Visualizzazione post con etichetta REPORTAGE/LIVE. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta REPORTAGE/LIVE. Mostra tutti i post

martedì 9 luglio 2019

AMERICA live@Teatro Romano, Verona, 7 Luglio 2019



AMERICA live@Teatro Romano, Verona, 7 Luglio 2019


La musica unisce. L'ho sempre saputo, l'ho sempre sperato anche se spesso ci si traveste da giudici per far uscire le nostre sentenze a volte frettolose, spesso frutto di luoghi comuni e presunte invidie, su gruppi che non ci aggradano troppo. Ne sanno qualcosa gli America, tanto baciati dal successo per un certo periodo quanto spesso bollati negli anni come "easy listening" come se scrivere belle canzoni in grado di arrivare facilmente al grande pubblico fosse un reato da scontare in qualche modo. "Copia carbone in versione pop di CSN&Y" la critica più abusata.
La musica unisce. Ieri sera, complice il gradevole colpo d'occhio del Teatro Romano di Verona pieno in ogni sua parte, all'ora del tramonto ma appena reduce da un violento temporale pomeridiano con grandine annessa, c'è stato un momento in cui ho capito che la musica va oltre, chiude i cerchi, si rinnova in continuazione. Esattamente quando a metà concerto circa, Dewey Bunnell e Gerry Beckley hanno introdotto la cover di 'Eleanor Rigby' dei Beatles, parlando di George Martin, il grande produttore dei quattro inglesi che per una buona fetta degli anni settanta si è occupato anche dei suoni degli America, trovando nell'allora trio un valido sostituto alla sua opera maggiore venuta a mancare proprio quando tre ragazzini americani, figli di militari di stanza in Inghilterra, si conobbero e formarono una band che fosse in grado di racchiudere le loro radici. Sono passati cinquant'anni, alcuni protagonisti non ci sono più (il terzo America Dan Peek morto nel 2011 ma che lasciò la band nel 1977, lo stesso Martin) ma il grande numero di belle canzoni scritte dal gruppo è impressionante se messe in fila, una dietro l'altra come stasera, accompagnate da qualche video nostalgico che mischia la storia della band con quella della società in continua mutazione, ad aumentarne la forza evocativa. La California si respirava nell'aria.


Un canzoniere inattaccabile il loro. Almeno lo è stato fino al 1980.
Un suono pulito e basico (acustica e visione da dieci e lode in qualunque angolo del teatro), fatto di armonie vocali, belle chitarre acustiche, batteria (bravo il giovane batterista Ryland Steen che si è pure cimentato dietro il microfono), basso (il veterano Rich Campbell) e chitarre elettriche spesso in mano all'altro giovane Steve Fekete.
Dall'apertura 'Tin Man' ai grandi successi dei settanta: l'ariosa gita on the road di 'Ventura Highway', il country folk di 'Don' t Cross The River', la malinconica 'Lonely People' cantata dal batterista con Beckley al piano e all'armonica, 'Daisy Jane', 'Riverside', la ballata pianistica 'I Need You', i ritmi jamaicani di 'Woman Tonight', il grande successo 'Sister Golden Hair', fino al colpo di coda dei primi anni ottanta rappresentati dal rock fm di 'Survival' e 'You Can Do Magic', in una sorta di bolla temporale dove West Coast music, country rock, pop (quando Gerry Beckley si siede al pianoforte a insegue il suo mito Paul McCartney) e qualche bella tirata rock come 'Hollywood', 'Greenhouse' cantata da Bunnell, e la sempre desertica ed evocativa 'Sandman' con tre chitarre elettriche sul palco a rincorrersi.
Il tempo di 'California Dreamin', la seconda cover in scaletta, ricordando quando in un vecchio concerto con The Mamas and the Papas e Beach Boys "tutte e tre le band avevano questa canzone nella loro scaletta" fino l'atteso finale: naturalmente il bis è tutto per 'Horse With No Name'.
Buon cinquantesimo anniversario.




martedì 23 aprile 2019

THE LONG RYDERS live@Auditorium Toscanini, Chiari (BS), 19 Aprile 2019



THE LONG RYDERSlive@Chiari, 19 Aprile 2019

Certamente non il concerto della vita, ma nemmeno lo aspettavo dai Long Ryders, nonostante l’ultimo ottimo disco Psychedelic Country Soul li abbia riportati sulle prime pagine delle cronache musicali dopo trent’anni di assenza “primo nelle chart Alt Country in Gran Bretagna” appunta Sid Griffin.
Ma il 2019 sarà ricordato per il ritorno prepotente della scena Paisley Underground e la loro reunion è una delle più vere e convincenti: Sid Griffin gigioneggia e attira gli sguardi (si diverte come un matto con google translator del suo smarthphone) ma è il tenebroso Stephen McCarthy la vera arma segreta del gruppo, chitarra, voce e basso, quando si alterna con Tom Stevens, conquistano.
Di una cosa però sono certo: certi gruppi per rendere al meglio hanno bisogno di una vera e sana interazione con il pubblico e i Long Ryders, dalla repubblica della California (come dice la bandiera dietro al batterista Greg Sowders) sono uno di questi. Sembra un po’ l'antico giochino: ti do se mi dai. Un pubblico abbastanza imbalsamato stasera, complice anche la location, l'Auditorium Toscanini di Chiari che con i suoi posti a sedere fa da barriera (questo non pregiudica l'ammirevole passione dell'associazione ADMR di Chiari che da anni continua a organizzare eventi di tale portata): perché se a qualcuno le sedie possono andare bene, per qualcun altro sono una camicia di forza imposta quando di mezzo c’è il rock’n’roll.


Un concerto a carburazione lenta (partito con ‘Gunslinger Man’ estrapolato da TWO-FISTED TALES come anche 'A Stitch In Time', ultimo disco del 1987 prima dello scioglimento) che fatica a decollare veramente, solo da metà scaletta fino alla fine il loro country cosmico, nipote di Byrds, Gram Parsons e Buffalo Springfield viene fuori con maggior prepotenza grazie a canzoni 'Final Wind Son' (da NATIVE SONS, 1984), la tripletta 'You Just Can't Ride The Boxcar Anymore', 'Southside Of The Story' e 'Lights Of Downtown' da STATE OF YOUR UNION del 1985, e 'Greenville', apertura del loro fresco ritorno discografico.

Quando poi nel finale sulle note di ‘Looking For Lewis And Clark’ e della bella cover ‘Walls’ di Tom Petty una piccola fetta di pubblico si è alzata presentandosi davanti al palco, il concerto si è improvvisamente infiammato. Insomma, non ci voleva tanto, forse era veramente solo questione di pochi metri, braccia alzate e calore. Tutto troppo tardi. 
Una giusta e meritata menzione anche per i bresciani THE BLUES DISSIDENTS che hanno scaldato e condotto i presenti verso il concerto dei Long Ryders con un caldo e avvolgente blues guidati dalla voce di Paola Purpura.


Sid Griffin
Stephen McCarthy

Greg Sowders

Tom Stevens

THE BLUES DISSIDENTS

giovedì 11 aprile 2019

STEVE HILL live@Hydro, BIELLA, 10 Aprile 2019


Il consiglio è quello di non perdervelo. Il suo primo tour italiano è fitto di appuntamenti e siamo solo all’inizio, quindi niente scuse. Ieri sera sul palco Hydro di Biella, anticipazione del festival estivo Reload, il canadese Steve Hill ha sfidato pioggia e Champions League (infatti il pubblico non è quello delle grandi occasioni purtroppo) e ne è uscito vincitore perché se sei solo sulle assi del palcoscenico tutte le sere non puoi bleffare: devi dare il meglio di te stesso. Sempre. E lui è come se desse il meglio per tre persone contemporaneamente: una chitarra elettrica selvaggia con cui riesce a fare pure le note del basso con il pollice, due piedi che battono su grancassa e rullante e i cimbali battuti con vigore dalla piccola bacchetta con maracas incorporata, prolungamento del manico della chitarra stessa. Un incessante headbanging laterale. Insomma, un set completo di batteria con il quale non tiene semplicemente il tempo…
Quello che ne esce è il suono dei migliori power trio hard blues: ci sono Jimi Hendrix Experience (non è un caso che il suo set si concluda con una ‘Voodoo Chile’ sfumata in ‘Whole Lotta Love’), ci sono le barbe dei ZZ Top, i Cream, Rory Gallagher, Stevie Ray Vaughan and the Double Trouble, i Blue Cheer, I Pride And Glory di Zakk Wylde. Senza dimenticare le grandi chitarre del blues nero. 

 

 
Riff selvaggi e melodici, assoli, rallentamenti e accelerazioni, voce potente ma pure suadente quando il ritmo cala (‘Emily’), simpatia da buon intrattenitore. La prima impressione è quella di essere di fronte a un saltimbanco, ma con il trascorrere dei minuti ti accorgi che è tutta sostanza, tecnica e sudore, sia quando sciorina i suoi brani di una carriera lunga vent’anni premiata da tanti riconoscimenti in patria e aperture per i più grandi, sia quando omaggia la tradizione (‘Rollin’ And Tumblin’/’Stop Breaking Down’). Nessun inganno.
Il blues di Steve Hill è viscerale, rock’n’roll che affonda nello stoner quando si appesantisce,
e ti tiene incollato per un’ora e venti minuti fino a quando l’unica domanda che ti poni basito a fine set quando ti spelli le mani per applaudirlo è: “come diavolo fa a fare tutto, bene, con estrema naturalezza?” ‘Rhythm All Over’ canta lui.




 

mercoledì 27 febbraio 2019

OMAR PEDRINI Live@Latteria Molloy, Brescia, 23 Febbraio 2019



OMAR PEDRINI Live@Latteria Molloy, Brescia, 23 febbraio 2019



 
Qualche mese fa mi è capitato sotto gli occhi uno speciale di Rolling Stone Italia con i 100 dischi italiani più belli di sempre. Ora: come tutte le classifiche, anche questa non è da prendere troppo in considerazione ma visto che è stata stilata da un buon campione di 100 giurati, più o meno attendibili, mi ha sorpreso l’assenza di Viaggio Senza Vento. Ho sfogliato tre volte la rivista credendo di averlo perso leggendo alcuni titoli del tutto inferiori come valore e importanza. Invece no, è tutto vero: Viaggio Senza Vento dei TIMORIA non c'è. Chi l’ha vissuto in diretta negli anni novanta come me, ne conosce il valore e l’esuberante coraggio che ha permesso di mettere in piedi un concept album che ricordava da vicino gli anni settanta. Non starò qui a scriverne le lodi, però ho due ricordi nitidi di quegli anni (1993/94).
Foto: Stefania Gastaldello

Il primo: quasi tutte le giovani cover band del tempo avevano in scaletta qualche canzone di questo album (‘Senza Vento’, ‘Sangue Impazzito’ e ‘ Piove’ le più gettonate) e gli sfortunati cantanti dovevano cimentarsi con l’inarrivabile voce di Francesco Renga dell’epoca, perdendo quasi sempre in partenza. Il secondo ricordo: le t-shirt dei Timoria indossate dai componenti dei Sepultura durante il concerto a Sonoria 1994. Una figata pazzesca!

l viaggio verso oriente di Joe è anche il tragitto a ritroso di chi 25 anni fa dentro a VIAGGIO SENZA VENTO ha lasciato un pezzo dei propri vent’anni (nel mio caso).
9.125 giorni trascorsi in fuga (calcolatrice alla mano), utili per memorizzare le 21 canzoni di quel concept album a suo modo storico che ha segnato gli anni novanta e aperto strade a tante band italiane (si poteva fare rock cantando in italiano e arrivare a tutti), ma soprattutto utili per cercare la nostra via, la nostra libertà, camminando, a volte correndo, incontro alla nostra personale città del sole. La nostra vita. Tempo necessario per imprimerle nel cervello e farle uscire tutte insieme dalla prima all’ultima, da ‘Senza Vento’ a ‘Il Guerriero’, cantandole a voce alta, sempre più forte anche per sovrastare i cori degli ultras presenti assiepati al bancone del bar, giustamente felici per i risultati stagionali della squadra di casa, ma sempre troppo forti quando Omar calava il tiro del concerto per cercare l’introspezione e il battito del suo cuore guarito.
Un concerto fresco, spumeggiante, jammato, funky a tratto psichedelico . Rock. Ma per chi ha continuato a seguire Pedrini solista, questa non è una novità.
Foto: Stefania Gastaldello
Abbandonata per strada la speranza di poter vedere i TIMORIA uniti ancora una volta (rimane ancora la fatidica e utopica data del 2020), resta la consapevolezza che oggi Pedrini sia più in forma e in palla che mai (per molti meglio oggi che allora): forte di un jolly di prima grandezza in formazione come Carlo Poddighe alle chitarre, tastiere e voce quando c’è bisogno di arrivare lassù in alto, e di una band rinnovata nel batterista e alla terza chitarra (tre chitarre sul palco, se non è rock questo!) e dall’aiuto del cantante Mattia Apollo della tribute band Precious Time.
Se ‘Sangue Impazzito’ è un must da sempre, anche quando non c’è bisogno di festeggiare anniversari importanti, ci sono almeno tre momenti che mi porterò dietro come ricordi: una intensa e corale  ‘Fredoom’, il saluto allo sfortunato Illorca autore di ‘La Cura Giusta’, e quella ‘Angel’, arrivata nei bis a viaggio già finito. Un inedito scritto per Kurt Cobain ma che stasera era tutto per l'amico Paul Mellory, un altro rocker andato via troppo in fretta (a inizio anno) ma che sicuramente ha già raggiunto la sua città del sole, prima di tutti noi. Se capita dalle vostre parti non fatevelo sfuggire.

Foto: Stefania Gastaldello



 

domenica 3 febbraio 2019

STEVE FORBERT live@Chiari (BS), 2 Febbraio 2019







STEVE FORBERT live@Chiari (BS), 2 Febbraio 2019

 “Nel disco suono la mia musica”. Fu più o meno la frase che un ventiquattrenne  ma già deciso Steve Forbert disse ai signori incravattati della Epic quando nel 1978 si guadagnò un contratto discografico per il suo debutto Alive On Arrival. Era un ragazzo carico di speranze proveniente dal lontano Mississippi che a New York cercò e trovò la sua strada tra le strade del Greenwich village e le stanze del CBGB. Ieri sera mi è capitato spesso di guardare la sua faccia, e dietro agli inevitabili segni del tempo vederci ancora quella ritratta nelle copertine dei suoi primi tre dischi: la stessa espressione e due occhi che sembrano non mentire sulla determinazione ma anche sulla romantica bontà delle sue canzoni.
Fuori dal salone Marchetti di Chiari, messo a disposizione dall'associazione ADMR, diluvia, dentro Forbert snocciola la sua carriera con il mestiere del folksinger navigato dove le due anime contrastanti vengono bene in evidenza: il suo modo di suonare la chitarra acustica, così sgraziato e impetuoso tanto da mandare all'aria le corde a ogni fine canzone ( accorda la chitarra prima di ogni canzone, inganna il tempo perso con qualche battuta), i potenti battiti dello stivale sulla stomp box, il soffio deciso sull’armonica, contrastano con i quadri poetici delle canzoni, caricate di ritornelli spesso facili (che cerca di far cantare anche a noi come su ‘All I Nedd To Do- JESSICA’) e ombre nostalgiche ('Tonight I Feel So Far Away From Home') e malinconiche che si allungano tra marciapiedi lontani e delicati petali di rose. Il mio debole per alcune ballate del suo debutto è stato appagato. Anche una bella ‘I’m An Automobile’ dal sempre dimenticato terzo disco Little Stevie Orbit . Partendo dall’iniziale ‘Thinkin’ fino a ‘Romeo’ s Tune’ (accompagnato dal bravo Paolo Ercoli alla dobro, ma anche mandolino, che ha arricchito di sfumature la seconda parte di concerto), le due canzoni capaci di fargli guadagnare un po’ di notorietà a inizio carriera, in mezzo ci mostra quanto il suo folk sia in verità anche figlio del blues della terra natia (bella ‘What Kinda Guy? ‘), ma soprattutto ci mostra la ritrovata serenità dopo l'ultima battaglia vinta contro la malattia ben testimoniata dall’ ultimo disco

The Magic Tree, infarcito di ottime canzoni raccolte nel tempo ('The Magic Tree', 'Let' s Get High') e dall’autobiografia che lo accompagna. E questa è la cosa più bella. Una nota di merito anche per i due fratelli bresciani Corvaglia che sotto il nome Crowsroads hanno aperto il concerto e di cui ho già avuto modo di parlare in altre occasioni. (Recensione: THE CROWSROADS-Reels 2016)
 Faranno sicuramente strada. Forse non hanno scelto la via più semplice da percorrere per dei ventenni catapultati alla ribalta musicale in questi anni duemila, ma sicuramente la più appagante e la bella storia artistica di Forbert, sicuramente non bagnata dal grande successo ma dall'onestà é certamente un buon esempio da seguire. Bella serata.







The CrowsRoads



RECENSIONE: STEVE FORBERT-The Magic Tree (2018)


venerdì 23 novembre 2018

JESSE MALIN live@Cohen, Verona, 22 Novembre 2018



JESSE MALIN live@Cohen, Verona, 22 Novembre 2018

 Hey tu che passeggi davanti alla vetrata del locale in questa serata di fine Novembre e sei incuriosito dalla musica che senti provenire dall’interno e dal quel manifesto che recita “a intimate evening with Jesse Malin”, ti ho visto: non esitare, anche se non sai chi sia, entra dentro non te ne pentirai. Perché non c’è bisogno di chiudersi per più di un anno tra le mura di un teatro a Broadway come l’amico Springsteen per creare empatia con il pubblico e raccontare un po’ della propria storia. Il Cohen di Verona, locale fantastico a misura d’uomo, non sarà come un importante teatro o semplicemente un coffee newyorchese ma potrebbe benissimo esserlo questa sera.
Jesse Malin, accompagnato dal bravissimo Derek Cruz alle tastiere e alla chitarra, ha scelto l'intimità acustica per questo giro di date, questa è la seconda dopo Trieste, affrontate con la consueta attitudine di sempre: folk singer e storyteller generoso con l’urgenza ereditata dal punk rock. Si dà completamente al pubblico e viene ricambiato. Intrattiene con un inglese parlato lento e comprensibile (mica è da tutti) raccontando storie personali legate alla famiglia (la cara mamma, lo zio), alla sua New York che musicalmente pare sempre ferma ai quei fine anni Settanta ma che poi deve scontrarsi con la triste attualità politica (“ciao sono Jesse Malin e vengo da Marte” ama ripetere per nascondere la sua nazionalità: la stessa di Trump!), citando e imitando personaggi del mondo della musica (da Lemmy a Dee Dee Ramone fino a Tom Waits) raccontando aneddoti legati ai suoi incontri musicali con Springsteen (la collaborazione per ‘Broken Radio’) e Shane McGowan e allora sotto con i Pogues.


Scende dal palco va al bancone del bar per un brindisi con tutti noi e sciorina la sua carriera musicale solista partita da quel A Fine Art Of Self Destruction (ecco 'Brooklyn' che apre il concerto), prodotto dall'amico Ryan Adams, passando da The Heat ('Hotel Columbia'), dal successo di Glitter in the Gutter ('Black Haired Girl') ai più recenti New York Before The War ('Bar Life') e Outsiders fino a regalare due nuove canzoni che saranno nel prossimo album in uscita nel 2019 e prodotto da Lucinda Williams. La cosa mi stuzzica. È palpabile, Jesse Malin cammina ancora tra le pieghe sempre più ostiche del rock in modo sano e libero. Senza condizionamenti. Con quella ingenua visione da fan che ancora lo attanaglia e che riesce a trasmettere così bene. Gli adesivi incollati sulla sua chitarra parlano chiaro: lui sta lì da qualche parte in mezzo a Johnny Cash, gli Stones e i Bad Brains. Hey amico, sei ancora lì con il naso spiaccicato sulla vetrata? Cosa aspetti ad entrare?


domenica 18 novembre 2018

THE MAGPIE SALUTE live@Live Club, Trezzo sull’Adda (MI) 16 Novembre 2018

THE MAGPIE SALUTE live@Live Club, Trezzo sull’Adda (MI) 16 Novembre 2018

Uno, due, tre, quattro… (cinque, sei) non è il tempo che detta il batterista Joe Magistro all’inizio di ogni canzone ma bensì il numero delle canzoni rovinate da un’acustica tendente al pessimo e impastata. Un inizio piuttosto confuso. Peccato perché proprio in apertura i Magpie Salute piazzano le loro canzoni (‘High Water’, ‘Walk On Water’) da vera band. Quelle che li fanno distinguere da una cover band di lusso come qualcuno potrebbe pensare leggendo le loro scalette. Sempre diverse tra l’altro.Le chitarre di Marc Ford e Rich Robinson non arrivano come meritano e sembrano bisticciare ancora piuttosto che aver raggiunto la pace , la voce di John Hogg sembra nascosta chissà dove, il basso di Sven Pipien che scava, le tastiere di Matt Slocum dove sono? Non potrà essere tutto il concerto così mi chiedo, sarebbe veramente una delusione. La magia accade a metà set, si accendono le luci a centro palco, rimangono in tre: Ford, Hogg e Robinson e le loro chitarre acustiche. Un intermezzo intimo che i tre portano pure in giro come spettacolo ridotto, un sipario che cattura: ‘Sister Moon’, ‘She’ di Gram Parsons e ‘Descending’, prima concessione al passato Black Crowes della serata. Tre piccole perle che permettono ai tecnici di sistemare quello che non va, al pubblico di rimanere estasiato, a due deficenti di fianco a me di parlare tutto il tempo dei cazzi loro (andate al bar, please! ). Da qui in avanti il concerto prende il decollo, Rich Robinson prende in mano la situazione, canta bene quando si impossessa del microfono e si capisce che il vero leader è lui,  Hogg cerca di non far rimpiangere fratello Chris (qualcun altro sempre vicino a me passa il tempo a gridare “torna in panchina”, ma perché non ci vai tu, magari al bar, insieme agli altri due?), e a fine serata, per me, porta a casa la sua buona pagnotta.
Caldi sapori southern, impasti vocali west coast, chitarre in primo piano finalmente, la seconda parte di concerto volge lo sguardo al passato e ci dona una ‘OH Sweet Nuthin’ dei Velvet Underground, una sempre trascinante ‘Soul Singing’ e una ‘My Morning Song’ che da sola vale il prezzo del biglietto e mette in chiaro il livello altissimo di questa lunga serata di due ore, confermato da un finale senza la farsa dell’uscita per i bis e da una ‘Send Me An Omen’ di produzione loro che si confonde benissimo con il passato e guarda al loro futuro. Vicinissimo, con l’uscita di High Water II già programmata per il prossimo anno. Nonostante tutto, l’incenso continua a bruciare.

SETLIST

High Water
Walk on Water
Take It All
For the Wind
Every Picture Tells a Story (Rod Stewart)
Fearless (Pink Floyd)
Smoke Signals (Marc Ford)
The Giving Key (Rich Robinson)
Sister Moon
She (Gram Parsons)
Descending (The Black Crowes)
Open Up
A Change of Mind (Marc Ford)
Oh! Sweet Nuthin' (The Velvet Underground)
Can You See
Good Friday (The Black Crowes)
Another Roadside Tragedy (The Black Crowes)
Soul Singing (The Black Crowes)
My Morning Song (The Black Crowes)
Send Me an Omen






mercoledì 14 novembre 2018

FANTASTIC NEGRITO/Superdownhome live@Santeria Social Club, Milano, 12 Novembre 2018

Un performer a 360 gradi in grado di catalizzare tutta l'attenzione su di sé pur avendo dietro un band di soli tre elementi che pare suonare come una big band d'altri tempi (manca pure il basso!) . Un talento innato il suo, o ce l'hai o sei destinato a rincorrere.
FANTASTIC NEGRITO scappa via con naturalezza e non lo prendi più. Stare al suo passo è difficile. Rafforzato da una vita che lo h...a messo a dura prova, a cinquant'anni si gode il meritato trionfo che va ben oltre il Grammy per il miglior album blues vinto con il suo primo disco, uscito senza etichetta discografica come ama ricordare lui. Accellera, rallenta e accellera ancora a ripetizione.
Una rinascita che si è trasformata piano piano in un'occasione di riscatto, costruita con impeccabile bravura e un pizzico di furbizia da navigato intrattenitore (cerca spesso la voce del suo pubblico) quando sale sopra un palco che pare la camera di casa sua da sempre da quanto scivola con naruralezza sul pavimento.
In mezzo alle note alte e a quelle basse di una voce che potrebbe cantare qualunque cosa e qualsiasi genere, e così fa, Fantastic Negrito allunga le canzoni a suo piacimento, detta i tempi alla band, dirige, trasformandole di volta in volta in un lungo medley dove confluiscono il blues, il funk, il rock’n’roll, i traditional ('In The Pines'). Ma sa andare anche diritto al punto quando vuole ('Plastic Hamburgers') Improvvisa senza piantare paletti, parte dalla black music e arriva dove vuole. Il tutto legato da una instancabile verve da trasformista che lo fa diventare predicatore, aizzatore di folle, comico, pensatore, attore impegnato e ballerino. Spettacolo completo a un prezzo modico. Ancora per poco?
Ma lo spettacolo lo hanno dato anche i nostrani SUPERDOWNHOME (RECENSIONE DISCO) nella troppo breve mezz’ora a disposizione come opener. Il duo bresciano pesta duro di rural blues. Chi li conosce sa cosa aspettarsi e non rimane deluso. Chi li vede per la prima volta rimane folgorato e incuriosito. In una parola: trionfo. Anche per loro. Bella serata in uno dei migliori locali milanesi di live music.


SUPERDOWNHOME

























IL DISCO
le seconde opportunità della vita
FANTASTIC NEGRITO  Please Don't Be Dead (2018)

Non credo mai a chi continua a farneticare che il rock (e derivati) è morto, che non escono più dischi degni e via così, evidentemente chi sostiene tutto ciò non ha ancora ascoltato PLEASE DON’T BE DEAD il nuovo album di Fantastic Negrito. Cinquantenne dalle mille vite complicate, riesce a farle entrare tutte in undici canzoni nelle quali non si butta via nulla, così come sono costruite su una valanga di belle e geniali intuizioni, perché se è impossibile creare ancora qualcosa di nuovo nella musica, vince chi sa ripetere e rinnovare la lezione. Fantastic Negrito in questo è un mago.
Ci sono il vecchio blues dei neri americani e il rock bianco, c’è la Black music in tutte le sue inclinazioni (funk, soul, R&B, disco). Ci sono la rabbia sociale e la denuncia, c’è tutta la sua vita passata fatta di stenti, sofferenza e rinascita, artistica e sociale. Nessun pelo sulla lingua, niente viene nascosto. Sebbene abbia in tasca un Grammy vinto con il suo precedente disco, il magnifico The Last Days In Oakland, preferisce mostrarsi sofferente in un letto d’ospedale, esperienza vissuta per tre lunghi mesi dopo l’incidente che lo portò al coma. Da lì in avanti non fu più la stessa cosa: Xavier Dphrepaulezz morì, nacque il personaggio di oggi. Insomma il messaggio è chiaro, se non muori puoi sempre prenderti una rivincita. Un po’ lo stesso discorso del rock.
Uno dei dischi dell’anno? Probabile.
 
 
 

lunedì 25 giugno 2018

QUEENS OF THE STONE AGE live@ I-Days, Milano, 24 Giugno 2018



Ho affrontato la vigilia del concerto con la tipica supponenza del vecchio nostalgico un po’ rincoglionito e spacca palle “sì però quando li vidi nel ‘98 a Biella eravamo quattro gatti e loro erano ancora grezzi e puri, fresca costola dei Kyuss...sì però nel 2002 all'Acatraz c’era ancora Nick Oliveri e pure Mark Lanegan come ospite, sì però l’ultimo album Villains non mi convince tanto…”. Ieri di tutto quel passato fissato nei miei ricordi è rimasto ben poco, i primi due dischi non sono pervenuti, come se la vera carriera fosse partita da Song For The Deaf, l’album più saccheggiato questo sera con quattro canzoni. Quindi avevo ragione? No. I Qotsa sono un altro gruppo, ma un altro grande gruppo, tra i migliori in circolazione in sede live: compatto, preciso e affiatato, una macchina potente e oliatissima che non ha perso un solo colpo durante un set breve formato festival (un’ora e venti, nessun bis) ma studiato e invalicabile come il più alto e resistente dei muri di pietra. Pure i suoni di Villains, che avevano un piede nel moderno, uno nel passato e le mani a pescare nel vecchio repertorio di Bowie, dal vivo diventano un blocco compatto e ben amalgamato con il resto della produzione. Un abbraccio totalitario  al pianeta musica, pratica che Josh Homme pratica ormai da molti anni. Josh Homme è un rocker da alto testosterone, più umano (e più vero) di quanto ricordassi, che attira gli sguardi su di sé anche quando tira fuori il pettine dal taschino dei jeans per sistemare la chioma rossa o quando attira sorrisi con un paio di ben assestate bestemmie in italiano che lo rendono più simpatico (ha pur sempre quel calcio al fotografo da farsi perdonare),  ma non mette assolutamente in ombra nessuno dei suoi compagni di band: il batterista John Theodore ha gli stessi livelli di Homme (di testosterone intendo), picchia e si prende la scena a metà di ‘No One Knows’ con un potente assolo, il chitarrista Troy Van Leeuwen lavora di slide e precisione con professionalità e eleganza, il bassista Michael Shuman scalcia e fa lo slalom tra i led luminosi verticali piantati nel palco, il tastierista Dean Fertita si porta a spasso le tastiere, aggiunge suoni nei pochi buchi vuoti e la chitarra all’occorrenza. Partenza al fulmicotone (‘Sick Sick Sick’ è potente e urgente), l' arrivo pure (‘Little Sister’ e ‘Song For The Dead’). Nessuna scena, poche pose da rockstar e solo granitico rock e un set luci, tanto semplice quanto efficace. Dopo ieri sera aggiungerò un altro piacevole e più fresco ricordo a quelli più antichi della mia memoria.





SETLIST
  1. Go With the Flow 
  2. Sick, Sick, Sick 
  3. Feet Don't Fail Me
  4. The Way You Used to Do
  5. My God Is the Sun
  6. The Evil Has Landed
  7. You Think I Ain't Worth a Dollar, but I Feel Like a Millionaire
  8. No One Knows
  9. Little Sister
  10. Burn the Witch
  11. If I Had a Tail
  12. Domesticated Animals
  13. Make It Wit Chu
  14. A Song for the Dead
 
 

lunedì 13 novembre 2017

L.A. GUNS live@Circolo Colony, Brescia, 11 Novembre 2017

L.A.GUNS live @Circolo Colony, Brescia, 11 Novemvbre 2017

Se togliessimo i cellulari in sala, l’impressione è quella d’ essere tornati nel 1988, anno d’uscita del loro primo e inarrivabile disco, o almeno nel 2000 anno in cui il cantante Phil Lewis e il chitarrista Tracii Guns collaborarono per l’ultima volta. Una reunion che ha finalmente messo un po’ d’ordine, e di pace, nella incasinata carriera dei L.A.Guns e un disco fresco di stampa THE MISSING PEACE appunto, onesto e per nulla nostalgico che ha consolidato il tutto. Già dalla intro scelta dalla band, l’epica ‘Diary Of A Madman’ di Ozzy Osbourne, si capisce che sarà una serata come ai vecchi tempi ma tutt'altro che nostalgica: la partenza con l’ultima ‘Devil Made Me Do It’ lo ribadisce. Volumi alti, altissimi davanti in transenna (ci si sposterà dietro per godersi meglio il tutto), e tanto rock’n’roll. Tutti in grande forma: Phil Lewis ha sessant’anni ma si mangia fisicamente l’odierno Axl Rose (cinque anni più giovane) in un solo boccone, Tracii Guns dispensa sorrisi e assoli in contemporanea e sembra ben ripreso dal non specificato malore che ha fatto cancellare la data romana di pochi giorni fa, il secondo chitarrista Michael Grant è la vera grande sorpresa della serata e lo spazio centrale del concerto è tutto suo con una interpretazione di ‘Purple Rain’ di Prince che rasenta la perfezione per pathos ed esecuzione, ottimo veramente, il bassista Johnny Martin, gambe eternamente divaricate sembra uno dei fratelli Ramone rimaterializzatosi improvvisamente sul palco, il batterista Shane Fitzgibbon picchia duro dall’inizio alla fine. E via di ‘Bitch Is Back’, ‘Reap And Tear’, ‘Malaria’, ‘No Mercy’, ‘Ballad Of Jayne’, ‘Over The Edge’…E un raggio di sole torna a splendere dopo le focose e viziose nottate sul Sunset Strip. Le insegne si spengono e si fa giorno. Ma poi, visto che siamo nel 2017 e ci sono i cellulari: tutti con le mani alzate che la band ci vuole fotografare dal palco. Serata hot.




SETLIST
The Devil Made Me Do It
Electric Gypsy
Over the Edge
Bitch Is Back
Sex Action
The Flood’s the Fault of the Rain
Speed
One More Reason
Kiss My Love Goodbye
Purple Rain
Malaria
Guitar Solo
Never Enough
Jelly Jam
The Ballad of Jayne
No Mercy
Rip and Tear


 

lunedì 6 novembre 2017

NICK CAVE and The BAD SEEDS live@Kioene Arena, Padova, 4 Novembre 2017



appunti
NICK CAVE si confonde tra il suo pubblico, si fa quasi inghiottire: questo il finale del concerto. La sublimazione di una serata condotta come una cerimonia: la camminata messianica nel parterre di pochi attimi prima era solo il preludio, anche se sul momento sembrava l’atto finale e poteva esserlo alla grande. Una scelta avventata, per certi versi pacchiana (forse la presenza in video del soprano in ‘Distant Sky’ lo era di più) che ha spezzato nettamente l’atmosfera del concerto, costruita con meticolosità fino a quel momento: suoni pazzeschi, Bad Seeds perfetti, e il bilanciamento chirurgico tra il rapimento delle ballate, comunque in maggioranza, da velluto rosso pop (‘Into My Arms’) e gli scatti feroci dei pezzi più tirati con un Warren Ellis scalciante e posseduto (‘The Mercy Seat') . Un finale che, bisogna dirlo francamente, poteva essere migliore. Un venite a me, che il giorno dopo però, assume il suo vero significato. Cave aveva due modi per sopravvivere: chiudersi mantenendo le distanze, come suggerito da SKELETON TREES o darsi totalmente più di quanto fatto fino a quel momento, sacrificando pure le due canzoni di congedo ('Stagger Lee, 'Push The Sky Away'), perse completamente in mezzo al caos della bolgia. Farci sentire il suo cuore che fa “boom boom boom” non gli bastava più. Dovevamo mangiarlo. Quel “mi sono letteralmente sentito salvato dal pubblico” ha trovato compimento fisico in quel finale totalizzante, caotico anche se surreale. Ma salvifico.

momenti da ricordare
Il trittico 'From Here To Eternity', 'Tupelo', 'Jubilee Street' rimane il momento più intenso da impacchettare e portarsi a casa come ricordo duraturo.
punto a favore
Nick Cave crede fortemente nei suoi ultimi lavori, soprattutto all'ultimo cupo SKELETON TREE, nato dopo la morte del figlio Arthur, su cui ruota l'intero concerto. Per un artista che potrebbe campare benissimo sul passato è certamente segno di grande vitalità.
momenti da dimenticare
Quella vitalità artistica che sembra avere un calo spaventoso nel finale, quando Cave diventa più cerimoniere per se stesso che cantante e tutto ciò che fino a pochi attimi prima era intenso e ipnotico, diventa caotico e irrazionale. La band scompare letteralmente dietro ai fan chiamati sul palco, la concentrazione svanisce e quelli che dovevano essere i brani finali, l'apoteosi, diventano un indistinguibile marasma. Forse l'esagerazione che ci pone un amletico interrogativo: si apre un nuovo capitolo per Nick Cave?







SETLIST
Anthrocene
Jesus Alone
Magneto
Higgs Boson Blues
From Her to Eternity
Tupelo
Jubilee Street
The Ship Song
Into My Arms
Girl in Amber
I Need You
Red Right Hand
The Mercy Seat
Distant Sky
Skeleton Tree
The Weeping Song
Stagger Lee
Push the Sky Away


giovedì 13 luglio 2017

RYAN ADAMS live@Anfiteatro Del Vittoriale, Gardone Riviera (BS), 12 Luglio 2017

Già da alcune foto e un filmato postati nel tardo pomeriggio nel profilo instagram dallo stesso RYAN ADAMS, si poteva capire che il Vittoriale di Gardone Riviera gli andasse a genio. Come dargli torto? Posto incantevole, acustica giusta e senza pecche, visuale perfetta. Aggiungo: tramonto e luna sul lago di Garda, lì appena dietro il palco. Era lecito, quindi, aspettarsi qualcosa in più rispetto a quanto offerto la sera prima a Roma. I racconti di chi c'era non sono stati entusiasmanti. Così è stato. Non tanto nella scaletta e nei suoni che testimoniano l’amore e la fedeltà nei suoi due ultimi lavori in studio RYAN ADAMS e PRISONER ('Outbound Train' e 'Trouble' tra le mie preferite): per me un aspetto positivo e vero giudice per tastare un artista con più di quindici album in carriera che non ha nessuna intenzione di vivere nel passato, quanto nel modo di affrontare il pubblico, con un piglio che mixa insieme arroganza, dietro cui si cela una latente fragilità emotiva e tanta timidezza, e spensierata giocosità da eterno fanciullo. Ryan Adams si veste come noi ai concerti e potrebbe essere quello al tuo fianco se ti volti: t-shirt dei suoi gruppi metal preferiti (anche se stasera indossa una delle sue magliette), jeans e scarpe da ginnastica. Ecco che quel inquietante gattone nero incappucciato che ogni tanto sbucava fuori dalle retrovie con un tamburello in mano, che unitamente agli ampli giganti richiamano il Rust Never Sleeps tour di Neil young, diventa il suo alter ego aizzatore di folla che gli permette di starsene quasi sempre in seconda fila a comandare la giovanissima band e essere giudice nel bene e nel male della serata. Dai divertenti siparietti con i musicisti al cazziatone iniziale, con quasi espulsione, rivolto a qualcuno in prima fila che smanettava troppo con il cellulare, fino a captare gli assist del pubblico trasformandoli in musica: un blues improvvisato (‘Walter Grey’) e poi rispolverare la chitarra acustica facendoci capire che la sua anima folk, tanto cara ai die hard fan della prima ora, è ancora viva e necessita solo di essere spronata quel giusto (‘English Girls Approximately’ è un piccolo gioiello). Ed è già tanto. La serata è vissuta di due momenti ben distinti, l'inizio sparato senza soste a presentare gli ultimi due album dal taglio rock chitarristico ma tanto inclini al pop, album saccheggiati per bene durante tutta la serata, una parte centrale dominata da una 'Cold Roses' jammata fino a raggiungere territori psichedelici, immediatamente seguita da una veloce scheggia punk tratta dal personale tributo alla scena hardcore americana degli anni 80 ('When The Summer Ends') e una seconda parte molto più sciolta, improvvisata e dilatata dove il genio musicale di Adams è venuto allo scoperto senza più timori, scavando anche nel passato.
Il bel finale sulla tirata di 'Shakedown In 9th Street' lo vedete nella foto qui sotto e non ha bisogno di troppi commenti.







SETLIST
Do You Still Love Me?/Gimme Something Good /Am I Safe/Stay With Me/Outbound Train/Prisoner/Let It Ride/Juli/Doomsday/When the Stars Go Blue/Anything I Say to You Now/Cold Roses/I See Monsters (plus Cold Roses reprise)/When the Summer Ends/This House Is Not for Sale/I Just Might /Two/English Girls Approximately/Walter Grey/Halloweenhead /Sweet Illusions /Everybody Knows /New York, New York /To Be Without You /Trouble /Shakedown on 9th Street