lunedì 20 agosto 2012

RECENSIONE: LYNYRD SKYNYRD ( Last Of A Dyin' Breed )

LYNYRD SKYNYRD  Last Of A Dyin' Breed  (Roadrunner records, 2012)

Questa volta ci siamo-o quasi. Anticipazioni e copertina sembravano regalare un ritorno agli antichi sapori sudisti, se non uguali alla ineguagliabile discografia degli anni settanta, almeno sulla scia di The Last Rebel (1993)-continuità anche nel titolo-, disco che per il sottoscritto rimane il picco della seconda parte di carriera della band di Jacksonville, un disco dove epicità, tradizione e soul (l'introduzione dei fiati fu scelta azzeccata) si sposavano in maniera ottimale se confrontata con il puro esercizio hard/southern rock di dischi poco ispirati come Twenty (1997), Edge Of Forever (1999), lo scialbo e prolisso Vicious Circle (2003)o l'ultimo God & Guns (2009), muscoloso e moderno ma  poco in linea con la storia passata della band e che inaugurava il nuovo corso con l'etichetta metal Roadrunner. Anche qui qualche episodio ruffiano e modernista non manca (Homegrown), ancora sotto la produzione di Bob Marlette, ma il clima generale che si respira mi porta a The Last Rebel, e a farmelo pensare non sono solo gli arrangiamenti orchestrali della semi-ballad pianistica Ready to Fly o i fiati e i cori dell'ottimo R and B di Do It Up Righ, presente come bonus track nella special edition, e tra le tracce migliori del disco.
La vera novità della formazione è l'inserimento di Johhny Colt al basso (anche se su disco tutte le parti di basso sono state suonate da Mike Brignadello), primo bassista dei Black Crowes che ha dichiaratamente ammesso di non averci pensato due volte quando il telefono è squillato per la chiamata di assunzione. 
Honey Hole, messa quasi a chiusura di disco può essere un ottimo mezzo pubblicitario per la futura carriera della band che vede sempre e solo il chitarrista Gary Rossington come uomo immagine di quello che è rimasto della band dopo l'incidente aereo. Una canzone che racchiude tutte le caratteristiche che hanno fatto del nome Lynyrd Skynyrd un marchio che, ancora oggi, sopravvive e attira migliaia di rockers, come avvenuto questa estate in quel di Vigevano. Indifferentemente dal pesante passato che si porta orgogliosamente dietro e che cerca di onorare nel migliore dei modi.
La slide che apre Last Of A Dyin' Breed conduce verso un trascinante boogie/rock'n'roll che si pensava perso nei tempi, invece: autostrade, piede sull'acceleratore, caldo infernale (Lucifero arriva anche qui) e vento sulla faccia si rimaterializzano come una vecchia pellicola in bianco e nero mai passata di moda, dove in veloce frequenza passa tutta la storia della band. Le chitarre di Rickey Medlocke, Rossington e Mark Matejka con l'aggiunta dell'ospite John 5, macinano riff e assoli in One Day At A Time, nel blues melmoso, moderno e descrittivo di  Mississippi Blood, nella epicità hard della funkeggiante Good Teacher, nell'incedere dell'hammond in  Nothing Comes Easy, e la particolarità di Life's Twisted scritta appositamente dai piccoli emuli Black Stone Cherry, promettente e giovane band del Kentucky che vede il realizzarsi di un piccolo sogno. 
Con fratellino Johnny Van Zant che ancora una volta ci mette tutto quello che ha per ricodare la memoria di Ronnie. Dalla roca impetuosità rock passando anche dal pigro incedere di One Day At A Time, la sognante ballad Something To Live For fino alla finale Start Livin' Life Again per sola voce e dobro guitar (suonata dall'ospite Jerry Douglas).
Vivamente consigliata l'edizione con le quattro bonus tracks: oltre alla già citata Do It Up Right, le pregievoli  Sad Song, i vivaci southern di Poor Man's Dream e Low Down Dirty. Difficile capire  il perchè siano finite fuori dalla tracklist ufficiale del disco, visto che risultano tra le  cose migliori.
Lasciamoda parte, per una volta, gli inutili e cattivi paragoni con la formazione dei seventeen e le critiche che spesso sminuiscono la band odierna, riducendola a mera cover band dei bei tempi andati, e godiamoci un disco dove Rossington e soci cercano di recuperare l'anima, spesso melodica, di una band dalle antiche e profonde radici e cucirla sopra ad un presente dove il nome Lynyrd Skynyrd genera ancora (perlomeno) rispetto reverenziale. 

 

lunedì 13 agosto 2012

RECENSIONE: RY COODER ( Election Special )

RY COODER  Election Special (Nonesuch Records, 2012)

Provate ad immaginare e proiettare in salsa (rossa) italiana, tutto quello che sto per scrivere fra poco. Rimanendo circoscritti all'ultimo decennio, negli Stati Uniti sono usciti in concomitanza delle elezioni politiche presidenziali: una raccolta di brani messi insieme da una casa discografica (Fat Wreck Chords) che appartiene ai punkster NOFX di Fat Mike dal titolo Rock Against Bush (2004) che raccoglieva, addirittura in due uscite, qualcosa come una sessantina di band rock/punk, ma non solo, schierate apertamente contro il presidente George W. Bush e la sua rielezione; rimanendo in ambito rock, come non citare la trilogia che Al Jourgensen, leader degli industrial/metal Ministry, ha dedicato all'ex rampollo Bush, sbeffeggiandolo in tutti i modi come nella stupenda ed emblematica copertina di Rio Grande Blood-2006, con un George Bush rappresentato come un Cristo in croce e immerso dentro un barile di nero petrolio; il clamoroso e acclamato Vote for Change Tour che nel 2004 ha coinvolto alcuni tra i più grandi artisti mainstream rock statunitensi ( Jackson Browne, Bruce Springsteen, REM, Pearl Jam, James Taylor, Dixie Chicks, John Mellencamp e tantissimi altri) impegnati a scoraggiare la gente nel votare Bush, promuovendo il suo avversario John Kerry, attraverso un giro di concerti itineranti lungo tutti gli Stati Uniti; l'istant-disc di Neil Young, Living with War, uscito nel 2006 che si schierava in modo esplicito contro la guerra in Iraq e il governo Bush, auspicando, tra le righe, l'arrivo di un nuovo leader (Lookin' for a Leader); il sogno di Young si avvererà molto presto con l'avvento di Barack Obama, a cui Springsteen sembra affidare anche i suoi di sogni in Workin' on a Dream (2009).
Ora Barack Obama è giunto al giro di boa del suo primo mandato che non è stato tutto rose e fiori come si sperava, ma negli States c'è chi ci mette ancora una volta la faccia per la sua riconferma. In fondo, visti i precedenti, difficilmente qualcosa di meglio è all'orizzonte. Il 6 Novembre 2012 dovrà vedersela con il candidato/avversario, il repubblicano Mitt Romney.
Questa volta è il turno di Ry Cooder che ad un solo anno di distanza dal precedente Pull Up Some Dust And Sit Down che, in parte profeticamente, ci aggiornava sullo stato di salute finanziario della nostra povera società, fa uscire il suo disco istantaneo, quello da divulgare e consumarsi-apparentemente- entro la data delle prossime elezioni americane. Sperando che il suo sforzo non sia stato invano e le canzoni possano essere ricordate nel tempo, più forti di quel titolo "Speciale Elezioni" che sa tanto di quotidiano cartaceo USA e getta. Ascoltando le canzoni si capisce, però, quanto queste resteranno, eccome. 
Se Cooder sembra vivere da desaparecido il lato prettamente concertistico della sua carriera, l'esatto contrario si può dire dei suoi ultimi dischi che ricordano, invece, un giornale (o meglio, un sito web) in continuo aggiornamento. Dopo le pagine della finanza, ora tocca a quelle di politica interna, proprio quelle che spesso vengono saltate immediatamente in cerca di qualcosa di più scandalistico e meno noioso.
Ecco che in apertura, Ry Cooder vestito da scafato redattore, per attirare subito l'attenzione dell'ascoltatore/lettore ci piazza una ironica Mutt Romney Blues, che non è altro che una visione particolare del viaggio che Seamus, il povero e malcapitato setter irlandese della famiglia Romney dovette sorbirsi durante una vacanza nel lontano 1983: viaggio di 20 ore, sì in compagnia dei padroni, ma dentro ad una cuccia installata sul tetto dell'auto con conseguenze che sfiorarono il ridicolo quando il cane fu assalito da urgenti bisogni corporali. L'episodio diventò talmente famoso che il New Yorker ci fece anche una copertina e la moglie di Romney dovette rilasciare una intervista che finì per peggiorare le cose ed aumentare l'ilarità nazionale. Cooder ci racconta di quel viaggio dal punto di vista del povero setter ("caldo di giorno, freddo di notte/dove sto andando non lo so"), proprio come fece con il gatto Buddy nello splendido My Name is Buddy (2007), in un divertente e minimale folk/blues "nero"."Capisci molte cose da come una persona tratta il suo cane".Dice Cooder.
Si schiera dalla parte di chi occupò Zuccotti Park a New York e contro chi impose lo sgombro, come nell' hard/blues chitarristico di Wall Street Part Of Town che sembra battere il tempo dei migliori Stones, anche se a Cooder di parlare delle pietre rotolanti non va  molto a genio." Anche la vostra città ha la sua Wall Street? Quando arriverà la polizia a mandarvi via, dite loro chi paga i loro stipendi" ; così come il crescente business delle prigioni narrato in  Guantanamo che sembra ricordarci il perchè la coppia Jagger/Richards, ai tempi, voleva proprio Ry Cooder in formazione. "Il primo a suonare un sol aperto davanti ai miei occhi fu Ry Cooder-tanto di cappello , devo dire, dinnanzi a Ry Cooder" firmato Keith Richards.
Ry Cooder non ha peli sulla lingua e non risparmia nessuno, creando una sorta di divisione tra colpevoli e piccoli eroi. Da una parte i colpevoli come i fratelli miliardari David e Charles Koch attaccati in Brother Is Gone guidata dal mandolino. Pessimo esempio da seguire quello dei fratelli arrivisti che sembrano aver stretto un patto con il diavolo che si ripercuote sulla povera gente, dice Cooder; poi, una bella invettiva contro i repubblicani  con Sarah Palin in testa nel country/folk da scampagnata estiva di Going To Tampa; oppure immaginando, nella ballata folk di The 90 and The 9, un dialogo di carattere politico tra un padre e il suo bambino ambientato a Los Angeles: " se parli male di loro, saranno duri con te" a proposito dell'assurda possibilità data agli ufficiali dell'esercito di presentarsi nelle aule delle scuole pubbliche, a propagandare la carriera militare spacciandola come possibile e radioso futuro di vita.

 Ma crea anche dei quadri cinematografici eccezionali: come nella povertà musicale e tradizionalista del  blues di Cold Cold Feelings, dove riesce ad immaginare un Barack Obama, solo e pensoso mentre cammina avanti ed indietro nell'oscurità dell'ufficio ovale della Casa Bianca: "prima di accusare e criticare, cammina qualche miglia nei suoi panni"; oppure l'incedere oscuro e darkeggiante del blues Kool-Aid che narra solo una delle ultime storie di razzismo verso la comunità di colore avvenute in Florida, ultimamente, e che ha visto il presidente Obama intervenire in prima persona.     
Meno vario musicalmente, se paragonato agli ultimi lavori, ma più rigoroso, diretto, vero, rispettoso e fedele alla forma Folk/blues con qualche ben assestata stoccata rock. Cooder, musicalmente non ha più nulla da dimostrare. La sua grandezza è riconosciuta, ora dobbiamo solo ascoltare cosa vuole ancora dirci. Suonato interamente da Ry Cooder con l'unico aiuto del figlio Joachim alla batteria. Election Special, a discapito del titolo, è un disco che rimarrà nel tempo ad indicare il coraggio di un artista che sta disegnando il quadro della società americana meglio di chiunque altro in questo momento.   
Ry Codder sta recitando, e gli riesce molto bene, la parte del vecchio cantore di protesta Woody Guthrie, ma conscio come da lui stesso ammesso, che la canzone politica, al giorno d'oggi, poco può fare per far smuovere le masse. E lo sa bene uno come Bob Dylan a cui sembrano interessare poco le sorti della sua America, forte di una produzione che negli anni sessanta sembra aver detto tutto quello che doveva dire, e capendo prima di tutti che le protest songs a poco sono servite. Ry Cooder, nonostante tutto, non demorde.
Il fantasma di Guthrie sembra apparire anche nel finale rock/blues battente di Take your Hand Off It, scritta con il figlio e che presenta Arnold McCuller ai cori.
Sia Guthrie-nell'anno del centenario dalla nascita- che il nuovo album, saranno celebrati a dovere il 14 Ottobre con un concerto a Washington denominato This Land Is Your Land e che vedrà Cooder impegnato insieme a Jackson Browne, Old Crow Medicine Show, Arlo Guthrie, Tom Morello e molti altri.
Ora, vorrei tornare alla domanda che vi ho fatto all'inizio...





sabato 11 agosto 2012

RECENSIONE: THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND ( Between The Ditches)

THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND  Between The Ditches  (SideOneDummy, 2012)

Se mai un giorno mi dovessi ritirare in una sperduta e verde campagna a godermi la vita, alla prima festa di compleanno organizzata in fienile, tra un barbecue e boccali di birra, per allietare i miei ospiti chiamerei la sgangherata band dell'ingombrante Reverend Peyton. Sicuro che la mia casa nella prateria possa diventare, da quel giorno, il luogo più invidiato e temuto della vallata. Proprio come in un loro recente video dentro ad un pollaio. Già me li vedoThe Reverend Peyton's Big Damn Band prendere il primo treno in partenza da Brown County nell'Indiana: valigie piene di paglia e adesivi, macchiate di sterco e urina di suino a testimoniare l'infaticabile attività concertistica nei luoghi e posti più sperduti ed impensabili (se 250 date all'anno vi sembran poche). All'interno delle valigie, l'inseparabile slide resofonica legata con le bretelle di scorta ed una canotta bianca di ricambio, la washboard della moglie-della sua stessa stazza- la signora Washboard Breezy Peyton e la batteria essenziale di cugino Aaron"Cuz" Persinger.
Il gruppo, con il suo quinto album di studio in carriera, non cambia di una nota l'approccio genuino e diretto che lo ha contraddistinto fin dalla prima uscita datata 2004, se non rallentare leggermente i ritmi, anche grazie alla collaborazione del produttore Paul Mahern. Una festa un poco più mesta, questa volta. Poco. Poco originali e sempre uguali a se stessi, si potrà anche obbiettare, ma fedeli e coerenti con la loro missione di rivisitazione. Josh Peyton ha firmato il contratto con quel diavolo del blues a quindici anni, folgorato dal Delta Blues di Charlie Patton a cui recentemente ha dedicato, in solitaria questa volta, un intero album Peyton on Patton(2011), ma soprattutto da un divino intervento chirurgico alla mano che lo ha benedetto a nuovo mago del fingerpicking, proprio come il suo idolo.  Da allora non ha mai smesso di celebrare la sua messa rustica, anzi, ha coinvolto la moglie e il fratello, poi sostituito dal cugino: se non è attaccamento alla famiglia, questo?
Un turbine indomabile dove Delta blues, Bluegrass, Hillbilly, Country e Americana si combinano e scalciano come mandrie di bufali inferociti sotto la tortura rumoristica di una infaticabile Washboard che grattugia dall'inizio alla fine mentre il nostro reverendo suona e canta con la sua voce baritonale da orco paterno.
Un immaginario fatto di canonica tradizione blues (Devils Look Like Angels, Move Along Mister), macchine e motori con l' umoristica dedica al suo pickup vintage "Chevy Cheyenne" - ben immortalato in copertina e all'interno-in Big Blue Chevy '72, fughe rocambolesche e inseguimenti in strada (Between the Ditches) e incidenti di percorso (Brokedown Everywhere); ma che sa  toccare anche il sociale e il presente usando lo humor che lo contraddistingue nel suo profetizzare il cambiamento economico  del mondo nell'approccio da AC/DC di campagna di Shake 'Em Off Like Fleas e la smania di possesso imperante in Something For Nothing e The Money Goes con tanto di armonica sbuffante; raccontarci qualcosa del suo modo concreto di intendere la vita (nell'up-tempo a tutto slide di Easy Come Easy Go) e la fede nel mid-tempo di I Don't Know e Don't Grind It Down con il mandolino impazzito.
Tra il veloce e scatenato bluegrass di Shut The Screen, il sentimentalismo "da orso" di We'll Get Through e la vena nostalgica della finale ed acustica Brown County Bound, il mio fienile di campagna si sta incendiando proprio come quello raffigurato sulla copertina del loro precedente The Wages(2010). Il treno di The Reverend Peyton's Big Damn Band è pronto a ripartire per un altra tappa. Il loro umile segno lo hanno lasciato anche stavolta. 

mercoledì 8 agosto 2012

RECENSIONE: MATT WALDON ( Oktober )

MATT WALDON   Oktober (Arkham Records, 2012)

C'è un vecchio proverbio veneto che dice: Ottobre xe quasi mato, ma nisun ghe fa el ritratto.
Il trentenne cantautore padovano Matt Waldon con il suo primo album solista non riuscirà ad invertire un proverbio centenario ma dei piccoli ritratti musicali ce li regala ugualmente, attraverso la stesura di dieci canzoni che puntano verso l'americana, dove il nostro vicino fiume Po può benissimo prendere le veci del lontano Mississippi, diventare un serpente affascinante e misterioso, conservare storie e ricordi, senza soffrire la sindrome del più debole.
Oktober giunge a coronare, o meglio far partire una carriera solista fatta di un ep ed un disco (Out of Love-2011) già registrati con la sua precedente band Miningtown, il primo ep acustico da solista Amnesia(2011), più alcune esperienze live di spessore come l'apertura ad alcuni concerti italiani di Neal Casal-che diverrà un buon amico- e la partecipazione al prestigioso SXSW festival di Austin in Texas.
Registrato all'Arkham studio di Rovigo, Oktober è impreziosito da un nutrito numero di ospiti, molti internazionali, che riescono a regalare al disco un forte carattere da esportazione oltre confine ed oceano. Insomma: Po o Mississippi, pianura padana o Arkansas non fa differenza quando irrompe l'armonica western di Dirty Roads, preceduta dalla breve intro per chitarra e banjo di Like A Secret. Country and roll sullo stile del più ruspante e dinamico Ryan Bingham e non dissimile da quello che usciva dai solchi del vecchio disco dei The Notting Hillbillies(1990) di Mark Knopfler. L'ombra del chitarrista scozzese sembra ispirare, in buona parte, anche il southern pub/rock che ricorda i primi e migliori  Dire Straits in Sad Song, con la chitarra ispiratissima del newyorchese Kevin Salem; mentre la titletrack Oktober è un rock con l'ospitata dell'amico toscano Cesare Carugi (autore del buon Here's to the Road) ai cori ed il carezzevole violino di Caitlin Cary, ex violinista dei Whiskeytown di Ryan Adams; e Can You Feel The silence è un ottimo e trascinante brano, con una grande melodia portante, prova di gruppo con Davide Gioachin al basso, Giampietro Viola alla batteria e la chitarra di Matt.
Ma le cose migliori , Oktober le regala nelle intimistiche ed introspettive ballads elettro-acustiche, dove Waldon riesce ad esprimere maggiomente le sue potenzialità compositive e melodiche, segnate ed ispirate fin da giovanissimo dalla perdita di una figura importante come quella paterna a cui tutto il disco è dedicato e che fu  spinta e coraggio per imbracciare una chitarra. La pianistica introspezione (piano suonato da MrMichael) di I Know  dove la voce di Matt viene doppiata  dalla promessa del folk francese Paloma Gil, quasi a voler ricreare l'antica intesa tra una Emmylou Harris e il compianto Gram Parsons ma trasportati ai nostri tempi dove davanti alla parola country c'è un moderno alt; il connubio tra la voce maschile e quella femminile è un buon elemento caratterizzante del disco, che tocca anche la bella Born to be Alone che ricorda l'amato Ryan Adams con l'altra voce femminile di Caitlin Cary ed il bel lavoro chitarristico di Enrico Ghetti; il teso e accecante incedere di Promises che ha il sapore dei deserti della polverosa frontiera tex-mex e dove le chitarre giocano un bel ruolo; la forza evocativa/emozionale della ballata folkie Nasty Mind mentre la conclusiva Will, ancora in coppia con la voce di Paloma Gil, è il primo singolo con tanto di videoclip che ha anticipato di un mese l'uscita del disco (3 Settembre 2012), e gioca con le ombre e le luci soffuse condotte dal violino di Carol Nuckols. 
Un altro gran bel prodotto di artigianato nostrano. Registrato e confezionato con impeccabile cura, dimostra quanto negli ultimi anni il rock italiano con radici americane abbia fatto passi da gigante, raggiungendo quell'agognato supporto, rispetto e scambio musicale con altri artisti di caratura internazionale. Una rarità fino a pochi anni fa.                                                                                        foto by Cristina Visentin




 




lunedì 6 agosto 2012

RECENSIONI: LEE BAINS III & THE GLORY FIRES(There is a Bomb in Gilead) TOM JONES (Spirit in The Room) JOHN MEELENCAMP (It's About You-DVD)

LEE BAINS III & THE GLORY FIRES   There is a Bomb in Gilead ( Alive, 2012)

Tra ruspanti e dirette schitarrate di rock'n'roll stonesiano (Centreville, Magic City Stomp) e sonnolenti, pigri ed evocativi abbagli di southern/country rock (Reba, Choctaw Summer,Righteous Ragged Songs), il debutto di Lee Bains III con i suoi Glory Fires (Justin Colburn, Blake Williamson, Matt Wurtele) si candida a diventare uno dei dischi di classic-rock dell'anno. I ragazzi provenienti da Birningham-Alabama, in soli trentotto minuti sono in grado di attraversare tutte le strade del rock americano, ora accelerando, ora passeggiando in tutta rilassatezza (il country/folk dell'acustica e solitaria Roebuck Parkway) con massima devozione e rispetto verso i grandi del passato, ma con un piglio deciso ed una sfrontatezza fresca ed originale. Quando poi la calda voce di Lee Bains tocca le vette soul come in Everything You Took, nella contagiosa The Red, Red Dir of Home e nella finale There is a Bomb in Gilead, ballad southern/soul guidata dal piano, capisci di avere di fronte una band con una marcia in più. Molto più squadra rispetto ai conterranei Alabama Shakes, a cui sono stati  accomunati, ma che in verità sembrano reggersi esclusivamente sul talento strabordante della loro cantante Brittany Howard. Ne sentiremo parlare.

TOM JONES   Spirit in the Room ( Island, 2012)

Se il precedente Praise and Blame fu uno squassante e sorprendente terremoto, Spirit in the Room è una tranquilla scossa di assestamento e riconferma di quanto la voce del gallese abbia perso troppi anni dietro alle certamente più remunerative e patinate bombe del sesso. Dodici cover, prodotte da Ethan Jones: svestite, scarnificate, rilette e rivestite di soul/blues oscuro, spirituale e tenebroso. Le sue “American Recordings“ da tramandare ai posteri. Per ora siamo a due centri su due. Con la voce che si ritrova non è un problema affrontare grandi autori come Tom Waits (la recente Bad as Me), Leonard Cohen(Tower of song), nuove leve come i Low Anthem(Charlie Darwin) e vecchi bluesman come Blind Willie Johnson (Soul of a Man), uscendone vivo e vincente. Interessante, ora, sarebbe sentirlo all'opera con materiale nuovo che viaggia su queste stesse lunghezze d'onda. Una sola domanda: mr.Jones, perché tutto così tardi?

JOHN MELLENCAMP   It's About You-DVD ( Universal, 2012)

Prima del suo primo attesissimo concerto italiano a Vigevano nel Luglio del 2011, fu trasmesso un documentario che venne subissato di fischi da parte di un pubblico impaziente di vedere il ritorno del giaguaro in Italia. Paradossalmente finì che il film durò più del concerto e alimentò non poche polemiche e malumori. Una scelta disastrosa quella di Mellencamp. Ora che le acque si sono calmate, comodamente seduti in poltrona, senza le distrazioni di fischi, urla e zanzare, possiamo goderci le immagini che raccontano la costruzione di un disco splendido come fu No Better Than This .Tra immagini on the road volutamente registrate in basso profilo dal regista Kurt Markus, backstage di studio-un ritorno alle radici insieme al produttore T-Bone Burnett-, performance live (un tour insieme a Dylan e Nelson), videoclip, il film/documentario permette di assaporare un piccolo pezzo di America che mantiene le antiche tradizioni musicali. Da non perdere il battesimo nella chiesa battista di Savannah-Georgia e i Sun Studios di Memphis vero luogo-reliquia per tutti gli amanti del rock.









venerdì 3 agosto 2012

RECENSIONI:SOULSAVERS(The Light the Dead See) MARTY STUART (Nashville,volume1) ULTRAVOX(Brilliant)

SOULSAVERS The Light the Dead See (V2, 2012)


Rich Machin e Ian Glover non ci mettono mai la faccia. Sono due lavoratori/arrangiatori/produttori all’antica a cui piace lavorare e costruire nel retropalco, lasciando alle prime donne gli applausi. Prima Mark Lanegan, ora Dave Gahan. Cambia il protagonista, non cambia il valore di una formula che ha ampiamento passato il collaudo. Lasciata, in modo quasi del tutto definitivo, l’elettronica del primo disco, superato il nero pece della profondità blues della voce di Lanegan che aveva elevato It’s Not How Far…(2007) e Broken(2009), si lanciano nell’arricchire e vestire le profonde e personali liriche scritte da Gahan, con slanci orchestrali e cori gospel che spingono il disco verso una spiritualità drammatica dove il cantante dei Depeche Mode ritrova nuovi slanci vocali sentiti di rado nel suo gruppo madre. Anche se a volte la pomposità compositiva supera la soglia limite, Take me back home, Presence of God, il singolo Longest Day, promettono di far dimenticare il pregevole lavoro fatto con Lanegan. Un applauso a tutti.



MARTY STUART Nashville, volume 1:Tear the Woodpile Down (Sugarhill Records, 2012)

Il giorno che il giovanissimo Marty Stuart, appena dodicenne, approdò a Nashville, città che rappresentava già un sogno predestinato,dovette aspettare ore prima di incontrare colui che lo invitò nella città del country per offrirgli il primo lavoro in campo musicale. In quei momenti di attesa, Stuart non perse troppo tempo e si avventurò, solo, alla scoperta della città. Quello spirito di ricerca gli rimase per tutta la carriera. Marty Stuart con i suoi dischi, le sue memorabilia raccolte in un museo e le sue trasmissioni televisive rimane una delle più fulgide memorie storiche “viventi” della country music. Adesso che anche i più grandi, uno ad uno, stanno passando a miglior vita, a lui il compito di preservare la forza e la tradizione del genere. In compagnia dei suoi fedeli Fabulous Superlatives spazia tra classic country ( Holding on to nothing), melodie notturne molto’50 (The Lonely Kind), scatenati country/rock (Tear the Woodpile Down), fino al duetto con il fuorilegge più temibile di questi anni 2000, Hank III in Picture from life’s other side.

ULTRAVOX Brilliant (EMI, 2012)

Quando parte Live, capisci che c’è tutto: la voce di Midge Ure, il pianoforte, i chorus accattivanti e melodici, i sinth new vawe, le chitarre al posto giusto, gli arrangiamenti orchestrali, da qualche parte più avanti (Satellite, Contact), c’è perfino il violino che riporta a Vienna. Tutto quello che ha fatto scuola ed influenzato milioni di band fotocopia degli anni zero, c’è. Quando arrivi all’ultima traccia Contact però ti chiedi se tutto questo non lo avevi già sentito mille altre volte, senza la differita temporale di vent‘anni e con la genuina epicità, qui sostituita dal buon mestiere. Sospinti dal fortunato tour di reunion del 2009, la formazione storica anni ‘80, attiva fino al 1984 (Midge Ure, Billy Currie, Chris Cross e Warren Cann) tenta il gran ritorno discografico. Nulla da buttare ma ci si stanca parecchio prima di arrivare alla fine, senza che qualche buona melodia si faccia ricordare. Chi ha amato solamente la prima parte di carriera con John Foxx, nemmeno si avvicinerà a questo disco, tutti gli altri potranno riprendersi le loro vecchie copie di Vienna, Rage in Eden e Lament. Sarà bellisimo lo stesso.

martedì 31 luglio 2012

RECENSIONE: TESTAMENT ( Dark Roots of Earth )

TESTAMENT  Dark Roots of Earth  ( Nuclear Blast, 2012)

Quando nel 1992 uscì The Ritual, molti gridarono allo scandalo. Impietose recensioni, tra cui famosa quella sul defunto HM -ve lo ricordate?- (che iniziava così: "Il disco più brutto dell'anno è uscito a Maggio". E finiva così: "Questo non è thrash con la "h" maiuscola: operatori del settore trash, questa è roba solo per voi!") tagliavano le gambe ad un disco che a distanza di vent'anni non solo si fa ascoltare benissimo-testimone di quella fase di stasi melodica del thrash metal americano che il "Black Album" contribuì a creare- ma sembra essere stato rivalutato anche dagli stessi autori che con il nuovissimo Dark Roots Of Earth sembrano, in alcuni punti, riscoprirne la vena più melodica e classicamente metal dopo un poker di dischi schiacciasassi riusciti e non. Nel frattempo, da quella lontana recensione, sono successe tante cose in casa Testament: la vittoriosa battaglia del mastodontico cantante Chuck Billy sul cancro-diagnosticato nel 2001- è la più importante, poi vengono tanti rimaneggiamenti di formazione con abbandoni e ritorni; difficile tenere il conto di tutti i grandi musicisti che da quel 1992 (anno fatidico anche per gli abbandoni della formazione storica) in poi si sono alternati: John Tempesta, Gene Hoglan, James Murphy, Dave Lombardo, Glen Alvelais, Steve Di Giorgio, tra i tanti. Poi, ancora, tanti dischi: il sempre poco menzionato Low-1994, forse per chi scrive, il loro disco più completo in carriera; l'intransigente e poco capito Demonic-1997; The Gathering-1999, un piccolo capolavoro della rivincita; l'ultimo The  Formation Of Damnation-2008, una riconferma ma non propriamente esaltante.
I Testament, in campo thrash metal, poche volte hanno deluso, mantenendo viva una fede devota al genere iniziata nel 1983 nella Bay Area di San Francisco sotto il nome Legacy (che diverrà il titolo del loro imprenscindile esordio del 1987) e mai venuta a mancare sia nei periodi di sperimentazione che di crisi e soprattutto, nonostante tutti i cambiamenti di formazione che avrebbero falcidiato la carriera a qualunque altro gruppo.
Il nuovo Dark Roots of Earth promette il ritrovato sodalizio tra la melodia di metà carriera e la sfuriata thrash degli anni ottanta e dell'ultimo periodo, trovando il perfetto compromesso fra tutte le loro influenze. Complici: un chitarrista come Alex Skolnick, rientrato in formazione nel 2005 con un importante bagaglio di esperienze in campo jazz-fusion che si manifestano in un brano lungo e progressivamente atipico come Throne of Thorns e negli assoli seminati lungo tutta la durata del disco (Dark Roots of Earth e True American Hate) e Gene Hoglan, il batterista che ogni formazione di metal estremo vorrebbe con sè, uniti ai veterani Chuck Billy alla voce, Eric Peterson (fondatore e vera anima musicale della band) alla chitarra e Greg Christian al basso.
L'iniziale Rise Up (forte di un chorus vincente "Rise-Up...War"), la patriottica killer-song True american Hate Man Kills Mankind sono gli elementi più thrash oriented, lineari, rutilanti e veloci del disco.
Native Blood, brano che il buon Chuck Billy dedica  alla sue origini pellerossa (tribù dei Pomo) e a tutti i nativi americani; il pulsante basso che spadroneggia nel messaggio culturale/sociale che passa attraverso A Day in The Death e la finale Last Stand for Independence sono invece l'anima più cadenzata e groove.
Mentre i brani più strutturati come la titletrack Dark Roots of Earth dove Billy rispolvera anche quelle clean vocals che in passato lo hanno distinto tra tutti i cantanti del genere, la già menzionata Throne of Thorns e la semi-ballad, quasi fantasy nel testo,Cold Embrace che riporta indietro nel tempo, ricordando The Ballad e Return to Serenity, sono la parte più sperimentale, variegata e convincente del disco che permette ai Testament di riprendersi quella libertà di osare che vent'anni fa non venne loro perdonata. 
Questi sono i Testament che amo di più, in grado di fondere melodia e furore in modo assolutamente unico e caratterizzante con dettagliati arrangiamenti, sotto la produzione perfetta-forse anche troppo- di Andy Sneap. A rimarcare ancora di più quale sia il carattere dominante di questo disco, ci pensano le bonus tracks della limited edition- che comprende anche un sostanzioso DVD- riletture personali di tre classici del rock/metal (più una versione extended di Throne of Thorns): l'assalto acido che si trasforma quasi in jam di Dragon Attack, brano tra i meno conosciuti della discografia dei Queen, preso da The Game-1980; la versione oscura e doom di Animal Magnetism degli Scorpions con l'unica concessione alle vere growl vocals di Chuck Billy ed una più classica che non si può, Powerslave degli Iron Maiden.
Unica data del tour italiano, il 31 Luglio 2012, giorno di uscita del disco, al Total Metal Festival di Toritto(BA) in Puglia.

lunedì 30 luglio 2012

RECENSIONE: HACIENDA ( Shakedown )

HACIENDA  Shakedown (  Collective Sounds, 2012)

Dan Auerbach-ancora lui- dice di essersi innamorato di loro fin da subito, quando la band di San Antonio gli spedì il primissimo demo. Difficile contraddirlo visto che Shakedown è il terzo album della band (il primo fu Loud is the Night-2008, il secondo Big Red & Barbacoa-2010) prodotto dallo stesso Auerbach.
Gli Hacienda sono anche stati la sua band di supporto durante il tour solista per promuovere quel bell'album che fu  Keep It Hid(2009)-passato troppo inosservato se confrontato con le ultime acclamate uscite dei Black Keys- e può considerarsi a tutti gli effetti la sua seconda casa musicale visto che la sua firma, in compagnia di quella del gruppo al completo, compare sui credits di tutte e dieci le canzoni di questo album.
Gli Hacienda sono una band a conduzione famigliare formata dai tre fratelli Villanueva: Rene al basso, Jaime alla batteria, Abraham alle tastiere e dal cugino Dante Schwebel alla chitarra. A vederli sembrano una gang ispanica poco raccomdabile, uscita da qualche poliziesco degli anni '70. Innamorati, senza nasconderlo,del pop solare dei sixties, delle armonie vocali dei Beatles, dei Kinks, degli Zombies, ma soprattutto dei Beach Boys a cui aggiungono quei tocchi di soul, funk, flower power, R&B, glam per costruire canzoni perfettamente pop che si impolverano il giusto nelle strade tra Texas e Messico: orecchiabili, chorus vincenti e melodici per raggiungere quel sapore "vintage" che tanto va di moda, a cui comunque dimostrano di credere fin dalla loro nascita artistica.
Con le tastiere di Abraham Villanueva e il basso di Rene Villanueva sempre in bella evidenza, Shakedown è un disco che nei soli 33 minuti di durata emana spensieratezza, comunicatività senza pretese da next big thing. Suonato senza alte mire e la forza dei fondamentali del rock'n'roll: solo musica e tanto spumeggiante divertimento. Non potrebbe essere altrimenti ascoltando l'apertura dall'incedere doorsiano di Veronica (no , i testi non sono morrisoniani ma un qualcosa di visionario lo hanno), il contagioso boogie alla T.Rex di Let Me go, come sentire un Marc Bolan abbandonato tra i cactus di San Antonio e accecato dalla visione di un Iggy Pop nudo che si impossessa della sua voce; il sound stile Phil Spector all'opera con i Ramones di Don't Keep Me Waiting ; il groove funk-cosmico di Savage; le facili melodie di Don't Turn Out the Light e Natural Life; l'assolo di chitarra tra le note di piano di Doomsday; la più riflessiva, psichedelica ed oscura Pilot in the Sky che chiude il disco in modo piacevolmente sommesso.
Da Brothers in avanti, i Black Keys hanno trovato una formula magica (dollari?) che rischia di invischiare tutto quello che Dan Auerbach tocca: ultimamente sotto la sua produzione sono passati Dr. John con lo splendido Locked Down, Grace Potter & the Nocturnals con il mediocre e The Lion the beast the beat. Sta per allungare le mani perfino sul nuovo astro nascente del soul britannico Michael Kiwanuka. Il rischio di diventare cloni dei cloni  è però sempre dietro l'angolo, tanto il tocco di Auerbach è pesante e presente. E' così auspicabile che dal prossimo lavoro, gli Hacienda si stacchino da papà Dan e provino nuove esperienze, tanto per non rimanere a vita con il marchio e lo sticker (in bella mostra sul cd  e veramente esistente) appiccicato addosso di "gruppo prodotto da Dan Auerbach, quello dei Black Keys". Il disco? Divertente. Non creano false "alte" aspettative ma danno concretamente quello che ci meritiamo in questo scorcio di afosa estate con la cinghia tanto tirata e stretta: spensieratezza.




giovedì 26 luglio 2012

RECENSIONE/REPORTAGE: GIOVANNI LINDO FERRETTI live@LIBRA FESTIVAL, Sordevolo(BI), 25 Luglio 2012

Sono sicuro che Giovanni Lindo Ferretti, nel pomeriggio prima del concerto, un giro alla ricerca dei margari biellesi (i marghè in piemontese), che poco più sopra di Sordevolo continuano ad abitare e portare avanti le antiche tradizioni delle alpi biellesi, l'abbia fatto o quantomeno avrebbe dovuto farlo. In fondo, le differenze con i luoghi del suo buen retiro di Cerreto Alpi sull'appennino tosco-emiliano sono minime. I margari continuano a vivere il loro nomadismo stagionale, scandito dalla transumanza delle vacche e delle pecore, continuando tradizioni centenarie a contatto diretto con la natura lungo aspri sentieri ed alpeggi. Un mestiere/missione di montagna che Ferretti, negli ultimi anni della sua vita, ha ritrovato come in gioventù, insieme a tante altre cose, più personali, che hanno indispettito, inquietato o quantomeno sorpreso i fan: alcuni discutibili dietrofront di carattere politico, frequentazioni alquanto dubbie con giornalisti voltagabbana, scelte etiche sulla fecondazione artificiale, scelte religiose. Per qualcuno è stato tutto troppo. Tutto e il contrario di tutto quello che ci si sarebbe aspettato da uno come lui. Imperdonabile e addio, forse arrivederci. Io stasera sono qui, come tanti altri (poco pubblico in verità) per le canzoni, per quello che hanno rappresentato e rappresenteranno ancora per molto tempo nel panorama del rock italiano. Ferretti non ha mai rinnegato nulla della sua carriera musicale, la scaletta del concerto di stasera ne è un esempio. Ha sempre motivato le sue scelte (cercate le sue poche interviste) dettate dal tempo, dai luoghi, dalle situazioni che ha vissuto, dal percorso della sua vita, dall'età, lui che è sempre stato in viaggio: Cerreto Alpi, Berlino, Balcani, Mongolia, ancora il ritorno-definitivo?-a Cerreto Alpi. Difficile o meglio, sbagliato provare a giudicarlo. Tutto troppo personale.
Giovanni Lindo Ferretti è sempre stato in viaggio, ma i cavalli immersi nel panorama della Mongolia che si intravedono sulla copertina di Tabula Rasa Elettrificata, in fondo sono gli stessi che ora alleva e sfama con cura tutti i giorni a casa sua, in montagna, nel paesino in provincia di Reggio Emilia.
L'anfiteatro in cui si svolge il concerto di questa seconda parte del tour "A Cuor Contento" è intitolato a Papa Giovanni Paolo II. Altro motivo che potrebbe aver inorgoglito Ferretti, visto il suo riavvicinamento alla fede religiosa e le buone parole spese per il Papa polacco ed il suo attuale successore tedesco. Come disse in una intervista: "quando suonavo con i CCCP il pubblico gridava 'chi non salta Jovanotti è', chi cazzo è Jovanotti, mi chiedevo? Sono andato a conoscerlo, ora è mio amico...con Papa Ratzinger è successa la stessa cosa". Punti di vista, rispettabili o meno, che indicano lo sbagliato rapporto fiduciario che abbiamo con il mondo: prima di giudicare, bisogna andare a verificare con i propri occhi quel che si dice in giro. Come rispettabile è il fatto che poco tempo fa disse di non avere più nessun rapporto con la musica, lui e le canzoni si erano abbandonati a vicenda. In verità, si dedicò anima e corpo alla vita della madre anziana, ora purtroppo scomparsa.
Ora, eccolo di nuovo qua, con il Tour "A Cuor Contento", a snocciolare trent'anni di carriera in modo serafico e pacato, da eremita in trasferta. Si vede che Ferretti è appagato dalla vita, glielo si legge in faccia, nelle parole che non pronuncerà durante la serata, salvo ringraziare con un cenno di capo ed un sorriso che sembra sempre vero e sincero. Il palco dove una volta andava in scena il caos ordinato di Danilo Fatur e Annarella Giudici con i CCCP, lo stesso che lo vedeva bendato ai tempi dei CSI, ora sembra il salotto di casa con i libri di compagno Togliatti ("...la sinistra a cui appertenevo è morta...", disse) ben riposti e nascosti nello scaffale in compagnia di quelli-in bella evidenza- del nuovo compagno Ratzinger. Siamo tutti invitati, tra una sigaretta ed un sorso di vino rosso, ad ascoltare il suo diario musicale. A fare compagnia solamente i due ex Ustmamo, Ezio Bonicelli
Üstmamò
Üstmamò
 al violino e chitarra e Luca Alfonso Rossi  alla chitarra, basso e programmazione delle basi elettroniche di batteria. All'anfiteatro hanno messo delle odiose sedie-che faranno anche tanto salotto- ma che la pioggia ( per buona mezz'ora incessante) pensa a sparigliare. Molti scappano al riparo, tanti ne approfittano per scattare in piedi e raggiungere le transenne a bordo palco. Da quel momento il concerto sarà più caldo, vero e vitale, nonostante la musica rimarrà ancorata alle percussioni elettroniche-in fondo anche con i CCCP era spesso così-e i movimenti di Ferretti, diritto o ciondolante sul microfono con le mani in tasca, si ridurranno alla sola accensione delle sigarette e alla bevuta del vino rosso dal bicchiere.
Ma le canzoni? Non ero venuto solo per le canzoni? 
Quelle le conosciamo a memoria anche se tirate a lucido in questi nuovi arrangiamenti per sole chitarre elettriche e violino. Un percorso musicale che, a parte la parentesi PGR (forse ancora aperta?), tocca tutte le sue tappe: I CCCP di Depressione CaspicaAmandoti, Tomorrow, Mi Ami?, And The Radio Plays, la sempre commovente Annarella, i CSI di A Tratti, In Viaggio, Del Mondo, e quel piccolo capolavoro che ancora rimane Cupe Vampe-che continuo a considerare una delle più belle canzoni italiane degli anni novanta. Poi ,la sua carriera solista con Polvere, Morire ed una tirata e rockeggiante Barbaro dal sintetico, difficile e freddo album CO.DEX(2000), che doveva sancire il riavvicinamento con Zamboni proprio a Berlino come agli inizi quando tutto iniziò, ma che di fatto uscì solo a suo nome e incrinò nuovamente il rapporto tra i due.
Ancora i bis con con Tu Menti, l'odissea orientaleggiante di Radio Kabul, Mimporta 'nasega che portò inaspettatamente i CSI in testa alle classifiche di vendita nel 1997,e la sempre scatenata con indole punk di Per me lo so che chiude la serata con i suoi slogan: "Conforme a chi? conforme a cosa? va peggio va meglio...non so dire...non so...Sei tu, sei tu, chi può darti di più? In questo presente che capire non sai...". Un saluto con la mano e si dilegua nel retropalco.
Nelle quasi due ore di concerto, difficile distogliere gli sguardi da Ferretti che continua, nonostante tutto quello che gli gravita intorno nella vita privata e nonostante non abbia proferito parola, ad emanare il fascino dell'intellettuale che indossa le scarpe grosse del contadino. E avresti voglia di conoscerlo meglio quel contadino che ha cercato riparo dalla frenesia del mondo occidentale, ritirandosi in alta montagna: per farti raccontare-finalmente dalla sua voce- magari in un salotto vero e rustico, davanti ad un camino acceso ed un bicchiere di vino il perchè delle sue scelte di vita. A tutto il resto hanno pensato le canzoni di stasera.

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mercoledì 25 luglio 2012

RECENSIONE: THE GASLIGHT ANTHEM ( Handwritten )



THE GASLIGHT ANTHEM    Handwritten-deluxe edition (Mercury Records, 2012)

"Sarebbe stupido provare a dirvi che la musica che state ascoltando è qualcosa che non avete mai sentito prima". Così inizia la presentazione al disco fatta da Nick Hornby, presente sul libretto del nuovo lavoro dei Gaslight Anthem.
Come dargli torto.
Handwritten è però un disco importante per la band di Brian Fallon, un ragazzo serio e con le idee chiare. Dopo il botto di The'59 Sound(2008), la conferma meno esaltante in quanto ad impatto e sorpresa di American Slang(2010), la pubblicità sempre e comunque a voce bassa fatta dal loro concittadino di Asbury Park più illustre, tale Bruce Springsteen, per i Gaslight Anthem era arrivato il momento di giocarsi la carriera con il quarto disco. Scelgono di farlo con il grande salto discografico dall'indipendente SideOneDummy alla "major" Mercury e la produzione importante di Brendan O'Brien. Tutto però sembra rimanere come prima, tanto che il loro suono inizia ad avere una impronta personale e riconoscibile anche senza "quella originalità a tutti i costi" sottolineata da Hornby: bastano idee semplici, testi superiori alla media ("rockers che leggono molto", dice sempre Nick Hornby), buone melodie e tanta serietà. 
Ci sono due cover presenti come bonus tracks nella limited edition (oltre alla loro Blue Dahlia-che vedrei così bene in Born in The USA di Springsteen) che potrebbero benissimo fare da punti estremi alla loro musica: una è Sliver dei Nirvana, l'altra You Got Lucky di Tom Petty. Ecco, tra il revival '70 del grunge, dove punk e alternative trovavano un nuovo modo di unirsi negli anni novanta e il rock'n'roll americano più tradizionale dei grandi songwriters si racchiude tutta la loro musica. Potrà essere limitativo ma ce n'è abbastanza per costruirci una carriera che difficilmente avrà singoli di successo planetario (anche se Mtv si sta già muovendo-questi sono i magici effetti "major", babe!!!)  ma potrà benissimo diventare quella di un gruppo a cui ci si potrà appellare quando si è alla ricerca dell'usato, sicuro e garantito.
Il singolo "45" è la canzone perfetta per presentare  i Gaslight Anthem agli amici; Handwritten viaggia tra Social Distortion e Springsteen; Here Comes My Man e Mulholland Drive- con le belle chitarre di Fallon, Alex Rosamilia e Ian Perkins che mi hanno ricordato i primi Big Country-marciano decise con i testi che vorremmo ascoltare se fossimo in perenne viaggio sopra a qualche auto spersa per le highways americane tra romanticismo (Mae), nostalgia dei '50 (Handwritten) e il pensiero concentrato su qualche dolore accumulato in vita(Keepsake). 
In Too Much Blood, un grintoso Fallon-molto migliorato alla voce- sembra addirittura travestirsi da Chris Cornell e il gruppo piazza la prova più singolare in carriera snocciolando un hard rock non lontano dagli Audioslave, tanto per rimanere dalle parti di Cornell, cosa che si ripete nella buona prova di gruppo (completano la formazione: Alex Levine al basso e Benny Horowitz ala batteria) di Biloxi Parish.
A conti fatti, pezzi come Howl, con i suoi chorus da punk melodico facilotto alla Green Day e Desire mi sembrano i punti meno interessanti di un lavoro vario e splendidamente prodotto da O'Brein che ci mette del suo anche a livello strumentale e offrendo  lo studio di registrazione a Nashville.    
National Anthem chiude in modo notturno e soffuso con l'aiuto di Patrick Warren alle tastiere e arrangiamento archi, pagando debito allo Springsteen più intimistico e descrittivo. Da ascoltare nei pressi dello Stone Pony al calar del sole. Gran canzone, sicuramente tra le più riuscite, che conferma i Gaslight Anthem tra i migliori gruppi di classic-rock in circolazione, in grado di unire lo slancio giovanile con una scittura dal vecchio sapore rock'n'roll: se vi sono piaciuti i primi tre album anche il loro passaggio su major non vi deluderà.
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sabato 21 luglio 2012

RECENSIONE/REPORTAGE Live: XAVIER RUDD live@CARROPONTE Sesto San Giovanni (MI) 20 Luglio 2012

Quando la pioggia ha iniziato a cadere e i fulmini del temporale in lontananza si mischiavano alle luci del palco, qualcosa di profondamente purificatore si era impossessato della serata. Tutto sembrava far parte della coreografia che madre natura aveva preparato per il concerto, ormai giunto a metà. I cuori si sono aperti e tutto galleggiava e ondeggiava dalla parte delle forti emozioni.
Sesto San Giovanni, comune industriale milanese come le spiaggie di Torquay a Victoria in Australia?-così o quasi recitava la presentazione del concerto- Nemmeno le menti più allucinate riuscirebbero a pensarci, anche se qualcuno, poco lontano da qui, all'idroscalo quasi ci crede. Stasera chi era presente al Carroponte  ci ha creduto veramente, fuori classifica chi era inebriato dall'erba magica e chi dall'alcol. Sto parlando di chi, questa sera ha chiuso gli occhi per un momento, quando quello strano suono che usciva dal didgeredoo di Xavier Rudd ha  sostituito per due ore i clacson del venerdì sera nella provincia milanese e ha lasciato che le gocce d'acqua piovana, per un volta, diventassero sinonimo di libertà e natura e non di fastidio e stress da crisi compulsiva sulle strade trafficate di una tangenziale.
Ad aprire la serata Fabrizio Cammarata. Cantautore palermitano più conosciuto all'estero che in Italia, anche grazie ad una innata propensione al viaggio che si tramuta nella sua scrittura. Vanta la collaborazione dei Calexico nel suo secondo disco Rooms uscito nel 2011 prodotto da JD Foster-una garanzia-. Stasera il suo folk pennellato e ibrido si è inebriato nell'aria, trovandosi a proprio agio nell'atmosfera che poco dopo Xavier Rudd avrebbe contaminato e che già si stava percependo. Un apripista ideale che con dolcezza, modi gentili e garbati ha presentato, da solo con la chitarra, le sue ballads con la splendida finale Alone & Alive che farebbe invidia a più di un cantautore. Auguro a Fabrizio tutta la fortuna possibile. 
Xavier Rudd sale in scena dopo le ventidue, nel piccolo palco adiacente alla imponente struttura del Carroponte, illuminata di rosso. Mantenendo fede al suo spirito, si dice che nel pomeriggio scorazzasse in lungo ed in largo per il carroponte in compagnia del suo inseparabile skateboard. Difficile non crederci.
Barba incolta, piedi scalzi e quel poco che di lui si intravede da dietro alla ingombrante  macchina da musica che da sempre si porta dietro, strumenti della tradizione della sua terra: batteria essenziale, percussioni, Yirdaki (didgeridoo), chitarre acustiche e slide, stomp box, armonica e sicuramente qualcos'altro che di cui ignoro il nome.
Apre il concerto con la potenza trascinante dei sette minuti di Lioness Eyes, brano d'apertura del suo ultimo lavoro di studio. La danza delle gambe inizia il suo viaggio e la testa inizia a svuotarsi. Solo percussioni e didgeridoo che catturano dal primo momento, facendoti entrare nel vortice ipnotizzante della sua musica, dove il cantautorato folk e blues trova un accordo comune con la world music. La spiritualità tende la mano alle radici terrose della natura.
Le danze tribali aborigene su Culture Bleeding, il folk/blues aspro e anglofono di Bow Down, l'omaggio a Bob Marley con No Woman No Cry (contenuta nel suo album Solace-2004 ), la contagiosità di Fotune Teller, le dolcezze ariose, solari ed acustiche di Comfortable in my Skin, Follow the Sun, Let Me Be, il folk di Messages sulle orme del suo idolo Paul Simon. 
Infaticabile one-man band in grado di suonare una moltitudine di strumenti contemporaneamente ed in grado di far ballare o semplicemente cullare attraverso i testi che portano lontano, molto lontano. Il suo ultimo album Spirit Bird, ben presentato stasera, ci mostra la sua anima più acustica ed introspettiva ma non vengono tralasciate le radici più profonde della sua terra e quando lascia i suoi strumenti per presentarsi d'avanti al palco per saltellare e ballare sotto la pioggia come gli antichi aborigeni australiani, capisci quanto sia vero e unico il personaggio. La magia di dialogare con il suo pubblico che stasera lo incita a grida di "dai Xavierone!!!!".
Xavier Rudd è naturalmente un estremo difensore della natura e dell'ambiente. Lo dimostra quando, rientrato per  l'encore, espone un manifesto con la foto di Paul Watson (con la scritta: Freiheit-Fur Kapitan Paul Watson), fondatore dell'associazione Sea Sheperd Conservation Society, nata in difesa della fauna marina (la bandiera nera con il teschio piratesco campeggiava già da inizio concerto sopra la testa di Xavier, unitamente a quella degli australiani aborigeni). Paul Watson è un ambientalista canadese che da sempre si prodiga per difendere l'ambiente naturale; fu tra i soci fondatori di Greenpeace e recentemente è stato arrestato in Germania, dopo uno strano incidente diplomatico.
Xavier è un personaggio vero e genuino, non ha bisogno di nascondere nulla di sè. Solo gli strumenti possono permettersi di metterlo in ombra, ma è per una buona causa: diffondere il più possibile il suo messaggio e la sua musica che trova la subliminazione finale quando il cielo si ripulisce, le nuvole nere fino a poco prima mimetizzate con l'oscurità della notte scompaiono; una leggera brezza surfa sulle vibrazioni delle note di Spirit Bird, il suo (e nostro) nuovo inno. Pugno al cuore ed un grande ed intenso rispetto. Il concerto che auguro di vedere a tutti in questa estate.

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