Se c'è un aggettivo che è possibile associare da sempre ai The Cult quello è: camaleontici. Come la faccia, il look e l'animo di Ian Astbury, sciamano (la copertina non è un caso) in grado di curare se stesso con la musica, folgorato sulla via dei nativi americani ( a cui dedicò l'intero Ceremony-1991), incontrati lungo il "salvifico" viaggio-soggiorno in Canada fatto nell'adolescenza, che segnò definitivamente la carriera musicale e il testamento lirico del suo gruppo (senza dimenticare l'ispirazione spirituale dell'icona Jim Morrison, di cui fece anche la parodia nella tristissima reunion "farsa" live dei Doors nei primi anni duemila).
Astbury, la mente sotto continuo attacco dei demoni ed in perenne viaggio verso la ricerca della pace interiore, Billy Duffy, la chitarra che tramuta in musica i pensieri del capotribù. L'ultimo duo cantante-chitarrista sopravvissuto e riconoscibile che riesce a reggere il confronto con i grandi degli anni settanta e che i gruppi delle ultime generazioni non hanno più.
I Cult sono sempre riusciti a cavalcare le epoche musicali che si sono succedute dal 1983, anno in cui i primordiali Southern Death Cult divennero Death Cult, fino ad oggi. A volte giocando d'opportunismo, a volte anticipando le mode, altre ancora, compiendo tonanti buchi nell'acqua. Come quando il voler cavalcare le mode, a tutti i costi, li portò ad incidere dischi dalla debole ispirazione, da dimenticare in fretta (il simil-grunge di The Cult-1994 è ancora lì, in qualche scaffale, a testimoniare).
Nonostante tutto, sono sempre riusciti ad imprimere il loro tocco personale e distinguibile, nel bene e nel male.Cambiar pelle, rimanendo sempre credibili e riconoscibili è pregio di pochi e i The Cult nel 2012 lo sono ancora, difendendosi con i denti dai continui attacchi di chi li taccia di "solo" opportunismo (di cui sopra).
Tra la dichiarazione di non voler più far dischi, avvenuta non meno di tre anni fa, al verso "My Wild indian Heart was pounding...I was running so fast" contenuto nella canzone che apre il disco, è racchiuso tutto l'animo/pensiero disturbato ed artistico di Ian Asbury, portavoce assoluto dei suoi spiriti interiori.
Il grande ritorno con il solidissimo e sottovalutato Beyond Good and Evil (2001) aveva lasciato il campo al "pasticciato" Born into This (2007), ma questo nuovo disco si presenta subito con una struttura ben precisa, solida, uniforme e più che credibile. Merito anche del duo di produttori: l'ormai affezionato Bob Rock e il guru del movimento "stoner" Chris Goss che sono riusciti a bilanciare in modo assolutamente opportuno le due anime della band, quella viscerale e hard e quella introspettiva e spirituale figlia degli esordi. E poi, il resto della band che ha trovato in John Tempesta e Chris Wyse la continuità, mancante in gran parte della carriera.
Choice Of Weapon sembra essere il compendio ideale di tutte le sfumature che i Cult hanno raccolto nei trent'anni di carriera. C'è il dark-rock di inizio carriera senza parodiarne i suoni '80, il rock'n'roll di Electric(1987), le chitarre zeppeliniane di Sonic Temple(1989) ed, infine, l'hard rock modernista di Beyond Good and Evil che unisce il tutto.
L'album si apre con la fin troppo sbarazzina Honey From a Knife, un incrocio tra l'intemperanza di una Hey Hey My My di Neil Young con i suoi Crazy Horse e la spavalderia di una Beat on the brat di ramonesiana memoria nei chorus. Un inizio un po' fuorviante e poco in linea con il resto del disco.
Per ritrovare la profonda intensità della voce di Iastbury bastano pochi minuti. La successiva Elemental Light discende nel dramma, disturbato solamente dalle scosse hard della chitarra di Duffy, ma l'aspetto drammatico è innalzato all'ennesima potenza in Life>Death, struggente, dove gli arrangiamenti orchestrali e il pianoforte di Jamie Edwards elevano la canzone a vero capolavoro del disco che Duffy impreziosisce con l'assolo finale. La ritrovata goticità di Wilderness Now e la conclusiva This Night in The City Forever, dedica ad un amico suicida, seguono la lenta catarsi della fenice. Rinascere dopo le cadute. L'animo di Astbury si specchia in quello dei Cult.
The Wolf è un bastardo incrocio, figlio del periodo "Love"- "Electric", For the Animals, ruffiano e primo singolo, entra subito in circolo e compie il suo dovere. La chitarra Gretsch di Duffy graffia come deve. Lucifer è ancora la via psichedelica della rinascita dopo il buio: liberazione di tutti i mali.
In Pale Horse esce tutto il Morrison che c'è in Astbury, un hard/blues oscuro e contagioso, non distante dal miglior Danzig, dove anche il resto della band ( John Tempesta-già White Zombie,Testament, Exodus, Helmet- alla batteria e Chris Wyse al basso), soffocato dalla leadership mediatica della coppia Astbury-Duffy, esce allo scoperto. Una formazione solida, forse la migliore mai avuta, che sembra poter resistere anche nel tempo.
Qui, nei solchi dei Cult targati 2012, non troveremo le hits (Rain, She Sells Sanctuary, Fire Woman) che ne hanno già segnato la carriera, ma Choice Of Weapon, nel suo suonare vero e genuino, è quanto di meglio possiate far ascoltare a chi vi chiede chi sono i The Cult.
Per i completisti, la deluxe edition presenta altre quattro canzoni, già conosciute, risalenti al progetto Capsule del 2010: la modernista Every Man and Woman is a Star figlia del precedente "Born Into This", Embers con la splendida interpretazione di Astbury, l'incedere quasi industriale, in stile Killing Joke, di Until The Light Take Us e Siberia con il basso che guida le atmosfere in odor di eighties.