venerdì 22 febbraio 2013

RECENSIONE:NICK CAVE & THE BAD SEEDS (Push The Sky Away)

NICK CAVE & THE BAD SEEDS- Push The Sky Away (Bad Seed Ltd, 2013)

Ho chiuso gli occhi per vederci meglio. Ci ho provato, posando con forza i pneumatici dell'automobile sul tappeto di velluto: nessun stridore, nessuna buca, nessun ostacolo, tutto liscio e regolare. Mancava qualcosa. Gli Occhi erano inevitabilmente sempre aperti, vigili e non andava bene. Bisogna chiudere gli occhi per apprezzare a pieno regime il nuovo album di Nick Cave. Bisogna concentrarsi e prendersi un po' di prezioso tempo. Ne vale la pena.
I lupi digrignanti e feroci del progetto Grinderman e dell'ultimo poco riuscito album a suo nome, Dig!!! Lazarus Dig!!! (2008), figlio di quella parentesi sonora lasciata (forse) alle spalle fanno capolino solamente in Higgs Boson Blues, dove tentano di lacerare la candida tenda che avvolge Push The Sky Away, lo fanno senza strappi improvvisi ma con un crescendo chirurgicamente malefico che provoca ancora più dolore. Un blues guidato dal pianoforte e invaso da chitarre, scarnificato e dolente che si nutre tanto del discusso bosone di Higgs (particella di Dio) individuato al Cern di Ginevra, quanto del povero Robert Johnson chiamato sempre in causa quando si cita lucifero e impassibilmente fermo da anni a quel crocicchio con la sua chitarra da dieci dollari in grembo, quanto della innocua eroina (non quella, ho detto innocua!) waltdisneyana Annah Montana (forse qui c'è lo zampino suggeritore dei figli  dodicenni?) per cercare risposte alla più alta delle domande esistenziali. Canzone/figlia ritrovata che sembra emergere da quella spiaggia desolata che Neil Young frequentò per una sola stagione, seppellendo gli incubi di giorni favorevoli per l'ispirazione artistica, meno per la vita in sè.
Il velluto della tenda (che poi, guardando bene la copertina, in casa Cave a Brighton, nemmeno esiste) avvolge tutto il resto, ovatta, smorza i toni e affievolisce i suoni. Tutto aleggia e fluttua leggero come mai prima nei suoi dischi. Un punto a favore per chi riesce a muoversi in nuove direzioni dopo più di trent'anni di carriera. Non rientrerà tra i suoi indiscussi capolavori figli del malessere giovanile, rimarrà nel limbo dei dischi di passaggio, ma è un disco che ha il suo carattere distintivo. Unico. Sfuggente come l'acqua tra le mani, verrebbe da dire.
Cave penetra a fondo con la forza delle parole e della voce come solo Leonard Cohen e Lou reed potrebbero fare meglio, quando racconta degli impossibili, morbosi intrecci amorosi nel minimale crescendo sinfonico di Water's Edge. Un disco lirico ed essenziale che spesso mi ha ricordato Blues Funeral  dell'ultimo Mark Lanegan. Poche virgole ad interrompere un flusso musicale che potrebbe essere univoco e continuo, dall'inizio alla fine dei 43 minuti.  Dall'iniziale mantra liquido, languido e ipnotico di  We No Who U R   alla messianica title track che chiude inquietantemente il disco. Warren Ellis sembra l'unico autorizzato ad entrare nelle canzoni con interventi delicati e misurati con qualunque cosa abbia sotto mano: loops, synths, violini,viole, flauti. Il resto dei semi è poco cattivo e incisivo, si limita ad accompagnare: Martiyn Casey al basso, Thomas Wylder alla batteria, Jim Sclavunous alle percussioni, Conway Savage ai cori, più qualche ospite e tante backing Vocals femminili, quelle sì, massicciamente presenti nel raddoppiare e amplificare le voci, tra cui il coro dei bambini di Ecole Saint Martin di Saint-Remì di Provenza nel sud della Francia, luogo dove è stato registrato il disco con la produzione di Nick Launay. Per la prima volta senza la presenza di Mick Harvey.
La sua musa, la moglie Susie Bick, viene prima esposta nuda nella splendida e spoglia copertina che sembra riprendere l'algida white room a Tittenhurst Park (Berkshire) riempita dalla presenza di John Lennon e Yoko Ono  tra il '69 e il '71. Lì c'era un pianoforte a fare arredamento, qui nemmeno quello. Poi la riveste e la mette al centro della sua attenzione, protagonista in mezzo ad una strada sotto sguardi curiosi e compiacenti, i suoi in primis, in Wide Lovely Eyes.
"Your dress size with your wild lovely strides/ And all along the street and lately the stories abound/ They've dismantled the fun fair and they've shut down the rides/And they've hung the mermaids from the streetlights by their hair/And with wild lovely eyes you wave at the sky/ And me at the high window watching the ride/ The waves of blue and the waves of love/ You wave and say goodbye".
La strada "viziosa" potrebbe essere la stessa che Cave osserva e frequenta nel crescendo di archi in Jubilee Street, tra gli indiscussi capolavori dell'album e accompagnata da un bellissimo video, già censurato, canzone che genera legittimamente una sorella, la percussiva e minimale Finishing Jubille Street, dove Cave si limita a parlare, raccontandoci del profondo sonno che lo ha colto dopo la stesura di Jubille Street, affidando il canto dei suoi sogni alle voci femminili. Il gioco dei contrasti di tutta una carriera ritorna prepotente in Mermaids, la più orecchiabile e melodica nel chorus, quasi bowiana, tra un Dio mai ascoltato e il vizio proibito travestito da sirena.
"I Believe in God/i believe in mermaids/i believe in seventy-two virgins/on a chain why not why not/i believe in the rapture/for i have seen your face/on the floor of the ocean/at the bottom of the rain".
Si scrive ancora Nick Cave & The Bad Seeds ma si legge Nick Cave & Warren Ellis, come abbiamo fatto tante volte in questi ultimi anni. Poco diverso dall'essere la colonna sonora di un film mai scritto e sceneggiato se non già presente nei sogni proibiti di Cave, indotti all'incubo dalla cruda contemporaneità esaustiva di una wikipedia sempre aperta (We Real Cool) che il nostro contempla, analizza e sbeffeggia con i suoi vizi.

vedi anche RECENSIONE: NICK CAVE & WARREN ELLIS- Lawless(original motion picture soundtrack) (2012)



vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN-Blues Funeral (2012)




vedi anche RECENSIONE: EELS-Wonderful,Glorious (2013)




vedi anche RECENSIONE: DEPECHE MODE-Delta Machine (2013)




lunedì 18 febbraio 2013

RECENSIONE: HERNANDEZ & SAMPEDRO (Happy Island)

HERNANDEZ & SAMPEDRO  Happy Island (autoproduzione, 2013)


Piccolo soffio di maestrale sulla polvere del cuore. Ho sempre avuto un debole per la west coast californiana e tutto l'immaginario estetico che ruotava intorno. Fin da ragazzino ho avuto la fortuna-l'ho sempre considerata tale- di sognare, maneggiando e ascoltando dischi di Crosby, Stills & Nash, Jackson Browne, Eagles, America e non finirò mai di ringraziare chi li lasciava in giro per casa incustoditi, vittime sacrificali della mia curiosità. Certi suoni e melodie mi hanno allevato, prima che pescassi the number of the beast dai numeri della tombola, facendomi crescere (inutilmente) i capelli per poi riperderli miseramente lungo la strada. Quindi, è con estremo piacere che mi sono messo all'ascolto di questo primo lavoro degli italianissimi Hernandez & Sampedro, dopo averne avuto un anticipo rivelatore dal video del  primo singolo Happy Island, una ballata soft, salvifica e sognante che si sfoga nel finale con l'assolo elettrico. Conquistato al primo ascolto.
Tutto quello che sognavo da bambino guardando certe copertine e ascoltando alcune melodie vocali mi si è ripresentato davanti ascoltando Happy Island. Il panorama tutto americano fatto di immense highways e sperdute stazioni di servizio tenute in vita dal soffio del vento, sole scintillante respinto dalle lenti oscuranti di grossi occhiali a goccia e luci serali che illuminano piccole città periferiche con i loro motel da quattro chiacchiere e due dollari. E poco importa se la strada in copertina sembra portare più verso l'entroterra romagnolo e qualche agriturismo casereccio piuttosto che le montagne rocciose.
Succede, infatti, che uscendo di casa in una fredda giornata d'inverno ti porti dietro il Cd, lo infili nel lettore dell'autoradio e quando alzi il portone del garage ti si presenta davanti una lunga american freeway con un cielo rosso da tramonto a colorare ogni forma di vita sul cammino. E la neve? Sciolta! Tutto perfetto e scopo raggiunto.
Happy Island appartiene a quella sempre più esigua schiera di dischi italiani che mi conquistano al primo ascolto. Chiaro-scuri che colpiscono. Certa musica ce l'ho patologicamente nel cuore e lì , al sicuro, rimarrà per tutta la vita, anche quando la curiosità musicale ti porta da tante altre parti. Tutto vero, ma il disco è veramente bello a prescindere dal mio poco significante percorso musicale.
Luca "Hernandez" Damassa (voce e chitarre) e Mauro "Sampedro" Giorgi (chitarre e seconda voce)  provengono da Ravenna, provincia "balneare" della nostra costa adriatica che da alcuni anni è fucina positiva di fresche e accattivanti proposte di american music, dai Miami & The Groovers del loro amico Lorenzo Semprini ai Nashville & Backbones. La nostra piccola e solare East Coast.
Il duo dopo aver calpestato la spessa sabbia dei deserti stoner con la  band Stoned Machine, ne ha setacciato la ruvidezza rock. Ciò che è rimasto è finissima sabbia dorata che si posa melodicamente su canzoni elettro/acustiche emozionali ed evocative dall'incedere pigro come The Sky, The Water And Me che pare uscita dal prolifico "raccolto" dell'annata 1972 di Neil Young, oppure ruspanti country song come Kinky Queen con un chorus efficace ed un violino protagonista che, rimanendo in casa del canadese, potrebbe uscire da album sempre dimenticati come i più sgangherati American Stars'N Bars o Hawks & Doves, o ricordare, restando al presente, il primo e genuino Mescalito di Ryan Bingham, songwriter texano con il talento nelle vene e un oscar nel taschino, per il quale i romagnoli hanno già fatto da opener in alcune date italiane.
Hernandez & Sampedro sono moderni cowboys di pianura (padana) a cui piace portare in giro per locali la propria musica e sarà quindi un piacere poter riascoltare, durante i loro live, la crescente tensione dell'opener elettrica dallo spirito grungy Turn On The Light, la contagiosa marcia country/western Don't Give Up On Your Dreams che sfodera un chorus che pare quasi una outtake del cristallino Out Of Time dei REM, la malinconica e quieta solitudine di She's A Woman, le percussioni, l'intreccio acustico delle chitarre e le melodie vocali (sempre efficaci) di Ray Of Light e The Hardest Part figlie dei primissimi CSN o degli esordienti America seduti davanti a geronimo, come Cold,Cold,Cold In This Town lo è di quelli di metà carriera( Alibi) con quella vocalità alla Michael Stipe di Luca "Hernandez" che piace e convince.
Una menzione, giusta e doverosa, anche per gli altri compagni di viaggio: Giuliano "Juanito" Guerrini, musicista tuttofare e splendido produttore di un lavoro così ricco, ottenuto con così poco a disposizione (ricordo che il disco è autoprodotto) e Guido Minguzzi alla batteria.
Avanti così, l'isola che cercano è sicuramente dietro la prima curva dopo quel lungo rettilineo.
Succede, infatti, che uscendo di casa in una fredda giornata d'inverno ti porti dietro il CD, lo infili nel lettore dell'autoradio e quando alzi il portone del garage ti si presenta davanti una lunga american freeway con un cielo rosso da tramonto a colorare ogni forma di vita presente sul cammino. E la neve? Sciolta! Tutto perfetto e scopo raggiunto.
Io resterò fuori dal mio box auto ad osservarli mentre le nuvole grigie lasceranno posto ai raggi rossi. Mi aggiusterò gli occhiali a goccia e augurerò loro: buon viaggio!
in uscita: 1 Marzo 2013
per contatti: http://www.facebook.com/hernandezsampedroband?fref=ts




vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Here's To The Road (2011)




vedi anche RECENSIONE: MATT WALDON-Oktober (2012)




vedi anche RECENSIONE: MIAMI & THE GROOVERS-Good Things (2012)




vedi anche RECENSIONE: TAG MY TOE-This Fear That Clouds Our Minds (2012)




vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)



giovedì 14 febbraio 2013

RECENSIONE: EELS (Wonderful,Glorious)

EELS  Wonderful, Glorious ( E Works Records, 2013)

Con un po' di fervida fantasia potremmo immaginare mister E davanti alla home page di Facebook, solo, a tarda sera in pigiamone a righe e ciabatte di peluche mentre con una mano posa la sigaretta, si aggiusta gli occhiali, si gratta la barba-da qualche giorno accorciata- e con l'altra impugna il mouse, impegnandosi nel rispondere all'insopportabile domanda che ogni giorno viene propinata all'accensione del computer: "ciao Mark Oliver Everett come va oggi?" E lui che risponde: " fino all'altro ieri male, da qualche tempo meglio, grazie. Comunque lo puoi capire anche dai miei dischi, sono il vero specchio della mia anima, la cartina al tornasole dei miei umori. Ho superato tutti i lutti che mi hanno toccato. Ora voglio vivere la vita, gli affetti, l'amore con più leggerezza. Non è così facile come sembra, ma ci provo. Ora è tardi devo andare a dormire, però domani, per piacere, non farmi ancora la stessa domanda, ascolta il mio nuovo disco Wonderful, Glorious, lì trovi tutte le risposte che vuoi." Mister E frequenterà veramente i social network?
Un disco nato dall'esigenza di staccarsi dalle rassicuranti abitudini degli ultimi dischi (quelli della trilogia), di uscire dallo stesso studio di registrazione occupato per anni, di correre incontro alla gioia, ai colori, alle nuove albe piene di speranze e buoni propositi dopo aver trascorso fredde notti, come canta nel singolo Peach Blossom: ( "Open the window man, and smell the peach blossom,the tiger illy, the marigold") e ben raccontato dal video che lo accompagna. Il precedente Tomorrow Morning (2010) era l'alba del nuovo giorno, Wonderful, Glorious è il proseguo della giornata.
Nuovo studio di registrazione, in California, fresco metodo di scrittura dei pezzi che coinvolge per la prima volta così massicciamente tutta la band, "la migliore che abbia mai avuto", dice lui. Difficile anche dargli torto dopo averli visti nel tour del 2010, a presentazione della trilogia. Un gruppo affiatato (The Chet, Kool G Murder, P-Boo, Knuckles) e dannatamente ruspante con un tiro blues/garagista che ha lasciato pochi prigionieri in quella serata milanese.
La parabola degli EELS segue in modo parallelo e speculare la vita di E: è partita dall'abisso più nero e con gli anni si è avvicinata sempre più, risalendo, verso la superficie dei colori. E' passata dai funerali, dagli electro shock blues, all'esaltazione dei metodi di guarigione medico-farmaceutici più disparati all'esplosione di nuovi alfabeti in grado di riscrivere la vita, che stacchino da tutto quello che era il passato, che diano un nuovo via alla riscossa come canta in New Alphabet : ("You know what?I'm in a good mood today/well I'm so happy it's not yesterday/man it was brutal but it's in the past...").
Su tutto il disco aleggia il sentimento dell'amicizia, spesso relegato a comprimario anche quando si vive un amore importante o ci si lascia distrarre troppo dal resto della vita, ma sempre vincente sul lungo percorso dell'esistenza. E è arrivato, alla soglia dei cinquant'anni, in quel punto della strada dove ha incrociato l'importanza degli affetti che lo circondano e lo vuole condivere con i suoi fan come ha sempre fatto anche in passato nei momenti down: Stick Togheter , You're My Friend lasciano poco spazio alla nostra immaginazione su quale siano i sentimenti prevalenti ora.
Se la vera novità per i fan è la gioia ritrovata nei testi, musicalmente c'è poco di nuovo e rivoluzionario, ma tutto il campionario di quello che ci ha sempre regalato negli ultimi dischi: blues scarnificato puntellato di elettronica (Bombs Away), fuzz/rock/blues chitarristici (Peach Blossom, Open My Present, Stick Togheter), funk/pop costruiti come solo i fratelli Wilson avrebbero fatto da una spiaggia nei '60 (Wonderful, Glorious), folk/country acustici (On The Ropes), notturni e tranquilli mantra esistenziali (Turnaround, True Original) e pop elettro psichedelici (Kinda Fuzzy). Un giro divertente intorno al pianeta musica, forse non più innovativo come poteva esserlo agli esordi nel seminale indie/pop Beautiful Freak (1996) o nel monumentale Blinking Lights And Other Revelations (2005), ma sempre onesto, ben costruito e di buon gusto.
Notevole, infine, l'edizione deluxe con un ricco disco in più: 5 nuove canzoni in studio (4 escludendo l'intro parlata), tra cui spiccano Your Mama Warned You, il country lo-fi di I'm Your Brave Little Soldier e l'electro/fuzz di Happy Hour (we0re Gonna Rock) più  8 registrazioni live (4 elettriche dal tour 2011 e 4 acustiche dal Live At Kexp) .

vedi anche RECENSIONE: EELS live, Alcatraz, Milano , 15 Settembre 2010



vedi anche RECENSIONE: DEPECHE MODE: Delta Machine (2013)



lunedì 11 febbraio 2013

RECENSIONE: MODENA CITY RAMBLERS (Niente Di Nuovo Sul Fronte Occidentale)

MODENA CITY RAMBLERS  Niente Di Nuovo Sul Fronte Occidentale (Mescal/MCRcords/Universal, 2013)

Non ci sono dubbi sullo spartiacque che la separazione dal cantante Cisco Bellotti, avvenuta ormai nel 2005, abbia creato alla carriera della grande famiglia modenese e al disorientamento venutasi a creare tra alcuni fan di vecchia data rimasti legati al primo periodo (qualcuno anche ai primissimi vagiti con Alberto Morselli). Una separazione che ha permesso però alle due parti di continuare in modo onesto le proprie carriere: a Cisco di inseguire i sogni cantautorali culminati con il bello Fuori I Secondi (2012), pieno di storie di altre epoche passate purtroppo inosservate in questi tempi così veloci, al gruppo di tentare nuove strade musicali per poi tornare alle radici, pur facendo i conti con i continui avvicendamenti di formazione, una prerogativa fin dagli esordi. Grande famiglia non a caso. Grande famiglia anche dopo aver archiviato i festeggiamenti per i quindici anni passati dallo storico esordio Riportando Tutto a Casa (1994), riportato in giro per l'Italia con un fortunato e bel tour e la reunion "per una sera" con Cisco, avvenuta il 25 Giugno 2012 per il concerto dedicato alla loro terra colpita dal terremoto.
Niente Di Nuovo Sul Fronte Occidentale, titolo ripreso dal romanzo di Remarque è uno dei dischi più ambiziosi della loro carriera. Si presenta ricco di 18 canzoni/cartoline divise in modo molto vintage in 2 CD, indicati come lato A (Niente Di Nuovo) e lato B (Sul fronte occidentale). Una divisione voluta per separare in modo piuttosto netto le due anime che hanno sempre convissuto nella band, una più combat rock/folk e sperimentale-comunque lontana da alcune derive elettroniche dell'ultima fase con Cisco-e l'altra più folk/acustica, poetica, per certi versi più tradizionalmente cantautorale.
La formazione è la stessa del precedente disco Sul Tetto Del Mondo: i veterani Massimo "Ice" Ghiacci (basso), Franco D'Aniello (flauti, fiati), Roberto"Robby" Zeno(batteria), Francesco"Fry"Moneti (violino, banjo, mandolino, chitarra), l'ormai super integrato cantante Davide"Dudu"Morandi e i due ultimi arrivati  Leonardo Sgavetti (fisarmonica, tastiere) e Luca Serio Bertolini (chitarre).
Unica defezione: Luciano Gaetani, storico membro fondatore del gruppo che come è rientrato in formazione, presto ne è uscito, pur prestando il suo fiato nella e-pipe (cornamusa elettrica) che compare su Occupy World Street. Da segnalare invece la presenza di Daniele Contardo all'organetto in La Guera D'l Barot, membro dei Ramblers tra il 2003 e il 2005.
Presente e passato, quotidianità e antiche tradizioni si mischiano in un tourbillon di parole, ricordi, pensieri, emozioni, speranze.
Un disco dove le vecchie storie di guerra innaffiate dai fiati mariachi di Niente Di Nuovo Sul fronte Occidentale diventano metafora moderna, i vecchi racconti di fame dei tanti bambini meridionali che nell'immediato dopoguerra furono spediti al nord per essere sfamati ("E pasta nera è perchè dove si mangia in sei si mangia in sette!") tramandati di generazione in generazione a passo di danza di Pasta Nera si intrecciano con le illusorie promesse delle banche e le desolanti pagine di cronaca nera dei tempi moderni.
Dove anche un vecchio violino (Il violino di Luigi) appartenuto al partigiano Luigi Freddi torna a suonare dopo essere ricomparso come un segno del destino da una antica soffitta ferita dal recente terremoto emiliano, dove le voci di libertà che provengono dalla calda primavera araba degli anni 2000 che fa "nascere gelsomini nel cuore del deserto" (nella etnica mediorientaleggiante  E' Primavera) si mischiano con le voci della libertà negata che due t-shirt rosse volevano amplificare a tutto il mondo, quelle che i due tennisti Adriano Panatta e Paolo Bertolucci indossarono nel sanguinario Cile del 1976, nell'unica finale di Coppa Davis vinta dall'Italia ( Due Magliette Rosse).Una finale giocata nonostante il regime sanguinario di Pinochet non fosse visto di buon occhio dal governo italiano ("Due magliette rosse nello Stadio della Morte, due magliette rosse come il sangue nelle fosse, per le donne di Santiago e la loro libertà, sfidarono il potere con grande dignità"). Anche questa pagina di sport è cronaca d'Italia. Un plauso ai Modena per averla riportata in superficie.
Il triste primato italiano delle stragi depistate raccontate nella folkie  Nostra Signora Dei Depistati sembrano stridere con la vecchia avventura del contadino piemontese che rifiutò di arruolarsi per combattere i briganti (La Guera D'l Barot) musicata insieme dalla ghironda occitana di Anna Lometto e cantata dalla voce di Guido Talu Costamagna.
Il lato più rock della loro musica è nelle vene di Davide Morandi, quello che, con un gioco di parole, tocca la rivolta di chi non vuole essere schiavo dei potenti e invita a riprendersi e occupare le strade nell'irish/punk chitarristico alla Flogging Molly di Occupy World Street, lo ska-reggae della poco riuscita Fiori D'Arancio E Baci Di Caffè e la taranta di denuncia Tarantella Tarantò. Il combat/irish-folk suonato inseguendo i maestri Pogues per le vie di Dublino in Kingstown Regatta, gli accenni quasi progressive di C'era Una Volta che vanno a braccetto con il bel folk americano alla Ghutrie/Seeger di La Strage Delle Fonderie che riporta il triste destino degli operai assassinati alle fonderie Riunite di Modena nel 1950, della ballata pianistica sulla sempre dimenticata pagina italiana della Guerra D'Africa (Afro), gli attentati mafiosi che colpiscono gli innocenti  nella crescente tensione musicale della bella Beppe e Tore, i segreti dell'omicidio del diciottenne Federico Aldrovandi, pestato a morte una notte di Settembre a Ferrara da una masnada di "belve in divisa" senza scrupoli e una mamma coraggio che aspetta la verità (La Luna Di Ferrara).
Un disco ricco di storie piccole e grandi, linguaggi diversi e universali, e tanta musica. Come da sempre ci hanno abituato. I Modena City Ramblers continuano ad essere un manifesto importante della musica italiana degli ultimi vent'anni. Un manifesto con una impietosa scritta che si legge ancora Italia ma si pronuncia "vecchia e malandata" come quella rappresentata in copertina. Una Repubblica detentrice di tante storie (con i suoi protagonisti): vecchie, nuove, belle, brutte, dimenticate, depistate, inventate. In un periodo in cui le vie delle nostre città sono tappezzate di manifesti elettorali, io continuo a preferire il manifesto e i fatti di "cronaca vera" raccontati dai Ramblers.


vedi anche RECENSIONE: MODENA CITY RAMBLERS-Sul Tetto Del Mondo (2011)



vedi anche RECENSIONE: CISCO-Fuori I Secondi (2012)





giovedì 7 febbraio 2013

RECENSIONE:ARBOURETUM (Coming Out Of The Fog)

ARBOURETUM  Coming Out The Fog  (Thrill Jockey, 2013)

Se l'impegnativo appellativo di "band definitiva di classic rock degli anni zero" fino a ieri poteva essere un azzardo, ora è prossimo alla realtà. Il quinto disco della band di Baltimora continua il lento processo di crescita che ne ha caratterizzato il percorso fin dagli esordi (il primo album fu Long Live The Well-Doer-2004), arrivando ad una quasi perfezione di forma poco avvicinabile dai coetanei generazionali, mi vengono in mente gruppi come Shearwater, gli interessanti Wolf People o i Black Mountain, a cui manca però la profondità compositiva e l'amore per i dettagli che possiedono gli Arbouretum. Passato e moderno musicale trovano il modo di convivere senza bisogno di combattere per prevalere l'uno sull'altro.
Abbandonati gli spigoli più taglienti degli esordi, il suono continua ad arricchirsi di quelle sfumature folk già ben presenti nel precedente The Ghatering (2011), ora ancora più avvolgenti e così ben integrate tra i rifferrama hard, sempre meno incisivi ma ancora significativi e le visioni ambiental-psichedeliche del leader Dave Heumann, vero punto caratterizzante e di forza del progetto. Un suono che sta trovando sempre più la giusta via dell'originalità pur attingendo da più fonti di ispirazione.
A partire dall'iniziale e brumosa The Long Night, dal lento incedere di  Renouncer dove il folk/progressive britannico dei Fairport Convention (in fondo la somiglianza con la vocalità di Richard Thompson è palese) abbraccia le divagazioni chitarristiche di Heumann sempre più vicine alle visioni elettro-narcotiche di Neil Young & Crazy Horse dei bei tempi; nell'intima elegia estiva di Oceans Don't Sing, tra folk e country, o nella finale meditativa Coming Out Of The Fog, cullante e rassicurante ballad costruita su pedal steel e pianoforte, già un piccolo classico del loro nuovo approccio musicale.
La chitarra di Heumann sorvola incontrastata come un'aquila imperiosa sulle cime più alte di una silenziosa catena montuosa, scossa nelle fondamenta dalle più elettriche  All At Once The Turning Weather, dallla breve strumentale Easter Island , dal rock sincopato, epico, sinuoso e psichedelico di The Promise, o dal  drone/fuzz stoner e cosmico di World Split Open dove annichilisce e stordisce.
"On top of a column/above the sand/out in the desert sun/He stood and stood/for egress and years/apart from everyone" da Renouncer.  
I desolati paesaggi dove perdersi continuano ad essere gli stessi, a cambiare è il loro approccio, sempre in continuo movimento e diccifile da acciuffare. Quaranta minuti che avvolgono con passo lento, quasi pigro ma deciso e vincente. Se non potete permettervi costosi viaggi per uscire dalla freneticità quotidiana, gli Arbouretum vi promettono il miglior comfort spazio/temporale sulla piazza.




lunedì 4 febbraio 2013

RECENSIONE: MOJO FILTER (The Roadkill Songs)

MOJO FILTER  The Roadkill Songs (Club De Musique/IRD , 2013)

I Mojo Filter guardano il rock diritto negli occhi. Ne seguono i rapidi movimenti, rincorrono i percorsi zigzaganti delle rosse vene dei capillari in evidenza, quelle che assomigliano alle forti radici di un albero secolare. Sangue e terra: elementi vitali, basilari e concreti. Anche se questa volta maggiori momenti di soul/psichedelia-comunque presenti anche nei precedenti dischi- potrebbero invogliare ad alzare le gambe dal suolo, prendere il volo e viaggiare con la mente, come succede durante la lunga jam che accompagna l'Hard/Blues di Closer To The Line, tra i fantasmi di un diavolo tentatore di stonesiana memoria e digressioni zeppeliniane costruite da percussioni e feedback, o ancor più nella quieta e afosa rilassatezza estiva di Beautiful June Day: percussioni (suonate dall'ospite Mr Lobo Jim), tastiere (Fidel Fogaroli), luce accecante e la materializzazione delle stagioni lisergiche ad infiammare ancora di più l'iride.
Il terzo studio album arriva a soli due anni dal precedente Mrs Love Revolution, un disco che non ha mancato di raccogliere buoni consensi, anche all'estero in quei posti dove il rock ha tagliato il cordone ombelicale e piantato le sue prime radici.
Vintage sì, ma non statica la proposta della band di Bergamo, ormai in collaudata e solida formazione con Alessandro Battistini (voce, chitarre), Carlo Lancini (chitarre), Jennifer Longo (batteria) e Daniele Togni (basso). Basti l'ascolto di Cigarettes, o dell'iniziale The Girl I Love Has Got Brown Hair  con i suoi riff secchi che alzano polvere e scompigliano i capelli, assoli di chitarra che scuotono i nervi, fino ad arrivare al recupero dell' anima nera di casa stax con i fiati che fanno capolino sul finale o come Better Love Your Man, con il basso a condurre così bene i giochi, con le improvvise scosse hendrixiane a molestare e percuotere.   
Poi ti piombano addosso i pesanti riff sabbathiani alla Tony Iommi che aprono My girl, prima che si trasformi in un sensuale funk cosmico con il bel assolo di chitarra compreso nel p(r)ezzo. La viziosa Red Banana si catapulta ancora più indietro nel tempo, atterrando negli anni sessanta e salutando il brit garage da sopra una decappottabile in corsa, la stessa che incrocia l'America di una pigra slide nel luminoso blues/southern rock a due marce della finale Nobody's Out Crying .
Prodotto nuovamente in modo essenziale ed in presa diretta dallo stesso Battistini insieme a Mauro Galbiati, con lo splendido lavoro grafico- ancora una volta-di Ferdinando Lozza. Un connubio che piace, proprio come succedava una volta tra artisti e musicisti.
Finchè il sangue continuerà a scorrere e la terra sarà base su cui potremo appoggiare i piedi con sicurezza, la loro idea di Rock continuerà ad essere viva e pulsante, non richiede altro: plasma e suolo, cuore e autostrada, epidermide e cielo. Nessuna velleità modaiola nella loro proposta, nessuna rincorsa al vintage rock che va per la maggiore solo per essere fighi, lo si capisce immediatamente, lo si capta a pelle, percependo la passione riversata in musica."Ci abbiamo sudato sopra parecchio. E al contrario di quanto succede ad alcune band (dove in studio, dopo 15 ore al giorno insieme, c'è il rischio di rottura), ci siamo scoperti ancor più famiglia. Credo che nel video di "Red Banana" i sorrisi di Jennifer Longo siano abbastanza eloquenti e, almeno dal mio punto di vista, testimonino uno dei migliori periodi vissuti insieme...umanamente..." mi dice Carlo Lancini. Ci credo.
E' il loro campo e la squadra gioca bene e porta sempre a casa il risultato. L'unico sfizio è compiacere chi cerca ancora quel buon hard-blues-rock'n'roll in grado di tenere accesa la fiammella. Non di certo un grande peccato per chi ama il rock semplice e puro.
In uscita il 14 Febbraio 2013.


 

                 INTERVISTA: MOJO FILTER



giovedì 31 gennaio 2013

RECENSIONE: VOIVOD (Target Earth)

VOIVOD  Target Earth (Century Media, 2013)

Angel Rat, anno 1991, è l’ultimo disco che la formazione storica dei Voivod registrò. Un piccolo capolavoro. Dopo due anni arrivò anche The Outer Limits ma il bassista Blacky era già fuori squadra. Il nuovo album Target Earth riprende la storia da quegli anni, non che il periodo con Eric Forrest e l'ultimo decennio con i dischi costruiti un po’ meccanicamente con i lasciti del compianto chitarrista e fondatore Denis "Piggy" D’Amour siano da cancellare, tutt’altro-i Voivod non hanno mai sbagliato un’uscita discografica pur combattendo (e vincendo) con un destino spesso avverso- ma solo ora, dopo l’assimilazione dell’importante perdita, in primis affettiva e poi artistica ("Piggy è lo "spirito" dei Voivod "come scrivono tra le note dei ringraziamenti) ed un periodo di giusta riflessione sul futuro della band, i canadesi sembrano ritrovare gli elementi vitali per il loro sound, sacrificati a favore di groove, melodia e potenza sonora. Gli scenari sci-fi e spaziali, ma sempre intrecciati con il desolante destino terrestre, disegnati dalla mente di Michel "Away" Longevin avevano bisogno, per rendere al massimo, di tutta la contorta commistione tra il complesso e irregolare thrash metal e la vena progressiva, avanguardista e fantascientifica, spesso smarrita negli ultimi vent’anni.
Il nuovo chitarrista Daniel "Chewy" Mongrain è cresciuto artisticamente studiando i riff di D’Amour, e pur assomigliandogli anche nel fisico, non lo sta scimiottando ma sta eseguendo con grande devozione e rispetto quello che avrebbe fatto Piggy se ancora in vita davanti a composizioni del genere, tanto da sembrarne la reincarnazione. 
Il cantante Denis “Snake” Belanger è tornato in splendida forma vocale come dimostra nell'allucinata Kaleidos, così come il bassista Jean-Yves "Blacky" Theriault, presenza ben rodata durante i tour che hanno preceduto l'uscita e reintegrato dopo vent'anni di assenza come se non fosse mai uscito dal gruppo. 
I Voivod sembrano tornati alla stabilità che giova all’ispirazione, permettendo loro di volgere lo sguardo ai vecchi e complessi capolavori Killing Technology (1987), Dimension Hatross (1988) e Nothingface (1989), riprendendone i complicati cambi di tempo e le dissonanze (Target Earth), le aperture progressive in Empathy For The Enemy , gli assalti thrash dai chorus quasi hardcore di Kluskap O'Kom e di Corps Etranger cantata in francese, le stranianti e avvolgenti atmosfere circolari di Mechanical Mind, l'oscuro incedere pinkfloydiano che precede gli apocalittici scenari di Warchaic, la prima parte melodica di Resistance che si trasforma in un lento, sinistro e cadenzato macigno doom, la strepitosa archittettura di Artefact, un vortice  scuro che inghiotte tutto ciò che incontra sulla strada.  
I Voivod rimangono, oltre che inimitabili, uno dei pochi gruppi che possono permettersi di volgere lo sguardo al loro passato, riprenderne le idee, le atmosfere, le tematiche senza risultare vecchi o nostalgici, o più banalmente una copia di se stessi. Il motivo? Avanti - di molto-lo erano già trent'anni fa, tanto da sembrarlo ancora oggi. Rimane solo da scoprire di quanti anni erano(sono) oltre. Un giorno, qualcuno lo scoprirà ma sicuramente non sarà di questo pianeta. 


lunedì 28 gennaio 2013

RECENSIONE: TYLER BRYANT & THE SHAKEDOWN (Wild Child)

TYLER BRYANT & THE SHAKEDOWN  Wild Child (Carved Records , 2013)

Nel 1997, Tyler Bryant aveva solo 6 anni. C'è un frammento di video su YouTube che lo mostra vestito e pettinato come Elvis Presley mentre sopra ad un palco, probabilmente di qualche talent show americano per bambini, si muove e dimena, scimmiottando "The King". Nulla di eccezionale ma il bambino ci credeva e i genitori (sic) forse ancora di più: "C'è stato un momento della mia vita, alle elementari, in cui credevo di essere Elvis!" dice. Cose viste e purtroppo straviste anche da noi in quelle malsane trasmissioni televisive del sabato sera, figlie degenerate della vecchia trasmissione "Piccoli Fans", a sua volta figlia del più candido e innocente Zecchino d'Oro. C'è un però. Il piccolo Tyler ha una chitarra in mano, piccola, forse un giocattolo, non si capisce.
Andiamo avanti con gli anni. Nel 2011 quella chitarra si è ingrandita e ha già diviso il palco e aperto i tour di B.B. King, Jeff Beck, Aerosmith, Joe Bonamassa, Heart, Lynyrd Skynyrd, Eric Clapton, Reo Speedwagon e molti altri. Roba da far impallidire chiunque. Può bastare per farci capire che Tyler Bryant, ora ventunenne, ma ancora la faccia pulita da ragazzino, è considerato una delle più fulgide promesse americane delle sei corde.
Cresciuto praticamente dentro al negozio di chitarre a Paris TX dove i suoi genitori gli comprarono la sua prima  Epiphone Les Paul rossa e dove l'incontro con il vecchio bluesman Roosevelt Twitty fu determinante per improntare lo stile chitarristico e far uscire allo scoperto l'innato talento.
Questo Wild Child è il primo disco e segue la pubblicazione di due EP My Radio e From The Sandcastle (molti brani di questo EP sono presenti qui, nel suo debutto).
Che un produttore del calibro di Kevin Shirley si sia già mosso in suo aiuto, garantisce sulla alta professionalità che circonda il progetto di Tyler Bryant e la sua fedele band The Shakedown, messa in piedi dopo essersi spostato a Nashville (con tutta la famiglia) e composta da: Graham Whitford (chitarra) figlio di Brad Whitford chitarrista degli Aerosmith, da Noah Denney (basso) e Caleb Crosby (batteria).
Sdoganato al grande pubblico dal film documentario Rock Prophecies di Robert Knight che lo affiancava a grandi chitarristi già affermati, la musica di Bryant ha tutto per attirare l'attenzione di chi ama la buona musica rock/blues pur disseminando qua e là qualche difetto imputabile alla giovane età ma rimediabile con il tempo: Bryant rischia poco, rifugiandosi in qualcosa che abbiamo già sentito tante volte, cedendo anche, in alcuni punti, alla piacioneria da airplay radiofonico come nel suo inno generazionale, molto bonjoviano, Still Young e nel tambureggiante Rock'n'Roll di Say a Prayer.
Ma qualche giovane estimatore lo troverà.
Lo salvano l'età, l'ingenuità, l'energia, il talento innato e la grande passione per le sei corde- direi totalitaria-  riversata nelle canzoni, sia quando si catapulta a testa bassa nella "Fast and Furious" House Of Fire, sia quando ammoderna la sua visione del blues in Last One Leaving, o quando ripassa la lezione dell'hard blues inglese d'annata in  House That Jack Built  e Fool's Gold, anche debitrici di quello street metal che quel gruppo di Boston, quello dove milita il papà del secondo chitarrista, sapeva fare così bene.
Quando bottleneck/slide prendono il sopravvento nella paludosa Lipstick Wonder Woman, Poor Boys' Dream, Downtown Tonight si respira anche aria di buon blues (che sia già arrivato il tempo per il "nuovo Joe Bonamassa"?), portando in superficie tutto il suo amore per il rock semplice, melodico e genuino dei suoi amati Rolling Stones e Tom Petty And The Heartbrekers.
Il disco gira e suona bene, moderno, dinamico e ben fatto, a volte fin troppo per essere stato registrato in presa diretta in poco meno di due settimane con l'aiuto dell'amico Roger Nichols, e quando si è di fronte a talenti all'esordio di questa fattura, il giudizio definitivo emergerà meglio con il tempo (e gli album) o alla prova del nove definitiva, quella del palcoscenico, forse già anche superata, si vocifera.
"Volevo fare un disco rock per i giovani come me.Volevo fare un disco rock & roll per la mia generazione e abbiamo voluto che il suono uscisse vivo, sporco e crudo come quando ascolti quattro persone in piedi in una stanza". Da una intervista rilasciata a GlideMagazine.com 
Un disco che potrebbe far presa sulle nuove generazioni rock in cerca di nuovi idoli da idolatrare, un po' come fatto recentemente da gruppi come Black Stone Cherry, a patto che poi i giovani fan si vadano a studiare i fondamentali e le radici del rock. Tyler Bryant lo ha già fatto molto bene, ora deve solo studiare per trovare la sua unicità d'artista. Il talento c'è di sicuro e la strada imboccata è quella giusta.






giovedì 24 gennaio 2013

RECENSIONE: NEWSTED (Metal)

NEWSTED   Metal (Chophouse Records, 2013)

Se avevate ancora dubbi su quale fu la "parte metal" che nel 2001 si dileguò dopo lo split tra Metallica e Jason Newsted, ora avete la risposta definitiva. Se invece, come me, di dubbi non ne avete mai avuti, il titolo così chiaro, esplicito-poco originale ma perdonabile- di questo EP di sole quattro canzoni (22 minuti) ne è la conferma marchiata in musica. Ma soprattutto sembra essere uno sfottò bello e buono indirizzato agli ex compagni, stampato a chiare lettere nel titolo (non mi spiego altra ragione ad un titolo del genere) e rincarato dalle parole rilasciate in una intervista a The Classic Metal Show: “ Io sono tra quelli a cui piacciono soprattutto i primi tre album dei Metallica e a cui non piace la band dopo la morte di Cliff Burton. Sono di questa opinione. Sono orgoglioso degli album che ho registrato con quei ragazzi e sono belli per quello che sono. Ogni volta che ho suonato dal vivo con loro di fronte alla gente, l’ho fatto come se fosse stata l’ultima volta e ho spaccato il culo a chiunque ci fosse di fronte a me. Questo è quello che conta”.
Sarebbe comunque sbagliato e riduttivo relegare la carriera del bassista Jason Newsted ai soli Metallica. La sua è una carriera con un pedigree di tutto rispetto e devoto alla causa metallica (non il gruppo questa volta): partendo dai Flotsam And Jetsam di cui fu uno dei fondatori, gruppo tra i prime-movers del thrash metal ma sempre relegati dietro ai Fab Four per antonomasia, fino all'approdo nei seminali ed un "passo sempre avanti" Voivod (è appena uscito il loro nuovo ed entusiasmante Target Earth) con i quali collaborò dal 2002 al 2009. E poi, tanti altri progetti, piccoli e grandi, tra cui spiccano gli R8 e gli EchoBrain.
Ora, il buon Jason ha deciso di non sottostare a nessun altro dittatore musicale, libero di decidere, comporre, suonare la sua musica e formare la propria omonima band, composta da  Jessie Farnsworth alle chitarre e Jesus Mendez Jr. alla batteria. Quattro canzoni sono poche ma bastano a delineare quale sarà il futuro percorso: dal thrash metal lineare e old school, ora più veloce e motorhediano come nell'apertura Soldierhead, ora più pesante e cadenzato come in Godsnake con le vocal sinistre di Newsted che, come già dimostrato facendo le backing vocals nei Metallica, si conferma un cantante dalla piena sufficienza, vicino al timbro di Jeff Waters (Annihilator), anche se un retrogusto alla James Hetfield ogni tanta sembra affiorare. Mid-tempo pronti ad esplodere come King Of The Underdogs, un mix micidiale tra Voivod e Motorhead tra cui spicca l'assolo finale ed oscuro di Jesse Farusworth  e il roccioso hard/rock'n'roll dal sapore southern della conclusiva Skyscraper.
Quattro pezzi più che convincenti. Nulla di estremamente originale, tanto di già sentito, ma nell'insieme suona molto onesto e "metal" come è stata tutta la carriera di Newsted. A volte basta l'attitudine per avere la meglio su tutto il resto, fama compresa.



lunedì 21 gennaio 2013

RECENSIONE: THE LONE BELLOW (The Lone Bellow)

THE LONE BELLOW   The Lone Bellow ( Descendant Records, 2013)

Dalle peggiori disgrazie, molto spesso, nascono spinte artistiche di valore. E' quello che è successo a Zach Williams, fondatore e maggior autore del trio The Lone Bellow, dopo che la moglie, caduta rovinosamente da cavallo, è rimasta per molto tempo in balia di dottori e ospedali con l'ombra della paralisi sempre in agguato.
Zach non aveva mai pensato seriamente alla musica prima di allora. Il dolore, la rabbia, la speranza e l'incoraggiamento degli amici lo hanno portato a mettere su carta i sentimenti che solo successivamente diventeranno note.
Intanto la moglie, miracolosamente, migliora e lui decide di spostarsi dal profondo sud della natia Georgia verso New York per cercare fortuna nella musica. Dopo un primo tentativo da solista, trova i suoi fedeli compagni di viaggio in Kanene Pipkin alla seconda voce e Brian Elmquist alla chitarra elettrica e cori, e la sua personale favola sembra indirizzata verso il felice finale. Manca solo il disco: puntualmente arriva, con l'aiuto del produttore Charlie Peacock già al lavoro con il duoThe Civil Wars, band per la quale The Lone Bellow hanno aperto alcune date. Il produttore  fa registrare tutto in tre giorni e tre notti, sperimentando gli antichi spiriti camerateschi che generarono antichi capolavori musicali.
Il debutto dei The Lone Bellow se da una parte è collocabile nel filone indie-folk che imperversa e satura il mercato discografico da qualche anno, alcune buone intuizioni lo elevano tra i probabili dischi che faranno il botto nell'anno appena iniziato, come già sottolineato -e sponsorizzato- a chiare lettere da Billboard. La voce di Williams dà vita alle liriche che raccontano il carattere dei suoi luoghi d'origine, il forte legame alla famiglia, alla terra, alla fede a cui si è appellato nei momenti difficili, splendidamente doppiata da quella femminile di Kanene Pipkin come nel crescendo gospel della bella You Never Need Nobody, nel duetto country di You Don't Love Me Like You Used To, nella facile cantabilità pop di Teach Me To Know. Le armonie vocali sono parte integrante e protagoniste di tutto il disco.
Le soluzioni musicali del trio, almeno su disco, non sono quelle minimali e acustiche che imperversano in act come i Mumford And Sons (un esempio a caso), ma accanto alla tradizione assicurata da banjo, violini, mandolini e chitarre acustiche fiorisce una sezione ritmica ben presente con sprazzi di chitarra elettrica, pianoforte e tastiere garantite dalla presenza dei  tanti strumentisti che hanno partecipato alle due sessions di lavoro, la prima e principale a New York, la seconda a Nashville con alcuni musicisti locali. Bell'esempio della loro attitudine musicale può essere You Can Be All Kind Of Emotional, tra le mie preferite.
Dalle soluzioni più moderne come Bleeding Out, o come l'iniziale Green Eyes And A Heart Of Gold che può ricordare i tambureggianti crescendo emozionali dei migliori U2 e Arcade Fire,  passando per le folkie, malinconiche ed evocative Two Sides Of Lonely, Fire Red Horse, Looking For You e arrivando alla finale The One You Should've Let Go, rock chitarristico e graffiante, mosca bianca tra i solchi di questo debutto ma ben riuscita. Il tutto legato da uno spirito pop che aleggia senza avvolgere e disturbare più di tanto l'interiorità delle liriche, ma impreziosendo un disco trainato dalla forte vocalità di Zach Williams che in alcuni momenti può ricordare un Chris Martin (Coldplay) imprestato alla folk music. Un debutto in linea con ciò che tira di più oggi nell'inflazionato campo musicale indipendente USA: la tradizione americana rivista, corretta e rivestita di spirito moderno. Qui, in più: le buone armonie vocali dettate dal contrasto delle voci maschile/femminile e i testi di gran qualità. Se ne sentirà parlare.





giovedì 17 gennaio 2013

RECENSIONE: BACHI DA PIETRA (Quintale)

BACHI DA PIETRA  Quintale ( La Tempesta Dischi/Venus, 2013)

"Il posto è adesso e il tempo è qui, siam stati stupidi o forse solo soli, una vita da naufraghi inchiodati fissi ai nostri approdi..." da Mari Lontani. 
La musica dei Bachi Da Pietra è diventata pesante e inquietante come una pressa industriale arrugginita e di vecchia data lasciata incustodita, libera di muoversi, fuori controllo, verso il basso con tutta la sua pesante forza mentre piano piano si avvicina ai mal capitati ascoltatori, imprigionati nella fossa con gli occhi terrorizzati e spalancati all'insù.
Quello che visto da fuori poteva sembrare un progetto estemporaneo è, a tutti gli effetti, un nucleo massiccio e scalpitantemente vitale che ha tagliato l'importante traguardo del quinto disco in studio. Nati nel 2004 dall'unione di Giovanni Succi (Madrigali Magri) e Bruno Dorella (Ovo, Ronin ed ex Wolfango), il cammino dei Bachi Da Pietra non ha conosciuto ostacoli di sorta, mantenendo sempre vivo lo spirito del movimento, della indipendenza e libertà artistica. Il loro approccio primordiale alla materia musica, generato dalla scarna strumentazione (chitarra e batteria) con Quintale (titolo che ben si addice alla loro quinta opera dopo Il Terzo Tarlo e Quarzo)  diventa ancora più pesante, monolitico e asfissiante, toccando quella pesantezza hard rock sfiorata in passato ma non ancora così apertamente sviscerata come ora, ed in qualche modo anche lontani dal minimale blues del precedente Quarzo. A risentirne sono forse i testi che perdono la poeticità dei precedenti lavori, diventando più diretti, urlati, ermetici, forse più semplici ma mantenendo sempre intatta la cinica crudezza.
La musica dei Bachi Da Pietra avvolge, incolla, ferisce, provoca senza concedere troppe pause e riposi.
Il pesante vortice sludge di Haiti ha poco di solare; la rutilante Coleotteri ingabbia("sei libero coleottoro di essere come ti vogliono"); il lungo elenco di nomi famosi -e non- srotolati in Enigma  portano alla cacofonia finale; i versi quasi hip hop di Fessura ("...fa che riconosca me stesso e salvami la sete del meglio...") ne fanno una strana novità, portandomi addiritura alla mente i Casino Royale di metà carriera; il minaccioso treno Stoner di Paolo il Tarlo (con il sax ospite di Arrington De Dionyso) e Io Lo Vuole; la claustrofobica navigazione nella vita di Mari Lontani; i feedback iniziali di Sangue che si trasformano in pesanti riff di chitarra ("sangue sempre, venite gente, sangue sempre soprattutto per niente"); il testamento di Pensieri Parole Opere, fino ad arrivare là, dove  le acque si calmano nella teatralità  di Dio Del Suolo e Ma Anche No ("...anche il muschio sogna...) che risvegliano i loro (nostri) inquietanti paesaggi naturali, popolati da pietre, natura selvaggia e insetti. Tregua.
"La qualità audio di questo brano è molto scarsa...per la registrazione non abbiamo seviziato alcun fonico.E' stato registrato con un telefono e non ci è costato niente. A parte il telefono" introduce BARATTO@BACHIDAPIETRA.COM, (presente solo in digital download), puro gioco e provocazione a sacrosanta difesa del personale operato di musicisti.  
Prodotto e registrato totalmente in analogico senza passaggi in digitale da Giulio "Ragno" Favero (Il Teatro Degli Orrori) anche chitarra in Fessura, Quintale potrà far storcere il naso ad alcuni vecchi fan del gruppo, ma più onestamente credo sia solo un'altra tappa, diversa e forse più abbordabile(?), di un gruppo che non ha ancora conosciuto cali di malsana ispirazione.
Pensieri, Parole, Opere...Rock'n'Roll.

lunedì 14 gennaio 2013

RECENSIONE: TAG MY TOE (This Fear That Clouds Our Minds)

TAG MY TOE This Fear That Clouds Our Minds (autoproduzione, 2012)

Il coraggio dovrebbe essere sempre premiato. Fabrizio Zortea (voce) e Riccardo Stura (chitarra e seconda voce) hanno calcato insieme tanti palchi della provincia biellese (e non) suonando nelle più svariate cover band: dagli omaggi demenziali in chiave hard/metal a cose più "serie" come Black Sabbath, Van Halen e l'epopea Crossover/Grunge degli anni novanta convogliati nel loro progetto Baracus. Ora, la rodata amicizia e il coraggio di cui sopra li ha spinti in una impresa tanto curiosa quanto rischiosa, soprattutto qui in Italia per chi, da sempre, è abituato a portare in giro musica propria. Sappiamo tutti quanto i piccoli locali di provincia difficilmente rischino le loro "serate" puntando su qualcosa di originale, ancor più se la proposta non è troppo immediata e commerciale. L'idea è tanto spartana quanto emozionalmente invitante: cercare ispirazione ed estrapolare l'aspetto acustico dai loro idoli musicali, convergendolo in musiche e liriche appositamente scritte di proprio pugno, il tutto con spavaldo spirito DIY, dalla registrazione alla realizzazione dell'artwork, agli strumenti usati. Nel disco troverete solo voce e chitarre acustiche, nulla di più, nulla di meno (un megafono e qualche battito sulla cassa delle chitarre per esagerare). 
Assistendo alla prima presentazione del disco, ho potuto constatare quanto la dimensione dimessa ed unplugged, se presa con lo spirito giusto, possa funzionare, soprattutto quando il cantante Zortea fa valere, oltre alla sua impostazione vocale legata al classico hard rock, la sua indole da cabarettista mancato che stempera ma allo stesso tempo esalta il carattere buio e dimesso del songwriting del gruppo.
Proprio il carattere unplugged di tutte le canzoni porta i primi riferimenti (in particolare nelle armonie vocali) oltre al lato meno assolato della west-coast '70 anche verso le fredde strade di Seattle di metà anni novanta, quelle degli Alice In Chains seduti in cerchio sopra agli sgabelli e attorniati dalle fioche luci delle candele a creare tepore. Nascono così canzoni oscure, dall'arpeggiato crescendo come l'iniziale Something Wicked This Way Comes, dall'umore nero (Black & Six Feet Low) che strizzano l'occhio al man in black per eccellenza, tendende al grigio come in Grey, con  liriche che si soffermano sul trascorrere del tempo tra rimpianti e dura quotidinianità (My Destiny Is Gone, Me Again) o cercando risposte nella fede (If God).
Un sussulto morriconiano- con la profondità vocale alla Mark Lanegan- esce da 45 Rounds, nata per omaggiare l'amicizia tra due vecchi pugili (Nino Benvenuti e Emile Griffith) che per anni si sono combattuti sopra ad un ring ma che il tempo e le disgrazie umane hanno riavvicinato in una profonda amicizia sfociata in solidarietà reciproca. Mentre la strumentale 780 evidenzia tutto l'amore di Stura anche per il carattere intimo del rock (il chitarrista ha anche un progetto personale legato allo Springsteen acustico) e verso un personaggio e chitarrista come Zakk Wylde, che oltre a trapanare le orecchie suonando per Ozzy Osbourne e Black Label Society, è un fine autore acustico come ha dimostrato in dischi come Book Of Shadows, in bilico tra Neil Young e il southern rock acustico.
Un disco che ha bisogno di tempo e ascolti per crescere, pur soffrendo di una registrazione purtroppo non eccelsa, ma budget ed intenzioni erano proprio-e purtroppo- queste. Canzoni che in questi mesi invernali trovano il loro habitat naturale, aspettando qualcuno che creda in questo progetto, magari facendolo crescere come merita.
Se vi capiterà di vederli nell'intimità dei loro live potrete anche ascoltare come suonano Faith No More(Gravedigger), Bob Dylan (Masters Of War), John Hiatt (Down Around The Place), Alice In Chains (Would) e Black Sabbath rifatti alla loro scarna e povera maniera. Intanto, per confermare quanto il progetto sia una cosa seria, voci di corridoio li danno già al lavoro sul successore.

per contatti: http://tagmytoe.webnode.com/