Che forza i fratelli Robinson. Figli di papà Stan che li indirizzò subito verso l'olimpo del rock, nipoti della San Francisco psichedelica, compagni del ruspante southern rock '70, amici del vizioso rock'n'roll/blues britannico, conoscenti affidabili dell'avvolgente soul/Motown sound. Quando la musica dei Black Crowes ti porta così bene a spasso nel tempo, come un
treno d'epoca con tanti vagoni e poche ma radianti fermate, ha raggiunto buona parte dello scopo; per quelli-e mi ci metto-che per dichiarate ragioni anagrafiche non hanno vissuto la fenomenale stagione dei seventies, la band di Atlanta rimane ancora l'unica via principale verso quella memoria: dopo una secca curva a gomito ti riportano indietro verso quelle antiche rotaie ancora lontane dall'arrugginirsi e mai fuori moda. Un mondo quasi parallelo il loro. Nessuno in questi ultimi anni è riuscito a scalzarli dal trono che li innalza a più convincente e credibile band rock in grado di competere con il passato, da loro stessi venerato, amato, sviscerato e poi rielaborato, risultando sempre così suadenti. Non ricordo un loro disco brutto, a me piacciono tutti. Nessun dubbio, il loro rock racchiude, più di qualunque altra band, lo spirito di quelle stagioni segnate tanto da ciò che arrivava dalla Gran Bretagna (Rolling Stones, Free, Faces), quanto dal rock californiano, il southern rock, le jam band (Allman Brothers, Grateful Dead, Little Feat, The Marshall Tucker Band), ma anche le forti sfumature di soul, funky, gospel fino ad arricchirsi con gli anni anche di massicce dosi di country come ben dimostrato dall' ultimo disco di studio Before The Frost...Until The Freeze, ormai lontano quattro anni e registrato nello studio/fienile del compianto Levon Helm. Il loro debutto battezzò gli anni '90 e diede una spinta decisiva alla rinascita del southern rock che sembrava fermo, come un orologio inceppato, sui fantasni dei disastri aerei, il resto ha costruito la reputazione. Per i fratelli Robinson essere paragonati continuamente alle grandi stelle del passato- loro sono i primi a comportarsi da fan- non è mai suonato come una degradante accusa ma sempre come il migliore dei complimenti possibili, e le loro infinite cover ne sono una dimostrazione, tanto che stasera c'è stata l'ulteriore conferma: suonando Medicated Goo dei Traffic, l'acustica bellezza di No Expectations degli Stones durante i bis, quasi a ricordare la scomparsa di Brian Jones (morto proprio il 3 Luglio del 1969) che nell'originale imperversava con la sua slide e quella Hush di Billy Joe Royal ma sdoganata a tutto il mondo dalla versione dei Deep Purple che si è andata ad incastrare alla perfezione con Hard To Handle, primo grande successo della carriera, preso in prestito da Otis Redding ma diventato anche un po' loro.
Il tutto, raggiungendo quella totale indipendenza all'interno del music business che molti si sognano: libertà, quella che manca a tanti, la loro vera forza. Per i corvacci neri, la musica potrebbe ridursi ad un impianto con strumenti e amplificatori sempre accesi, giorno e notte, una lunga jam in garage, in sala d'incisione così come sopra al palco, che per questo "Lay Down With Number 13" tour, è addobbato di soli grossi tappeti persiani e incensi accesi, perché bisogna stare comodi come in garage, come in studio, come a casa, e far stare a proprio agio chi, come me, non sopporta più i palchi da mille e una notte. La musica ringrazia. I piedi di Chris Robinson si muovono sopra a quei tappeti con incantevole leggerezza, le braccia sono larghe come un Cristo in croce, le mani impugnano l'armonica durante la sempre splendida Hotel Illness, sono tese al cielo nero (peccato non fosse stellato ma pieno di tubi) per acciuffare e richiamare i migliori spiriti rock'n'roll sulla piazza del passato durante la torrenziale Black Moon Creeping e noi con lui, agitiamo i nostri arti all'unisono.
Li vidi per la prima volta a Monza nel 1999, periodo By Your Side, arrivarono sul palco con vestiti sgargianti con tanto di cappelli e piume-come la copertina di quel disco-, suonarono appena dopo l'esibizione degli Aerosmith all'interno di un festival e loro, che fratelli lo sono sulla carta d'identità, vinsero-ai miei occhi- il duello a distanza con i "gemelli tossici" di Boston; ma li ricordo ancor meglio appena uscì il loro debutto nel 1990, vennero inseriti nel festival metal Monster Of Rock che toccò anche l'Italia, insieme a AC/DC, Metallica e Queensryche. Quasi Otis Redding volesse sfidare i fulmini del Dio Odino. Sono passati tanti anni, look e formazioni-sempre una girandola di tastieristi e chitarristi, l'ultimo entrato è il bravissimo Jackie Greene (ancora in fase di inserimento ma sulla strada più che buona)-sono cambiati i capelli, le barbe si sono allungate, sono comparse le prime rughe ma la sostanza e lo spirito no, quelli sono sempre gli stessi. Molte band e tanti protagonisti di quel Monster Of Rock vivacchiano tenuti in piedi dal nome. Otis Redding sembra più forte di Odino.
Il concerto, inserito all'interno del festival Dieci Giorni Suonati, avrebbe dovuto svolgersi al Castello di Vigevano ma è stato dirottato all'interno dell'Alcatraz. Il contorno scenico ( la frizzante aria estiva da festival all'aperto) ne ha sofferto molto, inutile nasconderlo, ma la musica ha lenito tutto, e su questo non avevo dubbi.
Nessun gruppo di supporto e due ore di "trip" giuste giuste come prometteva il manifesto/pubblicità ("oltre DUE ore con la musica dei Black Crowes") che sembrava voler scacciare la delusione e riconquistare la fiducia di chi rimase amareggiato dalla durata del concerto di due anni fa a Vigevano. Quante polemiche per nulla. Due ore tirate ed intense, dalla prima rullata del sempre impeccabile e solidissimo Steve Gorman seguito dal basso instancabile di Sven Pipien durante l'apertura Jealous Again fino al finale cosmico di Movin On Down The Line.
In mezzo tutto il loro mondo parallelo che ha raggiunto il solstizio estivo a metà concerto quando c'è stata la prima vera esplosione del pubblico (non da sold out però, e se non lo fanno loro chi mai dovrebbe farlo?) durante Soul Singing, poi subito ammutolito e rapito di fronte alla lunga ed ipnotizzante jam durante Wiser Time (da Amorica-1994) durante la quale sono saliti in cattedra il tastierista Adam MacDougall e i due chitarristi per tre lunghi assoli concatenati: pulito e funambolico quello di Jackie Greene, promosso pur con il difficilissimo compito di arrivare dopo un asso come Luther Dickinson, più sporco Rich Robinson sempre elegante e chioma bionda al vento (artificiale) dei ventilatori. Dopo l'acustica She Talks To Angels con Greene al mandolino, la serata è tutta in discesa per l'infiammato girone finale che promette anche l'orientaleggiante Whoa Mule acustica con Gorman che si guadagna la meritata prima fila al bongo, e l'immancabile Remedy che anticipa gli sfrenati balli finali di Hard To Handle/Hush.
Scaletta sbilanciata, che ha pescato quasi esclusivamente dal passato remoto della loro discografia, dal debutto Shake Your Money Maker (1990) e dal successore Southern Harmony And Musical Companion(1992)- e sono mancati pezzi da novanta come Twice As Hard e Sting Me-lasciando le briciole al resto della discografia. Non è dispiaciuto a nessuno, credo.
Mestiere, magia, calore, intensità, emozioni riversate sopra a quel tappeto calpestato da Chris Robinson, che ad un certo punto sembra prendere il volo...ma atterrare dolcemente proprio sul più bello. Purtroppo tutto è finito e già vedo i manifesti dei prossimi concerti con la scritta: "oltre TRE ore con la musica dei Black Crowes".
SETLIST: Jealous Again/Thick N' Thin/Hotel Illness/Black Moon Creeping/Bad Luck Blue Eyes Goodbye/Medicated Goo/Soul Singing/Wiser Time/She Talks To Angels/Whoa Mule/Thorn In My Pride/Remedy/Hard To Handle-Hush encore No Expectations/Movin On Down The Line
venerdì 5 luglio 2013
martedì 2 luglio 2013
RECENSIONE:SCORPION CHILD (Scorpion Child)
SCORPION CHILD Scorpion Child (Nuclear Blast, 2013)
Avete due possibilità: o scartate con snobismo tutta la nuova ondata di revival hard/rock che le etichette discografiche (in questo caso la Nuclear Blast) cercano di accaparrarsi a gomitate con il piacevole rischio di pescare anche brillanti diamanti in mezzo a tanto concime (vedi Rival Sons) e quindi continuate indefessi e sicuri a tirar fuori dalle buste ingiallite dal tempo i vostri vecchi vinili di Led Zeppelin, Uriah Heep e Humble Pie; oppure decidete di sporcarvi le mani, setacciare il sudiciume e cercare sul fondo ciò che brilla di più. Io consiglio sempre la seconda ipotesi, spinto da patologica curiosità, con i tempi e i mezzi alleati che consentono di farlo senza dispendio di troppe energie economiche e temporali. A brillare, questa volta, sono i texani-di Austin-Scorpion Child che con il loro debutto piazzano un disco costruito sulla solida e pur derivativa impalcatura "vintage" fatta di alberi di puro legno massello invecchiato di almeno quarant'anni, su cui riesce il miracolo di far crescere erba fresca, verde e appetibile, diversamente da tante altre band contemporanee votate allo scimmiottamento senza arte né parte, i texani hanno la pregevole capacità di far confluire tutte le loro influenze in un suono che cercano di rendere il più possibile personale e fantasioso come si può rintracciare ascoltando Polygon Of Eyes, un caterpillar che unisce velocità figlia di certi episodi alla Rainbow "assassini dei re", della prima ondata NWOBHM (Iron Maiden, Judas Priest), la pesantezza hard/blues di Blue Cheer, Black Sabbath con le chitarre intrecciate di Christopher Jay Cowart e Tom Frank a mulinare minacciose, la voce di Aryn Jonathan Black che svetta su tutto, ed una registrazione ad hoc come deve essere nell'anno 2013, costruita su misura dal produttore Chris Frenchie Smith. L'importanza di una sezione ritmica presente e galoppante (Shaun Diettrick Avants al basso, Shawn Paul Alvear alla batteria), quella che esce dalla diretta, pesante e dai fumi quasi stoner Paradigm forte di un chorus da arena che ti si appiccica sulla pelle come indelebile tattoo, nel rock'n'roll senza fronzoli di In The Arms Ecstasy, nella epica andatura sorretta da un potente riff e un altro micidiale chorus in The Secret Spot, nell'attacco zeppeliniano dell'opener Kings Highway che marcia compatta fin da subito e ci introduce al disco.
Ma anche una visione più psichedelica e illuminante della musica, quella che smorza a metà canzone l'oscurità di Salvation Slave, facendo crescere lisergiche visioni, le stesse che accecano la luminosa ballata Antioch e la melodica, viziosa seppur intrisa di drammaticità Liquor.
Con quei passaggi acustici ad interrompere il flusso elettrico, ereditati dai maestri Led Zeppelin che il cantante spiega così "gli Zeppelin erano molto innovativi e non avevano paura di andare fuori dagli usuali confini del blues elettrico..." e che l'ultima Red Blood (The River Flows) sintetizza e innalza molto bene prima di lasciare il posto ad una lost track "lo-fi" con sola voce, echo, e chitarra che pare registrata in camera d'albergo e salvata in un registratore d'emergenza.
Disco immediato e possente: 9 canzoni che si lasciano bere tutte d'un fiato, lasciando piacevoli postumi post sbornia e sudore sul pavimento, con la consapevolezza che il seguito potrebbe riservare buone e migliori sorprese, proprio come fatto dai Rival Sons con il loro secondo Head Down. Da seguire con molta curiosità.
vedi anche RECENSIONE:THE ANSWER-Revival (2011)
vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Head Down (2012)
vedi anche RECENSIONE: WOLF PEOPLE-Fain (2013)
vedi anche RECENSIONE: BLACK SABBATH-13 (2013)
vedi anche RECENSIONE: STATUS QUO-Bula Quo! (2013)
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
Avete due possibilità: o scartate con snobismo tutta la nuova ondata di revival hard/rock che le etichette discografiche (in questo caso la Nuclear Blast) cercano di accaparrarsi a gomitate con il piacevole rischio di pescare anche brillanti diamanti in mezzo a tanto concime (vedi Rival Sons) e quindi continuate indefessi e sicuri a tirar fuori dalle buste ingiallite dal tempo i vostri vecchi vinili di Led Zeppelin, Uriah Heep e Humble Pie; oppure decidete di sporcarvi le mani, setacciare il sudiciume e cercare sul fondo ciò che brilla di più. Io consiglio sempre la seconda ipotesi, spinto da patologica curiosità, con i tempi e i mezzi alleati che consentono di farlo senza dispendio di troppe energie economiche e temporali. A brillare, questa volta, sono i texani-di Austin-Scorpion Child che con il loro debutto piazzano un disco costruito sulla solida e pur derivativa impalcatura "vintage" fatta di alberi di puro legno massello invecchiato di almeno quarant'anni, su cui riesce il miracolo di far crescere erba fresca, verde e appetibile, diversamente da tante altre band contemporanee votate allo scimmiottamento senza arte né parte, i texani hanno la pregevole capacità di far confluire tutte le loro influenze in un suono che cercano di rendere il più possibile personale e fantasioso come si può rintracciare ascoltando Polygon Of Eyes, un caterpillar che unisce velocità figlia di certi episodi alla Rainbow "assassini dei re", della prima ondata NWOBHM (Iron Maiden, Judas Priest), la pesantezza hard/blues di Blue Cheer, Black Sabbath con le chitarre intrecciate di Christopher Jay Cowart e Tom Frank a mulinare minacciose, la voce di Aryn Jonathan Black che svetta su tutto, ed una registrazione ad hoc come deve essere nell'anno 2013, costruita su misura dal produttore Chris Frenchie Smith. L'importanza di una sezione ritmica presente e galoppante (Shaun Diettrick Avants al basso, Shawn Paul Alvear alla batteria), quella che esce dalla diretta, pesante e dai fumi quasi stoner Paradigm forte di un chorus da arena che ti si appiccica sulla pelle come indelebile tattoo, nel rock'n'roll senza fronzoli di In The Arms Ecstasy, nella epica andatura sorretta da un potente riff e un altro micidiale chorus in The Secret Spot, nell'attacco zeppeliniano dell'opener Kings Highway che marcia compatta fin da subito e ci introduce al disco.
Ma anche una visione più psichedelica e illuminante della musica, quella che smorza a metà canzone l'oscurità di Salvation Slave, facendo crescere lisergiche visioni, le stesse che accecano la luminosa ballata Antioch e la melodica, viziosa seppur intrisa di drammaticità Liquor.
Con quei passaggi acustici ad interrompere il flusso elettrico, ereditati dai maestri Led Zeppelin che il cantante spiega così "gli Zeppelin erano molto innovativi e non avevano paura di andare fuori dagli usuali confini del blues elettrico..." e che l'ultima Red Blood (The River Flows) sintetizza e innalza molto bene prima di lasciare il posto ad una lost track "lo-fi" con sola voce, echo, e chitarra che pare registrata in camera d'albergo e salvata in un registratore d'emergenza.
Disco immediato e possente: 9 canzoni che si lasciano bere tutte d'un fiato, lasciando piacevoli postumi post sbornia e sudore sul pavimento, con la consapevolezza che il seguito potrebbe riservare buone e migliori sorprese, proprio come fatto dai Rival Sons con il loro secondo Head Down. Da seguire con molta curiosità.
vedi anche RECENSIONE:THE ANSWER-Revival (2011)
vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Head Down (2012)
vedi anche RECENSIONE: WOLF PEOPLE-Fain (2013)
vedi anche RECENSIONE: BLACK SABBATH-13 (2013)
vedi anche RECENSIONE: STATUS QUO-Bula Quo! (2013)
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
venerdì 28 giugno 2013
RECENSIONE:STATUS QUO (Bula Quo!)
STATUS QUO Bula Quo! ( 2 CD Fourth Chord Records/ear Music/Edel, 2013)
Solo qualcuno della stessa generazione di Beatles e Rolling Stones sarebbe riuscito nel 2013 ad auto celebrarsi in un lungometraggio, parteciparvi come attore con lo spirito di chi va in vacanza per la prima volta, (comunque non nuovi alla camera da presa, vedasi la partecipazione alla serie TV Coronation Street, vero Francis Rossi e Rick Parfitt?) tenendo testa ad attori professionisti (tra cui Laura Aikman, Craig Fairbrass e Jon Lovitz) e tanto che si è in ballo, scriverne la colonna sonora tra un ciak, una nuotata ed un aperitivo sulla spiaggia al calar del sole sfoggiando camicie a fiori e humor britannico. Sul film in questione, una commedia d'azione alla James Bond diretta da Stuart St. Paul, non mi esprimo, mantenendo tutte le riserve del caso, ma le aspettative non mi sembrano proprio da premio Oscar e nemmeno in grado di accappararsi qualche premio minore in riva a qualche mare azzurro, dubito pure che la pellicola in questione, in uscita il 5 Luglio, riuscirà a sfiorare le nostre sale cinematografiche. Ma attendo, ben felice d'essere smentito.
Gli Status Quo, 51 invidiabili anni di carriera sul groppone (si formarono nel 1962 a nome Spectres, diventando ufficialmente Status Quo nel 1967) arrivano forse in ritardo rispetto a pellicole come Help! o Magical Mystery Tour, ma hanno deciso di non farsi mancare proprio nulla e riempire uno dei pochi buchi ancora scoperti in carriera. Eppure la soundtrack nata in modo spontaneo-e non calcolato, dicono- durante le riprese avvenute nel paradiso terrestre dell'arcipelago delle isole Fiji riesce perfino a portare qualcosa di nuovo-mica facile-al loro immortale boogie/blues/rock'n'roll, grazie all'introduzione di suoni tradizionali e canti del posto che si possono ascoltare in almeno tre canzoni sulle nove scritte per la pellicola: la rilassatezza da bagnasciuga di Mistery Island, la corale, reggeaggiante e abbastanza stucchevole Fiji Time, la tribalità rock'n'roll di Bula Bula Quo (Kua Ni Lega) riescono a portare mare, sole, allegria e... nulla di più.
Archiviate le novità strettamente legate alla location del film, quello che rimane è il titolo Bula Quo! (letteralmente "ciao Quo!" in lingua insulare) che riprende il titolo del loro disco maggiormente amato dai fan, Hello!, uscito nel 1973, ed una manciata di tracce del loro inconfondibile boogie/rock, ora più hard nelle chitarre energiche di Run And Hide-The Gun Song e in quelle blues di Running Inside My Head e Never Leave A Friend Behind, nel cinematografico mood di Gogogo, nel singolo Looking Out For Caroline sorta di continuazione della vecchia Caroline; ora più poppeggiante come nella martellante e "synthetizzata" All The Money che stende e vizia fin dal primo ascolto pur non raggiungendo i vertici dei tanti singoli scritti in carriera.
In questo 2013 sono molte le cose da festeggiare: il mezzo secolo della prima incarnazione delle band, la reunion della storica formazione con Alan Lancaster al basso e John Coghan alla batteria, avvenuta in primavera dopo anni di liti per un breve tour celebrativo in UK-toccheranno anche l'Italia ( il 15 Settembre all' Alcatraz di Milano) ma non con quella formazione "vintage"- ed il traguardo del centesimo singolo in carriera, Looking Out For Caroline appunto. Stiamo parlando pur sempre di una band istituzione in patria che vanta innumerevoli records da "guinness dei primati" difficilmente attaccabili e quindi non poteva esaurirsi tutto in sole nove canzoni: ci regalano un secondo dischetto con altri dieci brani ripescati dalla loro sterminata produzione tra cui un rifacimento di Living On An Island, successo del 1979 scritto dopo l'esilio "forzato" per scappare dalle grinfie del fisco e adattissima per essere rivestita di suoni provenienti dalla lontana Oceania, altre tre canzoni in studio, due (la tiratissima Frozen Hero e la Southern Reality Cheque) riprese dal precedente e riuscito Quid Pro Quo (2011) e poi l'immancabile "foghertiana" Rockin' All Over The World , quasi di loro proprietà ormai, che subisce lo stesso trattamento tra boogie e folklore delle Fiji; e ancora sei estratti live, con l'immortale tormentone che vale una carriera Whatever You Want ed una sempre portentosa Down Down a spiccare.
Dire qualcosa di nuovo della longeva coppia Parfitt/ Rossi (e soci) è sempre difficile, proprio per la loro fedeltà a certi stilemi di rock'n'roll, più forti di tutti gli sberleffi e critiche subite nel tempo, che si sa, alla fine è gentiluomo. Tacciati da sempre di poca fantasia e approssimazione strumentale, ma chi li conosce e li segue lo fa proprio per questa semplicità, e quello spirito primordiale del rock'n'roll mai venuti a meno, capaci di superare generazioni, mode musicali, critiche, prolungando un divertimento che sembra non conoscere fine. Li ami (li adoro), ti sono indifferenti o li odi. Con l'unica attenuante che non hanno mai fatto nulla per attirarsi antipatie, vivendo ben lontano dagli stravizi delle rockstar miliardarie-comunque assaporati in carriera-, dai gossip, lasciando le risposte alle chitarre fumanti e incrociate dei due leader, alle montagne di Marshall, al sudore, al non look che da sempre li accompagna, a concerti su concerti snocciolati senza continuità di sorta. Instancabili.
Un diversivo che aggiunge poco alla carriera (o molto, dipende dai punti di vista), tanto all'estate alle porte, al divertimento, al rock'n'roll senza pretese. Immortali.
vedi RECENSIONE: STATUS QUO-Quid Pro Quo (2011)
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
Solo qualcuno della stessa generazione di Beatles e Rolling Stones sarebbe riuscito nel 2013 ad auto celebrarsi in un lungometraggio, parteciparvi come attore con lo spirito di chi va in vacanza per la prima volta, (comunque non nuovi alla camera da presa, vedasi la partecipazione alla serie TV Coronation Street, vero Francis Rossi e Rick Parfitt?) tenendo testa ad attori professionisti (tra cui Laura Aikman, Craig Fairbrass e Jon Lovitz) e tanto che si è in ballo, scriverne la colonna sonora tra un ciak, una nuotata ed un aperitivo sulla spiaggia al calar del sole sfoggiando camicie a fiori e humor britannico. Sul film in questione, una commedia d'azione alla James Bond diretta da Stuart St. Paul, non mi esprimo, mantenendo tutte le riserve del caso, ma le aspettative non mi sembrano proprio da premio Oscar e nemmeno in grado di accappararsi qualche premio minore in riva a qualche mare azzurro, dubito pure che la pellicola in questione, in uscita il 5 Luglio, riuscirà a sfiorare le nostre sale cinematografiche. Ma attendo, ben felice d'essere smentito.
Gli Status Quo, 51 invidiabili anni di carriera sul groppone (si formarono nel 1962 a nome Spectres, diventando ufficialmente Status Quo nel 1967) arrivano forse in ritardo rispetto a pellicole come Help! o Magical Mystery Tour, ma hanno deciso di non farsi mancare proprio nulla e riempire uno dei pochi buchi ancora scoperti in carriera. Eppure la soundtrack nata in modo spontaneo-e non calcolato, dicono- durante le riprese avvenute nel paradiso terrestre dell'arcipelago delle isole Fiji riesce perfino a portare qualcosa di nuovo-mica facile-al loro immortale boogie/blues/rock'n'roll, grazie all'introduzione di suoni tradizionali e canti del posto che si possono ascoltare in almeno tre canzoni sulle nove scritte per la pellicola: la rilassatezza da bagnasciuga di Mistery Island, la corale, reggeaggiante e abbastanza stucchevole Fiji Time, la tribalità rock'n'roll di Bula Bula Quo (Kua Ni Lega) riescono a portare mare, sole, allegria e... nulla di più.
Archiviate le novità strettamente legate alla location del film, quello che rimane è il titolo Bula Quo! (letteralmente "ciao Quo!" in lingua insulare) che riprende il titolo del loro disco maggiormente amato dai fan, Hello!, uscito nel 1973, ed una manciata di tracce del loro inconfondibile boogie/rock, ora più hard nelle chitarre energiche di Run And Hide-The Gun Song e in quelle blues di Running Inside My Head e Never Leave A Friend Behind, nel cinematografico mood di Gogogo, nel singolo Looking Out For Caroline sorta di continuazione della vecchia Caroline; ora più poppeggiante come nella martellante e "synthetizzata" All The Money che stende e vizia fin dal primo ascolto pur non raggiungendo i vertici dei tanti singoli scritti in carriera.
In questo 2013 sono molte le cose da festeggiare: il mezzo secolo della prima incarnazione delle band, la reunion della storica formazione con Alan Lancaster al basso e John Coghan alla batteria, avvenuta in primavera dopo anni di liti per un breve tour celebrativo in UK-toccheranno anche l'Italia ( il 15 Settembre all' Alcatraz di Milano) ma non con quella formazione "vintage"- ed il traguardo del centesimo singolo in carriera, Looking Out For Caroline appunto. Stiamo parlando pur sempre di una band istituzione in patria che vanta innumerevoli records da "guinness dei primati" difficilmente attaccabili e quindi non poteva esaurirsi tutto in sole nove canzoni: ci regalano un secondo dischetto con altri dieci brani ripescati dalla loro sterminata produzione tra cui un rifacimento di Living On An Island, successo del 1979 scritto dopo l'esilio "forzato" per scappare dalle grinfie del fisco e adattissima per essere rivestita di suoni provenienti dalla lontana Oceania, altre tre canzoni in studio, due (la tiratissima Frozen Hero e la Southern Reality Cheque) riprese dal precedente e riuscito Quid Pro Quo (2011) e poi l'immancabile "foghertiana" Rockin' All Over The World , quasi di loro proprietà ormai, che subisce lo stesso trattamento tra boogie e folklore delle Fiji; e ancora sei estratti live, con l'immortale tormentone che vale una carriera Whatever You Want ed una sempre portentosa Down Down a spiccare.
Dire qualcosa di nuovo della longeva coppia Parfitt/ Rossi (e soci) è sempre difficile, proprio per la loro fedeltà a certi stilemi di rock'n'roll, più forti di tutti gli sberleffi e critiche subite nel tempo, che si sa, alla fine è gentiluomo. Tacciati da sempre di poca fantasia e approssimazione strumentale, ma chi li conosce e li segue lo fa proprio per questa semplicità, e quello spirito primordiale del rock'n'roll mai venuti a meno, capaci di superare generazioni, mode musicali, critiche, prolungando un divertimento che sembra non conoscere fine. Li ami (li adoro), ti sono indifferenti o li odi. Con l'unica attenuante che non hanno mai fatto nulla per attirarsi antipatie, vivendo ben lontano dagli stravizi delle rockstar miliardarie-comunque assaporati in carriera-, dai gossip, lasciando le risposte alle chitarre fumanti e incrociate dei due leader, alle montagne di Marshall, al sudore, al non look che da sempre li accompagna, a concerti su concerti snocciolati senza continuità di sorta. Instancabili.
Un diversivo che aggiunge poco alla carriera (o molto, dipende dai punti di vista), tanto all'estate alle porte, al divertimento, al rock'n'roll senza pretese. Immortali.
vedi RECENSIONE: STATUS QUO-Quid Pro Quo (2011)
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
martedì 25 giugno 2013
RECENSIONE: JASON ISBELL (Southeastern)
JASON ISBELL Southeastern ( Southeastern Records, 2013)
Il viaggio solitario apre sempre inaspettate porte cognitive verso il proprio interno, quelle che anche mille anni trascorsi in compagnia, pur buona, dolce o fracassona che sia, non riuscirebbero ad aprire nemmeno con le più avanzate tecniche di scasso. Deve averlo saputo molto bene Jason Isbell quando ha deciso di rimettere da parte-momentaneamente- il gruppo 400 Unit con il quale ha già inciso tre dischi (seppur molti compagni d'avventura sono presenti anche qui: Derry Borja alle tastiere, Chad Gamble alla batteria), un po' come successe nel 2007 quando abbandonò dopo una breve ma prolifica collaborazione-allora sì definitivamente- i Drive-By Truckers reduci dai loro anni e dischi migliori, mai più eguagliati, impegnati così com'erano nello riscrivere l'opera presente del Southern rock, per una carriera solista sottolineata nel monicker in copertina, che si limitò al solo Sirens Of The Ditch. Deve averlo saputo che per raccontare storie strettamente personali come il traguardo della raggiunta sobrietà e dare il giusto risalto al ritrovato amore (quasi salvifico) serviva un nuovo allontanamento, il nome nuovamente isolato in copertina, la riflessione, il distacco di tutta la carne dall'osso, l'essenzialità, il confronto con se stesso, con la redenzione, la malattia, la morte e tutte le realtà che lo hanno toccato anche indirettamente come il triste male terminale di un' amica raccontato nell'accapponante Elephant o come descrive nella finale Relativity Easy.
Southeastern è il disco dell'autoanalisi solitaria, affrontata senza vergognarsi della nudità dell'anima ben esposta nello stendino, con tutte le cicatrici degli sbagli, delle debolezze, appese e lasciate, ben visibili a tutti, sul balcone del mondo a guarire sotto il sole caldo del sud. Anche se il sole in questo disco sembra nascondersi bene, c'è, aspetta solo di trovare gli spiragli d'entrata, perché alla fine la voglia di vivere prevale su tutto e quella di tornare a dividere la vita con una buona compagnia esce prepotente nell'arioso e leggero country da viaggio di Traveling Alone ("sono stanco di viaggiare da solo...ho smesso di parlare con me stesso"), che si porta via, con un soffio di leggera brezza che entra dal finestrino, tutta la malinconia che aleggia nella più tesa scenetta casalinga di Songs That She sang In The Shower.
Estremamente personale nelle liriche, elegante, sobrio, morbido (Yvette), rootsy (Stockholm) e acustico nella musica che si veste della sola essenzialità e della penetrante vocalità soul e profonda, escludendo le scosse elettriche di Flying Over Water, e la deflagrante Super 8, lascito Southern/boogie chitarristico del suo passato nei Drive-By Truckers e ironica esorcizzazione verso tante notti post tour passate a nuotare tra solitudine e fiumi di alcol, respirandone pericolosamente i fumi ("Non voglio morire in un Super 8 motel/ solo perché a qualcuno la serata non è andata troppo bene/se mai dovessi tornare a Bristol/mi sentirei meglio dormendo in cella"). Riferimenti al suo vizio (ormai guarito) sono presenti fin dall'apertura Cover Me Up e sparsi un po' ovunque, e la tetra "scarnalità" di Live Oak, qualche brivido lo regala-ascoltate la prima strofa a cappella-parabola su vecchi gangster in bianco e nero divisi tra pistole e amori che potrebbe benissimo sovrapporsi alla sua storia; ma è l'incontro salvifico con la fresca sposa Amanda Shires ( ben presente con il violino) che viene raccontato anche in Different Days, a rappresentare il punto focale, la salvezza, il volo sopra tutto e tutti (Flying Over Water). Il presente.
E come tutti i dischi più personali, di redenzione e intimi, brilla di luce propria, commuove ed esalta, candidandosi a diventare uno dei dischi più riusciti dell'anno. Il passo definitivo verso il futuro cantautorale di Isbell?
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
Il viaggio solitario apre sempre inaspettate porte cognitive verso il proprio interno, quelle che anche mille anni trascorsi in compagnia, pur buona, dolce o fracassona che sia, non riuscirebbero ad aprire nemmeno con le più avanzate tecniche di scasso. Deve averlo saputo molto bene Jason Isbell quando ha deciso di rimettere da parte-momentaneamente- il gruppo 400 Unit con il quale ha già inciso tre dischi (seppur molti compagni d'avventura sono presenti anche qui: Derry Borja alle tastiere, Chad Gamble alla batteria), un po' come successe nel 2007 quando abbandonò dopo una breve ma prolifica collaborazione-allora sì definitivamente- i Drive-By Truckers reduci dai loro anni e dischi migliori, mai più eguagliati, impegnati così com'erano nello riscrivere l'opera presente del Southern rock, per una carriera solista sottolineata nel monicker in copertina, che si limitò al solo Sirens Of The Ditch. Deve averlo saputo che per raccontare storie strettamente personali come il traguardo della raggiunta sobrietà e dare il giusto risalto al ritrovato amore (quasi salvifico) serviva un nuovo allontanamento, il nome nuovamente isolato in copertina, la riflessione, il distacco di tutta la carne dall'osso, l'essenzialità, il confronto con se stesso, con la redenzione, la malattia, la morte e tutte le realtà che lo hanno toccato anche indirettamente come il triste male terminale di un' amica raccontato nell'accapponante Elephant o come descrive nella finale Relativity Easy.
Southeastern è il disco dell'autoanalisi solitaria, affrontata senza vergognarsi della nudità dell'anima ben esposta nello stendino, con tutte le cicatrici degli sbagli, delle debolezze, appese e lasciate, ben visibili a tutti, sul balcone del mondo a guarire sotto il sole caldo del sud. Anche se il sole in questo disco sembra nascondersi bene, c'è, aspetta solo di trovare gli spiragli d'entrata, perché alla fine la voglia di vivere prevale su tutto e quella di tornare a dividere la vita con una buona compagnia esce prepotente nell'arioso e leggero country da viaggio di Traveling Alone ("sono stanco di viaggiare da solo...ho smesso di parlare con me stesso"), che si porta via, con un soffio di leggera brezza che entra dal finestrino, tutta la malinconia che aleggia nella più tesa scenetta casalinga di Songs That She sang In The Shower.
Estremamente personale nelle liriche, elegante, sobrio, morbido (Yvette), rootsy (Stockholm) e acustico nella musica che si veste della sola essenzialità e della penetrante vocalità soul e profonda, escludendo le scosse elettriche di Flying Over Water, e la deflagrante Super 8, lascito Southern/boogie chitarristico del suo passato nei Drive-By Truckers e ironica esorcizzazione verso tante notti post tour passate a nuotare tra solitudine e fiumi di alcol, respirandone pericolosamente i fumi ("Non voglio morire in un Super 8 motel/ solo perché a qualcuno la serata non è andata troppo bene/se mai dovessi tornare a Bristol/mi sentirei meglio dormendo in cella"). Riferimenti al suo vizio (ormai guarito) sono presenti fin dall'apertura Cover Me Up e sparsi un po' ovunque, e la tetra "scarnalità" di Live Oak, qualche brivido lo regala-ascoltate la prima strofa a cappella-parabola su vecchi gangster in bianco e nero divisi tra pistole e amori che potrebbe benissimo sovrapporsi alla sua storia; ma è l'incontro salvifico con la fresca sposa Amanda Shires ( ben presente con il violino) che viene raccontato anche in Different Days, a rappresentare il punto focale, la salvezza, il volo sopra tutto e tutti (Flying Over Water). Il presente.
E come tutti i dischi più personali, di redenzione e intimi, brilla di luce propria, commuove ed esalta, candidandosi a diventare uno dei dischi più riusciti dell'anno. Il passo definitivo verso il futuro cantautorale di Isbell?
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
venerdì 21 giugno 2013
RECENSIONE: REGO SILENTA (La notte è a suo agio)
REGO SILENTA La notte è a suo agio (autoproduzione, 2013)
Prima prova sulla lunga distanza dei piemontesi- di Novara-Rego Silenta, gruppo attivo da una quindicina di anni, prima come cover band con alcuni demo in discografia-incrociati molte volte nei pub del biellese-poi a partire dal 2009 con l'uscita del già buon EP Meccanismi che vantava la produzione artistica dell'ex Timoria/Miura, Diego Galeri, il quartetto ha iniziato a fare sul serio e percorrere un'autoctona strada del rock diventata autostrada a tre corsie con questo La Notte è a suo agio, un disco ambizioso per essere un debutto, in alcuni punti forse fin troppo pretenzioso, ma estremamente personale nell'esporre e rielaborare le tante influenze raccolte lungo il cammino e le esperienze dei vari componenti: il cantante Luca Borin, il chitarrista Maurizio Cordì, il batterista Andrea Paesanti e non meno importante quella dell'ultimo entrato in formazione, il bassista Roberto Tambone già negli stoner The Brown Spacebob, anche produttore insieme alla band.
Potrei giocarmi il jolly della definizione alternative rock per definire la loro musica, ma so quanto il termine nell'anno 2013 sia ormai strausato, forse perfino sorpassato (abusato?), ma poi sinceramente: non ho mai capito veramente a cosa si è alternativi? "Noi siamo l'alternativa all'alternativo" cantavano gli americani Stuck Mojo negli anni novanta. Molto meglio, prendo in prestito la definizione. Preferisco, allora, raccontarvi di 14 canzoni-tante-per una durata complessiva che arriva quasi a 60 minuti (forse sta qui l'unico difetto?), divise in quattro atti che ripercorrono, come un concept, le quattro fasi del sonno, attraversano il buio della notte con annessi tutti gli incubi che infestano la testa umana, quelli che sembrano brillare ancor di più al calar delle tenebre, quasi a farsi riconoscere e raccontar meglio.
I Rego Silenta espongono tutto quello che sanno suonare, ed è tanta roba, un voler mettere tutto in vetrina, aspettando il giudizio dell'ascoltatore che ne indicherà la quarta corsia futura: partendo dal miglior rock italiano anni novanta che passa da Può essere paura, presa di posizione contro tutte quelle gabbie che ci auto-costruiamo, isolandoci dentro a gruppi di appartenenza che non avvalorano ma sopprimono il nostro vero io, cantata e suonata come gli Afterhours "maturi" hanno fatto in Ballate per piccole iene; alla circolare ipnoticità e psichedelia di Un Pretesto, tra le mie preferite, con il cantante Borin (anche autore di tutti i testi) a declamare fiumi di parole da far esplodere nel concitato finale come faceva (e continua a fare) Emidio Clementi nei Massimo Volume, fino ad arrivare al carrarmato stoner della strumentale Guardando in terra mentre defecavo, o le aperture più sperimentali di Danzando con i suoi liquidi giochi di chitarra.
Un disco che sa arrivare diretto e conciso nelle canzoni più immediate come L(')a(m)missione impreziosita da un hammond che fa tanto "vintage", il rapido e stratificato crossover di Beni Primari che mette alla berlina i cattivi malcostumi, nello stoner/ rock tirato di C'è una menzogna, nel tambureggiante rock'n'roll e nelle accelerazioni di Il mio divertimento estremo, nella cavalcata di Elogio alla banalità (con la caratteristica tromba di Giulio Piola che passa con disinvoltura dal mariachi al jazz); per poi rapirti ed avvolgerti dentro alle trame acustiche e ai sinth di Un Purgatorio in più, allo space rock acustico con hammond e theremin de Il Temporale insieme alla voce femminile di La Romy che si carica fino a deflagrare nel finale e nell'arpeggiata Dentro l'ombra che si trasforma presto nel buon rock da primo singolo, accompagnato da un video low cost ma efficace. "...Dentro l'ombra, la notte è a suo agio e mi chiama a scaldarmi, davanti alle braci/Dentro l'ombra ogni essere la notte brama, e sa di cosa sono capaci..."
Ultima nota per Rumore, uno stacco sostanziale dal resto, grazie al riuscito inserimento dei fiati che portano l'umore dalle parti della tradizione folk balcanica, con buona pace di Elio e le Storie Tese (cit."Complesso del primo maggio").
E se anche l'occhio e il tatto vogliono la loro parte-il che non guasta mai-il disco si presenta in una bella confezione cartonata completa di libretto, disegni e testi. Un lavoro curato nei minimi particolari, con i pochi "classici difetti" da debutto nascosti sotto ai tanti pregi di una band sicura di sé e dei propri mezzi, acquisiti negli anni di dura gavetta, quella che, a conti fatti, paga sempre e gratifica maggiormente.
vedi anche RECENSIONE: TAG MY TOE-This Fear That Clouds Our Minds (2012)
Prima prova sulla lunga distanza dei piemontesi- di Novara-Rego Silenta, gruppo attivo da una quindicina di anni, prima come cover band con alcuni demo in discografia-incrociati molte volte nei pub del biellese-poi a partire dal 2009 con l'uscita del già buon EP Meccanismi che vantava la produzione artistica dell'ex Timoria/Miura, Diego Galeri, il quartetto ha iniziato a fare sul serio e percorrere un'autoctona strada del rock diventata autostrada a tre corsie con questo La Notte è a suo agio, un disco ambizioso per essere un debutto, in alcuni punti forse fin troppo pretenzioso, ma estremamente personale nell'esporre e rielaborare le tante influenze raccolte lungo il cammino e le esperienze dei vari componenti: il cantante Luca Borin, il chitarrista Maurizio Cordì, il batterista Andrea Paesanti e non meno importante quella dell'ultimo entrato in formazione, il bassista Roberto Tambone già negli stoner The Brown Spacebob, anche produttore insieme alla band.
Potrei giocarmi il jolly della definizione alternative rock per definire la loro musica, ma so quanto il termine nell'anno 2013 sia ormai strausato, forse perfino sorpassato (abusato?), ma poi sinceramente: non ho mai capito veramente a cosa si è alternativi? "Noi siamo l'alternativa all'alternativo" cantavano gli americani Stuck Mojo negli anni novanta. Molto meglio, prendo in prestito la definizione. Preferisco, allora, raccontarvi di 14 canzoni-tante-per una durata complessiva che arriva quasi a 60 minuti (forse sta qui l'unico difetto?), divise in quattro atti che ripercorrono, come un concept, le quattro fasi del sonno, attraversano il buio della notte con annessi tutti gli incubi che infestano la testa umana, quelli che sembrano brillare ancor di più al calar delle tenebre, quasi a farsi riconoscere e raccontar meglio.
I Rego Silenta espongono tutto quello che sanno suonare, ed è tanta roba, un voler mettere tutto in vetrina, aspettando il giudizio dell'ascoltatore che ne indicherà la quarta corsia futura: partendo dal miglior rock italiano anni novanta che passa da Può essere paura, presa di posizione contro tutte quelle gabbie che ci auto-costruiamo, isolandoci dentro a gruppi di appartenenza che non avvalorano ma sopprimono il nostro vero io, cantata e suonata come gli Afterhours "maturi" hanno fatto in Ballate per piccole iene; alla circolare ipnoticità e psichedelia di Un Pretesto, tra le mie preferite, con il cantante Borin (anche autore di tutti i testi) a declamare fiumi di parole da far esplodere nel concitato finale come faceva (e continua a fare) Emidio Clementi nei Massimo Volume, fino ad arrivare al carrarmato stoner della strumentale Guardando in terra mentre defecavo, o le aperture più sperimentali di Danzando con i suoi liquidi giochi di chitarra.
Un disco che sa arrivare diretto e conciso nelle canzoni più immediate come L(')a(m)missione impreziosita da un hammond che fa tanto "vintage", il rapido e stratificato crossover di Beni Primari che mette alla berlina i cattivi malcostumi, nello stoner/ rock tirato di C'è una menzogna, nel tambureggiante rock'n'roll e nelle accelerazioni di Il mio divertimento estremo, nella cavalcata di Elogio alla banalità (con la caratteristica tromba di Giulio Piola che passa con disinvoltura dal mariachi al jazz); per poi rapirti ed avvolgerti dentro alle trame acustiche e ai sinth di Un Purgatorio in più, allo space rock acustico con hammond e theremin de Il Temporale insieme alla voce femminile di La Romy che si carica fino a deflagrare nel finale e nell'arpeggiata Dentro l'ombra che si trasforma presto nel buon rock da primo singolo, accompagnato da un video low cost ma efficace. "...Dentro l'ombra, la notte è a suo agio e mi chiama a scaldarmi, davanti alle braci/Dentro l'ombra ogni essere la notte brama, e sa di cosa sono capaci..."
Ultima nota per Rumore, uno stacco sostanziale dal resto, grazie al riuscito inserimento dei fiati che portano l'umore dalle parti della tradizione folk balcanica, con buona pace di Elio e le Storie Tese (cit."Complesso del primo maggio").
E se anche l'occhio e il tatto vogliono la loro parte-il che non guasta mai-il disco si presenta in una bella confezione cartonata completa di libretto, disegni e testi. Un lavoro curato nei minimi particolari, con i pochi "classici difetti" da debutto nascosti sotto ai tanti pregi di una band sicura di sé e dei propri mezzi, acquisiti negli anni di dura gavetta, quella che, a conti fatti, paga sempre e gratifica maggiormente.
vedi anche RECENSIONE: TAG MY TOE-This Fear That Clouds Our Minds (2012)
martedì 18 giugno 2013
RECENSIONE:JOHN MELLENCAMP, STEPHEN KING, T BONE BURNETT, AA.VV. (Ghost Brothers Of Darkland County)
JOHN MELLENCAMP, STEPHEN KING, T BONE BURNETT, AA.VV. Ghost Brothers Of Darkland County ( Hear Music/Universal, 2013)
Un progetto ambizioso, dalla lunga e tribolata gestazione che ha coinvolto due musicisti come John Mellencamp e T Bone Burnett, ed il più famoso scrittore di letteratura fantastica/horror di fine XX secolo, tale Stephen King, un re, per qualcuno anche un dio inarrivabile della penna ma anche un musicologo a tutto tondo; a raccontarcelo sono le citazioni musicali sparse nei suoi romanzi, il suo gruppo rock nato per scopi benefici, la passione dichiarata per AC/DC e Ramones, il rispetto, l'influenza e lo scambio reciproco con la comunità rock. Tutto nacque sul finire degli anni novanta da una telefonata di Mellencamp a King nella quale il cantautore dell'Indiana sottoponeva allo scrittore un'interessante leggenda americana popolata da fantasmi con protagonisti due fratelli, una sorta di Caino e Abele in salsa americana, una storia macabra, inquietante e misteriosa quasi senza tempo e adattabile, che la mente "malata" di King avrebbe potuto sviluppare e amplificare in qualcosa di grande. L'idea si è piano piano trasformata in musical, ha attraversato tante fasi e ripensamenti prima di approdare alla definitiva forma che sfocia sostanzialmente in un'opera oscura di gothic country dove tutti si sono divisi democraticamente i compiti: al "giaguaro" Mellencamp l'incarico di trasformare la storia scritta da King in musica e testi, a Burnett, produttore dal tocco distintivo e scrigno vivente delle sonorità più "americane" in circolazione, la cabina di regia in fase di produzione musicale, infine, ai tanti cantanti e attori coinvolti, il piacere di interpretarla sia su disco che a teatro. L'opera è stata rappresentata per la prima volta nell'Aprile del 2012 ad Atlanta.
Trama.
Mellencamp prende in affitto la storia da una leggenda di cui è venuto a conoscenza dopo aver acquistato un vecchio rustico adibito a casa per le vacanze. Pare che il vecchio proprietario gli raccontò storie non piacevoli sul capanno poco distante dalla dimora, infestato di fantasmi da ormai molti anni. Da lì alla telefonata a Stephen King sembra sia passato veramente poco tempo.
La leggenda prende forma nel 1957 da una storia ambientata nella cittadina di Lake Belle Reve, Mississippi, dove due fratelli (Andy e Jack) poco più che ventenni sono in combutta tra loro per amore di una splendida ragazza (Jenna). Tutto precipita quando, in modo accidentale dentro al capanno, uno fredda l'altro, inconsapevole che presto il destino si accanirà anche su di lui e la ragazza, vittime immediate di un incidente stradale- fatalità, suicidio o omicidio?- durante il loro ritorno verso la città in macchina. Tre vite spezzate, tre fantasmi che animeranno i prossimi quarant'anni di quel bel posto di villeggiatura, facendo nascere menzogne su menzogne intorno alla leggenda. A raccontare la storia, in prima persona, è il terzo fratello minore Joe (interpretato da Kris Kristofferson in età adulta e cantato anche dal tredicenne Clyde Mulroney in età giovanile nella cantilenante My Name Is Joe), unico testimone dei fatti e vero depositario della verità, anch'egli con due figli (Frank e Drake), ma con la consapevolezza e la missione di far trionfare la verità per evitare che anche la sua famiglia cada vittima dentro al vortice della leggenda, nutrita negli anni da vendette e gelosie tra parenti serpenti. Il tutto viene raccontato nel DVD contenuto nella deluxe edition attraverso un'intervista a Mellencamp, Burnett e King.
Canzoni.
Per non spezzare la continuità della storia e per rendere comprensibile la trama, le 17 canzoni sono intervallate dai dialoghi dei vari personaggi protagonisti, interpretati da veri attori (tra cui spiccano la "signora Mellencamp" Meg Ryan, Matthew McConaughey, Samantha Mathis), e dagli stessi cantanti nelle canzoni. Per gli ascoltatori più distratti, il tutto potrebbe diventare molto pesante e poco digeribile nei suoi 70 minuti, così, all'interno del CD viene fornito un apposito codice per poter scaricare dalla rete la musica senza l'interruzione delle conversazioni.
Musicalmente siamo dalle parti delle ultime brillanti produzioni di Mellencamp insieme a Burnett, in particolare le stesse atmosfere dell'ultimo splendido disco solista No Better Than This (2010 ), che fu un viaggio polveroso e affascinante tra il 900 musicale americano che ripercorreva luoghi simbolo e sonorità tradizionali, quelle che Burnett, fuoriclasse indiscutibile e unico, riesce a ricostruire lavorando di sottrazione e creando arcane atmosfere, le stesse che ritroviamo anche nelle ultime produzioni del sessantottenne produttore: nei dischi di Elvis Costello, Robert Plant/Alison Krauss, del Ryan Bingham "premio oscar" in Junky Star (2010). Un concentrato di american roots music decadente e spartana fatta di oscure country songs piene di polvere e ragnatele, antico e misterioso folk (il lento, ciondolante e cupo valzerone You Are Blind cantata dalla roca voce di Ryan Bingham presente anche in Brotherly Love con Will Dailey) , paco rockabilly acustico, e ferriginoso blues con alcune chicche niente male come la darkeggiante So Goddam Smart con Sheryl Crow ma che vede-soprattutto- riuniti i fratelli Dave e Phil Alvin (The Blasters) accompagnati dalle chitarre incisive di Marc Ribot e Andy York (presenti in tutto il disco insieme al batterista Jay Bellerose) con qualche ottima variazione sul tema come il battente blues-che ci mette in guardia dalle malelingue e che puzza di acqua stantia, paludosa e riti propiziatori- cantato con voce luciferina dal sempreverde Taj Mahal, in forma strepitosa in Tear This Cabin Down. I fratelli Alvin, evidentemente a loro agio in una storia piena di tanti altri fratelli "maledetti", li ritroviamo nello spiraglio di luce che si intravede nell'ariosa country song Home Again (con Sheryl Crow e Taj Mahal), nel pigro incedere di And Your Days Are Gone (con Sheryl Crow), nella elegante leggerezza di So Goddam Good guidata da un clarinetto, ancora con Sheryl Crow, e nella triste coralità finale di What Kind Of Man Am I.
La parte della leonessa spetta proprio a Sheryl Crow presente in sei canzoni, in duetto e da sola (in Away from This World e nella più rockata Jukin') ma in buona compagnia femminile insieme a Neko Case (That's Who I Am), e Rosanne Cash, eterea nell'ipnotica You Don't Know Me.
Curiosa e simbolica anche le presenza di Elvis Costello che dà voce alle forze del male sottoforma del diavolo tentatore, battezzando il disco nell'iniziale e sardonica That's Me e in Wrong, Wrong, Wrong About Me, affidabile e saggia quella di Kris Kristofferson che si veste, senza difficoltà, con gli abiti della saggezza del terzo fratello nei dialoghi e incanta nella placida How Many Days.
John Mellencamp, forse deludendo i suoi fan, lascia il campo libero per tutto il disco, intervenendo fisicamente solo a fine storia, prestando la sua voce "rotta" nel duetto a tre voci Truth insieme alle giovanissime sorelle Lily e Madeleine Jurkiewicz, nuove stelline del folk americano.
Se il lato prettamente musicale soddisfa pienamente, non tutto fila liscio come dovrebbe nell'ascolto globale: mancando l'aspetto visivo della storia (forse a teatro funziona tutto meglio?), purtroppo i dialoghi, pur brevissimi e ricchi di phatos, tolgono importanza alle canzoni e viceversa, generando un conflitto d'interessi che, anche se indispensabile per la linearità della narrazione, funziona a metà: croce e delizia di (quasi) tutte le rock opere. Per cui, visto che c'è, consiglio di usare il codice per scaricare i brani senza interruzioni. Però, dico io, se mi avete fornito il codice, sapevate già che qualcosa zoppicava, o no?
vedi anche RECENSIONE/REPORT live: JOHN MELLENCAMP live@ Vigevano, 9 Luglio 2011
vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
Un progetto ambizioso, dalla lunga e tribolata gestazione che ha coinvolto due musicisti come John Mellencamp e T Bone Burnett, ed il più famoso scrittore di letteratura fantastica/horror di fine XX secolo, tale Stephen King, un re, per qualcuno anche un dio inarrivabile della penna ma anche un musicologo a tutto tondo; a raccontarcelo sono le citazioni musicali sparse nei suoi romanzi, il suo gruppo rock nato per scopi benefici, la passione dichiarata per AC/DC e Ramones, il rispetto, l'influenza e lo scambio reciproco con la comunità rock. Tutto nacque sul finire degli anni novanta da una telefonata di Mellencamp a King nella quale il cantautore dell'Indiana sottoponeva allo scrittore un'interessante leggenda americana popolata da fantasmi con protagonisti due fratelli, una sorta di Caino e Abele in salsa americana, una storia macabra, inquietante e misteriosa quasi senza tempo e adattabile, che la mente "malata" di King avrebbe potuto sviluppare e amplificare in qualcosa di grande. L'idea si è piano piano trasformata in musical, ha attraversato tante fasi e ripensamenti prima di approdare alla definitiva forma che sfocia sostanzialmente in un'opera oscura di gothic country dove tutti si sono divisi democraticamente i compiti: al "giaguaro" Mellencamp l'incarico di trasformare la storia scritta da King in musica e testi, a Burnett, produttore dal tocco distintivo e scrigno vivente delle sonorità più "americane" in circolazione, la cabina di regia in fase di produzione musicale, infine, ai tanti cantanti e attori coinvolti, il piacere di interpretarla sia su disco che a teatro. L'opera è stata rappresentata per la prima volta nell'Aprile del 2012 ad Atlanta.
Trama.
Mellencamp prende in affitto la storia da una leggenda di cui è venuto a conoscenza dopo aver acquistato un vecchio rustico adibito a casa per le vacanze. Pare che il vecchio proprietario gli raccontò storie non piacevoli sul capanno poco distante dalla dimora, infestato di fantasmi da ormai molti anni. Da lì alla telefonata a Stephen King sembra sia passato veramente poco tempo.
La leggenda prende forma nel 1957 da una storia ambientata nella cittadina di Lake Belle Reve, Mississippi, dove due fratelli (Andy e Jack) poco più che ventenni sono in combutta tra loro per amore di una splendida ragazza (Jenna). Tutto precipita quando, in modo accidentale dentro al capanno, uno fredda l'altro, inconsapevole che presto il destino si accanirà anche su di lui e la ragazza, vittime immediate di un incidente stradale- fatalità, suicidio o omicidio?- durante il loro ritorno verso la città in macchina. Tre vite spezzate, tre fantasmi che animeranno i prossimi quarant'anni di quel bel posto di villeggiatura, facendo nascere menzogne su menzogne intorno alla leggenda. A raccontare la storia, in prima persona, è il terzo fratello minore Joe (interpretato da Kris Kristofferson in età adulta e cantato anche dal tredicenne Clyde Mulroney in età giovanile nella cantilenante My Name Is Joe), unico testimone dei fatti e vero depositario della verità, anch'egli con due figli (Frank e Drake), ma con la consapevolezza e la missione di far trionfare la verità per evitare che anche la sua famiglia cada vittima dentro al vortice della leggenda, nutrita negli anni da vendette e gelosie tra parenti serpenti. Il tutto viene raccontato nel DVD contenuto nella deluxe edition attraverso un'intervista a Mellencamp, Burnett e King.
Canzoni.
Per non spezzare la continuità della storia e per rendere comprensibile la trama, le 17 canzoni sono intervallate dai dialoghi dei vari personaggi protagonisti, interpretati da veri attori (tra cui spiccano la "signora Mellencamp" Meg Ryan, Matthew McConaughey, Samantha Mathis), e dagli stessi cantanti nelle canzoni. Per gli ascoltatori più distratti, il tutto potrebbe diventare molto pesante e poco digeribile nei suoi 70 minuti, così, all'interno del CD viene fornito un apposito codice per poter scaricare dalla rete la musica senza l'interruzione delle conversazioni.
Musicalmente siamo dalle parti delle ultime brillanti produzioni di Mellencamp insieme a Burnett, in particolare le stesse atmosfere dell'ultimo splendido disco solista No Better Than This (2010 ), che fu un viaggio polveroso e affascinante tra il 900 musicale americano che ripercorreva luoghi simbolo e sonorità tradizionali, quelle che Burnett, fuoriclasse indiscutibile e unico, riesce a ricostruire lavorando di sottrazione e creando arcane atmosfere, le stesse che ritroviamo anche nelle ultime produzioni del sessantottenne produttore: nei dischi di Elvis Costello, Robert Plant/Alison Krauss, del Ryan Bingham "premio oscar" in Junky Star (2010). Un concentrato di american roots music decadente e spartana fatta di oscure country songs piene di polvere e ragnatele, antico e misterioso folk (il lento, ciondolante e cupo valzerone You Are Blind cantata dalla roca voce di Ryan Bingham presente anche in Brotherly Love con Will Dailey) , paco rockabilly acustico, e ferriginoso blues con alcune chicche niente male come la darkeggiante So Goddam Smart con Sheryl Crow ma che vede-soprattutto- riuniti i fratelli Dave e Phil Alvin (The Blasters) accompagnati dalle chitarre incisive di Marc Ribot e Andy York (presenti in tutto il disco insieme al batterista Jay Bellerose) con qualche ottima variazione sul tema come il battente blues-che ci mette in guardia dalle malelingue e che puzza di acqua stantia, paludosa e riti propiziatori- cantato con voce luciferina dal sempreverde Taj Mahal, in forma strepitosa in Tear This Cabin Down. I fratelli Alvin, evidentemente a loro agio in una storia piena di tanti altri fratelli "maledetti", li ritroviamo nello spiraglio di luce che si intravede nell'ariosa country song Home Again (con Sheryl Crow e Taj Mahal), nel pigro incedere di And Your Days Are Gone (con Sheryl Crow), nella elegante leggerezza di So Goddam Good guidata da un clarinetto, ancora con Sheryl Crow, e nella triste coralità finale di What Kind Of Man Am I.
La parte della leonessa spetta proprio a Sheryl Crow presente in sei canzoni, in duetto e da sola (in Away from This World e nella più rockata Jukin') ma in buona compagnia femminile insieme a Neko Case (That's Who I Am), e Rosanne Cash, eterea nell'ipnotica You Don't Know Me.
Curiosa e simbolica anche le presenza di Elvis Costello che dà voce alle forze del male sottoforma del diavolo tentatore, battezzando il disco nell'iniziale e sardonica That's Me e in Wrong, Wrong, Wrong About Me, affidabile e saggia quella di Kris Kristofferson che si veste, senza difficoltà, con gli abiti della saggezza del terzo fratello nei dialoghi e incanta nella placida How Many Days.
John Mellencamp, forse deludendo i suoi fan, lascia il campo libero per tutto il disco, intervenendo fisicamente solo a fine storia, prestando la sua voce "rotta" nel duetto a tre voci Truth insieme alle giovanissime sorelle Lily e Madeleine Jurkiewicz, nuove stelline del folk americano.
Se il lato prettamente musicale soddisfa pienamente, non tutto fila liscio come dovrebbe nell'ascolto globale: mancando l'aspetto visivo della storia (forse a teatro funziona tutto meglio?), purtroppo i dialoghi, pur brevissimi e ricchi di phatos, tolgono importanza alle canzoni e viceversa, generando un conflitto d'interessi che, anche se indispensabile per la linearità della narrazione, funziona a metà: croce e delizia di (quasi) tutte le rock opere. Per cui, visto che c'è, consiglio di usare il codice per scaricare i brani senza interruzioni. Però, dico io, se mi avete fornito il codice, sapevate già che qualcosa zoppicava, o no?
vedi anche RECENSIONE/REPORT live: JOHN MELLENCAMP live@ Vigevano, 9 Luglio 2011
vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
giovedì 13 giugno 2013
RECENSIONE:BLACK SABBATH (13)
BLACK SABBATH 13 (Vertigo/Republic Records, 2013)
Se per valutare 13 dovessimo tornare indietro all'ultimo album in studio uscito con la sigla Black Sabbath stampata in copertina, il confuso Forbidden del 1995 con Tony Martin alla voce (e pure l'ospitata del rapper/rocker Ice-T), il giudizio non potrebbe che essere più che positivo. Il ritorno di Ozzy Osbourne alla voce su disco dopo 35 anni, lo stesso cantante che nella sua autobiografia, a fine libro, scrisse: "anche con gli altri Black Sabbath le cose filano lisce, sebbene ora sia sorta una controversia su chi detiene i diritti del nome...la mia posizione è che spettano a tutti indifferentemente...vedremo come andrà a finire..." e che, con la pesante complicità della moglie/manager/padrona Sharon, negò al povero R.J. Dio (R.I.P.) di accomiatarsi dal mondo terreno lasciando la sua firma su un disco a nome Black Sabbath che per l'occasione furono costretti, per problemi contrattuali, a reinventarsi sotto la sigla Heaven And Hell, è di per se notizia di rilievo, visto che da almeno quindici anni, dalla reunion live in formazione originale del 1998 (che comunque espresse due inediti pregevoli come Psycho Man e Selling My Soul contenuti nel live testimonianza Reunion), la telenovela tra i membri del gruppo sembrava infinita e non voler mai sbocciare in qualcosa di concreto, pur essendo chiaro che tutti i membri chiamati in causa avessero una voglia matta di suonare ancora insieme (almeno) per una volta.
Da quando il batterista originale Bill Ward uscì dalla porta principale, sbattendola-ancora una volta per "stupidi" problemi contrattuali- la reunion ha perso un po' di magia, immediatamente riconquistata dopo aver saputo del grave linfoma diagnosticato a Tony Iommi, che fortunatamente non gli ha impedito di portare a termine un lavoro pesante ma appagante alla chitarra ed imbarcarsi in tour. Notizia degli ultimi giorni danno per annullata l'unica data italiana prevista per il 5 Dicembre 2013, solo quella però: misteri tutti italici, come sempre.
13 è il disco che potrebbe chiudere definitivamente il capitolo Black Sabbath, sancendo la pace definitiva tra Osbourne ed i suoi vecchi compagni (rimane purtroppo l'ombra della defezione di Ward) ed il sentore lo si ha appena si giunge alla fine della quadrata e sulfurea Dear Father, ultima canzone del disco, quando un temporale e i rintocchi di campane riportano immediatamente all'inizio della storia, a quel debutto, a quei suoni che cambiarono la vita a più di un gruppo dal 1970 in avanti, con buona pace del povero Lester Bangs che li massacrò sulle pagine di Rolling Stone. La chiusura del cerchio è avvenuta, quarantatré anni dopo.
Reclutato il bravo Brad Wilk, batterista dei Rage Against The Machine-scelta curiosa, l'amico Vinny Appice non era disponibile?- con Rick Rubin in produzione e a lavorare, come in molti altri dischi, con l'orecchio da fan per cercare di ritrovare la primordiale essenza musicale del quartetto di Birmingham, 13 si eleva tra i migliori dischi del sabba nero usciti post 1978, andando a fare buona compagnia a Heaven and Hell(1980), il sempre sottovalutato Dehumanizer(1992) e The Devil You Know(2009), quest'ultimo uscito a nome Heaven & Hell, ma a tutti gli effetti Black Sabbath nel suono e nell'anima, in fondo, se lo fu il progetto solista di Iommi, Seventh Star(1986)...
Diverso il discorso quando 13 viene messo a confronto con la produzione seventies con Ozzy Osbourne alla voce. Pur ritenendo sbagliato a priori giudicare un disco targato 2013 paragonandolo a quelli usciti più di 40 anni fa, purtroppo l'operazione risulta inevitabile quando è la band stessa a creare alcuni doppioni-inutili e dannosi-che abbassano il voto ad un disco altrimenti ben riuscito e positivo. A voler inseguire il passato a tutti i costi, si incappa in una Planet Caravan numero due, quale risulta essere Zeitgeist, naturalmente privata del phatos malatamente cosmico/psichedelico dell'originale; in canzoni carta carbone come l'iniziale, pur buona, End of the Beginning che appena parte l'intro rallentato sai quando arriverà il cambio di tempo ed entrerà la voce di Ozzy, una Black Sabbath (la canzone) per gli anni 2000; oppure ad una pulizia di suono adottata da Rubin che rende poca giustizia alla chitarra di Tony Iommi. Insomma, si è osato poco e guardato più al mestiere, questo sì. Ma questi sono solo miei veniali capricci da fan. Ho trovato il disco estremamente riuscito nella sua globalità, sopportando pure alcune "ormai normali" cadute vocali di Ozzy Osbourne, molto vicine ai suoi ultimi dischi solisti-ma la sua vocalità sempre sul filo della stonatura è la sua forza inimitabile-, e la mancanza di quella sinistra e ossianica nube che avvolgeva i loro capolavori, dissolta inevitabilmente lungo gli anni.
Perché, a voler inseguire il passato capita anche: di imbattersi nella ritrovata vena blues di Damaged Soul, la mia preferita-cose che non si sentivano da tempo in un disco dei Sabbath- dove anche la voce di Ozzy, pur piena di effetti, è efficace e la chitarra di Iommi è libera di jammare e dialogare con un'armonica (che fa tanto The Wizard) nell'accelerato finale; di risentire il basso di Geezer Butler pulsare come ai vecchi tempi nei nove riusciti minuti di God Is Dead?, canzone che inizia lentamente ed arpeggiata per poi scuotersi ed arricchirsi di groove nel più veloce finale ("il sangue corre libero, la pioggia diventa rossa/dammi il vino, tu tieni il pane/l'eco delle voci nella mia testa/Dio è vivo o morto? Dio è morto?"); di sentire gli epici riff e i mille cambi d'umore di Age of Reason, e pensare che sarebbe stata perfetta per la voce di R.J.Dio; di scuotere la testa sotto al riff ossessivo e circolare di Loner; di ritrovare tracce di Hole In The Sky in Live Forever, la più diretta, corta e veloce del disco.
Se la storia dei Black Sabbath aveva bisogno di un degno disco per i titoli di coda-il già citato Forbidden non lo era- il piatto è servito. Non mi aspettavo nulla di più e mi accontento dei Black Sabbath che suonano come i Black Sabbath. Un "classico" come commiato è quello che ci voleva. Is this the end of beginning or the beginning of the end? Grazie di tutto. Voto 7
N.B. Nella Deluxe Edition, un secondo CD con 3 canzoni in più per un totale di 15 minuti: la moderna, riuscita e tiratissima Methademic, più vicina agli ultimi lavori solisti di Osbourne, la più "doomeggiante" Peace Of Mind e l'anarchia religiosa della dinamica Pariah .
vedi anche RECENSIONE: STATUS QUO-Bula Quo! (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
Se per valutare 13 dovessimo tornare indietro all'ultimo album in studio uscito con la sigla Black Sabbath stampata in copertina, il confuso Forbidden del 1995 con Tony Martin alla voce (e pure l'ospitata del rapper/rocker Ice-T), il giudizio non potrebbe che essere più che positivo. Il ritorno di Ozzy Osbourne alla voce su disco dopo 35 anni, lo stesso cantante che nella sua autobiografia, a fine libro, scrisse: "anche con gli altri Black Sabbath le cose filano lisce, sebbene ora sia sorta una controversia su chi detiene i diritti del nome...la mia posizione è che spettano a tutti indifferentemente...vedremo come andrà a finire..." e che, con la pesante complicità della moglie/manager/padrona Sharon, negò al povero R.J. Dio (R.I.P.) di accomiatarsi dal mondo terreno lasciando la sua firma su un disco a nome Black Sabbath che per l'occasione furono costretti, per problemi contrattuali, a reinventarsi sotto la sigla Heaven And Hell, è di per se notizia di rilievo, visto che da almeno quindici anni, dalla reunion live in formazione originale del 1998 (che comunque espresse due inediti pregevoli come Psycho Man e Selling My Soul contenuti nel live testimonianza Reunion), la telenovela tra i membri del gruppo sembrava infinita e non voler mai sbocciare in qualcosa di concreto, pur essendo chiaro che tutti i membri chiamati in causa avessero una voglia matta di suonare ancora insieme (almeno) per una volta.
Da quando il batterista originale Bill Ward uscì dalla porta principale, sbattendola-ancora una volta per "stupidi" problemi contrattuali- la reunion ha perso un po' di magia, immediatamente riconquistata dopo aver saputo del grave linfoma diagnosticato a Tony Iommi, che fortunatamente non gli ha impedito di portare a termine un lavoro pesante ma appagante alla chitarra ed imbarcarsi in tour. Notizia degli ultimi giorni danno per annullata l'unica data italiana prevista per il 5 Dicembre 2013, solo quella però: misteri tutti italici, come sempre.
13 è il disco che potrebbe chiudere definitivamente il capitolo Black Sabbath, sancendo la pace definitiva tra Osbourne ed i suoi vecchi compagni (rimane purtroppo l'ombra della defezione di Ward) ed il sentore lo si ha appena si giunge alla fine della quadrata e sulfurea Dear Father, ultima canzone del disco, quando un temporale e i rintocchi di campane riportano immediatamente all'inizio della storia, a quel debutto, a quei suoni che cambiarono la vita a più di un gruppo dal 1970 in avanti, con buona pace del povero Lester Bangs che li massacrò sulle pagine di Rolling Stone. La chiusura del cerchio è avvenuta, quarantatré anni dopo.
Reclutato il bravo Brad Wilk, batterista dei Rage Against The Machine-scelta curiosa, l'amico Vinny Appice non era disponibile?- con Rick Rubin in produzione e a lavorare, come in molti altri dischi, con l'orecchio da fan per cercare di ritrovare la primordiale essenza musicale del quartetto di Birmingham, 13 si eleva tra i migliori dischi del sabba nero usciti post 1978, andando a fare buona compagnia a Heaven and Hell(1980), il sempre sottovalutato Dehumanizer(1992) e The Devil You Know(2009), quest'ultimo uscito a nome Heaven & Hell, ma a tutti gli effetti Black Sabbath nel suono e nell'anima, in fondo, se lo fu il progetto solista di Iommi, Seventh Star(1986)...
Diverso il discorso quando 13 viene messo a confronto con la produzione seventies con Ozzy Osbourne alla voce. Pur ritenendo sbagliato a priori giudicare un disco targato 2013 paragonandolo a quelli usciti più di 40 anni fa, purtroppo l'operazione risulta inevitabile quando è la band stessa a creare alcuni doppioni-inutili e dannosi-che abbassano il voto ad un disco altrimenti ben riuscito e positivo. A voler inseguire il passato a tutti i costi, si incappa in una Planet Caravan numero due, quale risulta essere Zeitgeist, naturalmente privata del phatos malatamente cosmico/psichedelico dell'originale; in canzoni carta carbone come l'iniziale, pur buona, End of the Beginning che appena parte l'intro rallentato sai quando arriverà il cambio di tempo ed entrerà la voce di Ozzy, una Black Sabbath (la canzone) per gli anni 2000; oppure ad una pulizia di suono adottata da Rubin che rende poca giustizia alla chitarra di Tony Iommi. Insomma, si è osato poco e guardato più al mestiere, questo sì. Ma questi sono solo miei veniali capricci da fan. Ho trovato il disco estremamente riuscito nella sua globalità, sopportando pure alcune "ormai normali" cadute vocali di Ozzy Osbourne, molto vicine ai suoi ultimi dischi solisti-ma la sua vocalità sempre sul filo della stonatura è la sua forza inimitabile-, e la mancanza di quella sinistra e ossianica nube che avvolgeva i loro capolavori, dissolta inevitabilmente lungo gli anni.
Perché, a voler inseguire il passato capita anche: di imbattersi nella ritrovata vena blues di Damaged Soul, la mia preferita-cose che non si sentivano da tempo in un disco dei Sabbath- dove anche la voce di Ozzy, pur piena di effetti, è efficace e la chitarra di Iommi è libera di jammare e dialogare con un'armonica (che fa tanto The Wizard) nell'accelerato finale; di risentire il basso di Geezer Butler pulsare come ai vecchi tempi nei nove riusciti minuti di God Is Dead?, canzone che inizia lentamente ed arpeggiata per poi scuotersi ed arricchirsi di groove nel più veloce finale ("il sangue corre libero, la pioggia diventa rossa/dammi il vino, tu tieni il pane/l'eco delle voci nella mia testa/Dio è vivo o morto? Dio è morto?"); di sentire gli epici riff e i mille cambi d'umore di Age of Reason, e pensare che sarebbe stata perfetta per la voce di R.J.Dio; di scuotere la testa sotto al riff ossessivo e circolare di Loner; di ritrovare tracce di Hole In The Sky in Live Forever, la più diretta, corta e veloce del disco.
Se la storia dei Black Sabbath aveva bisogno di un degno disco per i titoli di coda-il già citato Forbidden non lo era- il piatto è servito. Non mi aspettavo nulla di più e mi accontento dei Black Sabbath che suonano come i Black Sabbath. Un "classico" come commiato è quello che ci voleva. Is this the end of beginning or the beginning of the end? Grazie di tutto. Voto 7
N.B. Nella Deluxe Edition, un secondo CD con 3 canzoni in più per un totale di 15 minuti: la moderna, riuscita e tiratissima Methademic, più vicina agli ultimi lavori solisti di Osbourne, la più "doomeggiante" Peace Of Mind e l'anarchia religiosa della dinamica Pariah .
vedi anche RECENSIONE: STATUS QUO-Bula Quo! (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
martedì 11 giugno 2013
RECENSIONE:WILLIE NILE (American Ride)
WILLIE NILE American Ride (Blue Rose Records, 2013)
La forza di Willie Nile è tutta raccolta tra il suo metro sessanta e settanta di altezza, un concentrato di nervi e tendini che a sessantacinque anni di età-appena compiuti- sono ancora tesi, vitali, scalpitanti, esplosivi, e chi lo ha visto almeno una volta sul palco, sa di cosa parlo. Un artista proiettato sempre verso il segno positivo dell'ottimismo con il cuore sanguinante, perennemente trafitto da una visione ancora romantica e salvifica della musica. Uno staordinario ed onesto entusiasmo, un'attitudine che molti giovani potrebbero solo invidiargli, mai superare o solo eguagliare, temprata da una carriera ad ostacoli che, se confrontata con la "faciloneria a buon mercato"del music business odierno, sembra appartenere alla preistoria, eppure gli anni ottanta non sembrano poi così lontani. Il piccolo cantautore di Buffalo si è ripreso con forza quel meritato posto che il rock'n'roll gli aveva già promesso fin dal suo strepitoso esordio del 1980, e che problemi legali, totalmente estranei alla "vera" musica, hanno cercato di insidiare fin da subito. Potrà sembrare paradossale ma la seconda parte di carriera, quella della sua vera rinascita artistica, inizia dopo il fatidico 11 Settembre 2001, una data spartiacque che per molti ha significato la fine, la chiusura di un cerchio, per lui, da lì, è iniziata una inarrestabile, meritata escalation. Il suo lento ritorno negli anni novanta, dopo il forzato esilio, prima con Place I Have Never Been (1991), poi con Beautiful Wreck Of The World (1999) di cui si ricorda la commovente dedica a Jeff Buckley in On The Road To Calvary, in seguito, dopo tanti altri anni di silenzio, l'impatto straordinario di Streets Of New York (2006), ritratto definitivo della città, con la ferite ancora aperte, che lo ha visto crescere umanamente e musicalmente, seguito dai successivi House Of A Thousand Guitars (2009) e The Innocent Ones (2010), a cui va aggiunta una carriera live letteralmente riesplosa e tanti attestati di stima da parte dei colleghi musicisti:" ho suonato più concerti in questi ultimi due anni che in tutta la carriera", dice.
Anche questo disco non è sfuggito, purtroppo, alle logiche contorte del mercato discografico, ma i tempi, fortunatamente, sono cambiati. Nile aveva queste dodici canzoni da far uscire, ma non un contratto che se ne prendesse cura; da prima si affida all'aiuto finanziario dei fan attraverso Pledgemusic, poi trova finalmente l'etichetta BlueRose Records ed il disco è ora qui, a girare con tutta la passione che straborda.
Una raccolta di canzoni rock senza tempo, con tutte le caratteristiche di quei vecchi dischi che abbiamo sempre amato, e che conserviamo gelosamente tra le cose più care e preziose, degno di stare accanto ad un The River, a Damn The Torpedoes, Infidels, a London Calling, ai suoi primi due (tutti titoli presi a caso, ma ci siamo capiti). American Ride fa la sua figura e il tempo aiuterà.
Un viaggio confortevole, brioso che esalta nei suoi momenti più spensierati e rock'n'roll, segnali di vita scagliati nell'apertura dal piglio punk, lanciata dopo il ramonesiano "one,two... one, two,three" di This Is Our Time; nel quadretto di ordinaria quotidianità lungo le famigliari strade della grande mela e ben dipinto in Life On Bleecker Street; nelle canzoni di fede -quella ironica, quella trovata, persa e ritrovata-nel rock'roll God Laughts scritta con il cantautore Eric Bazilian che fa il paio con la tesa epicità di If I Ever See The Light; nella cover di People Who Died dello scomparso poeta e musicista Jim Carroll suonata con l'urgenza punk e le chitarre elettriche davanti a tutto; o nell'incedere garage/punk anti-guerra di Holy War che potrebbe essere una outtake perduta del clashiano Sandinista!.
Un disco vario, American Ride. Che si pregia di ballate ad ampio respiro, leggere e romantiche come una carezza alla propria amata, quella che una volta era "troppo fredda" ed ora arde d'amore, She's Got My Heart "lei ha gli occhi di suo padre e il sorriso di sua madre/ma ha il mio cuore, sì ha il mio cuore"; o del country/folk dylaniano di American Ride, dal passo limpido e ben disteso, che sprizza e diffonde vita attraverso il pizzico di un banjo, puntando il dito su una cartina stradale degli States alla ricerca del viaggio salvifico che, partendo dalle strade della sua New York, tocca Menphis e Graceland, Nashville, costeggia il Delta del Mississippi e le coste Californiane, riposa di notte tra i deserti di Santa Fe, prosegue verso il Texas e San Francisco, si imbottisce di possente rock'n'roll, di melmoso blues e di raffinato jazz, si carica di sogni e sembra che non ti resti altro che saltare a bordo e vagabondare. "Come on ride ride ride with me baby come on". Scritta insieme a Mike Peters ex voce dei The Alarm, ora nei Big country. Già tra le mie canzoni dell'anno e da testare subito con il volante in mano.
Poi, la seconda metà del disco che lascia il segno dalla parte delle pure emozioni, percorrendo altre importanti strade musicali: il divertente rock swingato di Say Hey con i fiati e suonato con la tosta zampata rockabilly, il ballroom piano dello swing corale di Sunrise In New York, finendo con due prove cantautorali di valore assoluto come la profonda e struggente ballata per solo pianoforte e viola ( suonata da Suzanne Ornstein) di The Crossing, ed il folk di There's No Place Like Home che riporta ai padri putativi dei folksingers americani, Pete Seeger e Woody Guthrie, e che ha le ruote fumanti puntate verso la direzione del focolare, perché poi "potrai aver girato il mondo e fatto festa con i Rolling Stones" ma non c'è nessun posto come la propria casa.
Non vive più all'ombra di nessun paragone, avendo trovato la propria strada in quell'incrocio che unisce il folk del Greenwich Village con il punk metropolitano della sua amata New York di metà anni settanta ...da lì è partito e lì lo ritroviamo, con tanta vita vissuta nel bagaglio ma con la stessa urgenza comunicativa e la poetica urbana degli esordi.
Suonato con la stessa band che abbiamo imparato a conoscere e che lo accompagna in giro per il mondo e l'Europa, continente che lo ha adottato, da lui conquistato definitivamente con i tanti live: Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre e Alex Alexander alla batteria (più importanti ospiti come Steuart Smith e James Maddock).
L'annullamento del consueto tour estivo in Italia, una volta tanto, non è da prendere con egoistica rabbia, Nile con questo nuovo lavoro sta ottenendo grandi consensi in madrepatria e sta sfruttando al meglio le carte promozionali a sua disposizione, raccogliendo tutto il buono che gli sta arrivando. Tutto meritato.
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-The Innocent Ones (2010)
vedi anche RECENSIONE/Live: WILLIE NILE Asti Musica 14 Luglio 2010
vedi anche RECENSIONE: THE DEL-LORDS- Elvis Club (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
La forza di Willie Nile è tutta raccolta tra il suo metro sessanta e settanta di altezza, un concentrato di nervi e tendini che a sessantacinque anni di età-appena compiuti- sono ancora tesi, vitali, scalpitanti, esplosivi, e chi lo ha visto almeno una volta sul palco, sa di cosa parlo. Un artista proiettato sempre verso il segno positivo dell'ottimismo con il cuore sanguinante, perennemente trafitto da una visione ancora romantica e salvifica della musica. Uno staordinario ed onesto entusiasmo, un'attitudine che molti giovani potrebbero solo invidiargli, mai superare o solo eguagliare, temprata da una carriera ad ostacoli che, se confrontata con la "faciloneria a buon mercato"del music business odierno, sembra appartenere alla preistoria, eppure gli anni ottanta non sembrano poi così lontani. Il piccolo cantautore di Buffalo si è ripreso con forza quel meritato posto che il rock'n'roll gli aveva già promesso fin dal suo strepitoso esordio del 1980, e che problemi legali, totalmente estranei alla "vera" musica, hanno cercato di insidiare fin da subito. Potrà sembrare paradossale ma la seconda parte di carriera, quella della sua vera rinascita artistica, inizia dopo il fatidico 11 Settembre 2001, una data spartiacque che per molti ha significato la fine, la chiusura di un cerchio, per lui, da lì, è iniziata una inarrestabile, meritata escalation. Il suo lento ritorno negli anni novanta, dopo il forzato esilio, prima con Place I Have Never Been (1991), poi con Beautiful Wreck Of The World (1999) di cui si ricorda la commovente dedica a Jeff Buckley in On The Road To Calvary, in seguito, dopo tanti altri anni di silenzio, l'impatto straordinario di Streets Of New York (2006), ritratto definitivo della città, con la ferite ancora aperte, che lo ha visto crescere umanamente e musicalmente, seguito dai successivi House Of A Thousand Guitars (2009) e The Innocent Ones (2010), a cui va aggiunta una carriera live letteralmente riesplosa e tanti attestati di stima da parte dei colleghi musicisti:" ho suonato più concerti in questi ultimi due anni che in tutta la carriera", dice.
Anche questo disco non è sfuggito, purtroppo, alle logiche contorte del mercato discografico, ma i tempi, fortunatamente, sono cambiati. Nile aveva queste dodici canzoni da far uscire, ma non un contratto che se ne prendesse cura; da prima si affida all'aiuto finanziario dei fan attraverso Pledgemusic, poi trova finalmente l'etichetta BlueRose Records ed il disco è ora qui, a girare con tutta la passione che straborda.
Una raccolta di canzoni rock senza tempo, con tutte le caratteristiche di quei vecchi dischi che abbiamo sempre amato, e che conserviamo gelosamente tra le cose più care e preziose, degno di stare accanto ad un The River, a Damn The Torpedoes, Infidels, a London Calling, ai suoi primi due (tutti titoli presi a caso, ma ci siamo capiti). American Ride fa la sua figura e il tempo aiuterà.
Un viaggio confortevole, brioso che esalta nei suoi momenti più spensierati e rock'n'roll, segnali di vita scagliati nell'apertura dal piglio punk, lanciata dopo il ramonesiano "one,two... one, two,three" di This Is Our Time; nel quadretto di ordinaria quotidianità lungo le famigliari strade della grande mela e ben dipinto in Life On Bleecker Street; nelle canzoni di fede -quella ironica, quella trovata, persa e ritrovata-nel rock'roll God Laughts scritta con il cantautore Eric Bazilian che fa il paio con la tesa epicità di If I Ever See The Light; nella cover di People Who Died dello scomparso poeta e musicista Jim Carroll suonata con l'urgenza punk e le chitarre elettriche davanti a tutto; o nell'incedere garage/punk anti-guerra di Holy War che potrebbe essere una outtake perduta del clashiano Sandinista!.
Un disco vario, American Ride. Che si pregia di ballate ad ampio respiro, leggere e romantiche come una carezza alla propria amata, quella che una volta era "troppo fredda" ed ora arde d'amore, She's Got My Heart "lei ha gli occhi di suo padre e il sorriso di sua madre/ma ha il mio cuore, sì ha il mio cuore"; o del country/folk dylaniano di American Ride, dal passo limpido e ben disteso, che sprizza e diffonde vita attraverso il pizzico di un banjo, puntando il dito su una cartina stradale degli States alla ricerca del viaggio salvifico che, partendo dalle strade della sua New York, tocca Menphis e Graceland, Nashville, costeggia il Delta del Mississippi e le coste Californiane, riposa di notte tra i deserti di Santa Fe, prosegue verso il Texas e San Francisco, si imbottisce di possente rock'n'roll, di melmoso blues e di raffinato jazz, si carica di sogni e sembra che non ti resti altro che saltare a bordo e vagabondare. "Come on ride ride ride with me baby come on". Scritta insieme a Mike Peters ex voce dei The Alarm, ora nei Big country. Già tra le mie canzoni dell'anno e da testare subito con il volante in mano.
Poi, la seconda metà del disco che lascia il segno dalla parte delle pure emozioni, percorrendo altre importanti strade musicali: il divertente rock swingato di Say Hey con i fiati e suonato con la tosta zampata rockabilly, il ballroom piano dello swing corale di Sunrise In New York, finendo con due prove cantautorali di valore assoluto come la profonda e struggente ballata per solo pianoforte e viola ( suonata da Suzanne Ornstein) di The Crossing, ed il folk di There's No Place Like Home che riporta ai padri putativi dei folksingers americani, Pete Seeger e Woody Guthrie, e che ha le ruote fumanti puntate verso la direzione del focolare, perché poi "potrai aver girato il mondo e fatto festa con i Rolling Stones" ma non c'è nessun posto come la propria casa.
Non vive più all'ombra di nessun paragone, avendo trovato la propria strada in quell'incrocio che unisce il folk del Greenwich Village con il punk metropolitano della sua amata New York di metà anni settanta ...da lì è partito e lì lo ritroviamo, con tanta vita vissuta nel bagaglio ma con la stessa urgenza comunicativa e la poetica urbana degli esordi.
Suonato con la stessa band che abbiamo imparato a conoscere e che lo accompagna in giro per il mondo e l'Europa, continente che lo ha adottato, da lui conquistato definitivamente con i tanti live: Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre e Alex Alexander alla batteria (più importanti ospiti come Steuart Smith e James Maddock).
L'annullamento del consueto tour estivo in Italia, una volta tanto, non è da prendere con egoistica rabbia, Nile con questo nuovo lavoro sta ottenendo grandi consensi in madrepatria e sta sfruttando al meglio le carte promozionali a sua disposizione, raccogliendo tutto il buono che gli sta arrivando. Tutto meritato.
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-The Innocent Ones (2010)
vedi anche RECENSIONE/Live: WILLIE NILE Asti Musica 14 Luglio 2010
vedi anche RECENSIONE: THE DEL-LORDS- Elvis Club (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
sabato 8 giugno 2013
RECENSIONI:EXTREMA (The Seed Of Foolishness) AIRBOURNE(Black Dog Barking)
EXTREMA The Seed Of Foolishness ( Fuel Records, 2013)
Ricordo ancora che nel 1992 sguinzagliai mio padre, in giro per lavoro, lungo tutti i negozi musicali di Milano alla ricerca del loro fantomatico debutto Tension At The Seams. Non lo trovò mai (così mi disse) e me lo dovetti procurare "de sfroos" un po' in ritardo, scoprendo poi che uscì ufficialmente nel 1993. Già, sono passati vent'anni, papà è in pensione da un bel pezzo ed io sono ancora qui ad ascoltare una piccola istituzione del metal tricolore, perchè: per storia, coerenza, perseveranza, longevità e attitudine, l'enciclopedia del thrash metal italiano ha un posto importante tutto per loro. Poche balle. Un disco che punta il dito o meglio le dita medie contro le cospirazioni segrete che si spartiscono le fette di mondo (Between The Lines), la corruzione, i politici (The Politics, Again And Again), e lo fa usando lo stesso linguaggio musicale-ritrovato-di inizio carriera, perdendo solo la vena funk del debutto-scomparsa con la dipartita dello storico bassista Mattia Bigi-ma mantenendo inalterate le caratteristiche del secondo The Positive Pressure Of Injustice (1995), le stesse che avevano caratterizzato già i due precedenti dischi Set The World On Fire (2005) e Pound For Pound (2009). Una trilogia pressoché perfetta. Un monolite aggressivo in bilico tra old school thrash e anni '90, quelli di Pantera e Machine Head, che lascia poco respiro, a parte l'epicità della semi-ballad Bones e la conclusiva A Moment Of Truth che odora di southern rock. Perché, diciamocelo, l'unico disco poco riuscito in carriera rimane quel Better Mad Than Dead (2001) tanto moderno ai tempi quanto vecchio oggi, che inseguiva mode musicali risultate poi passeggere, e fortemente segnato da momenti di instabilità e scazzi interni, raddoppiati da tutte le difficoltà avute in carriera con le etichette discografiche e da una fetta di pubblico che (inspiegabilmente) mai li ha sopportati.
Ora la formazione sembra aver trovato il giusto assetto, guidata dai veterani GL Perotti, cantante versatile e a proprio agio sia tra il growl (Sick An Tired) che la melodia (Bones) e Tommy Massara alla chitarra spara riff e assoli-tanti e ben fatti in tutto il disco-, dalla batteria del sempre più incisivo Paolo Crimi e dall'ultimo arrivato in formazione, il bassista Gabri Giovanna. Una carriera quasi trentennale la loro, mantenendo intatta l'attitudine e la voglia di arrivare degli esordi ed una instancabile propensione a suonare sopra a tutti i palchi possibili, dai più piccoli ai grandi festival; il prossimo appuntamento sarà quello in apertura ai Motorhead. Questa è la loro forza ed elisir di lunga vita artistica.
AIRBOURNE Black Dog Barking (Roadrunner, 2013)
Giunti al traguardo del terzo disco, lo si può affermare senza più nessun dubbio: gli Airbourne sono questi, prendere o lasciare! Alla band australiana (di casa nel New Jersey) non importa andare oltre l'emulazione, che sfiora spesso il plagio (Live It Up) degli AC-DC targati Brian Johnson, quelli tutto muscoli e hard rock vitaminico degli anni '80/'90, ben sintetizzati nel loro ultimo vero masterpiece The Razors Edge, o degli altri conterranei, spesso dimenticati e più borderline Rose Tattoo. Il loro approccio è rimasto lo stesso del debutto Runnin'Wild (2007), poderoso, frizzante, anthemico (Ready To Rock) in pieno stile ottantiano, con la voce urlata e graffiante di Joel O'Keeffe a sovrastare il tutto. Salvo qualche ottima eccezione che potrebbe essere ripescata in futuro per rimpolpare la cartella "variazioni sul tema" come la metallosa Hungry. Con tutti gli aspetti positivi e negativi di un disco da cui sai già cosa aspettarti fin dalla prima rullata, ma sostanzialmente più piacevole rispetto al precedente No Guts.No Glory (2010).
Gli Airbourne possiedono sì quella sfrontatezza e carica giovanile che non troviamo più negli AC-DC degli ultimi stanchi lavori in studio (Black Ice non era comunque malaccio), ma purtroppo manca tutto quello "sporco" retro bagaglio blues che Angus Young e soci si trascinano dietro dagli anni settanta e che li hanno resi, sì imitabili, ma unici.
Per ora ci si diverte ancora, in fondo a loro basta questo e dal vivo sono una simpatica "pericolosa potenza" di divertimento rock'n'roll, ma non so quanto il gioco potrà ancora durare. In fondo, con gli australiani originali ancora in giro, perchè accontentarsi delle copie?
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