lunedì 8 novembre 2010

FAUST'O : recensione SUICIDIO (1978)

Prendendo spunto dal recente ritorno dei Massimo Volume, che nel loro ottimo Cattive Abitudini ,includono "Fausto" una canzone che cita in modo molto esplicito uno dei massimi esponenti e personaggi del rock italiano. Fausto Rossi( in arte Faust'O) a più di trent'anni di distanza dal suo esordio discografico rimane ancora una figura per certi versi enigmatica e ancora tutta da scoprire. Sicuramente precursore e punto di partenza di una generazione di giovani artisti italiani che iniziarono la loro carriera negli anni ottanta.



Faust'O Suicidio (CGD, 1978)


La copertina lascia poco spazio all'immaginazione, il plagio, la citazione, la reverenza verso Heroes di Bowie è palese e poco nascosta.
Il biennio 1977/78 fu di radicale cambiamento per la musica. Non solo di punk si tratta ma una nuova concezione musicale che andrà a pescare le sue influenze nei più svariati mezzi di comunicazione e di costume della società, tutto quello che ne conseguirà diede nuovi sbocchi alla musica, contaminazioni che germoglieranno negli anni a venire.
Anche l'Italia ha i suoi "eroi" del periodo, personaggi che lavoreranno nel sottosuolo cercando di portare nel belpaese quello che in Inghilterra e negli States erano all'ordine del giorno. Echi del duca bianco immerso nel periodo berlinese, di Lou Reed e la scena newyorchese, della nascente scena New Wave e post-punk, in particolar modo degli amati Ultravox!, l'elettronica e della scena glam-rock britannica più decadente come Roxy Music e i suoi leaders maximi Eno e Ferry, sono evidenti ma, con particolare bravura, rivisitati e riveduti in modo del tutto personale,uscendone fuori come incarnazione di una nuova figura da poeta maledetto. Suicidio di Faust'O è forse uno dei migliori esempi e ritratti dell'epoca, i fine anni settanta, anni che riportavano i "fumati" sogni di qualche anno prima con i piedi in terra, dove il no future sbandierato dal punk sembrava profetizzarsi anche troppo presto.

Quello di Faust'O è un ritratto del mondo, amaro e dissacrante, che si prende beffa di tutto e tutti, senza giri di parole e falsi moralismi. Anche se in più occasioni l'autore si dissociò molto da questo suo debutto, arrivando anche a rinnegarlo in alcuni passaggi e metodi di realizzazione, non si può dire che il messaggio di rottura non arrivò forte e chiaro, spontaneo o no che fosse.

Certamente in Italia non si era ancora preparati a sentire certe parole, certi concetti e certe critiche che affondavano il coltello nella ferità in modo così dissacratorio. Forse un album come questo ancora oggi farebbe fatica ad essere accettato e digerito. Il triste destino che se ne parli solo e solamente come un reperto "cult" ne è la testimonianza chiara, mentre dovrebbe, a tutti gli effetti, essere considerato tra i migliori lavori musicali (ancor più, essendo un debutto) usciti in Italia.

Nulla viene risparmiato, le catasfrofi naturali, il sesso, la religione, il mal di vivere, i vizi, le virtù, la ricchezza, la corruzione. Se da una parte dell'Italia c'era un Rino Gaetano che usava ritornelli e ottimi brani di facile presa per far arrivare messaggi "forti" dall'altra c'era Faust'O con le sue liriche concettuali e graffianti e le musiche così spoglie, nervose e nude, quasi fredde e distaccate ma comunque sempre d'impronta pop e a volte quasi teatrali.
Fausto Rossi è friulano di nascita e la citazione del terremoto che colpì il Friuli Venezia Giulia nel 1976 in Suicidio non è casuale .(Sento tutto quello che mi gira intorno è noia, noia, noia. Anche il terremoto adesso mi da solo noia, noia, noia). Faust'O analizza un gesto estremo e finale collegandolo al mal di vivere e al pieno nulla della società circostante tanto da far passare in secondo piano un avvenimento che lo ha coinvolto da vicino.
Faust'O si avvale dell'aiuto in studio di registrazione di Alberto Radius, famoso per il suo ruolo nella band Formula 3, ma soprattutto grande chitarrista e compositore, anche lui mai troppo lodato a dovere e con la produzione di Oscar Avogadro.

I toni teatrali di Godi sono uno sputo in faccia al dilagante perbenismo della società cattolica ed ad un'Italia schiava e repressa dallo Stato Vaticano.
Godi, però di nascosto, nel cesso, nel bosco.
nell'ultimo posto in cui Dio ti vedrà!
No, non farti problemi, nascondi le mani
nel mondo dei nani sei grande anche tu!
E vergognati alla sera mentre dici una preghiera
della voglia di bestialità!
(da "Godi")

Vi è poi un attacco esplicito e diretto ai poteri forti, alla ricchezza e alla corruzione derivante e dilagante. I testi di Bastardi e della conclusiva Benvenuti tra i rifiuti, non hanno bisogno di ulteriore spiegazione. Le liriche sono quanto di più crudo ed esplicito si possa chiedere da canzoni di denuncia, il tutto su un tappeto di suoni che cita tanto il post/punk quanto il glam rock inglese.

Quando cade la notte
e i vostri sogni si fanno pesanti
ricchi, poveri politicanti
siete figli della merda
noi scaviamo dentro il buio
vomitiamo sangue sulle vostre verità!
Benvenuti tra i rifiuti
non vi cacceremo via! (da "Benvenuti tra i rifiuti")

Parole scomode che forse mai nessuno osò pronunciare prima in maniera così diretta all'interno di una canzone.

Vi è poi il tentativo di toccare temi tabù e comunque delicati, cercando di portare a galla problemi legati all'infanzia e ai sopprusi morbosi da parte del mondo adulto verso i bambini . Segni da portare dietro come enormi sassi per tutta la vita.
C'è un posto caldo e Piccolo Lord sono due stupende mini operette-pop/rock. Mentre la prima parla di sopprusi e devianze sessuali, la seconda racconta della triste vita di un bimbo prodigio costretto ad allietare le giornate delle amiche di una mamma bene in vista. Ma l'idea di ribellione, nascosta e repressa, scatterà in lui e gli farà compagnia per tutta la vita non senza rimpianti.
Harry!!
suona il piano un po' per noi
su da bravo.
solo un pezzo solo dai!
Harry!!
suona un po' Chopin per noi
guarda com'è bravo
vuole ancora un po' di tè!? (da "Piccolo Lord")



Il mio sesso è un'altra esplicita canzone sul rapporto assai conflittuale tra un uomo e il suo apparato genitale, spesso vera e propria guida spirituale nel bene e nel male dell'essere umano di sesso maschile. A volte prigionieri e vittime di un qualcosa che nemmeno il cervello riesce a controllare e domare. Insomma l'uomo che ragiona con il c***o.
Il mio sesso è spesso solo
mi chiede un po' di aiuto
ma io mi sento solo quanto lui
E' fragile e pauroso
triste e silenzioso
vorrebbe che lo amassi un po' di più.
Spesso ne ho bisogno, mi sfogo su di lui
ho paura che sia il contrario
che sia lui ad usare me (da "Il mio sesso")

Faust'O tiene a battezzo( forse anticipato dal solo Tenco, ma erano altri tempi) ed incarna una nuova generazione di cantautore italiano, decadente e maledetto, poco disposto ed incline a piegarsi alla nascente società consumistica che gli anni ottanta produrranno. La sua visione del mondo è pessimistica e poco disposta a lasciare filtrare raggi di luce positiva. Mette alla berlina incubi e visioni dell'uomo moderno, senza cadere nella banalità ma usando un linguaggio tagliente tra slogan dal forte sapore punk e colpi da teatro burleasque e arraggiamenti fuori dai classici schemi. Un germe del male che si insinua nell'uomo già in giovane età, seminato da un mondo adulto che si rispecchia compiaciuto nell'apparenza e nella finzione e dove il sesso Freudiano fa da spalla ideale. Il bello è che Faust'O continuerà a produrre grande musica già dal successivo passo discografico(Poco Zucchero, 1979) una anno dopo...

martedì 2 novembre 2010

MT. DESOLATION recensione

Debutto per la superband nata per caso dopo una serata alticcia, con componenti di Keane, Mumford and Sons, Noah and the whale e Killers



MT.DESOLATION Mt. Desolation (2010)

Eccovi servito il disco d'autunno, quello ideale per accompagnare serate davanti al calore domestico di un camino o se siete più mondani, davanti ad una o più pinte di birra all'interno del vostro british pub preferito.
Proprio in quest'ultimo ambiente sembra essere nata l'idea di questo supergruppo. Si sa, quando l'alcol entra in circolo , le inibizioni cadono e alcune cose sparate al momento per puro caso possono nascondere verità e certezze assolute. E' successo che i due componenti principali dei Keane, Tim Rice Oxley e Jesse Quin, gruppo derivativo e non certo imprescindibile del brit-pop inglese, quello senza chitarre, per intenderci, buttarono giù l'idea di confrontarsi con un genere come il country-folk. L'idea ha coinvolto amici come Country Winston dei Mumford e sons al banjo, Ronnie Vannucci dei Killers e Tom Hobden dei Noah and the whale, mentre le canzoni sembravano uscire in modo spontaneo, tanto da essere poste al giudizio preventivo del popolo di internet che in poco tempo ne ha decretato il successo. A questo punto il passo dall'idea abbozzata al disco è stato breve, confermando come, spesso, la spontaneità paga più del lavoro studiato a tavolino.


L'atmosfera che si respira in quasi tutto il disco a parte poche eccezioni, è di una musica melanconica e riflessiva, un folk-country alternativo che sembra strizzare più l'occhio al british folk che all'America. Insomma un disco da sbronza triste.
L'apertura potrebbe trarre in inganno con Departure una canzone saltellante e divertita dal forte ritornello pop con la seconda voce di Jessica Staveley Taylor al controcanto che diventa invece protagonista in Another night on my side mentre duetta con Jesse Quin. Echi quasi springsteeniani affiorano da Annie Ford mentre in State of our affairs si viene catapultati lungo le brughiere britanniche evocando onde alte e fredde che si infrangono lungo alte coste scogliere. The "Midnight ghost" è un pigro viaggio nell'America ispirato da i "Vagabondi del Dharma" di Jack Kerouac, romanzo che riprendeva il viaggio di "Sulla strada", ambientandolo però nella natura delle montagne e dei boschi.
Platform 7 è forse la canzone più "americana", un honk-tonk country spedito e svagato che lascia lo spazio ad una My my my, che con la sua armonica cerca di aprire su orizzonti desertici ma che alla fine rimane con il piede ben piantato in terra d'albione e forse questo è la caratteristica che pervade tutto l'album. Non necessariamente negativa ma che anzi rende l'album degno di ascolto e nel suo piccolo originale.


Dello sbandierato country americano in verità vi è molto poco ma quello che ne è uscito è un fresco disco dalle atmosfere rarefatte, intriso di melanconia pop/folk sicuramente in grado di avvolgere l'ascoltatore dentro ad un abbraccio rassicurante da parte di giovani artisti in vacanza (autunnale) dai loro gruppi base.

venerdì 29 ottobre 2010

KEITH RICHARDS esce LIFE, l'autobiografia


Ancora pochi giorni e avremo anche noi italiani sotto il naso l'autobiografia del rocker, la cui filosofia di vita è stata la più venerata e copiata dai milioni di giovani alle prime armi con il rock'n'roll, con l'unica differenza che lui è così, non emula nessuno, sul palco e nella vita di tutti i giorni.
"Sì suonate come me, se lo volete.Ma che senso ha, se l'originale è ancora in giro? Ma non c'è bisogno di muoversi come me e di pettinarsi i capelli allo stesso modo. Io non faccio niente di speciale per essere come sono."(da Rockstar, febbraio 1982)

Uscirà il 3 Novembre per Feltrinelli, Life (530 pagine) l'autobiografia di Keith Richards, 66 anni e tante storie da raccontare, finalmente in prima persona con l'aiuto del giornalista/scrittore James Fox. Dalle prime indiscrezioni, sembra che prometta anche scottanti rivelazioni e confessioni sull'amico e compagno di avventura Jagger, che non sono andate troppo a genio alla grande bocca del rock.
"Provo affetto per Mick, ma non vado a casa sua da una ventina d’anni.E’ davvero insopportabile. A volte, mi dico: ‘Amico mio, mi manchi’. Poi mi chiedo: dove è andato?”(dall'autobiografia in uscita)

Sarà un piccolo viaggio negli ultimi cinquant'anni di rock, dagli inizi legati al blues e agli incontri decisivi per l'avventura musicale degli Stones, gli anni degli arresti e delle droghe, il rapporto con la morte e con i compagni di band, con i nemici/amici Beatles e soprattutto con John Lennon, il successo planetario, i tour, i vizi, il sesso e le donne. Insomma VITA.

lunedì 25 ottobre 2010

BUFFALO SPRINGFIELD Reunion


Le date del 23 e 24 Ottobre scorso saranno ricordate per la reunion di uno dei gruppi storici più importanti apparsi nell'America di fine anni sessanta. I Buffalo Springfield durarono il tempo di tre soli album ma di fatto aprirono strade importantissime per il folk-rock americano che si svilupperà dagli anni settanta in avanti. Originariamente composti da Neil Young, Stephen Stills, Richie Furay, Bruce Palmer e Dawey Martin, si formarono nel 1966 dopo che Young e Palmer a bordo del famosissimo "carro funebre" partirono dal Canada per cercare fortuna a Los Angeles.
Proprio lì incontrano Stills e Furay e fu subito magia a cui si aggiunse il batterista Martin. Dopo le prime esperienze ad aprire i concerti per i Byrds di Crosby, viene registrato il primo album omonimo che mette subito in luce le caratteristiche del gruppo, ovvero l'uso di tre chitarre e la particolare impostazione vocale. I dissidi all'interno della band non tardano ad arrivare un pò per i continui litigi tra i due leader indiscussi del gruppo, Young e Stills e un pò per i vari problemi di droga che toccheranno i componenti a turno.Il primo vero successo commerciale arriverà con un singolo:For What it's worth, scritto da Stills dopo i violenti scontri avvenuti a Los Angeles tra alcuni studenti che manifestavano contro la guerra in Vietnam e la polizia..

Il secondo album Buffalo Springfield Again esce nel 1967 ed è da considerare il loro capolavoro. Spiccano canzoni come Mr.Soul,Broken Arrow scritte da Young , Bluebird e Rock & Roll woman scritte da Stills.
Ma il buon successo dell'album non servirà a placare i problemi interni e di droga. Palmer verrà arrestato innumerevoli volte e sostituito definitivamente al basso da Jim Messina. Il terzo e ultimo album Last time around vedrà la luce nel 1968 ma il gruppo è già sciolto e ognuno dei membri prenderà strade diverse. Young inizierà la sua strepitosa carriera solista, Stills formerà un altro supergruppo con Crosby e Nash, Furay e Messina formeranno i Poco.
Voci di reunion si rincorreranno per quarant'anni , nel frattempo Martin e Palmer sono deceduti.
In questo 2010 succede però l'imprevedibile.

Bridge School Benefit Concert, 23 e 24 Ottobre 2010 Shoreline Amphitheatre, Mountain View, California, USA

Benchè negli anni fu sempre il più fermo e convinto "contrario" alla reunion, sembra proprio che parta da Neil Young l'idea di ritrovarsi su un palco insieme a Furay e Stills per suonare le canzoni dei Buffalo. L'ultima volta che i tre suonarono insieme fu nel 1968 durante il concerto di addio della band alla Long Beach Arena.

42 anni dopo rieccoli con le loro chitarre e con Rick Rosas(basso) e Joe Vitale(batteria) a sostituire gli scomparsi. Il Bridge school Benefit è un concerto annuale organizzato da Young e la moglie Pegi per raccogliere fondi a favore dei bambini disabili. Ad aprire i due concerti, importanti ospiti che hanno duettato con Young, sono stati della partita Pearl Jam, Elvis Costello, Emmylou Harris,Elton John e Leon Russell.

Questa la scaletta del concerto dei Buffalo Springfield:

On The Way Home
Rock & Roll Woman
A Child's Claim To Fame
Do I Have To Come Right Out And Say It?
Go And Say Goodbye
I Am A Child
Kind Woman
Burned
For What It's Worth
Nowadays Clancy Can't Even Sing
Bluebird
Mr. Soul
Rockin' In The Free World

RETRO RECENSIONE: BADLANDS Voodoo Highway (1991)

Approfittando della recente rimasterizzazione da parte della "Rock Candy" dei due dischi dei Badlands, superband che avrebbe meritato sicuramente più esposizione all'epoca...




BADLANDS Voodoo Highway (Atlantic records, 1991)




Il secondo disco dei Badlands (nel 1999 ne uscì un terzo, postumo: "Dusk"), creatura di Jake E.Lee, ex chitarrista della Ozzy Osbourne band, periodo "Bark At The Moon","The Ultimate Sin", puo' a tutti gli effetti essere considerato come uno dei piu' fulgidi esempi di hard blues degli anni novanta. Uscito nel 1991, due anni dopo il piu' patinato e prodotto esordio-comunque ottimo-vedeva la band sporcare nettamente il sound con una produzione piu' scarna ed essenziale sposando nel suono il blues settantiano tanto caro a band come Free, Bad Company, Montrose,Whitesnake e Led Zeppelin.
Guidati dalla sei corde di Lee, che finalmente poteva esprimere in toto il suo grande talento di bluesman, questo rimarrà il disco di Ray Gillen, uno dei piu' talentuosi cantanti partoriti dagli anni '80 e purtroppo anche uno dei piu' sfortunati. Mancata, per motivi legali, l'occasione della vita: l'entrata nei Black Sabbath di meta' anni ottanta, quelli che si accingevano a registrare "The Eternal Idol", con cui riuscì pero' a portare a termine alcuni concerti e registrare alcuni demo, recuperabili in rari bootleg, la sua vita viene prematuramente interrotta da un brutto male che lo porto' via a soli 34 anni. Paragonabile ai migliori vocalist hard degli anni '70, da Paul Rodgers a Robert Plant, Gillen ebbe con questo disco, inspiegabilmente sottovalutato all'epoca, l'occasione di un riscatto di carriera e a distanza di piu' di quindici anni dalla sua morte possiamo dire che ci riuscì pienamente.
La copertina del disco, raffigurante una dispersa casetta, immersa in un ambiente paludoso e' altamente indicativa di dove andra' a parare il disco. La superformazione completata da Greg Chaisson al basso e Jeff Martin alla batteria si lancia subito, fin dalla'iniziale "The Last Time" in un frenetico Hard blues, con la chitarra di Lee sugli scudi e un organo in sottofondo a fare da tappeto alla voce imprendibile di Gillen. Pochi punti deboli in questo disco. Autentici intermezzi acustici vanno ad incastonarsi a riff piu' pesanti come in "Show Me The Way" . Perle di autentico hardblues sono "Whiskey Dust", la splendida "Silver Horses", "3 Day Funk" (un funk blues che non sfigurerebbe in nessun disco dei Black Crowes) mentre canzoni piu' metal oriented come "Shine On", "Soul Stealer" e "Heaven's Train", fanno riaffiorare il passato dei musicisti di questo gruppo.
"Joe's Blues" non e' altro che una breve prova di abilita' di Lee all'acustica, mentre in "Voodoo Highway" ci stupiscono con un blues acustico con tanto di Lee al Dobro. Le due perle finali sono una cover di James Taylor, "Fire And Rain", resa naturalmente in chiave rock e "In A Dream" una canzone a cappella di Gillen, tanto per dare una ulteriore prova della sua versatilita' vocale.
Un piccolo gioiello da tramandare ai posteri , per far capire che nei primi anni '90 non esisteva solo il grunge ma anche band come i Badlands che pur durando lo spazio di due soli dischi, seppe creare un disco ricco di calore e tradizione rimanendo con un piede nel presente. Poi si sa quando due talenti come Lee e Gillen devono convivere insieme sono spesso scintille. La band si sciolse quasi subito e il triste finale l'ho gia' raccontato...

pubblicato in origine su: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28486/Badlands_Voodoo_Highway.htm






domenica 24 ottobre 2010

RECENSIONE: ROBERT PLANT - BAND OF JOY

ROBERT PLANT Band of joy (Decca,2010)


Il flirt di Robert Plant con il country/folk è cosa antica, mai nascosta nemmeno ai tempi dei Led Zeppelin e ancor prima di formare la grande rock band. Plant ripesca infatti il nome della suo primo gruppo, i Band of joy, (dove militava anche l'amico John Bonhan), lo piazza come titolo dell'opera e si butta a capofitto nell'interpretare dodici classici del genere, continuando in parte il lavoro fortunato iniziato in coppia con Alison Krauss. Coaudiuvato dall'esperto Buddy Miller, presente come produttore e musicista e con la supervisione dell'ormai onnipresente T-bone Burnett, compie un caldo e rassicurante viaggio intorno alla roots americana, costruendo uno dei suoi più riusciti dischi solisti e sappiamo che durante la sua carriera post-Zeppelin non ha mai amato adagiarsi sugli allori del passato o vivere di rendita.
Fermo nella sua coerenza atta alla ricerca di nuove sonorità in giro per il mondo, superati i sessant'anni , sembra aver trovato la sua nuova terra creativa in America tra pedal e lap steel, banjo e mandolini, in barba a chi sognava l'ennesima far(l)sa reunion del dirigibile. Mentre l'amico ed ex compagno John Paul Jones tortura i padiglioni auricolari con il post-stoner rock dei Them Crooked Vultures, Plant sceglie di accarezzare gli animi con la sua voce con gli anni diventata ancor più calda e ammaliatrice.
Un viaggio lungo l'America musicale tra folk, country,blues, rock'n 'roll e soul che parte da alcuni traditional come Satan your kingdom must come down, desertica e cupa tanto da risvegliare malvagi fantasmi sopiti nel tempo o Cindy, i'll marry you someday. House of cards è di Richard Thompson ed era contenuta in First light del 1978, mentre apre il disco con Angel dance degli ormai amici Los Lobos, con cui ha diviso il palco in tempi recenti.
Aiutato dalla voce femminile di Patty Griffin, presente in più brani, quasi a fare le veci della Krauss.
Monkey è una canzone dei Low, band contemporanea amata da Plant e ancora tutta da scoprire di cui ripropone anche Silver Rider, tanto per ribadire il profondo rispetto che nutre verso la musica dilatata di questa band indie di Duluth mentre con un salto a ritroso omaggia il grande Townes Van Zandt riproponendo e interpretando con grande maestria la sua Harm's swift way.
Central two-O-nine è l'unica canzone originale del disco composta con Miller ed è una western song da viaggio nel deserto mentre con You can't buy love va a ripescare un vecchio brano dei Kelly brothers e lo fa suo con una interpretazione che tanto si avvicina alle rock'n'roll ballads anni cinquanta e che avrebbe fatto invidia al miglior Elvis confidenziale.
Unica concessione alla modernità è la finale Even this shall pass away che con i suoi loop e rumori stona con il resto dell'album.

Un disco di covers che certamente non porterà nulla di nuovo nella carriera di chi la storia della musica l'ha già ampiamente scritta ma che cementa ancor di più il futuro musicale di un artista che tutto sommato non si è mai svenduto e mai come in questi ultimi anni( ascoltate anche il suo Mighty Rearranger del 2005, secondo me, stupendo) si sta prodigando ad esplorare nuove strade, aspettando il secondo capitolo in coppia con la Krauss di imminente uscita. Certo l'idea di andare a scavare nel passato, sembra la moda del momento messa in pratica da molti musicisti, seguendo le orme delle American Recordindg di Cash, ma alla voce di Plant si può perdonare tutto.


mercoledì 20 ottobre 2010

RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY- ORDER OF THE BLACK


BLACK LABEL SOCIETY Order of the black (Roadrunner, 2010)



Quanto tempo è passato da quelle foto in bianconero presenti nella busta interna del vinile No rest for the wicked, album di Ozzy Osbourne che vedeva all'esordio un giovane e sbarbato chitarrista appena maggiorenne, dai capelli biondi e quasi cotonati come la moda hair -metal dell'epoca quasi imponeva, chiamato a confrontarsi nel ruolo che nei dischi precedenti fu occupato dal genio chitarristico di Randy Rhoads e dalla chitarra quasi blues di Jackie E.Lee. Magro, quasi esile, appoggiato ad un trespolo catacombale , poteva quasi confondere dall'assomiglianza con Rhoads. Sono passati 22 anni, il ragazzo è cresciuto e si è fatto vichingo. Il suo stile chitarristico che all'epoca iniziava a prendere forma ora è talmente caratteristico che papà Ozzy ha deciso, dopo più di vent'anni e 5 dischi registrati insieme, di abbandonarlo, colpevole di portare la musica del madman troppo sulla stessa strada dei Black Label society. Zakk accetta l'esonero da grande signore, arrivando addirittura ad elogiare il nuovo chitarrista della Ozzy-band, il greco Gus G, dichiarando pubblicamente che tecincamente lui stesso ne è inferiore.

E così a pochi mesi dal buon ritorno discografico di Ozzy Osbourne, evidentemente l'aria nuova ha fatto bene, tornano anche i Black Label Society, con un album che li riporta su territori molti vicini ai primi due album "Sonic Brew" e "Stronger Than Death".

Il precedente album "Shot To Hell", sacrificava l'energia a favore di un appeal più melodico, componente comunque sempre presente in tutti gli album di Wylde, ma questa volta circoscritta unicamente alle ballads.

Il trittico iniziale(Crazy Horse, Overload, Parade of the dead) lascia la scia di cenere al suo passaggio , tre classici esempi di Black Label Society-sound, riff pesanti e quadrati, assoli mai troppo invasivi ma incastrati alla perfezione in quel mix di Southern/Sabbath sound che lo cantraddistingue. Mescola sapientemente il sound sudista del suo primo progetto solistico Pride & Glory con la pesantezza dei primi lavori dei Black Label Society, creando un giusto mix di feeling e spontaneità chitarristica. Finalmente sembra lasciare anche da parte la voce "ozzyana" che si portava dietro da qualche tempo a favore della sua naturale ugola, perchè Zakk sa anche cantare e lo dimostra in quelle ballads come le pianistiche Darkest days, Time waits for no one e Shallow grave, che non avrebbero sfigurato in nessun disco delle grandi southern band americane degli anni settanta e che il nostro ha dimostrato di maneggiare sapientemente negli anni , incidendo interi dischi di roots-music.
Canzoni che fanno tirare il fiato per pochi minuti, perchè il barbuto Wylde riprende a marciare con i riff panteriani di Godspeed Hell bound e se mai i Pantera, io spero vivamente di no, decidessero di tornare insieme, Zakk sarebbe l'unico a poter sostituire il compianto Dimebag Darrell, per tecnica ma soprattutto per attitudine nei cuori dei fans.
Wylde si diverte e per una volta mette totalmente la sua tecnica a dispozione di un brano, nel breve intermezzo flamencato di Chupacabra.
Finale dedicato al padre nella toccante January, perchè Wylde ha un gran cuore, lo ha dimostrato in tante altre occasioni, cuore che speriamo rimanga tale visto i continui ricoveri ospedalieri causati dal suo vizio preferito chiamato alcol. Eppure aveva giurato di aver smesso ma come cantava Ozzy, il demone alcol(Demon Alcohol) è sempre in agguato. Canzone contenuta proprio in "No rest for the wicked". Il cerchio si chiude.

venerdì 15 ottobre 2010

RECENSIONE: WILLIE NILE ( The Innocent Ones)

WILLIE NILE The Innocent Ones (River House Records,2010)

Che Willie Nile, da qualche anno, stia vivendo una seconda parte di carriera è fuori da ogni dubbio. La sua prolificità artistica non è mai stata così alta e l'uscita di questo The Innocent Ones, a solo un anno di distanza dal più che buono House of a thousand guitars ne è la conferma tangibile.
Ascoltando il nuovo album si può percepire chiaramente quanto il piccolo cantautore di Buffalo, ma newyorchese d'addozione, stia vivendo un periodo di totale spensieratezza musicale e -penso- gioia interiore che vanno ad arricchire le sue liriche.
Visto questa estate sopra ad un palco, proporre alcune canzoni del nuovo album, si aveva l'impressione dell'impronta rock'n'roll e fun che il nuovo lavoro prometteva.
Echi di Ramones, da sempre amici e nel cuore di Willie, balzano subito all'orecchio nell'iniziale Singin'Bell, dopo che i rintocchi di campana annunciano e lasciano spazio a notizie di pace, amore e libertà per i soldati al fronte. Un punk'n'roll che si ripete nella corale dedica d'amore di Can't stay home e Hear you breathe. Nile si diverte, non deve più dimostrare nulla a nessuno e nemmeno a se stesso. I colleghi musicisti lo venerano e per i suoi fan è un idolo. Sembra aver trovato la sua speciale formula di giovinezza. La musica è parte integrante della sua vita e ha poca importanza dividere il palco con rockstar affermate come Springsteen o suonare in sperduti paesini italiani davanti a poche persone, quando si crede totalmente a quello che si fa.
Allora giù con il rock rollingstoniano nella storiaccia di provincia americana raccontata in Topless Amateur o con le ballate, quelle Folk/country come Rich and Broken, la pianistica e piena di speranza Song for you o il folk imtimo e solitario di Sideways beautiful.
Nile sa ancora essere un vecchio sognatore quando canta di una chitarra come unica arma a sua disposizione per combattere il mondo là fuori (One guitar) e sa catapultarsi nell'epicità della corale titletrack senza dimenticare il romanticismo che ancora vive dentro di lui.
Forse meno ispirato dei precedenti lavori, ma comunque un buon pretesto per far parlare di un artista, spesso dimenticato, ma che ha sempre messo in primo piano musica e fan. Assistendo ad un suo concerto si ha la prova di quanto Willie Nile sia un personaggio vero e schietto. Se vi capita a tiro...





vedi RECENSIONE: WILLIE NILE live ASTI musica 14 Luglio 2010




vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)




mercoledì 13 ottobre 2010

RECENSIONE: THE SWORD (Warp Riders)

THE SWORD Warp Riders (Kemado records, 2010)

Se siete in giro per la galassia musicale in cerca di qualcosa di fortemente eccitante da ascoltare, fermatevi per un attimo nel pianeta dei The Sword. Partiti con due album di intransigente Stoner/doom, arrivano alla terza prova con un bagaglio di esperienze che ne hanno modificato in parte l'indirizzo musicale. Spesi gli ultimi due anni ad aprire i concerti di gente "ricca e famosa"come i Metallica, con Warp Riders, complice la produzione di Matt Bayles( già produttore di Isis e Mastodon), riescono ad indirizzare il loro suono verso una componente melodica legata all'hard rock anni settanta che ne arricchisce la proposta. Ascoltando Warp Riders mi sono venuti in mente in alcuni spunti, i Corrosion of Conformity di dischi epocali come Deliverance e i Trouble senza però un grande cantante come Eric Wagner alla voce. Le canzoni ruotano intorno ad un concept fantascientifico che parla di un pianeta della galassia che ha smesso la sua rotazione intorno al sole, vedendosi così diviso in due parti, una esposta costantemente ai raggi solari ed una in perenne ombra, con gli abitanti in cerca della collocazione vitale all'interno del pianeta, con tanto di eroi e cattivi.
Potrebbe sembrare il classico passo più lungo della gamba, ma il concept regge benissimo e la varietà delle canzoni, diversamente dalla monoliticità dei due precedenti lavori, comunque di tutto rispetto, aiutano l'ascolto del disco. Nuove sonorità southern/blues si aggiungono alla componente stoner/doom, portando alle canzoni quella melodia che a stento trovava posto prima, così come la voce del cantante e chitarrista John D. Cronise si arrichisce di nuove sfumature. Ascoltando la canzone scelta come singolo Tres Brujas , non si può non notare, fin dal titolo una certa ascendenza dai conterranei texani ZZ Top.
Cavalcate hard, riff di chitarra massicci, cambi di tempo dove si trovano spunti maideniani come in The Chronomancer II:nemesis, che dopo un' intro lenta ed oscura si trasforma in una cavalcata degna di Harris e soci o i riferimenti alla NWOBHM nella strumentale Astraea's Dream. Bella, infine, la marziale e saltellante Lawless Lands, canzone significativa della nuova strada musicale intrapresa dai texani.




lunedì 11 ottobre 2010

RECENSIONE: THE BLACK ANGELS ( Phosphene Dream)


THE BLACK ANGELS Phosphene Dream (Blue Horizon Records, 2010)

Abbiamo sempre bisogno di viaggiare e quando ciò non avviene per via terrena, cosa c'è di meglio che lasciarsi per qualche ora tutto alle spalle e compiere pindariche traiettorie con la fantasia a mille.I The Black Angels ci aiutano e supportano.
Dopo averti inizialmente stordito la percezione visiva con la copertina, ti conducono con la musica verso i posti immaginifici della perdizione sensoriale in compagnia dei fantasmi più allucinati della musica anni sessanta.
Nuotando nel fiume rosso(River of blood), che conduce diritto ai mantra doorsiani, accecati dai raggi solari che penetrano dalle foglie di alberi disposti in fila indiana lungo una veloce strada deserta, percorsa a tutta velocità(Entrance song), dentro psichedeliche visioni che animarono le stagioni di Roky Erickson e soci.
Perdersi, storditi, dentro le visioni caleidoscopiche di Phosphene dream o contemplare il viaggio verso la mecca di True Believers, con i suoi ritmi orientaleggianti.
La band texana guidata dalla voce di Alex Maas ci fa percorrere il mistero in Bad Vibrations e ci catapulta nel progressive-psichedelico, in caduta libera dentro ad un Yellow Elevator, alla ricerca della luce dorata.
Non cercate certezze in questo disco, ma solo sogni e se il vostro è quello di poter, per qualche minuto, entrare in quell'epoca stonata e allucinogena di fine anni sessanta raccontata da Barrett,13th Floor Elevators e Jefferson Airplane, spegnete il telefono (protagonista del singolo rock/beat'n'roll Telephone) e lasciatevi condurre dai nuovi discepoli.Buon viaggio.


giovedì 7 ottobre 2010

RECENSIONI...dischi in ascolto...RONNIE WOOD(I Feel Like Playing)...KILLING JOKE(Absolute Dissent)...

RONNIE WOOD I Feel like Playing (EagleRecords, 2010)
Che le sortite soliste dei vari Stones non avessero mai brillato è un dato di fatto, purtroppo inciso indelebilmente nella storia dei dischi, ma che toccasse a Ronnie Wood cercare di invertire la marcia, nessuno se lo sarebbe mai aspettato, soprattutto quando si è in competizione con due pezzi da novanta come la premiata ditta Jagger/Richards.
Lasciate per un attimo da parte le ultime poco edificanti notizie di gossip casalingo, Ron Wood si ributta nella mischia del rock'n'roll, tirando fuori un disco che manca alla discografia degli stessi Stones da parecchi anni. Per farlo si fa aiutare da un nutrito numero di prestigiosi ospiti:Slash, Flea(Red Hot Chili Peppers), Billy Gibbons(ZZ Top), Eddie Vedder(Pearl Jam), il vecchio amico "era Faces" Ian McLagan, Kris Kristofferson e tanti altri. Quello che esce è un onesto, puro e divertito disco di rock ruspante e stoniano fino al midollo.Dal rock di Lucky man , Thing about you e I don't think so, passando per il reggae di Sweetness my weakness, il soul di I gotta see e Catch you.
Wood si improvvisa a fare Dylan nell'apertura del disco con la bella ballad Why you wanna go and do a thing like that for e si diverte nei blues di Spoonful(Willie Dixon) e Fancy pants con tanto di armonica. E' solo rock, fatto e suonato da chi non sa fare altro nella vita( non è nemmeno vero, visto che Wood è anche un rispettabilissimo pittore) ci piace e ci fa ben sperare per il futuro delle "pietre", il chè non è poco per un gruppo che da più di vent'anni è additato come una band di dinosauri.

KILLING JOKE Absolute Dissent (Spinefarm records, 2010)
Testualmente sembrano due le correnti che animano le canzoni di questo nuovo lavoro dei veterani Killing Joke. Due correnti che vanno ad unirsi verso una unica parola "rabbia". Rabbia verso il destino che solo tre anni fa ha portato via l'amico e bassista Paul Raven e rabbia verso il maldestro destino verso cui sta sprofondando il nostro caro pianeta.
Da sempre proiettati in avanti, il sound non ha perso quella componente apocalittica che li ha resi protagonisti della scena più sperimentale del rock da trent'anni a questa parte.
Alti e bassi hanno accompagnato la carriera di Coleman e soci, con una netta rivincita di popolarità nel nuovo millennio, grazie a due dischi intransigenti come il metallico omonimo del 2003 e il claustrofobico, cacofonico e labirintico Hosannas from the basements of Hell del 2006.
Ora nel 2010, per festeggiare i trent'anni dall'uscita del loro inarrivabile esordio, si ripresentano con la stessa formazione di allora(Jaz Coleman,Kevin"Geordie"Walker, Martin"Youth"Glover e Paul Ferguson) e con una varietà nei suoni che va a ripescare le varie fasi della loro carriera. Capita così di imbattersi in canzoni come la quasi danzereccia European Super State( pesante critica agli stati uniti d'Europa), che non può che riportare alla mente il periodo elettronico di metà anni ottanta e un disco come Night Time o l'elettronica più atmosferica e darkeggiante di The Raven King, sentita dedica all'amico Raven scomparso nel 2007, omaggiato anche in Honor the fire.
La presa di posizione ambientalista è ben scandita nel brano di apertura Absolute Dissent mentre il lato rock compare con la pesantezza chitarristica di The great Cull, This world Hell o di Fresh Fever From the Skyes, dove la batteria tribale scandisce il pezzo.
E se Here comes the Singularity si candida ad essere la nuova Eighties, in Depthcharge, l'atmosfera si fa ipnotica e la velocità aumenta, fino ad arrivare alla lunga e conclusiva Ghosts Of Ladbroke Grove, suggestionante nel suo lento incedere guidato dal basso.
Senza mezzi termini la miglior prova degli ultimi anni, ispirata e purtroppo, spiace dirlo, ma dalle grandi perdite nascono sempre le cose migliori.

Deceduto STEVE LEE...frontman dei GOTTHARD



Stava coronando il sogno di una vita,percorrere le grandi highways americane con la propria Harley Davidson. Il destino ha voluto che il sogno si trasformasse anche nell'ultimo viaggio di Steve Lee, frontman degli svizzeri Ghottard, sicuramente la band rock svizzera più famosa in patria e anche oltreconfine degli ultimi quindici anni, andando a conquistare anche fans in Giappone e SudAmerica.
Le fredde cronache raccontano di un incidente fortuito, avvenuto martedì 5 Ottobre nei pressi di Mesquite(Las Vegas),quando Lee in compagnia di altri motociclisti si era fermato a bordo strada per indossare degli indumenti antipioggia.Destino ha voluto che in quel momento un pesante automezzo sbandasse, finendo fuori strada, travolgendo le moto parcheggiate e il povero cantante.L'impatto è stato fatale. Purtroppo il tragico destino, senbrò dare un avvertimento questa estate, quando il frontman in compagnia della famiglia, fu coinvolto in un incidente stradale in Toscana, fortunatamente con poche conseguenze, allora.
Steve Lee, 47 anni era sicuramente una delle migliori voci di hard rock melodico d'Europa e i Gotthard, nati nel 1992 e autori di almeno una decina di album, sicuramente una delle band di punta dell'hard melodico europeo, con milioni di dischi venduti e tour in compagnia delle più grandi rockstar mondiali. L'ultimo "Need to believe", uscito solo un anno fa, conteneva una canzone Unconditional Faith, scelta come colonna sonora per il film sul pugile tedesco Max Schmeling, atteso nelle sale proprio in questi giorni.

mercoledì 29 settembre 2010

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Le Noise)

NEIL YOUNG  Le Noise (Reprise records, 2010)


Le Noise va ascoltato di notte, quando il buio si impossessa della vista e rimaniamo solitari con i nostri dubbi e pensieri. Le luci delle case si spengono una ad una, lasciando alla luna il compito di indicare la via ai solitari vagabondi in strada. Quando le azioni della giornata sono già archiviate nel cassetto del passato e si fanno i conti con le future. Soli, come questo disco che emana un fascino particolare è stato registrato. Questa volta Young ha fatto centro, dopo la delusione di album come l'ultimo Fork in the road uscito solo un anno fa, sì istintivi, come nel suo classico modo di operare ma in qualche modo poveri se confrontati con il passato del canadese. Ci voleva la mano di un produttore di grido come Daniel Lanois per dare, ancora una volta, una sterzata alla carriera di Young. Questo sarà un disco che verrà ricordato alla pari dei suoi migliori lavori. Young e Lanois sono riusciti nel costruire qualcosa che il grande canadese non aveva mai fatto uscire durante i suoi quarant'anni di carriera. Una simbiosi che ha funzionato.
Di esperimenti Young ne ha sempre fatti, mettendo in discussione ogni volta la sua carriera ma seguendo sempre il proprio istinto, dischi registrati e mai pubblicati negli anni settanta, i criticati e bizzarri dischi dei primi anni ottanta come Re-ac-tor e Trans a dischi di pura sperimentazione e noise come Arc o la colonna sonora di Dead man.
Neil Young da solo e la sua chitarra, acustica ed elettrica. Tutti qua gli ingredienti su cui Lanois ha lavorato.
Registrato nella casa del produttore, questo è un disco chitarristico al cento per cento, tutto ciò che si sente è stato prodotto dalla chitarra di Young: riverberi, note basse, rumori ed effetti che costruiscono canzoni su cui si stagliano i testi di Young. Canzoni per buona parte nate acustiche e trasformate in elettriche, un esperimento che ha dato buoni frutti. L'amore e la consapevolezza di non poter invecchiare senza la persona amata, dopo una vita in cui molti amici non ci sono più in Walk with me. E' un disco in cui Young mette a nudo la sua vita, l'amore verso la compagna Pegi, da trent'anni al suo fianco, il rifuggire alla vecchiaia (argomento che si porta dietro fin dalla gioventù) e lo spettro della morte che come avvenuto in passato, gli ha tolto molti amici, non ultimo il fedele compagno di band Ben Keith, la rabbia verso il mondo in It's an angry world dove la chitarra è tagliente e si staglia chiara e forte in mezzo al nulla, così come in Sign of Love e Someone's going to rescue you.
Notte e brividi, ascoltando Peaceful Valley Boulevard, quasi una preghiera affinchè qualcuno si accorga di cosa sta succedendo in terra o l'acustica Love and war, dove Young si accorge di aver passato una vita a cantare di amore e guerra quando le persone continuano in modo perpetuo a pregare volontariamente o meno per amore e guerra.
Poi Young tira fuori dai cassetti una piccola autobiografia in musica che si ferma nel 1975, anno in cui fu composta The Hitchhicker. Chitarra elettrica , voce effettata ed echi, piccolo capolavoro tra confessioni di paranoia e droga. Il tutto si conclude con Rumblin', toccanti parole metaforiche tra terremoti terrestri e amore.
Le otto canzoni di Le noise saranno accompagnate da altrettanti video , in bianco e nero e suggestivi , girati dal regista Adam Vollick e che sembrano rappresentare alla meglio le canzoni in immagini. Ancora una volta Young sembra indicare una strada, ottenendo il massimo con uno stile minimale e una concezione artistica ed ispirazione che lo porta ogni volta a mettere in musica le sue idee, andando spesso incontro a critiche che questa volta ne sono sicuro non arriveranno. Prendere o lasciare.








sabato 25 settembre 2010

RECENSIONE: NO GURU (Milano Original Soundtrack)


NO GURU Milano Original Soundtrack (Bagana Records, distrib. Fnac,2010)

Ci eravamo lasciati undici anni fa alle Bahamas, con l'oceano che a volte dorme e con la paura della nuova società del duemila e ci ritroviamo qui in mezzo ad una tangenziale congestionata dal traffico a festeggiare questa prima decade del nuovo secolo in mezzo a luci, ombre e rumori molesti, irreali silenzi mattutini e illusorie e tentatrici luci al neon accese al primo buio serale. E' valsa la pena aspettare perchè questo disco si riprende in mano, in un solo colpo, la migliore scena rock musicale che negli anni novanta ha infestato lo stivale. Come diversamente aspettarsi da quattro membri dei Ritmo Tribale (Scaglia, voce e chitarra, Briegel al basso, Marcheschi alla batteria e Talia alle tastiere) più Xabier Iriondo, chitarra dei primi e inarrivabili Afterhours e con la presenza del sax impazzito e disturbante di Bruno Romani ex componente dei friulani Detonazione . Un ponte ideale tra la vecchia guardia, con un occhio puntato alla New York di fine anni settanta e alla new wave dei primi ottanta e i nuovi italiani che avanzano, mi vengono in mente Zu e Il Teatro degli Orrori.
Ci vuole coraggio a reinventarsi e rimettersi in gioco con nuove idee, nuovi suoni e nuovo nome, NO GURU, quando il tuo passato è marchiato sotto un monicker indelebile come Ritmo Tribale. Ci avevano già provato con il loro ultimo disco Bahamas del 1999, a cambiare coordinate, ma se allora i suoni erano liquidi e fluidi con forte venature di elettronica e accenti progressive, questa volta ci si trova schiavi e inglobati dentro ad un vortice sonoro fatto di chitarre taglienti con i "germi" del professor Xabier Iriondo sparsi lungo tutte le tracce, semi industriali, sax noise che vagano creando quel caos allucinante da coda delle ore sei in tangenziale ovest a Milano.
Milano Original Soundtrack nasce in una città che fa da base per ogni singolo brano, la bellezza del viverci che può diventare stress, paranoia, soffocamento, con la musica come grande e unica via di fuga.Alienazione che nasce nel guardare al passato, agli sbagli fatti senza sapere il domani che ci attende in Ieri è un altro giorno , traccia post punk messa in apertura tanto per inquadrare il discorso.
Vivere oggi, vuol dire anche provare a fare i conti con un sentimento come l'amore, Amore mutuo, bilanciare la frenesia del vivere quotidiano con un sentimento che per quanto nominato e tirato in causa continuamente, rimane ancora troppo sconosciuto, rischiando molto spesso di perdere occasioni (...Quanto devo e quanto do...Amore mutuo...La tua punizione ..C'è un buco nel mio polmone ...ma non si placa...) e finendo ancora più spesso per pagare scotto.
Ossessione, tensione e urgenza è palpabile in Non si passa (Malattia mentale la sento che cresce e non lo faccio vedere temo la comunità della vita matrimoniale) e nei ganci indirizzati alla new wave più oscura degli anni ottanta. La quasi industriale Cammino con le mani, sicuramente un successo nei prossimi live e canzone simbolo del progetto No Guru, la splendida cover di Complications dei Killing Joke, per l'occasione riscritta da Scaglia che diventa Complicato e la citazione dei Joy Division in Mare Divano, sax, chitarre e ricordi da uccidere, non sono certamente casuali. Angosce, cercate e subite. Il primo singolo Fuoco ai pescecani, accompagnato da un originale video è un buon lasciapassare che ti penetra piano piano la mente e il cuore.
Lo sballo "bianco" preferito della metropoli Milano nel quasi funk di Neve(...una spirale bianca è entrata dentro la mia testa e mescola tutto in un'unica enorme minestra...), il divertissement strumentale di Perle ai porci che ci proietta in atmosfere care a certi b-movies italiani anni settanta che tanto piacerebbero ai Calibro 35.
E se Il deserto degli dei (...ho una bomba nel cuore e i piedi sul ghiaccio...), mi riporta in mente gli ultimi Ritmo Tribale senza Edda, la finale Bassa fedeltà è un bell'esperimento che può candidarsi ad essere una canzone beat degli anni duemila.
Un disco che non ama catalogazioni, che fugge in tutte le direzioni ma che arriva là dove si è prefissato di arrivare, non facile, non commerciale ma che alla fine arriva anche con la difficoltà dei suoi cambi di tempo dispari, le sue divagazioni quasi jazzistiche, le sue citazioni, i suoi rimandi e i suoi testi per nulla scontati e banali.
Dopo Edda l'anno scorso e i No guru di quest'anno, la famiglia tribale si è riunita e ha dimostrato la forza che la vecchia guardia può ancora sprigionare. Il leone, a fine disco, può continuare a ruggire, fiero.






vedi anche RECENSIONE: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)




vedi anche RECENSIONE: EDDA-Odio i vivi (2012)



domenica 19 settembre 2010

EELS: recensione concerto Alcatraz, Milano 15 Settembre 2010



C'era attesa per questo tour che doveva presentare sul palco la trilogia di dischi usciti nel corso dell'ultimo anno che hanno dimostrato l'assoluta prolificità e libertà di movimento della one man/band, incurante di critiche e leggi del mercato.
L'uomo lupo è tornato, con i suoi quattro lupacchiotti al seguito. Dopo aver raccontato al mondo le sue eterne disgrazie attraverso dischi, libri e film ed essere stato tacciato di perenne depressione tramutata in tristezza cosmica, con l'ultimo disco voleva dimostrare al mondo che anche l' hombre lobo, Mark Oliver Everett , alias Mr.E sa godere delle bellezze della vita. Allontanare i tempi dove paranoie, violenze e inni ai farmaci come cure disintossicanti dai problemi della psiche e sostituirli con odi di vita raccontando di canarini e ragazze spettacolari. Per chi lo aspettava al varco ecco la dimostrazione sopra ad un palco.
Palco, che in un Alcatraz ancora semivuoto, ospita l'improbabile esibizione di un ventriloquo e il concerto della giovane, bionda, bella e anche brava Alice Gold, inglese a cui spetta il diffile compito di traghettare un pubblico sempre più numeroso verso l'agognata meta. Alice sta attraversando l'Europa con il suo camper per promuovere il disco in uscita e lo fa presentandosi sola sul palco in compagnia della sua chitarra elettrica. Finita la sua esibizione c'è ancora il tempo per sorbirsi quasi mezz'ora di canti tricolori, alla faccia della lega, che escono dalle casse. Da O sole mio ad una bamba italianizzata in Lasagna dal folle Weird Al Yankovic. Forse uno scherzo di mister E?
Eccolo, sale sul palco, da solo, vestito di tuta da lavoro rigorosamente bianca, bandana calata su occhiali scuri, barba da fare invidia agli ZZ top ed una pletora di chitarre che cambierà in modo quasi maniacale durante ogni pezzo.
Sembra il solito Mr.E per le prime tre canzoni solitarie e intimiste come Grace Kelly blues e Little bird, poi con l'entrata del gruppo, quattro elementi agghindati come gangsters americani degli anni venti e anche loro con barbe annesse, il concerto decolla e sarà una tirata unica fino alla fine.
Chi pensava di trovarsi gli Eels, musicalmente scarni ed elettronici dell'ultimo album si trova di fronte un gruppo affiatato che spara rock-blues con punte di veemenza che sfiorano il garage punk come nella riproposizione della stoniana She said yeah o nei pesantissimi blues presi in gran parte da Hombre Lobo, come Prizefighter, Tremendous Dynamite o Fresh blood dove gli ululati riecheggiano tra la folla o ancora Dog faced boy e Souljacker. Dopo aver stemperato la tensione iniziale, sfogandosi con una pedata alle transenne ed un'incazzatura per via di una scaletta che evidentemente non corrispondeva con le altre, Mr.E prende in mano la situazione e da vero sciamano, conduce il concerto con salti e balli che non fanno che testimoniarne il suo momento positivo che evidentemente riesce a comunicare solamente sparando in faccia al pubblico tre chitarre elettriche e una sezione ritmica martellante, a dir poco eccezionale il bassista.
Ma i momenti intimi non mancano grazie a In my younger days, In my dreams, That look you give that guy,, con tanto di steel guitar, spezzati da momenti di puro funk e latin rock con una Mr.E's beautiful blues mascherata da La Bamba o la cover irriconoscibile di Summer in the city dei The Lovin' Spoonful. Prima dei tre bis c'è il tempo di un quantomeno inaspettato lancio di ghiaccioli verso il pubblico e chiudere con Oh so lovely dall'ultimo album "Tomorrow morning".
Un concerto che dimostra ancora una volta l'assoluta imprevedibilità di Mr.E e che certamente non ha lasciato andare a casa nessuno scontento, anche chi si aspettava pessimismo e malinconia, si è rassegnato al trionfo della positività.

SETLIST
grace kelly blues
little bird
end times
prizefighter
she said yeah (rolling stones cover)
gone man
summer in the city (Lovin' spoonful cover)
tremendous dynamite
in my dreams
in my younger days
paradise blues
jungle telegraph
my beloved monster
spectacular girl
fresh blood
dog faced boy
that look you give that guy
souljacker part I
talkin 'bout knuckles
mr. E's beautiful blues
i like birds
summertime (george gershwin cover)
looking up

i'm gonna stop pretending that i didn't break your heart
oh so lovely







domenica 12 settembre 2010

RECENSIONE: TOM JONES (Praise & Blame)


TOM JONES Praise & blame (Island, 2010)


A volte fidarsi del proprio istinto musicale può metterti di fronte a piacevoli sorprese che la ragione non mette nemmeno in discussione. Chi l'avrebbe mai detto che un disco di Tom Jones potesse essere una rivelazione. Le prime indiscrezioni su questo disco erano le colorite frasi dei dirigenti della Island records, etichetta di Jones, che pensarono subito ad uno scherzo dopo che il gallese dalla voce d'oro presentò loro le nuove canzoni. Gli echi di quella Sex Bomb che tanto lo rilanciarono nel mercato discografico aleggiavano ancora nell'aria intorno ai dirigenti Island come al sottoscritto, per finire immediatamente schiacciati e azzerati appena parte la prima traccia di questo disco.
Che con quella voce Jones potesse permettersi di cantare ciò che vuole è fuori di dubbio, che la sua frequentazione di Elvis dai metà anni sessanta con le paillettes e le luci di Las Vegas incluse e il primo tentativo fallito di avvicinarsi al country negli anni ottanta, non sono credenziali valide a giustificare un disco perfetto come questo.
Jones si cala tra la polvere delle highways e l'odore del legno tarlato di vecchie chiese abbandonate, proprio come quella di copertina, fa un giro a New Orleans e ne esce vincitore con un album "americano" che tanto sarebbe piaciuto a Johnny Cash.
Jones è un animale camaleontico, ancora piacente a settantanni ma che finalmente ha deciso di mostrare i piccoli e veri segni del tempo che hanno attecchito anche sul suo corpo lasciando però intatta quel dono di Dio che è la sua voce.
Proprio a Dio, alla ricerca di redenzione, sembra improntarsi tutto il lavoro e la scelta delle canzoni. Sacro gospel, blues, rock'n'roll, Rockabilly e country sono gli ingredienti di questo disco.
Prodotto da Ethan Johns, uno dei produttori più richiesti degli ultimi anni, già al lavoro con Ryan Adams, Ray Lamontagne, Kings of leon e Paolo Nutini tra i tanti e suonato da grandi musicisti tra cui spicca lo stesso produttore alle chitarre e Booker T. Jones al piano.
Il disco si apre con una canzone di Dylan ripescata da quel grande disco che fu Oh Mercy(1989),What good am i?, forse messa lì in apertura a dare un significato profondo a questo lavoro, ponendosi e facendo sua la domanda che si pose Dylan(Come posso dirmi buono se dico cose sciocche?/E rido in faccia a ciò che il dolore crea?). Che Jones abbia voglia di voltare pagina veramente? O si tratta solamente di un piacevole e divertente presa in giro?
Le canzoni che seguono sono una buona risposta , a chi ascolta cercare la bontà della proposta. Io ne sono stato conquistato.
Le canzoni più rock che vanno dall'invocazione al Signore del gospel-blues di Lord Help scritta da Jesse May Hemphill, con chitarre in crescendo e bene in evidenza che diventano sferraglianti in Burning Hell, un blues di John Lee Hooker che Jones canta come se avesse sempre avuto il diavolo dalla sua parte e che non ti saresti mai aspettato. E che dire se Strange things è trasformata in un Rockabilly con tanto di cori femminili così come Don't knock e Didn't it rain che avrebbero reso felice il vecchio amico Elvis. A controbilanciare il testoterone rock'n'roll di queste tracce, Jones piazza alcune chicche di dark country ballads come la preghiera If i give my soul di quell'autentico outsider cristiano che è Billy Joe Shaver, Did trouble me o Nobody's fault but mine dove la voce di jones si esalta in una interpretazione da applauso. A chiudere il disco, forse un ringranziamento e omaggio a chi da questi tipi di dischi ha saputo riinventarsi la carriera cantando forse con più cognizione di causa, questo bisogna ammetterlo, la sofferenza e la fede nel signore. Ain't no grave e Run on (la God's gonna cut you down del man in black, qui diventa un blues) hanno più di un collegamento all'ultimo Johhny Cash delle American recordings. Dischi che sembrano aver indicato la strada da seguire per artisti in rilancio di carriera vedi le ultime prove di Neil Diamond, Kris Kristofferson, Robert Plant e da oggi mister Jones. Alla prossima mossa per capire dove colllocare questo disco che comunque merita più di un ascolto.




mercoledì 8 settembre 2010

RECENSIONE:EDDA : IN ORBITA (Niegazowana, 2010)



Edda come vorrei...Edda come vorrei...cantavano gli Afterhours in Come vorrei da "Hai paura del buio?"(1997)
Un anno esatto. A settembre di un anno fa uscì Semper Biot(http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28979/Edda_Semper_Biot.htm), quello che senza mezzi termini è stato l'album italiano che più mi ha accompagnato durante il mio continuo ascolto di musica giornaliero. Dall'autoradio, dalle cuffiette dell'i pod o dall'impianto stereo casalingo, la voce di Edda è uscita e invaso l'aria, trasmettendo positività e voglia di vivere a scadenze regolari. Se lo spiazzamento iniziale fu tanto e paradossalmente equivalente alla voglia di riascoltare il cantante della band italiana che più di altre mi ha accompagnato durante gli anni che mi hanno condotto verso la maggiore età, la consapevolezza di avere davanti agli occhi un oggetto di rara bellezza non è tardata ad arrivare.


I primi video casalinghi apparsi su Youtube, le indiscrezioni rubate a chi lo conosce di persona che mi parlava di un Edda "patentato" alla guida di un furgone per le vie di Milano (grazie Zymbah), hanno spazzato in un solo colpo tutte quelle "voci" che aleggiavano intorno all'uomo Stefano Rampoldi. Dalla sua fuoriuscita dal gruppo si è detto di tutto e il contrario di tutto mettendo intorno alla figura di quel cantante così carismatico nella sua sgraziata postura sul palco, un velo di leggenda appartenente solamente ai grandi illustri cantanti dimorati nel paradiso degli artisti. Apparizioni, sparizioni, avvistamenti, smentite, viaggi e terre promesse e la verità mai così vicina a noi comuni mortali sempre attratti dalle pruriginose fantasticherie piuttosto che affrontare la cruda realtà.

L'omaggio che questo piccolo disco formato da cinque canzoni vuole essere verso il suo interprete è quello di spronare l'artista Edda a continuare su questa strada, lui sempre così dubbioso sulla riuscita di questa rinascita artistica e sul suo futuro musicale. L'omaggio nasce da un breve set acustico in compagnia degli amici Andrea Rabuffetti e Sebastiano De Gennaro , tenuto nel mese di Marzo per RadioCapodistria, all'interno della trasmissione In Orbita condotta da Elisa e Ricky Russo.

Un anno trascorso tra le coccole dei vecchi fans, che non hanno mai smesso di pensare al giorno del suo ritorno, tra comparsate nella tv nazional popolare, con telespettatori che facevano la sua conoscenza per la prima volta e ignari di quello che Edda rappresentò per il rock italiano con i Ritmo Tribale nei primi anni novanta. Vecchi amici come Manuel Agnelli che non hanno esitato nel ridare all'uomo Stefano Rampoldi la ribalta che merita, invitandolo ad aprire alcuni concerti dei suoi Afterhours e poi ancora concerti su concerti, grandi festival e piccoli luoghi. Ribalta che Edda, da anni impegnato come operaio in una ditta che piazza ponteggi, non si sarebbe più sognato di avere. Mantenendo sempre il basso profilo e la modestia che lo contraddistingue e che esce anche da queste cinque performances tra cui la riproposizione di Suprema di Moltheni, artista apprezzato da Edda e tra i pochi cantautori di questa generazione che lo abbiano colpito, lui ancorato alla musica dei suoi primi trent'anni, come spesso ama ripetere. Le altre quattro canzoni( Io e te, L'innamorato, Fango di Dio e Snigdelina) sono prese dal suo debutto solista e scritte a quattro mani con Walter Somà. Il disco pur nella sua brevità, riesce a cogliere quello che Edda riesce a trasmettere durante i suoi set acustici, fatti di improvvisazioni, di taglia ed incolla con altre canzoni di altri artisti, di cambi di frasi e parole, di scatti repentini e fulminei, di pause che la sua voce, senz'altro unica e originale in Italia, riesce ad accompagnare e seguire.


Statene certi, se il giorno in cui è stato registrato il mini concerto, Edda durante l'esecuzione di Fango di Dio ci ha visto bene inserire delle strofe di Mogol/Battisti e durante L'innamorato ha omaggiato Ferretti e i suoi CSI, in un altro concerto vi saprà stupire con altre citazioni lasciando andare la sua fantasia musicale, seguendo il solo canovaccio che i grandi artisti sanno seguire, quello dell'improvvisazione.
Ora non resta altro che dare a Stefano il segnale che siamo ancora in tanti a ricordarci di lui, cercando questo piccolo disco, che però come le più belle cose andrà conquistato andando ai suoi concerti o cercandolo sul sito della sua etichetta.






martedì 7 settembre 2010

DISCHI IN ASCOLTO E NUOVE USCITE...in rigoroso ordine casuale...

EELS Tomorrow morning (Eworks Records, 2010)
Con Tomorrow Morning, Mister E conclude la trilogia partita con il garage-rock-blues di Hombre Lobo e continuata con l' ancora fresco e acustico End Times. Far uscire tre dischi nel giro di poco più di un anno è impresa di altri tempi, ma soprattutto mette davanti un artista ad eventuali critiche sulla bontà data dalla velocità delle opere pubblicate. A Mark Everett , tutto questo non interessa e conclude questo prolifico periodo di ispirazione, dettato dalle sue sventure di vita, dando alle stampe un disco che finalmente sembra dare un pò di luce positiva alle sue composizioni. Baby loves me e Spectacular girl sono lì a dimostrarlo. Cauta elettronica ed orchestrazioni si sovrappongono al classico pop rock , anche se in alcune occasioni sembra cavalcare l'autoplagio, rimane ancora quanto di meglio si possa ascoltare nel suo genere, soprattutto da un artista che non ha paura di mettere la sua vita in musica.

BLACK MOUNTAIN Wilderness Heart (Jagjaguwar, 2010)
Terzo album dei canadesi, dopo il buon successo del precedente In the future. Pur rimanendo fedeli al loro trademark atto nel pescare le sonorità del passato, che sia l'hard rock sabbathiano o purpleiano, la psichedelia o il folk ed unirli insieme in canzoni ipnotiche e dal sapore vintage, sfruttando le due voci maschile-femminile. In questo nuovo lavoro si nota una certa snellezza nelle composizioni, il singolo Old fangs ne è una prova, riff hard e tastiere devote al miglior Jon Lord. Le canzoni che prime erano un meltin' pot delle varie influenze ora seguono tutte una linea diretta e omogenea, quelle più propriamente legate al rock( con influenze che vanno dal hard rock '70 allo stoner) sembrano poste a inizio album, quelle più legate a certo prog-folk ( la finale Sadie) nella seconda metà del lavoro.
Certo i puristi del vecchio rock, non vi troveranno nulla di nuovo, ma quello che c'è è fatto molto molto bene.


IRON MAIDEN The final frontier (EMI, 2010)

Per quanto la loro carriera sia ormai più che trentennale, ai Maiden, bisogna dare atto di aver a loro modo continuato a sperimentare qualcosa di nuovo in ogni disco. Ricevendo spesso critiche che con gli anni hanno dato ragione a loro, vi ricorda nulla Seventh son of a seventh son? Se i capolavori sono già stati scritti e digeriti e l'ispirazione non li porterà più a scrivere gli inni metallici degli anni ottanta, dopo il ritorno di Dickinson alla voce e il buon Brave new World, un pesante calo di ispirazione sembrava abbattersi nei due dischi successivi. Ora a grande sorpresa ritornano con un album ambizioso, sicuramente la cosa migliore fatta uscire dai tempi di X Factor dell'era Blaze Bayley. La durata media dei brani continua ad essere lunga ma le canzoni sembrano reggere alla grande. L'apertura quasi tribale di Satellite 15...The final frontier, le atmosfere folkeggianti presenti in alcuni brani, la melodia di Coming home e la riproposizione di alcune cavalcate che li hanno resi quel che sono oggi( The Alchemist) fanno di questo album, un viaggio completo nel loro universo sonoro che si conclude con una When the wild wind blows da antologia. Un disco, sicuramente, non immediato ma da scoprire con calma ad ogni ascolto.

CYPRESS HILL Rise up (EMI, 2010)

Dopo la sbandata latina del precedente e lontano Till death do us part, i Cypress Hill cercano di rimettersi in careggiata. Sempre difficile per un gruppo che ha fatto la storia di un un certo Hip Hop con album epocali quali furono Temples of Boom e Black Sunday , rimanere a galla dopo tanti anni. I Cypress Hill possono sempre contare sul mestiere e l'aiuto di amici provenienti dal mondo rock per far sì che i loro dischi superino la sufficienza. Così se alcune canzone scivolano via abbastanza stancamente, risultando "vecchie", altre grazie all'innesto della chitarra pazza di Tom Morello(presente in Rise up e Shut 'em down) o all'aiuto di Daron Malakian dei System of a Down in Trouble Seeker sembrano riportare ai tempi del buon crossover di album come Skull & Bones e Stoned Raiders. Certamente non tra le loro migliori uscite ma sicuramente superiore alla media dei dischi del genere.

THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND The Wages (Side One Dummy, 2010)

Reverend Peyton è uno dei più bizzarri e genuini personaggi che popolano la roots music americana. Armato di chitarra ed accompagnato solamente dalle dita della moglie Breezy impegnata alla Washboard e Aron Persinger alla batteria, il corpulento e barbuto reverendo ci stramazza con il suo country-blues da festa campestre. Immaginate di essere nella più classica delle case nella prateria tra fieno, galline starnazzanti e maiali intimoriti dalla sarabanda sonora messa in scena da questo trio di pazzi. Slide, armoniche, cori avvinazzati e tanto blues scorrono in Clap your hands,Everything's raising e nelle restanti canzoni di questo gruppo dell'Indiana. Un disco che potrebbe mettere ancora il buon umore nell'autunno alle porte.

BLACK COUNTRY COMMUNION Black Country (Mascot, 2010)
Se il 2009 è stato l'anno del supergruppo Chickenfoot, il 2010 sarà sicuramente l'anno dei Black Country Communion, nome sotto cui si celano "the voice of rock" Glenn Hughes alla voce e basso, il blues guitar-hero Joe Bonamassa, il figliol prodigo Jason Bohman alla batteria e Derek Sherinian, già tastierista dei Dream Theater. Dopo le convincenti ultime prove soliste, Hughes aveva voglia di tornare a suonare in un vero e proprio gruppo e se si esclude la parentesi nei Black Sabbath in coppia con Iommi negli anni ottanta, era dai tempi dei Deep Purple mark III che il bassista e cantante non si cimentava al servizio di altre persone. Non è difficile, visto i personaggi coinvolti, capire dove va a parare il gruppo, Hard blues settantiano, tanto melodico quanto carico e vibrante con un Bonamassa che spesso prende in mano le redini del gioco , permettendosi di duettare con mister Hughes. Disco che potrebbe rivaleggiare benissimo con l'altro supergruppo citato. Li aspettiamo alla prova del nove in sede live ma viste le premesse ci sarà di che divertirsi.

EDDA In Orbita (Niegazowana, 2010)
Ad un anno esatto dalla pubblicazione di quella splendida perla a titolo Semper biot, che sanciva il ritorno al disco di Edda, ex cantante dei Ritmo Tribale, l'undici settembre uscirà In orbita, ep contenente cinque pezzi registrati live durante la trasmissione In Orbita, trasmessa da Radio Capodistria e condotta da Elisa e Ricky Russo. Edda, in questo anno trascorso, ha visto il suo nome ritornare alla ribalta come ai bei tempi, forse anche di più, apparendo in televisione sulle reti pubbliche, chiamato ad aprire i concerti dei sempre amici Afterhours e ottenendo un successo che forse nemmeno lui, da anni impegnato a lavorare in una ditta che piazza ponteggi, si sarebbe mai immaginato. Mantenendo sempre il basso profilo e la modestia che lo contraddistingue e che esce anche da queste cinque performances tra cui la riproposizione di Suprema di Moltheni, artista apprezzato da Edda. Le altre quattro canzoni( Io e te, L'innamorato, Fango di Dio e Snigdelina) sono prese dal suo debutto solista e scritte a quattro mani con Walter Somà. Il disco pur nella sua brevità, riesce a cogliere quello che Edda riesce a trasmettere durante i suoi set acustici, fatti di improvvisazioni, di taglia ed incolla con altre canzoni di altri artisti, di scatti repentini e fulminei, di pause che la sua voce, senz'altro unica e originale in Italia, riesce ad accompagnare e seguire. Il disco si potrà trovare solamente ai suoi concerti o presso il sito dell'etichetta Niegazowama.

DEATH ANGEL Relentless Retribution (Nuclear Blast, 2010)
A volte anche quelle che sembrano delle grandi famiglie indivisibili, si rompono, vedi Sepultura. I Death Angel, fenomenale band ispano-filippina della seconda ondata thrash americana di metà anni ottanta, ritornano più feroci che mai dopo la perdita di bassista e batterista storici, facendo uscire quello che si può considerare senza ombra di dubbio il miglior disco dopo la reunion. Assalti alla vecchia maniera come Truce, Where day lay, River of rapture non si sentivano da tempo come originale è l'ospitata dei menestrelli Rodrigo & Gabriela, un duo di chitarristi acustici che non rinnega mai il loro passato metallico. Un disco urgente e spontaneo che grida vendetta per una delle band più originali uscite dalla Bay area californiana.