello stesso songwriter dell'Oregon che si supera, mettendo in piedi un concept compatto ed omogeneo, emotivamente coinvolgente dove confluiscono le caratteristiche peculiari della sua visione musicale tutta a stelle e strisce. Il suo è l'ideale ponte tra la vecchia America cantata da Townes Van Zandt e dagli outlaw country men degli anni settanta, ancora appesa attraverso un sottilissimo filo al "sogno americano" e l'America della generazione degli anni novanta culminata con l'esplosione grunge e il funerale di tutte le vecchie speranze. Tutto è contenuto all’interno del narrativo concept che ci fa addentrare nell'appassionato amore di una giovane coppia di amanti: Joe e Jolene, divisa dalla guerra con i suoi orrori ben descritti nelle drammaticità acustiche di Redemption #2 e Fire don’t Know, dagli eventi della vita non meno violenti, dal difficile ruolo di un reduce all'interno degli schemi vitali della quotidiana routine, ma riunita, redenta e salvata (forse) dalla fede come testimonia la finale Pray To You Now. Tante domande esistenziali, con le risposte lì, in sospeso, affidate all'ascoltatore.
Con l’aiuto di Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, con la presenza "ospite" del veterano batterista Jim Keltner nella metronomica Don’t You Want It, l'irsuto Jake White amplia ulteriormente il suo spettro sonoro introducendo tra le dolenti ballate country: spietati temi sonori di stampo western (Set My Body Free), arrangiamenti per archi incastrati alla perfezione nell'iniziale Shall We Go On, nelle brevi 30 Days Back e #13 con violino e viola suonati da Jessy Greene, ma soprattutto una maggiore attenzione alla costruzione delle canzoni che culminano in The Whistler, con quel fischiettio iniziale che pare preso in prestito da The Stranger (la canzone) di Billy Joel ma si dipana in una triste ballata con un emozionante crescendo che diviene il centro d’enfasi della storia-unitamente a This Year- grazie anche alla straordinaria vocalità di Smith che lascia il segno, graffia e lacera, a volte così facilmente accostabile a quella di Eddie Vedder.
Meno immediato del suo predecessore Once Upon The Time In The West, più impegnativo e ambizioso, ma con la forza di uscire vincitore alla lunga distanza, confermando Jake Smith come uno dei più interessanti songwriters di “americana” degli ultimi anni, con tutte le credenziali per arrivare anche al (grande) pubblico più distratto che evidentemente sta ancora sonnecchiando. Meglio così o lo svegliamo?
vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Once Upon The Time In The West (2012)
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio 2016 a Brescia
I due dischi precedenti avevano già contribuito ad inquadrare il personaggio (Jake Smith) che si cela dietro all’ingombrante nome The White Buffalo, l'ambientazione musicale e geografica entro la quale si muoveva, i suoi pregi ed i pochi difetti. Questo terzo disco, ne sono certo, sarà quello della consacrazione. Tutto viene amplificato, aumentato di spessore, di qualità, pur abbassando e smorzando i toni rock rimasti come rari ma abbaglianti lampi in poche tracce (When I’m Gone, la diretta ed elettrica Joey White, Joe And Jolene), soprattutto grazie al contributo dello stesso songwriter dell'Oregon che si supera, mettendo in piedi un concept compatto ed omogeneo, emotivamente coinvolgente dove confluiscono le caratteristiche peculiari della sua visione musicale tutta a stelle e strisce. Il suo è l'ideale ponte tra la vecchia America cantata da Townes Van Zandt e dagli outlaw country men degli anni settanta, ancora appesa attraverso un sottilissimo filo al "sogno americano" e l'America della generazione degli anni novanta culminata con l'esplosione grunge e il funerale di tutte le vecchie speranze. Tutto è contenuto all’interno del narrativo concept che ci fa addentrare nell'appassionato amore di una giovane coppia di amanti: Joe e Jolene, divisa dalla guerra con i suoi orrori ben descritti nelle drammaticità acustiche di Redemption #2 e Fire don’t Know, dagli eventi della vita non meno violenti, dal difficile ruolo di un reduce all'interno degli schemi vitali della quotidiana routine, ma riunita, redenta e salvata (forse) dalla fede come testimonia la finale Pray To You Now. Tante domande esistenziali, con le risposte lì, in sospeso, affidate all'ascoltatore.
Con l’aiuto di Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, con la presenza "ospite" del veterano batterista Jim Keltner nella metronomica Don’t You Want It, l'irsuto Jake White amplia ulteriormente il suo spettro sonoro introducendo tra le dolenti ballate country: spietati temi sonori di stampo western (Set My Body Free), arrangiamenti per archi incastrati alla perfezione nell'iniziale Shall We Go On, nelle brevi 30 Days Back e #13 con violino e viola suonati da Jessy Greene, ma soprattutto una maggiore attenzione alla costruzione delle canzoni che culminano in The Whistler, con quel fischiettio iniziale che pare preso in prestito da The Stranger (la canzone) di Billy Joel ma si dipana in una triste ballata con un emozionante crescendo che diviene il centro d’enfasi della storia-unitamente a This Year- grazie anche alla straordinaria vocalità di Smith che lascia il segno, graffia e lacera, a volte così facilmente accostabile a quella di Eddie Vedder.
Meno immediato del suo predecessore Once Upon The Time In The West, più impegnativo e ambizioso, ma con la forza di uscire vincitore alla lunga distanza, confermando Jake Smith come uno dei più interessanti songwriters di “americana” degli ultimi anni, con tutte le credenziali per arrivare anche al (grande) pubblico più distratto che evidentemente sta ancora sonnecchiando. Meglio così o lo svegliamo?
vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Once Upon The Time In The West (2012)
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio 2016 a Brescia
martedì 24 settembre 2013
RECENSIONE:ROD STEWART (Rarities)
ROD STEWART
Rarities
(Mercury)
Apro subito una parentesi: Rod Stewart quest’anno ha fatto un disco, Time, ma sembra che pochi se ne siano accorti (almeno qui da noi, visto che in UK ha raggiunto la vetta delle charts), pur risultando tra le sue opere migliori da almeno vent’anni a questa parte, ritornando alla scrittura e interrompendo la lunga serie degli The Great American Songbook, che gli avranno pure gonfiato ulteriormente il portafogli ma stavano iniziando a sgonfiare qualcos’altro a noi. Chiusa parentesi. C’era un tempo, però, in cui l’eterno biondo cantante di origini scozzesi non era solo l’interprete da ascoltare sotto l’alberello di Natale, ma un cantante stellare dalla voce unica, distintiva, ricercata, che frequentava compagni di bevute poco raccomandabili (tre dei quali, le "facce" Ron Wood, Ronnie Lane e Ian McLagan compaiono in quasi tutti i credits come musicisti) e che le 24 canzoni di questa raccolta -non imprescindibile per il die-hard fan che avrà già ottenuto tutto per vie non ufficiali, utilissima per tutti quelli che lo associano solamente a Do Ya Think I'm Sexy (una volta tanto va bene il contrario)- vogliono ricordare attraverso il recupero di versioni alternative, b-sides, radio sessions per la BBC mai apparse prima su disco, inediti risalenti al suo periodo Mercury (dal 1969 al 1974), iniziato dopo la felice collaborazione con Jeff Beck e in simultanea con l’avvio della nuova avventura The Faces, in pratica i primi cinque dischi solisti, il suo apice artistico mai più eguagliato: The R S Album (1969),Gasoline Alley (1970), Every Picture Tells A story (1971), Never A Dull Moment (1972), Smiler (1974). Canzoni che esaltano il lato roots, folk-blues della sua roca voce in contrapposizione con il lato selvaggiamente rock'n'roll che assumeva parallelamente nei Faces. Oltre a due versioni alternative della hit di inizio carriera Maggie May, una con liriche non complete, l'altra registrata live alla BBC Radio One nel 1971, da non perdere la dylaniana Girl From The North Country esclusa da Smiler, l'honk tonk di Jerry Lee Lewis What's Made Milwaukee Famous ( Has Made A Loser Out Of Me), una-a dire il vero-sovraccarica Pinball Wizard (The Who) con la London Symphony Orchestra, Angel di Jimi Hendrix, una Country Comfort della coppia Elton John /Bernie Taupin in una versione live del 1970 alla BBC Radio, e la rilettura del classico di Cole Porter Every Time We Say Goodbye che sembra anticipare la sua futura carriera. Poi, improvvisamente nel 1975, l’aereo volò verso le luci tentatrici della California e di questo Rod Stewart rimarranno solo alcune sporadiche tracce disseminate in una carriera condotta da simpatica rockstar affermata ma con troppe paillettes luccicanti a dar fastidio-non a lui naturalmente- calate sugli occhi. (Enzo Curelli)
vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Time (2013)
Apro subito una parentesi: Rod Stewart quest’anno ha fatto un disco, Time, ma sembra che pochi se ne siano accorti (almeno qui da noi, visto che in UK ha raggiunto la vetta delle charts), pur risultando tra le sue opere migliori da almeno vent’anni a questa parte, ritornando alla scrittura e interrompendo la lunga serie degli The Great American Songbook, che gli avranno pure gonfiato ulteriormente il portafogli ma stavano iniziando a sgonfiare qualcos’altro a noi. Chiusa parentesi. C’era un tempo, però, in cui l’eterno biondo cantante di origini scozzesi non era solo l’interprete da ascoltare sotto l’alberello di Natale, ma un cantante stellare dalla voce unica, distintiva, ricercata, che frequentava compagni di bevute poco raccomandabili (tre dei quali, le "facce" Ron Wood, Ronnie Lane e Ian McLagan compaiono in quasi tutti i credits come musicisti) e che le 24 canzoni di questa raccolta -non imprescindibile per il die-hard fan che avrà già ottenuto tutto per vie non ufficiali, utilissima per tutti quelli che lo associano solamente a Do Ya Think I'm Sexy (una volta tanto va bene il contrario)- vogliono ricordare attraverso il recupero di versioni alternative, b-sides, radio sessions per la BBC mai apparse prima su disco, inediti risalenti al suo periodo Mercury (dal 1969 al 1974), iniziato dopo la felice collaborazione con Jeff Beck e in simultanea con l’avvio della nuova avventura The Faces, in pratica i primi cinque dischi solisti, il suo apice artistico mai più eguagliato: The R S Album (1969),Gasoline Alley (1970), Every Picture Tells A story (1971), Never A Dull Moment (1972), Smiler (1974). Canzoni che esaltano il lato roots, folk-blues della sua roca voce in contrapposizione con il lato selvaggiamente rock'n'roll che assumeva parallelamente nei Faces. Oltre a due versioni alternative della hit di inizio carriera Maggie May, una con liriche non complete, l'altra registrata live alla BBC Radio One nel 1971, da non perdere la dylaniana Girl From The North Country esclusa da Smiler, l'honk tonk di Jerry Lee Lewis What's Made Milwaukee Famous ( Has Made A Loser Out Of Me), una-a dire il vero-sovraccarica Pinball Wizard (The Who) con la London Symphony Orchestra, Angel di Jimi Hendrix, una Country Comfort della coppia Elton John /Bernie Taupin in una versione live del 1970 alla BBC Radio, e la rilettura del classico di Cole Porter Every Time We Say Goodbye che sembra anticipare la sua futura carriera. Poi, improvvisamente nel 1975, l’aereo volò verso le luci tentatrici della California e di questo Rod Stewart rimarranno solo alcune sporadiche tracce disseminate in una carriera condotta da simpatica rockstar affermata ma con troppe paillettes luccicanti a dar fastidio-non a lui naturalmente- calate sugli occhi. (Enzo Curelli)
vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Time (2013)
mercoledì 18 settembre 2013
RECENSIONE:GREEN LIKE JULY(Build A Fire)
GREEN LIKE JULY Build A Fire (La Tempesta, 2013)
Squadra vincente non si cambia, ma si può ancora migliorare. La band lombardo/piemontese doveva ripetere l'eccellenza del fortunato predecessore Four-Legged Fortune (2011), lo fa e si supera, mantenendo invariati gli ingredienti base e aggiungendo solo il tocco necessario che fa la differenza, raggiungendo la meritata eccellenza di caratura internazionale che ormai non può che competerle di diritto. I Green Like July sono internazionali! Stesso gruppo di lavoro base: Andrea Poggio alla "vellutata" voce, chitarra e autore unico, Paolo Merlini alla batteria, più Marco Verna polistrumentista tuttofare e Roberto Paravia al basso, stesso produttore A.J. Mogis (Bright Eyes), stessi studi di registrazione americani, gli Arc Studios di Omaha nel Nebraska, ormai loro seconda casa, e infine l'artwork dalla incisiva semplicità affidato nuovamente alla brava artista Olimpia Zagnoli. Unica defezione rispetto al recente passato: Nicola Crivelli.
I valori aggiunti sono gli arrangiamenti del disco affidati alla bizzarra follia musicale di Enrico Gabrielli, un "moderno" alchimista degli strumenti che sembra provenire dal passato remoto, già conosciuto nelle fila di Mariposa, degli Afterhours, nei Calibro 35 (prossimi all'uscita con il nuovo album), più altri numerosi progetti a cui ha partecipato, i prestigiosi ospiti presenti (Mike Mogis, Jake Bellows dei Neva Dinova), ma soprattutto le nove canzoni- tutte-che viaggiano alla giusta altezza, in perfetto equilibrio tra l'amore, mai nascosto, verso la musica folk/roots americana di fine '60 (The Band, The Byrds), il pop anglosassone dei '60/'70 (con la coppia McCartney-Lennon in testa) ed i rari pixel di modernità (alla XTC o gli attuali Okkervil River) che fanno capolino qua e là in alcune soluzioni anche se ben coperti dagli effetti antichizzanti, gli arrangiamenti orchestrali da sogno ad occhi aperti con qualche rara ma buona svisata glam come succede nella più movimentata Borrowed Time, la più rock della lista.
Una soffice nuvola pop che ondeggia negli alti cieli con spietata gentilezza per poco più di mezz'ora-perché la bellezza non la si misura con l'orologio-lasciando penetrare tiepidi raggi solari che bucano l'aria (Agatha Of Sicily), rassicurano nella pacatezza melodica del quadretto dipinto da An Ordinary Friend, accarezzano nel folkie onirico di Tonight's The Night, asciugano lacrime nella "gentile" rassegnazione segnata dagli archi di Good Luck Bridge con il prezioso intervento vocale di Jake Bellows, e corteggiano tra le note di un carillon e i cori di Johnny Thunders (musicalmente, tutto fuorché quello che il titolo lasci pensare). Le stesse nuvole che lasciano cadere tiepide gocce di pioggia negli episodi più movimentati come la circolare e corale A Well Wellcomed Change, l'ipnoticità catalizzante dell'opener Moving To The City e la già citata Borrowed Time. Una tela senza sbavature, forse fin troppo perfetta per essere vera, si potrebbe obiettare.
Arrivati al terzo disco, il più grande complimento che si possa fare ai Green Like July è dire che "le nove canzoni suonano come i Green Like July".
vedi anche RECENSIONE: GREEN LIKE JULY -Four-Legged Fortune (2011)
vedi anche INTERVISTA a OLIMPIA ZAGNOLI
vedi anche RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock 'N' Roll (2013)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
vedi anche RECENSIONE: ILVOCIFERO-Amorte (2013)
Squadra vincente non si cambia, ma si può ancora migliorare. La band lombardo/piemontese doveva ripetere l'eccellenza del fortunato predecessore Four-Legged Fortune (2011), lo fa e si supera, mantenendo invariati gli ingredienti base e aggiungendo solo il tocco necessario che fa la differenza, raggiungendo la meritata eccellenza di caratura internazionale che ormai non può che competerle di diritto. I Green Like July sono internazionali! Stesso gruppo di lavoro base: Andrea Poggio alla "vellutata" voce, chitarra e autore unico, Paolo Merlini alla batteria, più Marco Verna polistrumentista tuttofare e Roberto Paravia al basso, stesso produttore A.J. Mogis (Bright Eyes), stessi studi di registrazione americani, gli Arc Studios di Omaha nel Nebraska, ormai loro seconda casa, e infine l'artwork dalla incisiva semplicità affidato nuovamente alla brava artista Olimpia Zagnoli. Unica defezione rispetto al recente passato: Nicola Crivelli.
I valori aggiunti sono gli arrangiamenti del disco affidati alla bizzarra follia musicale di Enrico Gabrielli, un "moderno" alchimista degli strumenti che sembra provenire dal passato remoto, già conosciuto nelle fila di Mariposa, degli Afterhours, nei Calibro 35 (prossimi all'uscita con il nuovo album), più altri numerosi progetti a cui ha partecipato, i prestigiosi ospiti presenti (Mike Mogis, Jake Bellows dei Neva Dinova), ma soprattutto le nove canzoni- tutte-che viaggiano alla giusta altezza, in perfetto equilibrio tra l'amore, mai nascosto, verso la musica folk/roots americana di fine '60 (The Band, The Byrds), il pop anglosassone dei '60/'70 (con la coppia McCartney-Lennon in testa) ed i rari pixel di modernità (alla XTC o gli attuali Okkervil River) che fanno capolino qua e là in alcune soluzioni anche se ben coperti dagli effetti antichizzanti, gli arrangiamenti orchestrali da sogno ad occhi aperti con qualche rara ma buona svisata glam come succede nella più movimentata Borrowed Time, la più rock della lista.
Una soffice nuvola pop che ondeggia negli alti cieli con spietata gentilezza per poco più di mezz'ora-perché la bellezza non la si misura con l'orologio-lasciando penetrare tiepidi raggi solari che bucano l'aria (Agatha Of Sicily), rassicurano nella pacatezza melodica del quadretto dipinto da An Ordinary Friend, accarezzano nel folkie onirico di Tonight's The Night, asciugano lacrime nella "gentile" rassegnazione segnata dagli archi di Good Luck Bridge con il prezioso intervento vocale di Jake Bellows, e corteggiano tra le note di un carillon e i cori di Johnny Thunders (musicalmente, tutto fuorché quello che il titolo lasci pensare). Le stesse nuvole che lasciano cadere tiepide gocce di pioggia negli episodi più movimentati come la circolare e corale A Well Wellcomed Change, l'ipnoticità catalizzante dell'opener Moving To The City e la già citata Borrowed Time. Una tela senza sbavature, forse fin troppo perfetta per essere vera, si potrebbe obiettare.
Arrivati al terzo disco, il più grande complimento che si possa fare ai Green Like July è dire che "le nove canzoni suonano come i Green Like July".
vedi anche RECENSIONE: GREEN LIKE JULY -Four-Legged Fortune (2011)
vedi anche INTERVISTA a OLIMPIA ZAGNOLI
vedi anche RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock 'N' Roll (2013)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
vedi anche RECENSIONE: ILVOCIFERO-Amorte (2013)
mercoledì 11 settembre 2013
RECENSIONE: ILVOCIFERO(Amorte)
ILVOCIFERO Amorte ( Niegazowana Records, 2013)
Se Edda (Stefano Rampoldi) avesse avuto ragione? Quella volta che alla domanda: "come hai conosciuto Walter Somà?", ironicamente, rispose così: "quel pezzo d’asino era il mio operatore della comunità dove sono stato per tanti anni. Sarei potuto guarire prima, ma lui aveva un sacco di problemi e io ho dovuto seguirlo per sei lunghi anni. Tutto inutile, comunque, visto che dopo la mia dipartita lui è ricaduto nel baratro surreale della sua vita".
Ecco, un po' di quel baratro surreale della vita di Walter Somà emerge dal suo nuovo progetto IlVocifero, condiviso con la voce narrante di Aldo Romano e i numerosi ospiti/amici coinvolti. Un progetto che ha preso forma negli anni, piano piano, partendo da poche tracce messe nel cassetto dall'autore/musicista torinese, da anni con dimora a Milano. Quello che non è finito nelle canzoni del ritrovato Edda, di cui Somà è stato il gemello"nascosto" dietro ai dischi della rinascita artistica (Semper Biot, Odio I Vivi), è stato condiviso con il concittadino e vecchio amico Aldo Romano, un poeta di strada curioso, folle e surreale, un vagabondo della parola (e di fatto), ritrovato dopo molti anni e con cui si è riaccesa un'antica fiamma che in un paio di giorni ha portato i due a scrivere e completare tutto ciò che occorreva da sottoporre all'attenta "regia" di Fabio Capalbo, batterista nel progetto e mente dietro alla etichetta Niegazowana che li ha accolti. Un disco, come quelli di Edda, che sfugge ad ogni catalogazione possibile: libero di fluire, espandersi, restringersi, dare e riprendere, graffiarti e accarezzarti. Un contenitore "pop" disturbante ma estremamente fruibile, pieno di cose forti, esplosive, gridate, altre più dolci, tenui, sussurrate dalla voce di Romano, e dagli ospiti presenti: lo stesso Edda (Persona Plurale, Non Nel Tempo Né Nel Mondo), dalla triestina Dorina Leka (Lucyd, Nastro Solare) che forse ricorderete, anche se eliminata prima del dovuto, in una edizione di X Factor di qualche anno fa, e che proprio con Somà è al lavoro per un disco solista che stiamo aspettando da tempo. Dai musicisti coinvolti: il gruppo Ensemble Vinaccia, la chitarra di Gionata Mirai (Il Teatro Degli Orrori), Carlo Sandrini che si è occupato di tutti gli arrangiamenti d'archi e fiati.
Amorte non è nient'altro che il teatro della vita-dici poco?-rapresentato con tutti gli sbalzi d'u(a)more esistenti, con tutte le sfumature che altri cantori dell'italica canzonetta non vi canteranno mai in maniera così cruda, sincera e coinvolgente. Vanno in scena l'amore, la morte, le relazioni umane, la fede, le giornate e le notti solitarie (Blu e Amo) passate a vagare tra fioche luci "...vago ed intono lo sguardo ai lampioni, che fanno una luce gialla che è quasi la mia santità, da solo o dio da solo, io potrei ricominciare, se non torno più a casa, questa volta me ne voglio andare e mi sento così fiero di essere così e non dormo, non dormo..." e sospiri eterni (Alito) che cedono al crescendo cacofonico "...io non ho Dei ma attimi, e nessuna presenza nella realtà, se vuoi sparisco, io non mi preferisco, io non ho idee ma angoli, non sopporto la forza di gravità, se vuoi ti stordisco...".
Tragicità e beltà sono rappresentate dall'interpretazione di un attore navigato "di vita" come Aldo Romano che nuota tra le acrobazie alla Mike Patton di Scagliàti che pare una colonna sonora riveduta dai Fantomas persa tra gli accenni jazz del pianoforte (Tazio Forte) e i fiati R&B da cult movie anni '50; galleggia nelle conversazioni a voce bassa con Walter Somà nel Il Gusto Della Morte, nel pop anni '60 esaltato dal crescendo d'archi di Persona Plurale, nell'atmosfera sospesa da ultimo duello "morriconiano" di Ultima Parola; schizza gocce d'acqua pungente e velenosa dal drum & bass incalzantemente persuasivo dell'opener Lucyd scritta ed interpretata con Dorina e nel rock Nastro Solare; affoga e boccheggia, scuote e incita nel particolare "family affair" del free jazz di Non Nel Tempo Né Nel Mondo, conversazione a due voci tra Romano e Edda.
Per chi è stanco della solita musica italiana, IlVocifero è altamente consigliato, perché ci presenta un nuovo personaggio da seguire con curiosa attenzione (Aldo Romano), ci conferma Walter Somà come uno dei più sensibili e creativi autori di musica italiana (e ama pure apparire poco in prima persona, il che non guasta di questi tempi da social network compulsivo) e ci offre nuove vie d'ascolto: traverse, folli, fascinosamente intriganti, incastrate tra tesa drammacità e sano sberleffo. Insomma, sempre vita è.
Il baratro surreale della vita di Walter Somà è senza fondo. Edda aveva ragione.
vedi anche INTERVISTA a EDDA (Impatto Sonoro), 10 Gennaio 2011
vedi anche RECENSIONE: EDDA-Odio I Vivi (2012)
Se Edda (Stefano Rampoldi) avesse avuto ragione? Quella volta che alla domanda: "come hai conosciuto Walter Somà?", ironicamente, rispose così: "quel pezzo d’asino era il mio operatore della comunità dove sono stato per tanti anni. Sarei potuto guarire prima, ma lui aveva un sacco di problemi e io ho dovuto seguirlo per sei lunghi anni. Tutto inutile, comunque, visto che dopo la mia dipartita lui è ricaduto nel baratro surreale della sua vita".
Ecco, un po' di quel baratro surreale della vita di Walter Somà emerge dal suo nuovo progetto IlVocifero, condiviso con la voce narrante di Aldo Romano e i numerosi ospiti/amici coinvolti. Un progetto che ha preso forma negli anni, piano piano, partendo da poche tracce messe nel cassetto dall'autore/musicista torinese, da anni con dimora a Milano. Quello che non è finito nelle canzoni del ritrovato Edda, di cui Somà è stato il gemello"nascosto" dietro ai dischi della rinascita artistica (Semper Biot, Odio I Vivi), è stato condiviso con il concittadino e vecchio amico Aldo Romano, un poeta di strada curioso, folle e surreale, un vagabondo della parola (e di fatto), ritrovato dopo molti anni e con cui si è riaccesa un'antica fiamma che in un paio di giorni ha portato i due a scrivere e completare tutto ciò che occorreva da sottoporre all'attenta "regia" di Fabio Capalbo, batterista nel progetto e mente dietro alla etichetta Niegazowana che li ha accolti. Un disco, come quelli di Edda, che sfugge ad ogni catalogazione possibile: libero di fluire, espandersi, restringersi, dare e riprendere, graffiarti e accarezzarti. Un contenitore "pop" disturbante ma estremamente fruibile, pieno di cose forti, esplosive, gridate, altre più dolci, tenui, sussurrate dalla voce di Romano, e dagli ospiti presenti: lo stesso Edda (Persona Plurale, Non Nel Tempo Né Nel Mondo), dalla triestina Dorina Leka (Lucyd, Nastro Solare) che forse ricorderete, anche se eliminata prima del dovuto, in una edizione di X Factor di qualche anno fa, e che proprio con Somà è al lavoro per un disco solista che stiamo aspettando da tempo. Dai musicisti coinvolti: il gruppo Ensemble Vinaccia, la chitarra di Gionata Mirai (Il Teatro Degli Orrori), Carlo Sandrini che si è occupato di tutti gli arrangiamenti d'archi e fiati.
Amorte non è nient'altro che il teatro della vita-dici poco?-rapresentato con tutti gli sbalzi d'u(a)more esistenti, con tutte le sfumature che altri cantori dell'italica canzonetta non vi canteranno mai in maniera così cruda, sincera e coinvolgente. Vanno in scena l'amore, la morte, le relazioni umane, la fede, le giornate e le notti solitarie (Blu e Amo) passate a vagare tra fioche luci "...vago ed intono lo sguardo ai lampioni, che fanno una luce gialla che è quasi la mia santità, da solo o dio da solo, io potrei ricominciare, se non torno più a casa, questa volta me ne voglio andare e mi sento così fiero di essere così e non dormo, non dormo..." e sospiri eterni (Alito) che cedono al crescendo cacofonico "...io non ho Dei ma attimi, e nessuna presenza nella realtà, se vuoi sparisco, io non mi preferisco, io non ho idee ma angoli, non sopporto la forza di gravità, se vuoi ti stordisco...".
Tragicità e beltà sono rappresentate dall'interpretazione di un attore navigato "di vita" come Aldo Romano che nuota tra le acrobazie alla Mike Patton di Scagliàti che pare una colonna sonora riveduta dai Fantomas persa tra gli accenni jazz del pianoforte (Tazio Forte) e i fiati R&B da cult movie anni '50; galleggia nelle conversazioni a voce bassa con Walter Somà nel Il Gusto Della Morte, nel pop anni '60 esaltato dal crescendo d'archi di Persona Plurale, nell'atmosfera sospesa da ultimo duello "morriconiano" di Ultima Parola; schizza gocce d'acqua pungente e velenosa dal drum & bass incalzantemente persuasivo dell'opener Lucyd scritta ed interpretata con Dorina e nel rock Nastro Solare; affoga e boccheggia, scuote e incita nel particolare "family affair" del free jazz di Non Nel Tempo Né Nel Mondo, conversazione a due voci tra Romano e Edda.
Per chi è stanco della solita musica italiana, IlVocifero è altamente consigliato, perché ci presenta un nuovo personaggio da seguire con curiosa attenzione (Aldo Romano), ci conferma Walter Somà come uno dei più sensibili e creativi autori di musica italiana (e ama pure apparire poco in prima persona, il che non guasta di questi tempi da social network compulsivo) e ci offre nuove vie d'ascolto: traverse, folli, fascinosamente intriganti, incastrate tra tesa drammacità e sano sberleffo. Insomma, sempre vita è.
Il baratro surreale della vita di Walter Somà è senza fondo. Edda aveva ragione.
vedi anche INTERVISTA a EDDA (Impatto Sonoro), 10 Gennaio 2011
vedi anche RECENSIONE: EDDA-Odio I Vivi (2012)
venerdì 6 settembre 2013
RECENSIONE:CESARE CARUGI (Pontchartrain)
CESARE CARUGI Pontchartrain ( Roots Music Club/IRD, 2013)
La prova ascolto sopra ad un'automobile? Sempre rivelatrice con dischi come questo. Meglio: piacevole. Poco importa se la mia quattro ruote non è una Cadillac Eldorado del '72 e le strade non sono troppo panoramiche. L'asfalto bollente d'Agosto, l'aria che entra dai finestrini, il sole che perfora i vetri e brucia la pelle, sono gli stessi che animano le strade del mondo, e come il "toscanaccio" (di Cecina) Cesare Carugi mi disse nell'intervista di un anno fa, parlando del suo debutto: "spesso e volentieri non è il dove sono che mi ispira ma il cosa vedo. “Here’s To The Road” ha un approccio visivo tutto americano, ma le strade dove è nato sono anche quelle italiane. La strada è la strada ovunque tu vada." Pensiero che si adatta bene anche questa volta, arricchendosi di tanti altri particolari, ancor meglio se si inizia il viaggio dal radioso e placido ciondolamento '50 della speranzosa ultima traccia We'll Meet Again Someday, proprio quella con il video girato sopra ad una Cadillac Eldorado che scorazza per le nostrane vie tricolori in compagnia delle due chitarre degli orobici Mojo Filter, Carlo Lancini e Alessandro Battistini, a cui si aggiunge, su disco, anche il bassista Daniele Togni (ospiti graditi), e capisci quanto sia tutto vero. Canzone impeccabile.
Se il debutto Here's The Road (2011) vi era piaciuto, potete prolungare la gioia perché questo seguito, pur discostandosi dal precedente disco preferendo una maggiore omogeneità di fondo e facendosi apprezzare per il minuzioso lavoro negli arrangiamenti, è un altro piccolo miracolo tutto italiano di musica "made in America". L'ennesimo, oserei direi. Qui ci stanno viziando bene.
Meno diretto e più costruito, più scavato in profondità e meno istintivo, Pontchartrain è un viaggio agro-dolce che preferisce il lungo e disteso passo delle ballate, lasciando gli scatti rock unicamente all'apertura Troubled Waters, un numero alla Tom Petty & Heartbreakers che pare una outtake-di quelle buone-di Damn The Torpedoes impreziosita dalla slide dell'ospite Paolo Bonfanti capace di delineare spazi infiniti; all'incedere garage/psychobilly della terremotante (termine purtroppo adatto, visto il testo) Crack In The Ground , tetra e carica di chitarre elettriche (oltre a quella di Carugi, anche Leonardo Ceccanti e Matteo Barsacchi) e alla seconda parte di Your Memory Shall Drive Me Home, canzone che si sviluppa nell'intenso crescendo.
Carugi questa volta sembra preferire il gioco delle sfumature e lo si capisce quando con una magistrale prova vocale ci fa immergere dentro alle atmosfere soul/blues, fumose, notturne e sudaticce di My Drunken Valentine-già elevata a mia preferita-che fin dal titolo ci promette un giro tra il romanticismo e la decadenza metropolitana di piccoli club malfamati e vicoli sempre troppo stretti, gli stessi frequentati dal giovanissimo Tom Waits o dal miglior Billy Joel di ritorno nella grande mela di metà anni settanta, con i tasti del pianoforte di Jacopo Creatini a battere l'atmosfera giusta ed il testo che recita una storyboard fascinosamente intrigante; pianoforte che diventa protagonista insieme ai fiati (sax e clarinetto) in When The Silence Breaks Through, ballata epica che cita in causa Van Morrison e lo Springsteen romantico, sognatore e perso tra la giungla d'asfalto. Basterebbero queste due canzoni per capire l'alto livello raggiunto da Carugi come autore, qualità che lo porta a bussare alla porta dei grandi songwriters d'oltreoceano (a partire da John Prine arrivando fino a Ryan Adams) e ulteriormente confermata dal copione cinematografico, disteso e romantico degli amanti protagonisti di Charley Varrick cantata in coppia con Marialaura Specchia, cantante che abbiamo già conosciuto nei bravi-e concittadini di Cesare-Verily So; nella ballata acustica Drive The Crows Away con il prezioso violino di Chiara Giacobbe ad indicare la strada; nelle tristi solitudini da west coast notturna di Long Nights Awake con l'armonica di Andrea Giannoni a contare le stelle; o nelle paludi calpestate che circondano il lago Pontchartrain che oltre a dare il titolo al disco ed al blues di Pontchartrain Shuffle, che si avvale della chitarra di Francesco Più, delimita una impeccabile prova d'autore che meriterebbe di strabordare oltre ogni confine, nazionale ed internazionale. Il momento è giusto.
In uscita il 24 Settembre 2013.
vedi anche INTERVISTA: CESARE CARUGI, 7 Marzo 2012
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Here's To The Road (2011)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)
vedi anche RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock'n'Roll (2013)
La prova ascolto sopra ad un'automobile? Sempre rivelatrice con dischi come questo. Meglio: piacevole. Poco importa se la mia quattro ruote non è una Cadillac Eldorado del '72 e le strade non sono troppo panoramiche. L'asfalto bollente d'Agosto, l'aria che entra dai finestrini, il sole che perfora i vetri e brucia la pelle, sono gli stessi che animano le strade del mondo, e come il "toscanaccio" (di Cecina) Cesare Carugi mi disse nell'intervista di un anno fa, parlando del suo debutto: "spesso e volentieri non è il dove sono che mi ispira ma il cosa vedo. “Here’s To The Road” ha un approccio visivo tutto americano, ma le strade dove è nato sono anche quelle italiane. La strada è la strada ovunque tu vada." Pensiero che si adatta bene anche questa volta, arricchendosi di tanti altri particolari, ancor meglio se si inizia il viaggio dal radioso e placido ciondolamento '50 della speranzosa ultima traccia We'll Meet Again Someday, proprio quella con il video girato sopra ad una Cadillac Eldorado che scorazza per le nostrane vie tricolori in compagnia delle due chitarre degli orobici Mojo Filter, Carlo Lancini e Alessandro Battistini, a cui si aggiunge, su disco, anche il bassista Daniele Togni (ospiti graditi), e capisci quanto sia tutto vero. Canzone impeccabile.
Se il debutto Here's The Road (2011) vi era piaciuto, potete prolungare la gioia perché questo seguito, pur discostandosi dal precedente disco preferendo una maggiore omogeneità di fondo e facendosi apprezzare per il minuzioso lavoro negli arrangiamenti, è un altro piccolo miracolo tutto italiano di musica "made in America". L'ennesimo, oserei direi. Qui ci stanno viziando bene.
Meno diretto e più costruito, più scavato in profondità e meno istintivo, Pontchartrain è un viaggio agro-dolce che preferisce il lungo e disteso passo delle ballate, lasciando gli scatti rock unicamente all'apertura Troubled Waters, un numero alla Tom Petty & Heartbreakers che pare una outtake-di quelle buone-di Damn The Torpedoes impreziosita dalla slide dell'ospite Paolo Bonfanti capace di delineare spazi infiniti; all'incedere garage/psychobilly della terremotante (termine purtroppo adatto, visto il testo) Crack In The Ground , tetra e carica di chitarre elettriche (oltre a quella di Carugi, anche Leonardo Ceccanti e Matteo Barsacchi) e alla seconda parte di Your Memory Shall Drive Me Home, canzone che si sviluppa nell'intenso crescendo.
Carugi questa volta sembra preferire il gioco delle sfumature e lo si capisce quando con una magistrale prova vocale ci fa immergere dentro alle atmosfere soul/blues, fumose, notturne e sudaticce di My Drunken Valentine-già elevata a mia preferita-che fin dal titolo ci promette un giro tra il romanticismo e la decadenza metropolitana di piccoli club malfamati e vicoli sempre troppo stretti, gli stessi frequentati dal giovanissimo Tom Waits o dal miglior Billy Joel di ritorno nella grande mela di metà anni settanta, con i tasti del pianoforte di Jacopo Creatini a battere l'atmosfera giusta ed il testo che recita una storyboard fascinosamente intrigante; pianoforte che diventa protagonista insieme ai fiati (sax e clarinetto) in When The Silence Breaks Through, ballata epica che cita in causa Van Morrison e lo Springsteen romantico, sognatore e perso tra la giungla d'asfalto. Basterebbero queste due canzoni per capire l'alto livello raggiunto da Carugi come autore, qualità che lo porta a bussare alla porta dei grandi songwriters d'oltreoceano (a partire da John Prine arrivando fino a Ryan Adams) e ulteriormente confermata dal copione cinematografico, disteso e romantico degli amanti protagonisti di Charley Varrick cantata in coppia con Marialaura Specchia, cantante che abbiamo già conosciuto nei bravi-e concittadini di Cesare-Verily So; nella ballata acustica Drive The Crows Away con il prezioso violino di Chiara Giacobbe ad indicare la strada; nelle tristi solitudini da west coast notturna di Long Nights Awake con l'armonica di Andrea Giannoni a contare le stelle; o nelle paludi calpestate che circondano il lago Pontchartrain che oltre a dare il titolo al disco ed al blues di Pontchartrain Shuffle, che si avvale della chitarra di Francesco Più, delimita una impeccabile prova d'autore che meriterebbe di strabordare oltre ogni confine, nazionale ed internazionale. Il momento è giusto.
In uscita il 24 Settembre 2013.
vedi anche INTERVISTA: CESARE CARUGI, 7 Marzo 2012
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Here's To The Road (2011)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)
vedi anche RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock'n'Roll (2013)
martedì 3 settembre 2013
RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS (Electric Slave)
BLACK JOE LEWIS Electric Slave ( Vagrant Records, 2013)
Dannato di un Black Joe Lewis! Non ho ancora smesso di saltare davanti all'indemoniato e sudicio groove che usciva dalle casse che sparavano il precedente Scandalous (2011) che è giunto il momento di continuare il vizio ad oltranza nel nuovo terzo album Electric Slave. Tolta la firma dei fidi musicisti Honeybears dal monicker in copertina-ma ancora presenti con le mani allungate sugli strumenti, nonostante alcune defezioni come il cambio di batterista e l'abbandono del vecchio chitarrista che elegge Joe Lewis a unica ascia del gruppo-il suono della band si sposta maggiormente verso il lato garage minimalista della loro musica, inspessendo le chitarre e aggredendo l'ascoltatore piuttosto che ammaliarlo, senza rinunciare all'estrema varietà musicale che li caratterizza fin dall'esordio (Tell'Em What Your Name Is!-2009), anche se ascoltando la doppietta formata da My Blood Ain't Runnin' Right e Guilty esce tutto l'amore, sempre confessato, per la scena rock'n'roll di Detroit dei primi anni settanta: vocalità alla Iggy Pop, chitarre che intrecciano il serpeggiare dei fiati e il proto-punk è servito su un piatto d'argento fumante di tortillas texane appena sfornate.
Dall'alto della collina, vestiti da vecchi fuorilegge dell'antico west con tanto di armi e cinturoni che ricordano sia il solitario "papà" Taj Mahal-moltiplicato per sei- ritratto nella copertina di Giant Step quanto gli Eagles in versione Desperado, quelli che la band di Austin riversa fuori dagli amplificatori, fino ad arrivare giù a valle, sono suoni tosti e crudi: uno, due, tre, pronti, partenza, via e Skulldiggin inizia a schiaffeggiare e graffiare la pelle con la forza di una chitarra fuzz, il piano e l'hammond in sottofondo e la voce piena di feedback di Joe Lewis a salmodiare, quando non assale come avviene nel rock'n'roll disturbato e noise sparato nella viziosa Young Girls, a testimoniare che il nero musicista texano non ha perso né il pelo né il vizio, forte di una personalità e faccia tosta strabordanti che trovano la propria dimensione ideale sopra ai palchi, dove gli ululati che accompagnano Vampire, la canzone più lunga del disco, promettono sfaceli incastrati dentro al lento e lugubre inizio R'n'B che sale via via di velocità prestandosi alla lunga free jam finale.
Se non avevate ancora capito che Black Joe Lewis ha sbagliato nel venire al mondo con almeno più di trent'anni di ritardo, ascoltate cosa dice del titolo scelto per l'album e capirete cosa pensa del comodo vivere moderno: "gli schiavi elettrici sono tutte quelle persone che oggi tengono i loro volti attaccati agli iPhones, il solo modo per tenere una conversazione con loro è farlo attraverso le onde magnetiche. Il prossimo passo sarà quello di collegarli alla loro dannata testa".
Quando però la sua voce passa dall'essere "iguana" a "macchina del sesso"come quella gridata dai migliori interpreti soul alla Solomon Burke, James Brown, anche il set che gli sta intorno si trasforma e durante The Hipster sembra tramutarsi nell'insidioso palco cintato come un pollaio del Bob's Country Bunker con il materializzarsi dei "fratelli del blues" ai controcori, oppure rimanendo alla pellicola di John Landis, diventare il set del Palace Hotel di Chicago per invitarci a partecipare alla festa di Come To My Party dove l'anima nera, R&B, soul con i fiati a fare compagnia, esce prepotente ed invita alle danze sfrenate. E bisogna ancora passare dall'irresistibile groove funk alla Sly Stone/Funkadelic di Golem e Mammas Queen.
Black Joe Lewis taglia il traguardo del terzo disco facendo un occhiolino al popolo del rock, i tanti cambiamenti-dall'etichetta discografica, al produttore (ora è Stuart Sikes, più John Congleton in tre pezzi), al monicker, al suono-oltre a segnare un nuovo inizio, potrebbero far pensare ad un prossimo passo verso il successo su scala mondiale. Fortunatamente, per ora, la "favola alla Black Keys" sembra scongiurata. Joe Lewis sembra ancora troppo armato e pericoloso per compiacere chi lo vorrebbe invischiato dentro a certi giochetti mainstream.
vedi anche RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS-Scandalous (2011)
vedi anche RECENSIONE: JJ GREY & MOFRO-This River (2013)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
Dannato di un Black Joe Lewis! Non ho ancora smesso di saltare davanti all'indemoniato e sudicio groove che usciva dalle casse che sparavano il precedente Scandalous (2011) che è giunto il momento di continuare il vizio ad oltranza nel nuovo terzo album Electric Slave. Tolta la firma dei fidi musicisti Honeybears dal monicker in copertina-ma ancora presenti con le mani allungate sugli strumenti, nonostante alcune defezioni come il cambio di batterista e l'abbandono del vecchio chitarrista che elegge Joe Lewis a unica ascia del gruppo-il suono della band si sposta maggiormente verso il lato garage minimalista della loro musica, inspessendo le chitarre e aggredendo l'ascoltatore piuttosto che ammaliarlo, senza rinunciare all'estrema varietà musicale che li caratterizza fin dall'esordio (Tell'Em What Your Name Is!-2009), anche se ascoltando la doppietta formata da My Blood Ain't Runnin' Right e Guilty esce tutto l'amore, sempre confessato, per la scena rock'n'roll di Detroit dei primi anni settanta: vocalità alla Iggy Pop, chitarre che intrecciano il serpeggiare dei fiati e il proto-punk è servito su un piatto d'argento fumante di tortillas texane appena sfornate.
Dall'alto della collina, vestiti da vecchi fuorilegge dell'antico west con tanto di armi e cinturoni che ricordano sia il solitario "papà" Taj Mahal-moltiplicato per sei- ritratto nella copertina di Giant Step quanto gli Eagles in versione Desperado, quelli che la band di Austin riversa fuori dagli amplificatori, fino ad arrivare giù a valle, sono suoni tosti e crudi: uno, due, tre, pronti, partenza, via e Skulldiggin inizia a schiaffeggiare e graffiare la pelle con la forza di una chitarra fuzz, il piano e l'hammond in sottofondo e la voce piena di feedback di Joe Lewis a salmodiare, quando non assale come avviene nel rock'n'roll disturbato e noise sparato nella viziosa Young Girls, a testimoniare che il nero musicista texano non ha perso né il pelo né il vizio, forte di una personalità e faccia tosta strabordanti che trovano la propria dimensione ideale sopra ai palchi, dove gli ululati che accompagnano Vampire, la canzone più lunga del disco, promettono sfaceli incastrati dentro al lento e lugubre inizio R'n'B che sale via via di velocità prestandosi alla lunga free jam finale.
Se non avevate ancora capito che Black Joe Lewis ha sbagliato nel venire al mondo con almeno più di trent'anni di ritardo, ascoltate cosa dice del titolo scelto per l'album e capirete cosa pensa del comodo vivere moderno: "gli schiavi elettrici sono tutte quelle persone che oggi tengono i loro volti attaccati agli iPhones, il solo modo per tenere una conversazione con loro è farlo attraverso le onde magnetiche. Il prossimo passo sarà quello di collegarli alla loro dannata testa".
Quando però la sua voce passa dall'essere "iguana" a "macchina del sesso"come quella gridata dai migliori interpreti soul alla Solomon Burke, James Brown, anche il set che gli sta intorno si trasforma e durante The Hipster sembra tramutarsi nell'insidioso palco cintato come un pollaio del Bob's Country Bunker con il materializzarsi dei "fratelli del blues" ai controcori, oppure rimanendo alla pellicola di John Landis, diventare il set del Palace Hotel di Chicago per invitarci a partecipare alla festa di Come To My Party dove l'anima nera, R&B, soul con i fiati a fare compagnia, esce prepotente ed invita alle danze sfrenate. E bisogna ancora passare dall'irresistibile groove funk alla Sly Stone/Funkadelic di Golem e Mammas Queen.
Black Joe Lewis taglia il traguardo del terzo disco facendo un occhiolino al popolo del rock, i tanti cambiamenti-dall'etichetta discografica, al produttore (ora è Stuart Sikes, più John Congleton in tre pezzi), al monicker, al suono-oltre a segnare un nuovo inizio, potrebbero far pensare ad un prossimo passo verso il successo su scala mondiale. Fortunatamente, per ora, la "favola alla Black Keys" sembra scongiurata. Joe Lewis sembra ancora troppo armato e pericoloso per compiacere chi lo vorrebbe invischiato dentro a certi giochetti mainstream.
vedi anche RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS-Scandalous (2011)
vedi anche RECENSIONE: JJ GREY & MOFRO-This River (2013)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
giovedì 29 agosto 2013
RECENSIONE:LUCA MILANI (Lost For Rock'n'Roll)
LUCA MILANI Lost For Rock'n'Roll (Hellm Records, Martine Records/IRD 2013)
Quante volte ci siamo aggrappati al Rock'n'Roll? Attaccati alla funzione salvifica che gli attribuiamo molto volentieri nei momenti più difficili, quasi fosse un vecchio e saggio compagno a cui affidare segreti, sogni, istinti di rivincita e riceverne in cambio conforto, con il "piacevole" rischio di farlo diventare la colonna sonora portante di tutta un'esistenza. Vorrebbe dire che la vita è fatta per gran parte di sofferenza. Il già "salomonico" Rock'n' Roll, invece, regge il peso delle responsabilità e ti tira fuori dai guai. Funziona, quasi sempre. Ci si aggrappa a degli accordi, al ritmo, a delle chitarre, ad un testo, ai propri idoli che cantano e capiscono, meglio di qualunque altro, la nostra vita d'inferno in terra. Molte volte, la nostra vera religione. Il Rock 'n' Roll ce l'hanno cantato in tanti modi, decantandone la sua indispensabile funzione ed eternità: chi lo ha inventato, già con lungimiranza, ne cantava la superiorità a passo d'anatra con una chitarra a tracolla, chi gli augurava lunga vita sotto colorati arcobaleni hard, chi, con un flauto in mano, diceva di essere troppo vecchio per le chitarre ma troppo giovane per morire, chi tra morsi a indifesi volatili ne cantava l'immortalità e chi faceva la stessa cosa perso nel profondo buio, sentendosi-qualche anno dopo-anche un po' prigioniero in un mondo libero, "mani lente" su corde di chitarra che ci si foderavano il cuore, pietre rotolanti che ci riportano con i piedi in terra, dandone la migliore definizione possibile ed incastrandolo dentro alla giusta importanza (forse). La lista potrebbe andare avanti all'infinito. Ci si può perdere. Luca Milani si è perso come noi tutti e lo racconta attraverso dieci tappe di vita con il cuore libero ma scalpitante, sincero e verace.
Il cantautore milanese, al terzo disco dopo il buonissimo Sin Train (2011) e l'EP Scars And Tattoo (2009), lo canta nella title track così vicina al John Mellencamp di Human Wheels, e il sogno di rock'n'roll diventa una canzone da cantare fino alla fine della vita, fino all'inferno, più forte di tutte quelle brutte circostanze che sembrano inghiottirci e aver sempre la meglio, con le chitarre a scuotere ed un tappeto di hammond ad addolcire.
Milani riprende in mano la chitarra elettrica che ha segnato i suoi esordi nel gruppo File, e seppur lasci l'apertura del disco alla sommessa intimità folk urbana di On A Saturday Night, amara e greve riflessione sul trascorrere del tempo (qui, tra le tante cose, richiede indietro un concerto dei The Clash, a proposito di sogni di R'n'R), si lancia in fulminanti affreschi di blue-collar rock chitarristici, sudati e fumanti, nati ai margini della città (la sua Milano) che pagano dazio tanto alla poetica di strada di eroi come Bruce Springsteen e Willie Nile, quanto al miglior alternative punk/rock americano degli eighties (Social Distortion, Replacements, Raindogs) nell'energia sparata a tutta full band ( Giovanni Calella al basso e steel guitar, Luca Capasso alla batteria, Riccardo Maccabruni al piano) pur persa in momenti intimistici (Demons Inside), di speranza e rivincita (Second Chance); sia avvicinandosi ai Pearl Jam dell'amata scena grunge nella epica Party Dress, che alle ultime leve yankee come Jesse Malin (Silence In This Town) e Gaslight Anthem in Dust And Wind tra passi di vecchio rockabilly, armonica, pistole e amori.
Il vento che soffia forte su un' armonica e l'attacco di Dog in The Fog, viaggio con il piede pesante sull'acceleratore in fuga da nostalgie e illusioni alla ricerca dell'isola felice, mettono in risalto anche le zone d'ombra acustiche che riportano al precedente disco: gli amari addii dentro alla scheletrica costruzione sorretta da pianoforte e armonica di In The Wind, e nella finale Bar At The End Of The World per sola voce e chitarra.
Un disco sincero, secco, grigio ma ricco di colori di speranza; riflessivo e amaro in cui ci si perde volentieri da quanto ci si immedesima. E' rock'n'roll!
In uscita il 24 Settembre, sarà presentato live a partire dalla metà dello stesso mese. Ad accompagnare Milani: i Glorious Homeless, gruppo formato da alcuni membri dei Mojo Filter, protagonisti di questo inizio anno con il loro The Roadkill Songs.
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
Quante volte ci siamo aggrappati al Rock'n'Roll? Attaccati alla funzione salvifica che gli attribuiamo molto volentieri nei momenti più difficili, quasi fosse un vecchio e saggio compagno a cui affidare segreti, sogni, istinti di rivincita e riceverne in cambio conforto, con il "piacevole" rischio di farlo diventare la colonna sonora portante di tutta un'esistenza. Vorrebbe dire che la vita è fatta per gran parte di sofferenza. Il già "salomonico" Rock'n' Roll, invece, regge il peso delle responsabilità e ti tira fuori dai guai. Funziona, quasi sempre. Ci si aggrappa a degli accordi, al ritmo, a delle chitarre, ad un testo, ai propri idoli che cantano e capiscono, meglio di qualunque altro, la nostra vita d'inferno in terra. Molte volte, la nostra vera religione. Il Rock 'n' Roll ce l'hanno cantato in tanti modi, decantandone la sua indispensabile funzione ed eternità: chi lo ha inventato, già con lungimiranza, ne cantava la superiorità a passo d'anatra con una chitarra a tracolla, chi gli augurava lunga vita sotto colorati arcobaleni hard, chi, con un flauto in mano, diceva di essere troppo vecchio per le chitarre ma troppo giovane per morire, chi tra morsi a indifesi volatili ne cantava l'immortalità e chi faceva la stessa cosa perso nel profondo buio, sentendosi-qualche anno dopo-anche un po' prigioniero in un mondo libero, "mani lente" su corde di chitarra che ci si foderavano il cuore, pietre rotolanti che ci riportano con i piedi in terra, dandone la migliore definizione possibile ed incastrandolo dentro alla giusta importanza (forse). La lista potrebbe andare avanti all'infinito. Ci si può perdere. Luca Milani si è perso come noi tutti e lo racconta attraverso dieci tappe di vita con il cuore libero ma scalpitante, sincero e verace.
Il cantautore milanese, al terzo disco dopo il buonissimo Sin Train (2011) e l'EP Scars And Tattoo (2009), lo canta nella title track così vicina al John Mellencamp di Human Wheels, e il sogno di rock'n'roll diventa una canzone da cantare fino alla fine della vita, fino all'inferno, più forte di tutte quelle brutte circostanze che sembrano inghiottirci e aver sempre la meglio, con le chitarre a scuotere ed un tappeto di hammond ad addolcire.
Milani riprende in mano la chitarra elettrica che ha segnato i suoi esordi nel gruppo File, e seppur lasci l'apertura del disco alla sommessa intimità folk urbana di On A Saturday Night, amara e greve riflessione sul trascorrere del tempo (qui, tra le tante cose, richiede indietro un concerto dei The Clash, a proposito di sogni di R'n'R), si lancia in fulminanti affreschi di blue-collar rock chitarristici, sudati e fumanti, nati ai margini della città (la sua Milano) che pagano dazio tanto alla poetica di strada di eroi come Bruce Springsteen e Willie Nile, quanto al miglior alternative punk/rock americano degli eighties (Social Distortion, Replacements, Raindogs) nell'energia sparata a tutta full band ( Giovanni Calella al basso e steel guitar, Luca Capasso alla batteria, Riccardo Maccabruni al piano) pur persa in momenti intimistici (Demons Inside), di speranza e rivincita (Second Chance); sia avvicinandosi ai Pearl Jam dell'amata scena grunge nella epica Party Dress, che alle ultime leve yankee come Jesse Malin (Silence In This Town) e Gaslight Anthem in Dust And Wind tra passi di vecchio rockabilly, armonica, pistole e amori.
Il vento che soffia forte su un' armonica e l'attacco di Dog in The Fog, viaggio con il piede pesante sull'acceleratore in fuga da nostalgie e illusioni alla ricerca dell'isola felice, mettono in risalto anche le zone d'ombra acustiche che riportano al precedente disco: gli amari addii dentro alla scheletrica costruzione sorretta da pianoforte e armonica di In The Wind, e nella finale Bar At The End Of The World per sola voce e chitarra.
Un disco sincero, secco, grigio ma ricco di colori di speranza; riflessivo e amaro in cui ci si perde volentieri da quanto ci si immedesima. E' rock'n'roll!
In uscita il 24 Settembre, sarà presentato live a partire dalla metà dello stesso mese. Ad accompagnare Milani: i Glorious Homeless, gruppo formato da alcuni membri dei Mojo Filter, protagonisti di questo inizio anno con il loro The Roadkill Songs.
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
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