domenica 24 ottobre 2010

RECENSIONE: ROBERT PLANT - BAND OF JOY

ROBERT PLANT Band of joy (Decca,2010)


Il flirt di Robert Plant con il country/folk è cosa antica, mai nascosta nemmeno ai tempi dei Led Zeppelin e ancor prima di formare la grande rock band. Plant ripesca infatti il nome della suo primo gruppo, i Band of joy, (dove militava anche l'amico John Bonhan), lo piazza come titolo dell'opera e si butta a capofitto nell'interpretare dodici classici del genere, continuando in parte il lavoro fortunato iniziato in coppia con Alison Krauss. Coaudiuvato dall'esperto Buddy Miller, presente come produttore e musicista e con la supervisione dell'ormai onnipresente T-bone Burnett, compie un caldo e rassicurante viaggio intorno alla roots americana, costruendo uno dei suoi più riusciti dischi solisti e sappiamo che durante la sua carriera post-Zeppelin non ha mai amato adagiarsi sugli allori del passato o vivere di rendita.
Fermo nella sua coerenza atta alla ricerca di nuove sonorità in giro per il mondo, superati i sessant'anni , sembra aver trovato la sua nuova terra creativa in America tra pedal e lap steel, banjo e mandolini, in barba a chi sognava l'ennesima far(l)sa reunion del dirigibile. Mentre l'amico ed ex compagno John Paul Jones tortura i padiglioni auricolari con il post-stoner rock dei Them Crooked Vultures, Plant sceglie di accarezzare gli animi con la sua voce con gli anni diventata ancor più calda e ammaliatrice.
Un viaggio lungo l'America musicale tra folk, country,blues, rock'n 'roll e soul che parte da alcuni traditional come Satan your kingdom must come down, desertica e cupa tanto da risvegliare malvagi fantasmi sopiti nel tempo o Cindy, i'll marry you someday. House of cards è di Richard Thompson ed era contenuta in First light del 1978, mentre apre il disco con Angel dance degli ormai amici Los Lobos, con cui ha diviso il palco in tempi recenti.
Aiutato dalla voce femminile di Patty Griffin, presente in più brani, quasi a fare le veci della Krauss.
Monkey è una canzone dei Low, band contemporanea amata da Plant e ancora tutta da scoprire di cui ripropone anche Silver Rider, tanto per ribadire il profondo rispetto che nutre verso la musica dilatata di questa band indie di Duluth mentre con un salto a ritroso omaggia il grande Townes Van Zandt riproponendo e interpretando con grande maestria la sua Harm's swift way.
Central two-O-nine è l'unica canzone originale del disco composta con Miller ed è una western song da viaggio nel deserto mentre con You can't buy love va a ripescare un vecchio brano dei Kelly brothers e lo fa suo con una interpretazione che tanto si avvicina alle rock'n'roll ballads anni cinquanta e che avrebbe fatto invidia al miglior Elvis confidenziale.
Unica concessione alla modernità è la finale Even this shall pass away che con i suoi loop e rumori stona con il resto dell'album.

Un disco di covers che certamente non porterà nulla di nuovo nella carriera di chi la storia della musica l'ha già ampiamente scritta ma che cementa ancor di più il futuro musicale di un artista che tutto sommato non si è mai svenduto e mai come in questi ultimi anni( ascoltate anche il suo Mighty Rearranger del 2005, secondo me, stupendo) si sta prodigando ad esplorare nuove strade, aspettando il secondo capitolo in coppia con la Krauss di imminente uscita. Certo l'idea di andare a scavare nel passato, sembra la moda del momento messa in pratica da molti musicisti, seguendo le orme delle American Recordindg di Cash, ma alla voce di Plant si può perdonare tutto.


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