martedì 25 giugno 2013

RECENSIONE: JASON ISBELL (Southeastern)

JASON ISBELL  Southeastern ( Southeastern Records, 2013)


Il viaggio solitario apre sempre inaspettate porte cognitive verso il proprio interno, quelle che anche mille anni trascorsi in compagnia, pur buona, dolce o fracassona che sia, non riuscirebbero ad aprire nemmeno con le più avanzate tecniche di scasso. Deve averlo saputo molto bene Jason Isbell quando ha deciso di rimettere da parte-momentaneamente- il gruppo 400 Unit con il quale ha già inciso tre dischi (seppur molti compagni d'avventura sono presenti anche qui: Derry Borja alle tastiere, Chad Gamble alla batteria), un po' come successe nel 2007 quando abbandonò dopo una breve ma prolifica collaborazione-allora sì definitivamente- i Drive-By Truckers reduci dai loro anni e dischi migliori, mai più eguagliati, impegnati così com'erano nello riscrivere l'opera presente del Southern rock, per una carriera solista sottolineata nel monicker in copertina, che si limitò al solo Sirens Of The Ditch. Deve averlo saputo che per raccontare storie strettamente personali come il traguardo della raggiunta sobrietà e dare il giusto risalto al ritrovato amore (quasi salvifico) serviva un nuovo allontanamento, il nome nuovamente isolato in copertina, la riflessione, il distacco di tutta la carne dall'osso, l'essenzialità, il confronto con se stesso, con la redenzione, la malattia, la morte e tutte le realtà che lo hanno toccato anche indirettamente come il triste male terminale di un' amica raccontato nell'accapponante Elephant  o come descrive nella finale Relativity Easy.
Southeastern è il disco dell'autoanalisi solitaria, affrontata senza vergognarsi della nudità dell'anima ben esposta nello stendino, con tutte le cicatrici degli sbagli, delle debolezze, appese e lasciate, ben visibili a tutti, sul balcone del mondo a guarire sotto il sole caldo del sud. Anche se il sole in questo disco sembra nascondersi bene, c'è, aspetta solo di trovare gli spiragli d'entrata, perché alla fine la voglia di vivere prevale su tutto e quella di tornare a dividere la vita con una buona compagnia esce prepotente nell'arioso e leggero country da viaggio di Traveling Alone ("sono stanco di viaggiare da solo...ho smesso di parlare con me stesso"), che si porta via, con un soffio di leggera brezza che entra dal finestrino, tutta la malinconia che aleggia nella più tesa scenetta casalinga di Songs That She sang In The Shower.
Estremamente personale nelle liriche, elegante, sobrio, morbido (Yvette), rootsy (Stockholm) e acustico nella musica che si veste della sola essenzialità e della penetrante vocalità soul e profonda, escludendo le scosse elettriche di Flying Over Water, e la deflagrante Super 8, lascito Southern/boogie chitarristico del suo passato nei Drive-By Truckers e ironica esorcizzazione verso tante notti post tour passate a nuotare tra solitudine e fiumi di alcol, respirandone pericolosamente i fumi ("Non voglio morire in un Super 8 motel/ solo perché a qualcuno la serata non è andata troppo bene/se mai dovessi tornare a Bristol/mi sentirei meglio dormendo in cella"). Riferimenti al suo vizio (ormai guarito) sono presenti fin dall'apertura Cover Me Up e sparsi un po' ovunque, e la tetra "scarnalità" di Live Oak, qualche brivido lo regala-ascoltate la prima strofa a cappella-parabola su vecchi gangster in bianco e nero divisi tra pistole e amori che potrebbe benissimo sovrapporsi alla sua storia; ma è l'incontro salvifico con la fresca sposa Amanda Shires ( ben presente con il violino) che viene raccontato anche in Different Days, a rappresentare il punto focale, la salvezza, il volo sopra tutto e tutti (Flying Over Water). Il presente.
E come tutti i dischi più personali, di redenzione e intimi, brilla di luce propria, commuove ed esalta, candidandosi a diventare uno dei dischi più riusciti dell'anno. Il  passo definitivo verso il futuro cantautorale di Isbell?



vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)




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