martedì 14 maggio 2013

RECENSIONE: ROD STEWART (Time)

ROD STEWART   Time  (Capitol Records, 2013)

La notizia da prima pagina c'è: il ritorno ad un disco tutto suo (undici canzoni portano la sua firma pur se condivise con il co-produttore Kevin Savigar e tanti altri, Picture In A Frame  è una sentita cover di Tom Waits, l'unica, estrapolata da Mule Variations), cosa che non succedeva da anni, l'ultimo di inediti fu il bruttino Human del 2002, ma per trovare la sua firma consistente in calce alle canzoni bisogna addirittura arrivare a Vagabond Heart del 1991. Nel frattempo ci siamo sorbiti (per chi è riuscito ad ascoltarli tutti) una sfilza infinita di The Great American Songbook, cinque per la precisione, e altri svariati album di cover tra cui l'immancabile pastrocchio natalizio dove si permise di riesumare e cantare con la defunta Ella Fitzgerald (operazione discutibile). Il merito di questo ritorno alla scrittura è tutto dell'autobiografia Rod: The Autobiography uscita nel 2012: scavando tra i ricordi dei suoi primi 68 anni di vita è tornata la voglia di metterne qualcuno anche in musica.
Time, come lo stesso Stewart ha precisato, è uno dei suoi dischi più personali in carriera, che riesce a sviscerare dentro a ricordi lontani e intimi, mettendo in fila i primi amori, i due matrimoni falliti e il terzo in corso, le tante donne amate, la prima figlia avuta da giovanissimo e data presto in adozione, gli altri sette figli, il padre. Tutte cose estremamente personali.
Se da un lato è da elogiare la voglia di tornare a fare musica originale, dall'altro è difficile non notare un autocitazionismo musicale che purtroppo non sempre risulta riuscito: Sexual Religion è un numero dance/elettronico dimesso che rincorre stancamente la sua hit Do Ya Think I'm Sexy e tutti gli anni '80, ma purtroppo i tempi non sono più quelli di tutine e salti on stage, riuscendo anche a stonare con il resto del disco e a nulla serve l'inserimento di un assolo di sax, meglio il rock'n'roll/boogie chitarristico di Finest Woman, anche se sembra naturale associarla a vecchi pezzi come Hot Legs o Stone Cold Sober, nulla di nuovo, unica attenuante è che non si sentiva un Rod Stewart così da molto tempo. Che sia la prova generale verso le reunion (Jeff Beck Group, The Faces) che il buon "Rod the mod" ha in testa da un po' di tempo?
A parte queste parentesi, il resto del disco predilige tuffarsi nel folk/pop o meglio pop/folk, non così rootsy come una volta e nemmeno spartano e unplugged come il riuscito disco con Ron Wood del 1993 (l'ultimo grande disco di Stewart?), ma ricoperto da quel velo di patina modernista e arrangiamenti orchestrali "addolciti" sullo sfondo da far storcere il naso ai puristi e attentare la vita ai diabetici, ma che in fondo convince se, per una volta, ci si accontenta, premiando lo sforzo. Insomma, il vestito elegante della festa c'è ancora. Nessuna illusione.
She Makes Me Happy è un folk evoluto con violino e mandolino che rimandano inevitabilmente ai bei tempi di Maggie May e Mandolin Wind e dedica nemmeno troppo velata alla sua attuale compagna Penny Lancaster (l'ultima?), ma tutto si ferma lì. Brighton Beach è un nostalgico e ben riuscito folk acustico che ricorda l'età dei primi amori immediatamente antecedenti alla fama che arriverà da lì a poco e stravolgerà la sua "normale" vita; It's Over scritta con il chitarrista John 5, sulle (tante) relazioni finite, parte folk e acustica prima di trasformarsi inghiottita in un crescendo orchestrale, Make Love To Me Tonight, la più convincente, uno scottish folk con violino e slide, l'unica scevra di sovrastrutture, limpida e pulita.
Rock/pop adulto e inoccuo esce da Can't Stop Me Now dedicata al padre e da Beautiful Morning, un up tempo con chitarre, dai grandi cori che invitano al ballo. Bella Live The Life, filosofia di vita rivolta ai figli e che musicalmente si tuffa ai tempi di Atlantic Crossing (1975) e A Night On The Town (1976).
Non mancano due numeri da navigato crooner che ripercorrono gli ultimi dieci anni della sua discografia da interprete, ma quantomeno qui le canzoni sono sue: la nostalgica Time dall'anima soul tra hammond e gospel e la finale Pure Love, delicata e leggera ballata pianistica colma di arrangiamenti orchestrali.
La voce ha perso la graffiante efficacia dei tempi d'oro, complice un'operazione alla gola-anche se Stewart sostiene il contrario-ma l'impressione generale è quella di un vecchio rocker soddisfatto della sua vita, dei traguardi raggiunti da quell'ex ragazzo ribelle in cerca di guai, figlio di un umile idraulico scozzese, che dalla vita ha ottenuto più di quello che si fosse mai immaginato. Se li è goduti ("Ne Ho fatte di stronzate" racconta nell'autobiografia) e ora si permette di raccontarceli con sincerità abbandonando per un attimo le vesti da interprete; la stessa sincerità che non nascose nemmeno davanti ad una vittoria del suo suo amato Celtic contro i fenomeni del Barcellona, quando si lasciò andare ad un pianto liberatorio di felicità che fece il giro del mondo.
Comunque sia, Time qualche traccia nella mia estate la lascerà.

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venerdì 10 maggio 2013

RECENSIONE: LUCA ROVINI (Avanzi e Guai)

LUCA ROVINI  Avanzi e Guai (autoproduzione, 2013)

25 Aprile, Festa della Liberazione. Un sole che quest'anno non si era ancora visto così, le nuvole a riposare nel lato invisibile del cielo, pronte per il violento risveglio del giorno dopo, sentieri prealpini di terra e pietre come serpenti striscianti e ubriachi, alberi finalmente colorati che cercano di far ombra a tartarughe sdraiate a bordo stagno, verdi pascoli con pigri cavalli  disturbati e accecati da raggi killer. Vago e cammino, felice, è il primo vero giorno di Primavera. La Liberazione dall'inverno. Con me, il solito simil iPod. Oggi, si ascolta anche il Luca Rovini da Cascina (Pisa), con quella copertina evocativa è un invito a nozze. Uno di quegli incontri casuali quello con il geometra e coscritto Rovini, via facebook, non ricordo nemmeno bene come, forse c'era Bob Dylan di mezzo. Dylan c'entra sempre in qualche modo. Poi scopro che siamo clienti di uno stesso negozio di dischi, io a due passi a piedi, lui più lontano, distante km e regioni. La scoperta migliore, però, la faccio quando scopro le sue doti artigianal-musicali, prima con le foto giornaliere che posta sul web, documentando, passo dopo passo, la nascita di una chitarra assemblata con le sue stesse braccia e con maniacale dovizia di particolari, un po' come fa il nostro idolo Seasick Steve, poi quando fa circolare Scoppia La Testa, la canzone trainante di questo suo primo CD. Rovini non è solo un liutaio a tempo perso che affida le sue opere (chitarre acustiche e Resonator di metallo) alle sapienti dita di Claudio Bianchini- unico compagno di viaggio in questo sogno musicale che si è avverato- ma anche un artigiano della musica suonata con spirito DIY, come si diceva una volta. Racconta storie piene di metafore, cantate in italiano (qui ci va l'applauso), che potrebbero essere uscite da un crocicchio di Chicago, o soffiate dal vento sulle polverose strade di Nashville, cantate da un hobo solitario in un marciapiede di Dublino, girare tra le malelingue di bordelli di periferia o passare di bocca in bocca tra gli avventori di una qualsiasi bettola di un paesino toscano di provincia, quella dove anziani e giovani uniscono lo sguardo all'entrata dell'avvenente Marilyn di turno. Tra solitudini, illusioni e sogni di rock'n'roll, Rovini ci lascia il cuore, quello che batte ardentemente per il folk, il blues acustico, il rockabilly '50, per gli idoli musicali americani della sua bella collezione di vinili. Quelli più famosi: Johhny Cash (Avanzi e Guai, Sguardo di Pietra), il primo Bob Dylan (Tra La Polvere Ed il Cielo, Corri Come vuoi), Willy Deville che omaggia pure esplicitamente nella conclusiva strumentale Late Night Blues, For Willy Deville e quelli italiani, Massimo Bubola, e il De Gregori (Cosa Fai) del folkstudio in testa. Mi ricorda anche i siciliani Il Pan Del Diavolo nella voglia di accompagnare per mano Elvis tra le vie (acustiche) dei nostri antichi borghi  e le verdi colline toscane traformandole in una itinerante Graceland tricolore.
Potremmo stare qui a discutere sulla sua voce imperfetta, la produzione a bassissimo costo come quei demo-registrati e confezionati alla grande però- che giravano di mano in mano negli anni ottanta, il minimalismo musicale, l'omogeneità che prevale. Potremmo, ma non avremmo capito nulla di un disco che riporta al centro dell'attenzione la spontaneità della musica, i desideri, la strada, la passione, il sudore di serate post-lavoro passate a costruire chitarre e sogni. Doti rimaste rare in un mondo digitale. Da
preservare e ascoltare come le storie che ci canta. " ...vola vola via, sporca danza vola via/ slaccia questi fili, nel mattino volerai/ lascia questa gabbia, labirinto di follia...vola vola via, sporca danza vola via, che la rabbia sia un ricordo/ la tua fuga il nostro amare/ le tue urla sian speranza, da imparare, da insegnare/ io ti guarderò come si guarda la realtà/ io ti sognerò come si sogna la libertà..." da Sporca Danza.



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giovedì 9 maggio 2013

RECENSIONE: STEVE MARTIN & EDIE BRICKELL (Love has Come For You)

STEVE MARTIN & EDIE BRICKELL Love Has Come For You (Rounder Records, 2013) 
 
Nel 1988 fu difficile non innamorarsi della semplicità (e sorriso a fossette) di quella decisa ragazza texana vestita di lunghi stivali e cappello che insieme a suoi New Bohemians rilasciò un disco (Shooting  Rubberbands At The Stars) che ancora oggi suona piacevole, fresco e vitale nel mio giradischi di casa. La Brickell ha continuato la sua carriera incidendo dischi, ma mantenendo un basso profilo cantautorale più legato al folk e sfiorando il jazz, non riuscendo più a ripetere l'exploit commerciale di quel debutto (forse solo il secondo Ghost Of A Dog si avvicinò) e vivendo all’ombra dell’importante uomo con il quale da vent'anni divide la vita: un tale di nome Paul Simon. Ci voleva una star acclamata come Steve Martin per riportarla al centro dell'attenzione delle cronache musicali che le competono pur con un'esposizione mediatica che difficilmente espatrierà fuori dal settore di nicchia. Steve Martin, brillante e celebrato attore comico della commedia americana all’apice della fama nei ’70/'80, lanciato dal Saturday Night Live e fresco papà alla veneranda età di 67 anni, ha una passione, in verità mai nascosta, per il banjo e la musica country/bluegrass, partita alla grande fin dal 1977. Passione premiata dalla vittoria di un secondo Grammy Award nel 2002  (il primo nel 1978) e da una carriera musicale, prima interrotta e poi esplosa definitivamente negli ultimi cinque anni.
Love Has Come For You è frutto di una collaborazione attiva e non improvvisata, che coniuga perfettamente le partiture bluegrass melodiche, rootsy e garbate-mai sopra le righe-per banjo scritte da Martin con le liriche narrative e calate nel presente, la voce e l’interpretazione della Brickell, ancora fascinosamente uguale a 25 anni fa pur se privata di incisivi graffi che lascino il segno, ma tuttavia si limita a seguire fedelmente il mood melanconico e rilassato delle composizioni che tendono spesso a sfiorare il folk. Completano: la produzione dell'esperto musicista Peter Hasher (James Taylor, Neil Diamond, Linda Ronstadt), la presenza del  veterano lungocrinito Waddy Watchell alla chitarra, della giovane jazzista Esperanza Spalding al basso, degli Steep Canyon Rangers a legare il tutto e numerosissimi altri ospiti. 
13 canzoni brevi, piacevoli nella loro uniformità di fondo -che potrebbe trasformarsi nell' unico difetto per chi è poco avvezzo a certi suoni-garbate e carezzevoli come un leggero soffio di vento sugli Appalachi (When You Get To Aheville, Love Has Come For You), con qualche buona e frizzante scossa up tempo come in Get Along Stray Dog, piacevoli sconfinamenti pop trainati da melodie contagiose pur mantenendo la tradizionalità di banjo, violino e banjo in Siamese Cat, oppure incursioni irish/folk come nella ballata Who You Gonna Take?
Un lavoro di squadra, corale, ben riuscito. Una combinazione che farà sicuramente del bene alle carriere dei due musicisti e che potrebbe portare anche ad un seguito.




vedi anche RECENSIONE: KURT VILE- Wakin On A Pretty Daze (2013)




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martedì 7 maggio 2013

RECENSIONE: KURT VILE (Wakin On A Pretty Daze)

KURT VILE  Wakin On A Pretty Daze (Matador Records, 2013)

Per Kurt Vile, il tempo sembra non avere confini da rispettare, come vorremmo sia  sempre quando tutto va per il verso giusto. A lui ora, neo padre di famiglia, sembra andare bene pur con tutti i dubbi che si trascina dietro nel suo personalissimo mondo, tanto da testimoniarcelo con una foto stampata direttamente sul CD che lo ritrae insieme alla figlioletta in un normalissimo quadretto domestico di quotidiana routine.
Tempo autonomo di prolungarsi all'infinito, attorcigliato ad una melodia, a degli accordi prolungati come immense praterie younghiane, ad un testo nostalgico. Tutto può essere in anticipo, in orario o in ritardo. Poco importa. Ascoltando il suo quinto lavoro solista-in sei anni- lo si percepisce quando dal primo minuto dell'iniziale Wakin On A Pretty Day (non è da tutti iniziare con una canzone di 9 minuti con una lunga coda strumentale, a meno che, di cognome non fai Young, e allora puoi anche arrivare a 28) fino alla nota finale della conclusiva Gold Tone, si attraversano 69 minuti di musica veleggiando in uno stato atemporale, cullante e quasi rassicurante pur con la malinconia dipinta di nero sul fondo, con poche scosse ma ben posizionate (l'up tempo di Snowflakes Are Dancing,Shame Chamber che mi porta alla mente gli Eels) ma con la placida certezza di stare ad ascoltare il suo lavoro definitivo (fino ad ora), riuscendo anche a superare il precedente e acclamatissimo Smoke Ring For My Halo (2011) che era un disco diretto e viscerale, confezionato dentro ad una copertina anonima e in bianco e nero; ora, la copertina, costruita su misura sui muri della sua Philadelphia, è a colori e lo ritrae che sembra un "fratello minore dei Ramones" in Rocket To Russia mentre le canzoni, questa volta, sono meno immediate, più strutturate, pur mantenendo il basso profilo di sempre. "Era il passo più logico da compiere dopo aver realizzato un LP di canzoni pop 'succinte'. Che cosa si può fare dopo? Canzoni pop più lunghe ed epiche. Immaginate di stare in un'auto e di ascoltare il proprio pezzo preferito senza il bisogno di farlo ripartire più volte" racconta Vile in una intervista rilasciata a Exclaim!
Le tre canzoni che arrivano quasi a toccare i dieci minuti non sono che la testimonianza di una consapevolezza/libertà di scrittura arrivata ad una maturità definitiva. Un percorso in crescendo il suo: dopo la breve parentesi con i The War On Drugs e la vera partenza solista con Constant Hitmaker del 2008, una costante crescita mantenendo bene i piedi equamente divisi tra tradizione e rock alternativo lo-fi.
Vile segue una linea di spontaneità personale, prerogativa dei grandi (da Lou Reed a Neil Young), che non ammette barriere, costrizioni e invasioni nella sua musica, a parte l'aiuto in produzione di Rob Laakso, John Agnello e Matt Boynton, i suoi fidi Violators (lo stesso Rob Laakso al basso e Jesse Trbovich alla chitarra) e alcuni musicisti ospiti; che si permette di citare il rapporto con il padre in Too Hard, snocciolato sul foglio con la stessa intensità emotiva che appartiene a Leonard Cohen.
Tra arpeggi folk stranianti e psichedelici (Girl Caled Alex), effetti elettronici e i Synth dell'autoanalitica ("c'era una volta nella mia vita") e veloce Was All Talk, il dondolante ritmo di valzer di Pure Pain che cambia velocità trasformandosi in un british folk dal retrogusto medioevale, fino all' intensità ipnotizzante e spolverata di glam dalla chitarra che potrebbe essere la sei corde del compianto Mick Ronson in Kv Crimes. Kurt Vile percorre le contorte vie della sua mente con placida andatura, voce strascicata, languido ritmo che dopo il terzo ascolto non puoi fare altro che tenere il suo passo e andargli silenziosamente dietro.



vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG-Tooth And Nail (2013)




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venerdì 3 maggio 2013

RECENSIONE:SEASICK STEVE (Hubcap Music)

SEASICK STEVE   Hubcap Music (Fiction/Polydor, 2013)

La leggendaria favola d'altri tempi con lieto presente di Seasick Steve è diventata di dominio pubblico. Ora che è stato sdoganato dal grande pubblico, complici i numerosi musicisti che spintonano per suonare con lui-anche su disco come vedremo (tra i primi ci fu Nick Cave)-il settantunenne vecchio bluesman di Oakland ma con base in Europa (Norvegia) non cambia il suo approccio genuino e viscerale alla musica e i rombanti cavalli del motore di un vecchio e amato trattore John Deere che si sentono in  apertura dell'hard boogie Down On The Farm, dove pare trasformarsi nel quarto ZZ Top, vogliono marchiare il concetto, unitamente al testo che non ammette troppe repliche: " Amo l'odore dei negozi di forniture agricole/ un misto di semi, tute da lavoro, olio e tanto altro/ Puoi prendere una nuova pala e un nuovo rastrello/ prendere la tua motosega affilata/ Ma devi attendere/ Sono in pausa Caffè". Sembra quasi di vederlo, come un "maturo" ragazzo di campagna in trasferta in città, mentre esce dal negozio e si dirige verso il trattore parcheggiato con i nuovi acquisti in spalla, così come in Home dipinge i suoi amori con ingenua innocenza (due vecchi trattori gialli e verdi, un anziano cane, e un' arrugginita Chevy 51), aiutato dalla chitarra sudista di Luther Dickinson.
Registrato a Nashville, Hupcap Music -titolo dedicato ad una delle mitiche chitarre che si costruisce con meticolosa cura artigianale, quella ricavata dal manico di una zappa in disuso e due vecchi coprimozzi di ruota (vedi copertina ed esilarante video)-continua a rotolare nella vecchia, semplice, rustica e incontaminata strada del blues (anche se dice di amare più il rock'n'roll), come lo stesso Seasick Steve preme a sottolineare, ribadendo che per la realizzazione del disco non sono stati utilizzati moderni computers ma solo un vetusto nastro analogico. In fondo, caro vecchio Steve non era nemmeno necessario segnalarcelo. Ti crediamo, anche se qualche limata a certe ruvidezze e maggior pulizia sono state apportate: il confidenziale country a due voci di Purple Shadows insieme alla splendida Elizabeth Cook con le pedal steel evocative di Fats Kaplin a creare scenografia e la finale Coast Is Clear, un numero soul/r&b condotto con voce da astuto crooner alla Joe Cocker con tanto di sezione fiati e hammond a condurre il gioco, sono lì a dimostrarcelo e...stupirci anche un po'.
Per il resto, Seasick Steve, a capo basso, un logoro baseball cap calato in testa, camicia a quadri con maniche arrotolate, jeans sdruciti e scarpe grosse, ci regala quello che ci aspettiamo da lui: blues a tutta full band, ora vitaminico (in maggiore quantità rispetto al precedente You Can't Teach An Old Dog New Tricks -2011) quasi volesse mascherare la sua reale età facendo a cazzotti con il diavolo, come nell' autobiografico boogie Self Sufficient Man, nel talkin' blues scatenato di Keep On Keepin' On suonato con la Cigar box guitar, nella pesante e cadenzata The Way I Do dove compare magicamente l'inconfondibile chitarra di Jack White, in Heavy Weight, nella marcia per la libertà Freedom Road; oppure sedendosi comodamente su un vecchio sedile d'auto abbandonato nel mezzo di un campo arato, gambe incrociate, chitarra folkie, mandolino, ukulele (Over You, la speranzosa Hope) e un tramonto rosso che chiama l'oscurità all'orizzonte.
Ad aiutarlo, l'inseparabile compagno di bevute Dan Magnusson alla batteria e l'altrettanto sempre presente John Paul Jones (Led Zeppelin) al basso, voce, hammond, ukulele e mandolino, che evidentemente deve averci preso gusto nel suonare sui palchi di campagna attorniato da galline dopo una carriera da venerata (ma defilata) rockstar.
I giorni passati sui campi saranno pur sempre uguali a se stessi, sette su sette. Però, vuoi mettere?




vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-You Can't Teach An Old Dog New Tricks (2011)



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venerdì 26 aprile 2013

RECENSIONE: CLUTCH (Earth Rocker)

CLUTCH  Earth Rocker  ( Weathermaker Music , 2013)

Quando si scrive Clutch, si legge spesso "sottovalutati". Triste ma vero, provare per credere. Per una band che da  anni continua a sfornare dischi di altissimo livello dando risalto solo ed esclusivamente alla musica, lasciando in un angolo polveroso l'aspetto più epidermico del music business a favore del lato sudicio, fangoso e spontaneo, ben rappresentato dal look trasandato del barbuto e bizzarro cantante Neil Fallon, il tutto può anche rappresentare un valore aggiunto e di distinzione. Una presa di distanza da tutto quello che ha poco a che vedere con la musica e nell'iniziale Earth Rocker, Fallon lo ribadisce, indossando una delle sue tante voci, con proclami recitati con l'ugola da orco cattivo. Dalle parti di Germantown nel Maryland hanno sempre dato importanza a strumenti e amplificatori, e Earth Rocker non si sposta di una virgola dal terroso humus da cui nascono le loro canzoni e da dove sono spuntati e cresciuti i loro devoti fan, soprattutto in patria. E' sempre stato difficile etichettare la loro proposta: si è spesso scomodato lo stoner rock, ma un semplice e vetusto termine come "rock blues" lo trovo meno limitante e più aperto a contenere le numerose radici musicali che riescono a seminare con disordinata cura ma anche a strappare con forza bruta quando necessario. Si ascolti l'hard boogie ad alto testosterone di Cyborg Bette, con la sezione ritmica (Dan Maines al basso e Jean-Paul Gaster alla batteria) che scalcia sederi a ripetizione per farsi largo o il veloce attacco di belligerante punk' n' roll di Unto The Breach, quasi motorheadiana nella sua urgenza. Non un caso fortuito che proprio con i Motorhead (e Thin Lizzy) hanno diviso i palchi ultimamente.
Sempre fuori moda ma eternamente sempre sul pezzo. Veri, sia quando seguono le strade del blues, quello lento, gelido, nero e fumoso di Gone Cold con la voce di Fallon che sembra entrarti nell'anima e strapparti il cuore con spietata freddezza; quello hard, caldo, più feroce con tanto di armonica di DC Sound Attack!; e il lato psichedelico ben presente e contaminante in Oh Isabella, solidale e a pari passo con i possenti riff che la sorreggono.
Complessivamente, tutto l'album preferisce la fase di attacco. Uno dei loro album (il decimo) più aggressivi in carriera. Heavy e spietati in Crucial Velocity, pieni di groove nella cadenzata pesantezza di The Face, tambureggianti nell'inizio di Book, Saddle & Go che precede un hard blues che pare nascere dai tizzoni (h)ardenti del fuoco hendrixiano con il chitarrista Tim Sult grande protagonista, così come nella pesante The Wolf Man Kindly Request...con il suo veloce, fuzzy  e rutilante break centrale a ricordare quanto i Clutch siano una jam band nata per stare sopra i palchi, e Earth Rocker non aspetta altro che sprigionare ulteriore forza in viaggio sulle strade.



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martedì 23 aprile 2013

RECENSIONE:THOM CHACON (Thom Cachon)

THOM CHACON  Thom Chacon ( Pie Records, 2013)

Se cercate novità rivoluzionarie in campo musicale dalle canzoni di Thom Cachon, statene pure alla larga. Se invece amate la continuità di quel suono folk/rock americano, ombroso e ridotto all'osso, raccolto sotto l'ormai onnipresente termine Americana, che partendo da Dylan, tocca John Prine, arriva a Steve Earle, John Mellencamp, allo Springsteen acustico e minimalista, fino ai giorni nostri ben rappresentati dai defilati Chris Knight e Hayes Carll e dal più celebrato Ryan Bingham di Junky Star, allora sì, un ascolto al terzo disco di questo ragazzo nato a Sacramento, ma proveniente dalle montagne di Durango, Colorado, potete anche darlo. Ma anche le ombre di songwriters di frontiera come Joe Ely e Tom Russell affiorano tra le note di sole, sabbia, acqua, fuga, libertà, banditi e stelle luminose di Bus Drivin' Blues e  Juarez, Mexico. "Riesco a vedere attraverso la frontiera fino a El Paso/posso sentire la musica risuonare/la gente che ride nella notte/dove mi trovo è buio/E il fiume rosso scorre/sono bloccato qui a Juarez, Messico/Questa notte starò vicino all'acqua/dormirò con un occhio chiuso e il mio dito sul grilletto e l'altro intorno ad una rosa/ho dei progetti per noi per lasciare questo posto".
Se poi, per voi, tutto quello che tocca Dylan, anche indirettamente, è oro che luccica, sappiate che sul terzo disco di Thom Chacon ci suona anche la sezione ritmica che accompagna il "vecchio" Bob nel suo Never Ending Tour, ossia gli inossidabili Tony Garnier al basso e George Recile alla batteria, a cui si aggiunge Arlan Schierbaum (John Hiatt, Joe Bonamassa, Richie Kotzen) alle tastiere. Senza dimenticare il suo DNA (metà libanese e metà messicano) e la parentela con il pugile Bobby Chacon, che ispirò il suo precedente disco assai più "rockista" Featherweight Fighter, nonchè avversario di quel Ray "Boom Boom" Mancini cantato da Warren Zevon.
Le prime coordinate sono queste, al resto ci pensano una voce adulta, vissuta, spezzata e profonda, ben caratterizzante e canzoni che in alcuni casi riescono a stenderti al primo ascolto come il singolo American Dream ha fatto con me fin da subito. Una canzone che si lascia ascoltare in continuazione pur nella sua esigua durata e sconcertante semplicità melodica che supera di poco i due minuti.  A conquistarmi è il  suono acustico, secco, asciutto, senza fronzoli, solo chitarra, drum and bass che mi riporta all'urgenza dylaniana di un album come John Wesley Harding. Rievocazione di antichi fantasmi che Chacon deve aver incontrato e ascoltato all'infinito, riuscendo a a metabolizzare, e facendone il verso in modo magistrale, aggiungendoci buona e sana freschezza compositiva. E non importa se i suoi testi hanno poco da spartire con le complicate parabole bibliche che costruivano quel lontano capolavoro del 1967, mentre lui parla dell'ennesima delusione di un sogno americano che di avverarsi ha sempre poca voglia e preferirebbe vederti morto piuttosto che vivo. I fantasmi "buoni" del passato, di nero vestiti, che ha inseguito anche suonando alla Folsom Prison, ad inizio carriera, cercando, trovandolo, un battesimo che desse forza e coordinate sane e giuste alla sua futura carriera. "Un'esperienza che mi ha cambiato la vita" dice.
Poca luce nelle sue canzoni, a rispecchiare fedelmente questi hard times. Ritratti poetici, scuri, dolenti, con l'occhio che ogni tanto si allunga verso la disperazione, nella ricerca della redenzione come succede in Innocent Man (vera storia del condannato "innocente" Anthony Graves) e A Life Beyond Here, elettro-acustici sorretti da chitarra e armonica.
Quando i tempi duri sono falsi consiglieri, ci si aggrappa a tutto: e si cade nei più facili degli abissi in cui l'uomo può scivolare, "ho perso gli amici/e anche tutto il denaro se ne andato/sto male, ho i brividi di freddo/non voglio niente di più che trascorrere tutto il tempo con te/Alcohol" in Alcohol, oppure si puntano gli occhi al cielo e si prega "quando sei giù è difficile vedere una luna scura splendere tra gli alberi...lo so che è difficile/sei sconsolato e sfregiato/lo so che sei debole/ma con Dio dalla tua parte puoi riuscirci/più nessun problema e nessuna paura" canta nella scarna essenzialità acustica di No More Trouble.
Thom Chacon è un innovatore della continuità. Suoni roots che non cercano i colpi ad effetto, buon seguace di tradizioni solide, dure a morire e megafono mai troppo invasivo ma sempre acceso per dar voce agli ultimi (Grant Country Side), quelli che cercano ancora le risposte tra le acque del grande fiume (Big River con Bess Chacon) e il vento che soffia in superficie, scompigliando i capelli dell'America più profonda e nascosta.




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vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)




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vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES (& DUCHESSES)-The Low Highway (2013)




venerdì 19 aprile 2013

RECENSIONE:STEVE EARLE & THE DUKES ( & DUCHESSES ) (The Low Highway)

STEVE EARLE & THE DUKES (& DUCHESSES)  The Low Highway ( New West Records, 2013)


"C'è qualcosa di strano quando una persona guida la macchina mentre tutti gli altri sognano con le loro vite affidate alla sua mano ferma, qualcosa di nobile, qualcosa di antico nella sua umanità, una sorta di antica fiducia nel Buon Vecchio Amico." Jack Kerouac

Lasciamoci tranquillamente guidare da un "autista della vita" come Steve Earle, che conosce la strada molto bene, anche se in passato ha sbandato, rischiando di andare fuori carreggiata e compromettere il viaggio fin troppo in fretta. Ma proprio gli incidenti di percorso lo rendono, oggi, consapevole e affidabile. Un saggio dalla lunga barba ascetica e cappellaccio calato in testa di cui fidarsi ad occhi chiusi e orecchie sempre aperte. Il Buon Vecchio Amico che cerchiamo, in grado di raccontare storie che ti rivoltano la pelle, ti fanno pensare, ma anche sognare. Consapevolezza del proprio passato e degli errori fatti che sembra uscire dalle liriche della confessionale Pocket Full Of Rain, adagiate su un tappeto di pianoforte che accompagna un lento boogie da fine serata sonnolenta con un sussulto improvviso a darti la sveglia. "Mi ricordo ancora quando ero solito uccidere il dolore, ma mi svegliavo ogni mattina con una manciata di pioggia".
Il quindicesimo album di Steve Earle non delude anche se sai già cosa ti aspetta, perchè, in fondo le strade sono sempre quelle, magari percorse centinaia di volte ma con il fascino sempre intatto della prima volta. "Ho percorso ogni singola strada che attraversa gli Stati Uniti e non mi sono mai stancato dello spettacolo. Ho visto un bel po' di mondo e il mio passaporto consumato è una delle cose più preziose che ho, ma per me, non c'è niente come la prima notte di un viaggio nel Nord America", racconta Earle nella presentazione del disco che inaugura il libretto.
L'ultima uscita discografica I'll Never Get Out Of This World Alive (2011) parlava di viaggi molto più tristi e ultraterreni, segnata profondamente dalla perdita del padre e dalla placida uniformità musicale di fondo. Questa volta le scorribande puzzano di copertoni fumanti su asfalto bollente, gasolio perso lungo la strada, paesaggi fantasmi, emarginazione sociale e fantasmi in carne ed ossa a bordo strada, ricordi immaturi di una infanzia trascorsa tra la middle class americana (Burnin' It Down, quasi cajun con la contagiosa fisarmonica), e un tenerissimo passaggio di consegne alle future generazioni quello cantato in compagnia di una spoglia chitarra folk che ricama sopra alla steel guitar nella conclusiva Remember Me. Il tutto accompagnato da tiepido cibo americano a sfamare durante le soste, e spalmato su una maggiore varietà musicale.
"Tutti quanti, band e compagnia al completo, ammassati in macchina, mangiando il pollo piccante di Nashville e il formaggio al peperoncino fatto in casa di Betty Herbert, raccontandosi sempre le stesse vecchie storie ad alta voce per via del continuo sferragliare e ronzare delle auto sulla strada. E sono sempre io il primo a dire buonanotte all'autista Charlie Quick e a rinchiudermi in cuccetta. Perché per me è come la notte della vigilia quando ancora credevo a Babbo Natale. Dio, come amo tutto questo".

Potrebbero bastare le parole di Earle a presentazione del disco per dipingere il quadro sincero e veritiero (compreso un sentito ringraziamento ai suoi fan) su cui si posano queste nuove 12 canzoni che riportano il nome dei Dukes in copertina ( Chris Masterson alle chitarre, Kelley Looney al basso, Will Rigby alla batteria). Ma non solo, questa volta ci sono anche le Duchesses a simboleggiare una nutrita rappresentanza femminile: la moglie Allison Moorer al piano, Eleanor Whitmore al violino, e Siobham Kennedy, moglie del produttore Roy Kennedy ai cori, a cui aggiungerei Lucia Micarelli, coautrice della evocativa After Mardi Gras e di Love's Gonna Blow My Way, canzoni che hanno già fatto la loro comparsa nella serie televisiva americana Treme, ambientata nella New Orleans post Katrina. Sorte che toccò anche a This City del precedente disco. Steve non dimentica.
Bellezza dei paesaggi americani che entra da un finestrino ed esce dall'altro, contrapposta alle comparse solitarie senza un tetto, quasi "invisibili" ma che, con la forza della dignità, popolano i vicoli abbandonati dalla grazia di Dio di ogni città americana. Una passeggiata salvifica."C'e un buco nella mia scarpa, ma non mi dispiace perchè mi tiene collegato alla terra..." canta appena attacca Invisible, cristallino esempio della vitalità ancora presente nella sua scrittura.
La stessa sorte nella placidità country/folk di The Low Highway, posta in apertura, con voce aspra, una chitarra acustica, steel guitar e violino a raccontare di paesaggi diventati spettrali; chitarra che diventa tagliente, elettrica, rock ed incisiva quando i Dukes entrano prepotentemente in scena nella circolare Calico County o nella presa di coscienza sui mali del secolo in corso in 21st Century Blues, quasi springsteeniana (post 11 Settembre) nel suo incedere."Non è il futuro che Kennedy mi aveva promesso nel ventunesimo secolo".
Musicalmente vario, pesca a piene mani nell'abbondante sacca della sua carriera, ritrovando un trascinante violino che guida il bluegrass affogato irish della corta Warren Hellman's Banjo, lo swing old style di Love's Gonna Blow My Way, il country di Down The Road Pt.II, le atmosfere zydeco di frontiera in That All You Got?, in duetto con la moglie e una fisarmonica che invita al ballo.
The Low Highway è pieno di vita, nato sulle strade, durante quei rituali sempre uguali ma costantemente adrenalinici, immersi in quegli odori che i chilometri di strada sventagliano a più riprese, tutte cose che Earle conosce a memoria fin dai suoi primi passi musicali segnati dai continui spostamenti in cerca dell'ispirazione giovanile, della buona sorte, dei suoi miti giovanili: San Antonio, poi Houston, Nashville, ora New Orleans, tappe che oggi ripercorre con spirito diverso, coscenzioso, portando in giro le canzoni durante i tour. Ora che è un punto di riferimento per tutte le nuove generazioni di musicisti americani, non ha più nulla da cercare ma tutto da insegnare...e che lezione! L'ennesima. Guida Steve, guida, tieni forte il volante!



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lunedì 15 aprile 2013

RECENSIONE:VOLBEAT ( Outlaw Gentlemen & Shady Ladies)

VOLBEAT  Outlaw Gentlemen & Shady Ladies  ( Republic Records/Vertigo, 2013)

Non hanno più bisogno di troppe presentazioni: negli ultimi anni, i danesi Volbeat hanno raggiunto una tale popolarità, confermata dalle buone cifre di vendita (l'ultimo Beyond Hell/ Above Heaven ha venduto 750.000 copie, tantissime, di questi tempi), dalle buonissime prestazioni live in giro per il mondo-mi hanno fatto veramente una buona impressione-, dai buoni feedback da parte dei colleghi musicisti, e soprattutto dalla loro originale mistura musicale dove thrash metal, hard rock e punk prendono a braccetto atmosfere western in stile morriconiano, rockabilly '50 e accenni country-di grana grossa-formando canzoni epiche, anthemiche, trascinanti come se Metallica, Misfits e Johhny Cash iniziassero a jammare insieme, a tarda notte, in qualche squallido saloon abbandonato di una sperduta ghost town con la greve, rassicurante e caratterizzante voce del cantante Michael Poulsen a dominare il vecchio microfono che scende dal soffitto. Continuazione e affinamento del lavoro iniziato dai veterani The Waltons (chi se li ricorda?), band tedesca antesignana del cowpunk europeo. Cercate il loro Remain In Rust (1992).
Questa volta però, e mi spiace aggiungere questo "però" vista l'enorme stima che nutro per loro, il disco mi convince a metà, complici sicuramente un fattore sorpresa ormai svanito dopo 5 dischi di studio ma soprattutto alcune scelte melodiche e stucchevoli, da voler essere "piacioni " a tutti i costi, che pur presenti da sempre nel loro suono, sembrano abbondare  fuori misura e convincere veramente poco nella loro prevedibilità (Pearl Hat, The Sinner Is You, Cape Of Your Hero), rischiando di far storcere il naso soprattutto a chi li segue dai tempi del debutto nel 2005 o da quello che rimane il loro capolavoro Guitar Gangsters & Cadillac Blood (2008). Sotto al buon messaggio del singolo Cape Of Your Hero si nasconde una canzone musicalmente scontata, senza anima che  strizza eccessivamente l'occhio all'airplay radiofonico in cerca di nuovi seguaci tra gli ascoltatori più giovani e distratti. La cover di My Body dei Young The Giant, buon successo commerciale dello scorso anno sembra confermare la tesi e rafforzare i timidi segnali di alleggerimento provenienti già dal precedente disco. Ma i Volbeat che abbiamo sempre conosciuto dove sono finiti? Fortunatamente ci sono ancora.
Allora meglio quando toccano gli estremi della loro musica. Da una parte, il lato hard/metal come il thrash tout court di Dead But Rising, The Hangman's Body Count, la velocissima  Black Bart e i suoi cambi di tempo, o meglio ancora in Room 24, vero masterpiece del disco: oscura, sinistra, dall'intro sabbathiano  e dall'incedere sulfureo alla Mercyful Fate che può vantare il malefico connazionale King Diamond e la sua incredibile "doppia" voce pienamente calata nella parte. Canzone che vale sicuramente l'acquisto del disco.
L'altro estremo conferma una spiccata vena narrativa sospesa tra finzione e realtà che esplora il mondo western e alcuni suoi "mitici" personaggi come la focosa e affascinante ballerina Lola Montez, donna dai mille aspetti che il compositore Richard Wagner non esitò a definire "un essere demoniaco" nel tirato rock'n'roll a lei dedicato e nella epica Doc Holliday, fedele al famoso fuorilegge del selvaggio west da cui prese il nome anche la band di southern rock attiva negli anni '70/'80, introdotta da un banjo suonato da Rod Sinclair, e con la voce di Poulsen che si fa sempre più simile a quella di James Hetfield. Una western'n'thrash song ben confezionata e dai chorus sinistri e vincenti.
Ancora: la buona Lonesome Rider, riuscito country/rockabilly con tanto di slide e contabbasso, cantata in coppia con  Sarah Blackwood e la finale Our Loved Ones, semi-ballad che farebbe comodo ai Metallica odierni in crisi di canzoni che lascino il segno.
Tra le novità più importanti c'è sicuramente da segnalare l'entrata in formazione di Rob Caggiano (ex chitarrista degli Anthrax) che oltre a portare esperienza e produrre il disco, inizialmente unico suo compito, è diventato il nuovo axe man della band dopo la fuoriuscita di Thomas Bredahl.
Un disco sicuramente piacevole e poliedrico, ben confezionato, che porterà nuovi seguaci alla band danese, ma che, devo essere onesto, per la prima volta non mi convince in toto. In alcuni episodi manca quella naturale spontaneità, presente nei precedenti dischi, che li aveva innalzati sopra al piedistallo riservato alle band più fresche e genuine degli ultimi anni. A volte sembrano viaggiare con il freno a mano tirato, cercando la soluzione più facile e melodica, vittime e schiavi di una formula che si è fatta sempre più accattivante, ma che inizia a ripetersi a scapito di una esplorazione più esaustiva in territori rockabilly/country '50 che molte volte sembrano solo accennati per confermare il loro trademark, senza procedere, perchè no, in uno sviluppo reale, approfondito e concreto, sicuramente nelle loro corde visto lo smisurato amore del cantante Poulsen per certe sonorità. Disco di transizione nella loro discografia o inizio di una nuova era mainstream? Voto 6,5




vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & THE HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)