mercoledì 8 agosto 2012

RECENSIONE: MATT WALDON ( Oktober )

MATT WALDON   Oktober (Arkham Records, 2012)

C'è un vecchio proverbio veneto che dice: Ottobre xe quasi mato, ma nisun ghe fa el ritratto.
Il trentenne cantautore padovano Matt Waldon con il suo primo album solista non riuscirà ad invertire un proverbio centenario ma dei piccoli ritratti musicali ce li regala ugualmente, attraverso la stesura di dieci canzoni che puntano verso l'americana, dove il nostro vicino fiume Po può benissimo prendere le veci del lontano Mississippi, diventare un serpente affascinante e misterioso, conservare storie e ricordi, senza soffrire la sindrome del più debole.
Oktober giunge a coronare, o meglio far partire una carriera solista fatta di un ep ed un disco (Out of Love-2011) già registrati con la sua precedente band Miningtown, il primo ep acustico da solista Amnesia(2011), più alcune esperienze live di spessore come l'apertura ad alcuni concerti italiani di Neal Casal-che diverrà un buon amico- e la partecipazione al prestigioso SXSW festival di Austin in Texas.
Registrato all'Arkham studio di Rovigo, Oktober è impreziosito da un nutrito numero di ospiti, molti internazionali, che riescono a regalare al disco un forte carattere da esportazione oltre confine ed oceano. Insomma: Po o Mississippi, pianura padana o Arkansas non fa differenza quando irrompe l'armonica western di Dirty Roads, preceduta dalla breve intro per chitarra e banjo di Like A Secret. Country and roll sullo stile del più ruspante e dinamico Ryan Bingham e non dissimile da quello che usciva dai solchi del vecchio disco dei The Notting Hillbillies(1990) di Mark Knopfler. L'ombra del chitarrista scozzese sembra ispirare, in buona parte, anche il southern pub/rock che ricorda i primi e migliori  Dire Straits in Sad Song, con la chitarra ispiratissima del newyorchese Kevin Salem; mentre la titletrack Oktober è un rock con l'ospitata dell'amico toscano Cesare Carugi (autore del buon Here's to the Road) ai cori ed il carezzevole violino di Caitlin Cary, ex violinista dei Whiskeytown di Ryan Adams; e Can You Feel The silence è un ottimo e trascinante brano, con una grande melodia portante, prova di gruppo con Davide Gioachin al basso, Giampietro Viola alla batteria e la chitarra di Matt.
Ma le cose migliori , Oktober le regala nelle intimistiche ed introspettive ballads elettro-acustiche, dove Waldon riesce ad esprimere maggiomente le sue potenzialità compositive e melodiche, segnate ed ispirate fin da giovanissimo dalla perdita di una figura importante come quella paterna a cui tutto il disco è dedicato e che fu  spinta e coraggio per imbracciare una chitarra. La pianistica introspezione (piano suonato da MrMichael) di I Know  dove la voce di Matt viene doppiata  dalla promessa del folk francese Paloma Gil, quasi a voler ricreare l'antica intesa tra una Emmylou Harris e il compianto Gram Parsons ma trasportati ai nostri tempi dove davanti alla parola country c'è un moderno alt; il connubio tra la voce maschile e quella femminile è un buon elemento caratterizzante del disco, che tocca anche la bella Born to be Alone che ricorda l'amato Ryan Adams con l'altra voce femminile di Caitlin Cary ed il bel lavoro chitarristico di Enrico Ghetti; il teso e accecante incedere di Promises che ha il sapore dei deserti della polverosa frontiera tex-mex e dove le chitarre giocano un bel ruolo; la forza evocativa/emozionale della ballata folkie Nasty Mind mentre la conclusiva Will, ancora in coppia con la voce di Paloma Gil, è il primo singolo con tanto di videoclip che ha anticipato di un mese l'uscita del disco (3 Settembre 2012), e gioca con le ombre e le luci soffuse condotte dal violino di Carol Nuckols. 
Un altro gran bel prodotto di artigianato nostrano. Registrato e confezionato con impeccabile cura, dimostra quanto negli ultimi anni il rock italiano con radici americane abbia fatto passi da gigante, raggiungendo quell'agognato supporto, rispetto e scambio musicale con altri artisti di caratura internazionale. Una rarità fino a pochi anni fa.                                                                                        foto by Cristina Visentin




 




lunedì 6 agosto 2012

RECENSIONI: LEE BAINS III & THE GLORY FIRES(There is a Bomb in Gilead) TOM JONES (Spirit in The Room) JOHN MEELENCAMP (It's About You-DVD)

LEE BAINS III & THE GLORY FIRES   There is a Bomb in Gilead ( Alive, 2012)

Tra ruspanti e dirette schitarrate di rock'n'roll stonesiano (Centreville, Magic City Stomp) e sonnolenti, pigri ed evocativi abbagli di southern/country rock (Reba, Choctaw Summer,Righteous Ragged Songs), il debutto di Lee Bains III con i suoi Glory Fires (Justin Colburn, Blake Williamson, Matt Wurtele) si candida a diventare uno dei dischi di classic-rock dell'anno. I ragazzi provenienti da Birningham-Alabama, in soli trentotto minuti sono in grado di attraversare tutte le strade del rock americano, ora accelerando, ora passeggiando in tutta rilassatezza (il country/folk dell'acustica e solitaria Roebuck Parkway) con massima devozione e rispetto verso i grandi del passato, ma con un piglio deciso ed una sfrontatezza fresca ed originale. Quando poi la calda voce di Lee Bains tocca le vette soul come in Everything You Took, nella contagiosa The Red, Red Dir of Home e nella finale There is a Bomb in Gilead, ballad southern/soul guidata dal piano, capisci di avere di fronte una band con una marcia in più. Molto più squadra rispetto ai conterranei Alabama Shakes, a cui sono stati  accomunati, ma che in verità sembrano reggersi esclusivamente sul talento strabordante della loro cantante Brittany Howard. Ne sentiremo parlare.

TOM JONES   Spirit in the Room ( Island, 2012)

Se il precedente Praise and Blame fu uno squassante e sorprendente terremoto, Spirit in the Room è una tranquilla scossa di assestamento e riconferma di quanto la voce del gallese abbia perso troppi anni dietro alle certamente più remunerative e patinate bombe del sesso. Dodici cover, prodotte da Ethan Jones: svestite, scarnificate, rilette e rivestite di soul/blues oscuro, spirituale e tenebroso. Le sue “American Recordings“ da tramandare ai posteri. Per ora siamo a due centri su due. Con la voce che si ritrova non è un problema affrontare grandi autori come Tom Waits (la recente Bad as Me), Leonard Cohen(Tower of song), nuove leve come i Low Anthem(Charlie Darwin) e vecchi bluesman come Blind Willie Johnson (Soul of a Man), uscendone vivo e vincente. Interessante, ora, sarebbe sentirlo all'opera con materiale nuovo che viaggia su queste stesse lunghezze d'onda. Una sola domanda: mr.Jones, perché tutto così tardi?

JOHN MELLENCAMP   It's About You-DVD ( Universal, 2012)

Prima del suo primo attesissimo concerto italiano a Vigevano nel Luglio del 2011, fu trasmesso un documentario che venne subissato di fischi da parte di un pubblico impaziente di vedere il ritorno del giaguaro in Italia. Paradossalmente finì che il film durò più del concerto e alimentò non poche polemiche e malumori. Una scelta disastrosa quella di Mellencamp. Ora che le acque si sono calmate, comodamente seduti in poltrona, senza le distrazioni di fischi, urla e zanzare, possiamo goderci le immagini che raccontano la costruzione di un disco splendido come fu No Better Than This .Tra immagini on the road volutamente registrate in basso profilo dal regista Kurt Markus, backstage di studio-un ritorno alle radici insieme al produttore T-Bone Burnett-, performance live (un tour insieme a Dylan e Nelson), videoclip, il film/documentario permette di assaporare un piccolo pezzo di America che mantiene le antiche tradizioni musicali. Da non perdere il battesimo nella chiesa battista di Savannah-Georgia e i Sun Studios di Memphis vero luogo-reliquia per tutti gli amanti del rock.









venerdì 3 agosto 2012

RECENSIONI:SOULSAVERS(The Light the Dead See) MARTY STUART (Nashville,volume1) ULTRAVOX(Brilliant)

SOULSAVERS The Light the Dead See (V2, 2012)


Rich Machin e Ian Glover non ci mettono mai la faccia. Sono due lavoratori/arrangiatori/produttori all’antica a cui piace lavorare e costruire nel retropalco, lasciando alle prime donne gli applausi. Prima Mark Lanegan, ora Dave Gahan. Cambia il protagonista, non cambia il valore di una formula che ha ampiamento passato il collaudo. Lasciata, in modo quasi del tutto definitivo, l’elettronica del primo disco, superato il nero pece della profondità blues della voce di Lanegan che aveva elevato It’s Not How Far…(2007) e Broken(2009), si lanciano nell’arricchire e vestire le profonde e personali liriche scritte da Gahan, con slanci orchestrali e cori gospel che spingono il disco verso una spiritualità drammatica dove il cantante dei Depeche Mode ritrova nuovi slanci vocali sentiti di rado nel suo gruppo madre. Anche se a volte la pomposità compositiva supera la soglia limite, Take me back home, Presence of God, il singolo Longest Day, promettono di far dimenticare il pregevole lavoro fatto con Lanegan. Un applauso a tutti.



MARTY STUART Nashville, volume 1:Tear the Woodpile Down (Sugarhill Records, 2012)

Il giorno che il giovanissimo Marty Stuart, appena dodicenne, approdò a Nashville, città che rappresentava già un sogno predestinato,dovette aspettare ore prima di incontrare colui che lo invitò nella città del country per offrirgli il primo lavoro in campo musicale. In quei momenti di attesa, Stuart non perse troppo tempo e si avventurò, solo, alla scoperta della città. Quello spirito di ricerca gli rimase per tutta la carriera. Marty Stuart con i suoi dischi, le sue memorabilia raccolte in un museo e le sue trasmissioni televisive rimane una delle più fulgide memorie storiche “viventi” della country music. Adesso che anche i più grandi, uno ad uno, stanno passando a miglior vita, a lui il compito di preservare la forza e la tradizione del genere. In compagnia dei suoi fedeli Fabulous Superlatives spazia tra classic country ( Holding on to nothing), melodie notturne molto’50 (The Lonely Kind), scatenati country/rock (Tear the Woodpile Down), fino al duetto con il fuorilegge più temibile di questi anni 2000, Hank III in Picture from life’s other side.

ULTRAVOX Brilliant (EMI, 2012)

Quando parte Live, capisci che c’è tutto: la voce di Midge Ure, il pianoforte, i chorus accattivanti e melodici, i sinth new vawe, le chitarre al posto giusto, gli arrangiamenti orchestrali, da qualche parte più avanti (Satellite, Contact), c’è perfino il violino che riporta a Vienna. Tutto quello che ha fatto scuola ed influenzato milioni di band fotocopia degli anni zero, c’è. Quando arrivi all’ultima traccia Contact però ti chiedi se tutto questo non lo avevi già sentito mille altre volte, senza la differita temporale di vent‘anni e con la genuina epicità, qui sostituita dal buon mestiere. Sospinti dal fortunato tour di reunion del 2009, la formazione storica anni ‘80, attiva fino al 1984 (Midge Ure, Billy Currie, Chris Cross e Warren Cann) tenta il gran ritorno discografico. Nulla da buttare ma ci si stanca parecchio prima di arrivare alla fine, senza che qualche buona melodia si faccia ricordare. Chi ha amato solamente la prima parte di carriera con John Foxx, nemmeno si avvicinerà a questo disco, tutti gli altri potranno riprendersi le loro vecchie copie di Vienna, Rage in Eden e Lament. Sarà bellisimo lo stesso.

martedì 31 luglio 2012

RECENSIONE: TESTAMENT ( Dark Roots of Earth )

TESTAMENT  Dark Roots of Earth  ( Nuclear Blast, 2012)

Quando nel 1992 uscì The Ritual, molti gridarono allo scandalo. Impietose recensioni, tra cui famosa quella sul defunto HM -ve lo ricordate?- (che iniziava così: "Il disco più brutto dell'anno è uscito a Maggio". E finiva così: "Questo non è thrash con la "h" maiuscola: operatori del settore trash, questa è roba solo per voi!") tagliavano le gambe ad un disco che a distanza di vent'anni non solo si fa ascoltare benissimo-testimone di quella fase di stasi melodica del thrash metal americano che il "Black Album" contribuì a creare- ma sembra essere stato rivalutato anche dagli stessi autori che con il nuovissimo Dark Roots Of Earth sembrano, in alcuni punti, riscoprirne la vena più melodica e classicamente metal dopo un poker di dischi schiacciasassi riusciti e non. Nel frattempo, da quella lontana recensione, sono successe tante cose in casa Testament: la vittoriosa battaglia del mastodontico cantante Chuck Billy sul cancro-diagnosticato nel 2001- è la più importante, poi vengono tanti rimaneggiamenti di formazione con abbandoni e ritorni; difficile tenere il conto di tutti i grandi musicisti che da quel 1992 (anno fatidico anche per gli abbandoni della formazione storica) in poi si sono alternati: John Tempesta, Gene Hoglan, James Murphy, Dave Lombardo, Glen Alvelais, Steve Di Giorgio, tra i tanti. Poi, ancora, tanti dischi: il sempre poco menzionato Low-1994, forse per chi scrive, il loro disco più completo in carriera; l'intransigente e poco capito Demonic-1997; The Gathering-1999, un piccolo capolavoro della rivincita; l'ultimo The  Formation Of Damnation-2008, una riconferma ma non propriamente esaltante.
I Testament, in campo thrash metal, poche volte hanno deluso, mantenendo viva una fede devota al genere iniziata nel 1983 nella Bay Area di San Francisco sotto il nome Legacy (che diverrà il titolo del loro imprenscindile esordio del 1987) e mai venuta a mancare sia nei periodi di sperimentazione che di crisi e soprattutto, nonostante tutti i cambiamenti di formazione che avrebbero falcidiato la carriera a qualunque altro gruppo.
Il nuovo Dark Roots of Earth promette il ritrovato sodalizio tra la melodia di metà carriera e la sfuriata thrash degli anni ottanta e dell'ultimo periodo, trovando il perfetto compromesso fra tutte le loro influenze. Complici: un chitarrista come Alex Skolnick, rientrato in formazione nel 2005 con un importante bagaglio di esperienze in campo jazz-fusion che si manifestano in un brano lungo e progressivamente atipico come Throne of Thorns e negli assoli seminati lungo tutta la durata del disco (Dark Roots of Earth e True American Hate) e Gene Hoglan, il batterista che ogni formazione di metal estremo vorrebbe con sè, uniti ai veterani Chuck Billy alla voce, Eric Peterson (fondatore e vera anima musicale della band) alla chitarra e Greg Christian al basso.
L'iniziale Rise Up (forte di un chorus vincente "Rise-Up...War"), la patriottica killer-song True american Hate Man Kills Mankind sono gli elementi più thrash oriented, lineari, rutilanti e veloci del disco.
Native Blood, brano che il buon Chuck Billy dedica  alla sue origini pellerossa (tribù dei Pomo) e a tutti i nativi americani; il pulsante basso che spadroneggia nel messaggio culturale/sociale che passa attraverso A Day in The Death e la finale Last Stand for Independence sono invece l'anima più cadenzata e groove.
Mentre i brani più strutturati come la titletrack Dark Roots of Earth dove Billy rispolvera anche quelle clean vocals che in passato lo hanno distinto tra tutti i cantanti del genere, la già menzionata Throne of Thorns e la semi-ballad, quasi fantasy nel testo,Cold Embrace che riporta indietro nel tempo, ricordando The Ballad e Return to Serenity, sono la parte più sperimentale, variegata e convincente del disco che permette ai Testament di riprendersi quella libertà di osare che vent'anni fa non venne loro perdonata. 
Questi sono i Testament che amo di più, in grado di fondere melodia e furore in modo assolutamente unico e caratterizzante con dettagliati arrangiamenti, sotto la produzione perfetta-forse anche troppo- di Andy Sneap. A rimarcare ancora di più quale sia il carattere dominante di questo disco, ci pensano le bonus tracks della limited edition- che comprende anche un sostanzioso DVD- riletture personali di tre classici del rock/metal (più una versione extended di Throne of Thorns): l'assalto acido che si trasforma quasi in jam di Dragon Attack, brano tra i meno conosciuti della discografia dei Queen, preso da The Game-1980; la versione oscura e doom di Animal Magnetism degli Scorpions con l'unica concessione alle vere growl vocals di Chuck Billy ed una più classica che non si può, Powerslave degli Iron Maiden.
Unica data del tour italiano, il 31 Luglio 2012, giorno di uscita del disco, al Total Metal Festival di Toritto(BA) in Puglia.

lunedì 30 luglio 2012

RECENSIONE: HACIENDA ( Shakedown )

HACIENDA  Shakedown (  Collective Sounds, 2012)

Dan Auerbach-ancora lui- dice di essersi innamorato di loro fin da subito, quando la band di San Antonio gli spedì il primissimo demo. Difficile contraddirlo visto che Shakedown è il terzo album della band (il primo fu Loud is the Night-2008, il secondo Big Red & Barbacoa-2010) prodotto dallo stesso Auerbach.
Gli Hacienda sono anche stati la sua band di supporto durante il tour solista per promuovere quel bell'album che fu  Keep It Hid(2009)-passato troppo inosservato se confrontato con le ultime acclamate uscite dei Black Keys- e può considerarsi a tutti gli effetti la sua seconda casa musicale visto che la sua firma, in compagnia di quella del gruppo al completo, compare sui credits di tutte e dieci le canzoni di questo album.
Gli Hacienda sono una band a conduzione famigliare formata dai tre fratelli Villanueva: Rene al basso, Jaime alla batteria, Abraham alle tastiere e dal cugino Dante Schwebel alla chitarra. A vederli sembrano una gang ispanica poco raccomdabile, uscita da qualche poliziesco degli anni '70. Innamorati, senza nasconderlo,del pop solare dei sixties, delle armonie vocali dei Beatles, dei Kinks, degli Zombies, ma soprattutto dei Beach Boys a cui aggiungono quei tocchi di soul, funk, flower power, R&B, glam per costruire canzoni perfettamente pop che si impolverano il giusto nelle strade tra Texas e Messico: orecchiabili, chorus vincenti e melodici per raggiungere quel sapore "vintage" che tanto va di moda, a cui comunque dimostrano di credere fin dalla loro nascita artistica.
Con le tastiere di Abraham Villanueva e il basso di Rene Villanueva sempre in bella evidenza, Shakedown è un disco che nei soli 33 minuti di durata emana spensieratezza, comunicatività senza pretese da next big thing. Suonato senza alte mire e la forza dei fondamentali del rock'n'roll: solo musica e tanto spumeggiante divertimento. Non potrebbe essere altrimenti ascoltando l'apertura dall'incedere doorsiano di Veronica (no , i testi non sono morrisoniani ma un qualcosa di visionario lo hanno), il contagioso boogie alla T.Rex di Let Me go, come sentire un Marc Bolan abbandonato tra i cactus di San Antonio e accecato dalla visione di un Iggy Pop nudo che si impossessa della sua voce; il sound stile Phil Spector all'opera con i Ramones di Don't Keep Me Waiting ; il groove funk-cosmico di Savage; le facili melodie di Don't Turn Out the Light e Natural Life; l'assolo di chitarra tra le note di piano di Doomsday; la più riflessiva, psichedelica ed oscura Pilot in the Sky che chiude il disco in modo piacevolmente sommesso.
Da Brothers in avanti, i Black Keys hanno trovato una formula magica (dollari?) che rischia di invischiare tutto quello che Dan Auerbach tocca: ultimamente sotto la sua produzione sono passati Dr. John con lo splendido Locked Down, Grace Potter & the Nocturnals con il mediocre e The Lion the beast the beat. Sta per allungare le mani perfino sul nuovo astro nascente del soul britannico Michael Kiwanuka. Il rischio di diventare cloni dei cloni  è però sempre dietro l'angolo, tanto il tocco di Auerbach è pesante e presente. E' così auspicabile che dal prossimo lavoro, gli Hacienda si stacchino da papà Dan e provino nuove esperienze, tanto per non rimanere a vita con il marchio e lo sticker (in bella mostra sul cd  e veramente esistente) appiccicato addosso di "gruppo prodotto da Dan Auerbach, quello dei Black Keys". Il disco? Divertente. Non creano false "alte" aspettative ma danno concretamente quello che ci meritiamo in questo scorcio di afosa estate con la cinghia tanto tirata e stretta: spensieratezza.




giovedì 26 luglio 2012

RECENSIONE/REPORTAGE: GIOVANNI LINDO FERRETTI live@LIBRA FESTIVAL, Sordevolo(BI), 25 Luglio 2012

Sono sicuro che Giovanni Lindo Ferretti, nel pomeriggio prima del concerto, un giro alla ricerca dei margari biellesi (i marghè in piemontese), che poco più sopra di Sordevolo continuano ad abitare e portare avanti le antiche tradizioni delle alpi biellesi, l'abbia fatto o quantomeno avrebbe dovuto farlo. In fondo, le differenze con i luoghi del suo buen retiro di Cerreto Alpi sull'appennino tosco-emiliano sono minime. I margari continuano a vivere il loro nomadismo stagionale, scandito dalla transumanza delle vacche e delle pecore, continuando tradizioni centenarie a contatto diretto con la natura lungo aspri sentieri ed alpeggi. Un mestiere/missione di montagna che Ferretti, negli ultimi anni della sua vita, ha ritrovato come in gioventù, insieme a tante altre cose, più personali, che hanno indispettito, inquietato o quantomeno sorpreso i fan: alcuni discutibili dietrofront di carattere politico, frequentazioni alquanto dubbie con giornalisti voltagabbana, scelte etiche sulla fecondazione artificiale, scelte religiose. Per qualcuno è stato tutto troppo. Tutto e il contrario di tutto quello che ci si sarebbe aspettato da uno come lui. Imperdonabile e addio, forse arrivederci. Io stasera sono qui, come tanti altri (poco pubblico in verità) per le canzoni, per quello che hanno rappresentato e rappresenteranno ancora per molto tempo nel panorama del rock italiano. Ferretti non ha mai rinnegato nulla della sua carriera musicale, la scaletta del concerto di stasera ne è un esempio. Ha sempre motivato le sue scelte (cercate le sue poche interviste) dettate dal tempo, dai luoghi, dalle situazioni che ha vissuto, dal percorso della sua vita, dall'età, lui che è sempre stato in viaggio: Cerreto Alpi, Berlino, Balcani, Mongolia, ancora il ritorno-definitivo?-a Cerreto Alpi. Difficile o meglio, sbagliato provare a giudicarlo. Tutto troppo personale.
Giovanni Lindo Ferretti è sempre stato in viaggio, ma i cavalli immersi nel panorama della Mongolia che si intravedono sulla copertina di Tabula Rasa Elettrificata, in fondo sono gli stessi che ora alleva e sfama con cura tutti i giorni a casa sua, in montagna, nel paesino in provincia di Reggio Emilia.
L'anfiteatro in cui si svolge il concerto di questa seconda parte del tour "A Cuor Contento" è intitolato a Papa Giovanni Paolo II. Altro motivo che potrebbe aver inorgoglito Ferretti, visto il suo riavvicinamento alla fede religiosa e le buone parole spese per il Papa polacco ed il suo attuale successore tedesco. Come disse in una intervista: "quando suonavo con i CCCP il pubblico gridava 'chi non salta Jovanotti è', chi cazzo è Jovanotti, mi chiedevo? Sono andato a conoscerlo, ora è mio amico...con Papa Ratzinger è successa la stessa cosa". Punti di vista, rispettabili o meno, che indicano lo sbagliato rapporto fiduciario che abbiamo con il mondo: prima di giudicare, bisogna andare a verificare con i propri occhi quel che si dice in giro. Come rispettabile è il fatto che poco tempo fa disse di non avere più nessun rapporto con la musica, lui e le canzoni si erano abbandonati a vicenda. In verità, si dedicò anima e corpo alla vita della madre anziana, ora purtroppo scomparsa.
Ora, eccolo di nuovo qua, con il Tour "A Cuor Contento", a snocciolare trent'anni di carriera in modo serafico e pacato, da eremita in trasferta. Si vede che Ferretti è appagato dalla vita, glielo si legge in faccia, nelle parole che non pronuncerà durante la serata, salvo ringraziare con un cenno di capo ed un sorriso che sembra sempre vero e sincero. Il palco dove una volta andava in scena il caos ordinato di Danilo Fatur e Annarella Giudici con i CCCP, lo stesso che lo vedeva bendato ai tempi dei CSI, ora sembra il salotto di casa con i libri di compagno Togliatti ("...la sinistra a cui appertenevo è morta...", disse) ben riposti e nascosti nello scaffale in compagnia di quelli-in bella evidenza- del nuovo compagno Ratzinger. Siamo tutti invitati, tra una sigaretta ed un sorso di vino rosso, ad ascoltare il suo diario musicale. A fare compagnia solamente i due ex Ustmamo, Ezio Bonicelli
Üstmamò
Üstmamò
 al violino e chitarra e Luca Alfonso Rossi  alla chitarra, basso e programmazione delle basi elettroniche di batteria. All'anfiteatro hanno messo delle odiose sedie-che faranno anche tanto salotto- ma che la pioggia ( per buona mezz'ora incessante) pensa a sparigliare. Molti scappano al riparo, tanti ne approfittano per scattare in piedi e raggiungere le transenne a bordo palco. Da quel momento il concerto sarà più caldo, vero e vitale, nonostante la musica rimarrà ancorata alle percussioni elettroniche-in fondo anche con i CCCP era spesso così-e i movimenti di Ferretti, diritto o ciondolante sul microfono con le mani in tasca, si ridurranno alla sola accensione delle sigarette e alla bevuta del vino rosso dal bicchiere.
Ma le canzoni? Non ero venuto solo per le canzoni? 
Quelle le conosciamo a memoria anche se tirate a lucido in questi nuovi arrangiamenti per sole chitarre elettriche e violino. Un percorso musicale che, a parte la parentesi PGR (forse ancora aperta?), tocca tutte le sue tappe: I CCCP di Depressione CaspicaAmandoti, Tomorrow, Mi Ami?, And The Radio Plays, la sempre commovente Annarella, i CSI di A Tratti, In Viaggio, Del Mondo, e quel piccolo capolavoro che ancora rimane Cupe Vampe-che continuo a considerare una delle più belle canzoni italiane degli anni novanta. Poi ,la sua carriera solista con Polvere, Morire ed una tirata e rockeggiante Barbaro dal sintetico, difficile e freddo album CO.DEX(2000), che doveva sancire il riavvicinamento con Zamboni proprio a Berlino come agli inizi quando tutto iniziò, ma che di fatto uscì solo a suo nome e incrinò nuovamente il rapporto tra i due.
Ancora i bis con con Tu Menti, l'odissea orientaleggiante di Radio Kabul, Mimporta 'nasega che portò inaspettatamente i CSI in testa alle classifiche di vendita nel 1997,e la sempre scatenata con indole punk di Per me lo so che chiude la serata con i suoi slogan: "Conforme a chi? conforme a cosa? va peggio va meglio...non so dire...non so...Sei tu, sei tu, chi può darti di più? In questo presente che capire non sai...". Un saluto con la mano e si dilegua nel retropalco.
Nelle quasi due ore di concerto, difficile distogliere gli sguardi da Ferretti che continua, nonostante tutto quello che gli gravita intorno nella vita privata e nonostante non abbia proferito parola, ad emanare il fascino dell'intellettuale che indossa le scarpe grosse del contadino. E avresti voglia di conoscerlo meglio quel contadino che ha cercato riparo dalla frenesia del mondo occidentale, ritirandosi in alta montagna: per farti raccontare-finalmente dalla sua voce- magari in un salotto vero e rustico, davanti ad un camino acceso ed un bicchiere di vino il perchè delle sue scelte di vita. A tutto il resto hanno pensato le canzoni di stasera.

ogni riproduzione, anche parziale, è severamente vietata

mercoledì 25 luglio 2012

RECENSIONE: THE GASLIGHT ANTHEM ( Handwritten )



THE GASLIGHT ANTHEM    Handwritten-deluxe edition (Mercury Records, 2012)

"Sarebbe stupido provare a dirvi che la musica che state ascoltando è qualcosa che non avete mai sentito prima". Così inizia la presentazione al disco fatta da Nick Hornby, presente sul libretto del nuovo lavoro dei Gaslight Anthem.
Come dargli torto.
Handwritten è però un disco importante per la band di Brian Fallon, un ragazzo serio e con le idee chiare. Dopo il botto di The'59 Sound(2008), la conferma meno esaltante in quanto ad impatto e sorpresa di American Slang(2010), la pubblicità sempre e comunque a voce bassa fatta dal loro concittadino di Asbury Park più illustre, tale Bruce Springsteen, per i Gaslight Anthem era arrivato il momento di giocarsi la carriera con il quarto disco. Scelgono di farlo con il grande salto discografico dall'indipendente SideOneDummy alla "major" Mercury e la produzione importante di Brendan O'Brien. Tutto però sembra rimanere come prima, tanto che il loro suono inizia ad avere una impronta personale e riconoscibile anche senza "quella originalità a tutti i costi" sottolineata da Hornby: bastano idee semplici, testi superiori alla media ("rockers che leggono molto", dice sempre Nick Hornby), buone melodie e tanta serietà. 
Ci sono due cover presenti come bonus tracks nella limited edition (oltre alla loro Blue Dahlia-che vedrei così bene in Born in The USA di Springsteen) che potrebbero benissimo fare da punti estremi alla loro musica: una è Sliver dei Nirvana, l'altra You Got Lucky di Tom Petty. Ecco, tra il revival '70 del grunge, dove punk e alternative trovavano un nuovo modo di unirsi negli anni novanta e il rock'n'roll americano più tradizionale dei grandi songwriters si racchiude tutta la loro musica. Potrà essere limitativo ma ce n'è abbastanza per costruirci una carriera che difficilmente avrà singoli di successo planetario (anche se Mtv si sta già muovendo-questi sono i magici effetti "major", babe!!!)  ma potrà benissimo diventare quella di un gruppo a cui ci si potrà appellare quando si è alla ricerca dell'usato, sicuro e garantito.
Il singolo "45" è la canzone perfetta per presentare  i Gaslight Anthem agli amici; Handwritten viaggia tra Social Distortion e Springsteen; Here Comes My Man e Mulholland Drive- con le belle chitarre di Fallon, Alex Rosamilia e Ian Perkins che mi hanno ricordato i primi Big Country-marciano decise con i testi che vorremmo ascoltare se fossimo in perenne viaggio sopra a qualche auto spersa per le highways americane tra romanticismo (Mae), nostalgia dei '50 (Handwritten) e il pensiero concentrato su qualche dolore accumulato in vita(Keepsake). 
In Too Much Blood, un grintoso Fallon-molto migliorato alla voce- sembra addirittura travestirsi da Chris Cornell e il gruppo piazza la prova più singolare in carriera snocciolando un hard rock non lontano dagli Audioslave, tanto per rimanere dalle parti di Cornell, cosa che si ripete nella buona prova di gruppo (completano la formazione: Alex Levine al basso e Benny Horowitz ala batteria) di Biloxi Parish.
A conti fatti, pezzi come Howl, con i suoi chorus da punk melodico facilotto alla Green Day e Desire mi sembrano i punti meno interessanti di un lavoro vario e splendidamente prodotto da O'Brein che ci mette del suo anche a livello strumentale e offrendo  lo studio di registrazione a Nashville.    
National Anthem chiude in modo notturno e soffuso con l'aiuto di Patrick Warren alle tastiere e arrangiamento archi, pagando debito allo Springsteen più intimistico e descrittivo. Da ascoltare nei pressi dello Stone Pony al calar del sole. Gran canzone, sicuramente tra le più riuscite, che conferma i Gaslight Anthem tra i migliori gruppi di classic-rock in circolazione, in grado di unire lo slancio giovanile con una scittura dal vecchio sapore rock'n'roll: se vi sono piaciuti i primi tre album anche il loro passaggio su major non vi deluderà.
leggi anche su impattosonoro.it




 




sabato 21 luglio 2012

RECENSIONE/REPORTAGE Live: XAVIER RUDD live@CARROPONTE Sesto San Giovanni (MI) 20 Luglio 2012

Quando la pioggia ha iniziato a cadere e i fulmini del temporale in lontananza si mischiavano alle luci del palco, qualcosa di profondamente purificatore si era impossessato della serata. Tutto sembrava far parte della coreografia che madre natura aveva preparato per il concerto, ormai giunto a metà. I cuori si sono aperti e tutto galleggiava e ondeggiava dalla parte delle forti emozioni.
Sesto San Giovanni, comune industriale milanese come le spiaggie di Torquay a Victoria in Australia?-così o quasi recitava la presentazione del concerto- Nemmeno le menti più allucinate riuscirebbero a pensarci, anche se qualcuno, poco lontano da qui, all'idroscalo quasi ci crede. Stasera chi era presente al Carroponte  ci ha creduto veramente, fuori classifica chi era inebriato dall'erba magica e chi dall'alcol. Sto parlando di chi, questa sera ha chiuso gli occhi per un momento, quando quello strano suono che usciva dal didgeredoo di Xavier Rudd ha  sostituito per due ore i clacson del venerdì sera nella provincia milanese e ha lasciato che le gocce d'acqua piovana, per un volta, diventassero sinonimo di libertà e natura e non di fastidio e stress da crisi compulsiva sulle strade trafficate di una tangenziale.
Ad aprire la serata Fabrizio Cammarata. Cantautore palermitano più conosciuto all'estero che in Italia, anche grazie ad una innata propensione al viaggio che si tramuta nella sua scrittura. Vanta la collaborazione dei Calexico nel suo secondo disco Rooms uscito nel 2011 prodotto da JD Foster-una garanzia-. Stasera il suo folk pennellato e ibrido si è inebriato nell'aria, trovandosi a proprio agio nell'atmosfera che poco dopo Xavier Rudd avrebbe contaminato e che già si stava percependo. Un apripista ideale che con dolcezza, modi gentili e garbati ha presentato, da solo con la chitarra, le sue ballads con la splendida finale Alone & Alive che farebbe invidia a più di un cantautore. Auguro a Fabrizio tutta la fortuna possibile. 
Xavier Rudd sale in scena dopo le ventidue, nel piccolo palco adiacente alla imponente struttura del Carroponte, illuminata di rosso. Mantenendo fede al suo spirito, si dice che nel pomeriggio scorazzasse in lungo ed in largo per il carroponte in compagnia del suo inseparabile skateboard. Difficile non crederci.
Barba incolta, piedi scalzi e quel poco che di lui si intravede da dietro alla ingombrante  macchina da musica che da sempre si porta dietro, strumenti della tradizione della sua terra: batteria essenziale, percussioni, Yirdaki (didgeridoo), chitarre acustiche e slide, stomp box, armonica e sicuramente qualcos'altro che di cui ignoro il nome.
Apre il concerto con la potenza trascinante dei sette minuti di Lioness Eyes, brano d'apertura del suo ultimo lavoro di studio. La danza delle gambe inizia il suo viaggio e la testa inizia a svuotarsi. Solo percussioni e didgeridoo che catturano dal primo momento, facendoti entrare nel vortice ipnotizzante della sua musica, dove il cantautorato folk e blues trova un accordo comune con la world music. La spiritualità tende la mano alle radici terrose della natura.
Le danze tribali aborigene su Culture Bleeding, il folk/blues aspro e anglofono di Bow Down, l'omaggio a Bob Marley con No Woman No Cry (contenuta nel suo album Solace-2004 ), la contagiosità di Fotune Teller, le dolcezze ariose, solari ed acustiche di Comfortable in my Skin, Follow the Sun, Let Me Be, il folk di Messages sulle orme del suo idolo Paul Simon. 
Infaticabile one-man band in grado di suonare una moltitudine di strumenti contemporaneamente ed in grado di far ballare o semplicemente cullare attraverso i testi che portano lontano, molto lontano. Il suo ultimo album Spirit Bird, ben presentato stasera, ci mostra la sua anima più acustica ed introspettiva ma non vengono tralasciate le radici più profonde della sua terra e quando lascia i suoi strumenti per presentarsi d'avanti al palco per saltellare e ballare sotto la pioggia come gli antichi aborigeni australiani, capisci quanto sia vero e unico il personaggio. La magia di dialogare con il suo pubblico che stasera lo incita a grida di "dai Xavierone!!!!".
Xavier Rudd è naturalmente un estremo difensore della natura e dell'ambiente. Lo dimostra quando, rientrato per  l'encore, espone un manifesto con la foto di Paul Watson (con la scritta: Freiheit-Fur Kapitan Paul Watson), fondatore dell'associazione Sea Sheperd Conservation Society, nata in difesa della fauna marina (la bandiera nera con il teschio piratesco campeggiava già da inizio concerto sopra la testa di Xavier, unitamente a quella degli australiani aborigeni). Paul Watson è un ambientalista canadese che da sempre si prodiga per difendere l'ambiente naturale; fu tra i soci fondatori di Greenpeace e recentemente è stato arrestato in Germania, dopo uno strano incidente diplomatico.
Xavier è un personaggio vero e genuino, non ha bisogno di nascondere nulla di sè. Solo gli strumenti possono permettersi di metterlo in ombra, ma è per una buona causa: diffondere il più possibile il suo messaggio e la sua musica che trova la subliminazione finale quando il cielo si ripulisce, le nuvole nere fino a poco prima mimetizzate con l'oscurità della notte scompaiono; una leggera brezza surfa sulle vibrazioni delle note di Spirit Bird, il suo (e nostro) nuovo inno. Pugno al cuore ed un grande ed intenso rispetto. Il concerto che auguro di vedere a tutti in questa estate.

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venerdì 20 luglio 2012

RECENSIONE/REPORTAGE live: LENNY KRAVITZ/TROMBONE SHORTY live@Dieci Giorni Suonati-Vigevano, 19 Luglio 2012

Ma cosa vai a vedere? Lenny Kravitz? Chiese l'uomo alla donna un po' sciantosa sulla cinquantina, in fila davanti al bancone del negozio di dischi, mentre si era appena fatta stampare i due biglietti per il concerto di Vigevano e attendeva per pagare. Lui dallo scaffale aveva appena sfilato le sue copie dei Gov't Mule e Dave Matthews Band ed orgoglioso e con fare saputo e saccente sbatteva i suoi cd sul bancone: io voglio questi!
Io osservavo. Cazzo, quella donna potrei essere io, però potrei essere anche l'uomo stile "alta fedeltà". Il che, un po' mi consolava. Poco.  
Girare per Vigevano prima di assistere a qualche concerto del festival Dieci Giorni Suonati è sempre una meraviglia. Credo che il signor Claudio Trotta abbia veramente azzeccato la location ideale e a misura d'uomo. Mentre a Milano si scannano tra un'arena ed un ippodromo,qui a Vigevano ci sono un centro storico ed un castello che aspettano solo di essere animati dai vari artisti che si succedono di sera in sera. Del catrame e cemento della fiera di Rho è meglio non parlare, mentre parlerei volentieri di Justine Mattera e Jane Alexander che si aggirano in zona merchandising.
Se la location non è più una sorpresa ma una conferma, Trombone Shorty che alle 20 e 45-puntualissimo-è salito sul palco, è una sorpresa fulminante. Troy Andrews, questo è il suo vero nome, con la sua band è un treno in corsa che da New Orleans si catapulta sul pubblico di Lenny Kravitz, lui che per Dave Matthews ha anche aperto i concerti. C'è ancora il signore al negozio di dischi? Si? Ditegli anche che nell'ultimo disco del polistrumentista della Louisiana, For True, ci ha suonato anche Warren Hayes dei Gov't Mule.
Basso, chitarra, batteria e tre fiati che mantengono tiro ed intensità devastanti per una buona mezz'ora. Blues, rock, soul, funk, difficile etichettare la musica di Trombone Shorty: il Lenny Kravitz del trombone. Affascinante e carismatico, guida la sua band fino al finale, quando i musicisti si scambiano gli strumenti tra loro e nessuno sembra accorgersene. Lo voglio rivedere. Mentre le zanzare, fedeli domiciliate a Vigevano, fanno anche loro la comparsata di mezz'ora per poi sparire per il resto della serata, tutto è pronto per "lenny kranivitz" come lo nominavano nel 1994 i Nailbomb di Max Cavalera (Sepultura) mandandolo a quel paese poco amichevolmente. Chi l'avrebbe mai detto che Cavalera avesse le stesse idee del signore per bene del negozio. A proposito: é ancora lì?
Prima di assistere a questo concerto mi ero documentato sulle setlist di Lenny Kravitz, scoprendo che si poteva parlare-molto più economicamente- di una sola setlist ripetuta ad oltranza. Questa sera, è stata sempre quella. Nessuna sorpresa, anche se una Sister ci poteva stare.
Inizio con Come On Get It dal suo ultimo album Black and White America(2011) e chiusura con una versione allungata di Let Love Rule, dal suo primo disco del 1989 (da cui prenderà anche Mr. Cab Driver). Mentre la band allunga, lui si aggira sotto il palco tra la gente, salutando e abbracciando tutti. Le macchine fotografiche di sesso femminile vanno in tilt. Questo bagno tra la folla sarà sempre un rituale identico nel tempo, ma non è da tutti.
In mezzo, forse recitando un copione che ammette poche intrusioni e cambiamenti, passano tutte le canzoni da "greatest hits" ( American Woman, Fly Away, Stand By my Woman) più qualche estratto dell'ultimo album: il soul autobiografico di Black and White America-un pugno alla segregazione razziale-, la super gigiona Stand ed il rock di Rockstar City Life. Il fedelissimo chitarrista Craig Ross continua a non perdere un capello e scenograficamente fa il suo dovere,così come il martellatore Frank Vanderbilt alla batteria. C'è spazio anche per la sezione fiati a tre e per Trombone Shorty che nel finale si materializza sul palco. Una band "boombastica".
Fields of Joy (su disco c'era anche l'assolo di Slash, ricordate? In quel periodo lasciava assoli-inpercettibili- un po' dappertutto, anche sui dischi di Dylan), It's Ain't Over 'til It's OverAlways on the Run mi riportano indietro al 1991 quando il buon Lenny veniva salutato come la nuova stella del rock americano, un po' derivativo nel suo atteggiarsi a nuovo Hendrix/Lennon ma con tutte le carte ancora da scoprire ed il buon intuito del giocare "vintage" prima di tanti altri. Per qualcuno il vero Kravitz si è fermato lì. Per me ha fatto ancora un passo verso Are You Gonna Go My Way e Believe. Poi le sue carte le ha giocate male-o bene a seconda dei casi- al bar delle rockstar, tra presunti plagi, (tante)donne, lustrini d'alta moda e concessioni commerciali superiori a quelle che già prometteva. I rocker lo abbandonano in fretta e lui intanto perde freschezza ed ispirazione. Il pubblico cambia velocemente ma rimane caloroso ed eterogeneo, in prevalenza femminile, naturalmente. Proprio come stasera.
Il signore al negozio di dischi sogghigna.Stasera ha passato una serata triste e monotona al bar del paese tra un karaoke ed una briscola, sognado il bar delle rockstar. La folla del Castello Sforzesco si è divertita molto, io con loro.
Sei veramente andato a vedere Lenny Kravitz? Si,e non è nemmeno la prima volta. Sai cosa ti dico, anche? Che mi sono divertito, e non è la prima volta. E' solo la seconda, comunque. Domani al bar del paese mi chiederanno questo. Scommettiamo?
SCALETTA/SETLIST: Come On Get It/  Always on the Run /American Woman/  It Ain't Over 'Til It's Over/ Mr. Cab Driver/ Black And White America/  Fields of Joy /Stand By My Woman /Believe/ Stand/ 
Rock Star City Life/ Where Are We Runnin'?/ Fly Away/ Are You Gonna Go My Way/ Let Love Rule
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martedì 17 luglio 2012

RECENSIONE: JIMMY CLIFF ( Rebirth )

JIMMY CLIFF  Rebirth  ( Sunpower-Universal, 2012)

Quella Pasqua freddolosa e frizzante del 1993 allo stadio Bentegodi di Verona me la ricordo molto bene. Su in tribuna vidi il campione olimpico Gelindo Bordin-ora abita dalle mie parti-, pochi minuti dopo, con uno scatto degno del maratoneta a pochi metri dall'arrivo, mi ritrovai nel scivoloso prato calpestato, dieci anni prima,dai tacchetti del magico e miracoloso Hellas Verona di Osvaldo Bagnoli, scudettato nella stagione 1984-85. Pioggia fino a pochi minuti prima dell'inizio del concerto, Bruce Springsteen, fazzoletto al collo, senza la E Street Band e salute un po' così, dopo una manciata di canzoni fece salire sul palco l'ospite Jimmy Cliff. I due eseguirono insieme un solo classico del reggae: Time Will Tell. Successivamente eseguì anche Many River to Cross, però inspiegabilmente senza il suo autore.
Jimmy Cliff è rimasto l'ultimo superstite di quella triade reggae "Marley-Tosh-Cliff" che raggiunse il mainstream e riuscì a sdoganare il ritmo in levare portandolo ai bianchi. Jimmy Cliff durante la sua altalenante carriera non si è fatto mancare mai nulla. Divenne l'idolo degli skinhead londinesi nei '60; intrattenne rapporti con il rock ripagati con stima reciproca (le collaborazioni con Paul Simon, Rolling Stones, Elvis Costello, Sting, Joe Strummer ) tanto da ricevere gli elogi di Dylan (Cliff ha recentemente ringraziato rifacendo impeccabilmente alla sua maniera A Hard Rain's A-gonna Fall) e lo stesso Springsteen che in scaletta ha anche la sua Trapped e  pochi mesi fa, nel marzo 2012 i due hanno duettato ancora insieme al SXSW in Texas; scrisse canzoni sociali ed impegnate come Vietnam, Hard Road to Travel, They Harder They come e Many Rivers to Cross; altre meno serie e più divertenti che gli fruttarono anche qualche soldino negli anni ottanta-vi ricordate del tormentone estivo Reggae Night? del 1983; dovette vivere gli anni più ispirati della sua carriera all'ombra di Bob Marley, quando ebbe strada libera, suo malgrado, si permise lunghi anni sabbatici; divenne perfino un celebre attore in They Harder They Come, film del 1972 con la sua immortale colonna sonora che contribuì, non poco, a diffondere il reggae in tutto il mondo.
Rebirth prende forma a otto anni di distanza dal suo ultimo lavoro Black Magic, album che pur includendo numerosi ospiti era zoppicante nelle canzoni.
Anticipato dall'Ep Sacred Fire uscito nel 2011 e che già vedeva la collaborazione con Tim Armstrong, cantante e chitarrista dei punkers americani Rancid (attesi sabato 21 Luglio al Rock in IdRho a Milano), veri eredi testual/musicali dei Clash, con le dovute proporzioni naturamente. Proprio alla produzione di Armstrong si deve questa rinascita di Cliff. Seguendo il canovaccio della parte più giamaicana dei suoi Rancid (il disco Life Won't Wait-1998, nè è brillante esempio) e dei suoi dischi solisti ska/rock steady( Poets Life-2007 ), Tim Armstrong riesce a riportare Cliff verso le radici del reggae senza cadere nelle facili soluzioni elettroniche e di synth artificiali che spesso facevano capolino nei dischi più commerciali di Cliff (mi ricordo di un  poco riuscito Breakout) ma con una vera band-la stessa che lo accompagna da solista-con lo stesso Armstrong alla chitarra, J Bonner al basso, Scott Abels alla batteria, Kevin Bivona al piano e Dan Boer all'organo, ed una nutrita sezione fiati e coriste. Prova ne è la splendida rilettura latineggiante di Guns of Brixton dei Clash. Canzone in grado di mettere d'accordo tutti, rockers, punkers e reggaers così come Ruby Soho, canzone dei Rancid inclusa in ...and Out Come the Wolves(1995) che Armstrong affida alla cura ska di Cliff. Due brillanti e fresche riletture.
Ma è il resto del disco a stupire. Un ritorno alle radici che fa muovere il sedere (provate a rimanere fermi durante lo scatenato Rhytm and Blues alla James Brown di Outsider) e pensare il cervello: Children's Bread, World Upside Down (scritta con lo scomparso "padre del reggae" Joe Higgs) sono il reggae/ska perfetto con i messaggi perfetti. Mondo sottosopra con il pane in mano alle persone sbagliate.
Cry No More  inizia con voce spezzata (ottima prova vocale in tutto il disco) e l'organo ad accompagnarla, poi sprofonda nelle radici più profonde del soul/reggae.
One more, primo singolo e presente anche in una alternate version è ska da sound system che rapisce al primo ascolto e fa coppia con Reggae Music, testamento d'amore verso la sua musica ("Reggae Music's gonna make me feel good, reggae music's gonna make me feel alright now"), roots reggae a ripercorrere cronologicamente la sua carriera dal 1962 in Orange Street ad oggi.
Bang inizia come solo i Clash avrebbe potuto fare in Sandinista! per poi diventare un reggae/rock trascinante come  Rebel Rebel con la sezione fiati a contagiare un reggae corale e frizzante. Il messaggio d'amore universale di Blessed Love e Ship is Sailing sono talmente vintage che è difficile non pensare che il buon Tim armstrong  sia per Jimmy Cliff quello che  Rick Rubin fu per la rinascita artistica di Johnny Cash.
Un disco suonato, divertente, solare e diretto che ci riconsegna un sessantaquatrenne tra i principali protagonisti della scena Reggae mondiale-anche se troppo riduttivo inserirlo in un solo genere musicale, visto il personaggio- e tra i principali diffusori di messaggi socialmente positivi ancora esistenti. Anche grazie a lui la voce dei poveri giamaicani è diventata quella di tutti i poveri del mondo alla pari dei più grandi folk singers della storia.
Qualche volta è bene dirlo alla Jimmy Cliff:"Reggae Music 's gonna make me feel good" .



vedi anche RECENSIONE: GASLIGHT ANTHEM-Handwritten (2012)