lunedì 25 febbraio 2013

RECENSIONE: DANIELE TENCA (Wake Up Nation)

DANIELE TENCA Wake Up Nation ( Route 61, 2013)

Quando ti ritrovi e immedesimi così bene con i testi di un autore che parla alla pancia di un paese sonnolento ancora ben contento di crogiolarsi  nascosto sotto ad un tappeto come vecchia e inutile polvere d'annata, a volte rimpiangi di non essere fan di certi autori pop che scrivono di solo amore e poi...ancora amore. Fanno meno male.
Questo disco fa del male all'Italia (ai suoi abitanti, alla società in generale): la punzecchia, la rovescia, la sprona, la denuncia, ma ha una soluzione per trasformare quella inutile e dannosa polvere in pattume. Uno scatto d'orgoglio da perseguire e diffondere, un romantico sogno da giocare come un jolly nel momento di difficoltà.
Eppure, di amore nel senso più infinito possibile del termine, nei testi di Daniele Tenca ce n'è davvero tanto: verso una nazione invitata a svegliarsi ( un bel punto esclamativo al titolo Wake Up Nation l'avrei aggiunto volentieri), verso la pigra coscienza di noi tutti e verso il suo rock/blues che si è fatto ancora più crudo, tagliente, moderno, penetrante ed incisivo, grazie ad una scrittura intelligente, profonda, mai banale (testi tutti in inglese con traduzione come nel precedente disco, perchè qui, i testi contano), ed una schiera di musicisti di prim'ordine della scena blues italiana, dai fidi compagni di band Leo Ghiringhelli (chitarre), Pablo Leoni (batteria), Luca Tommasi (Basso) e Heggy Vezzano (chitarre), passando alle chitarre ospiti di Paolo BonfantiGuglielmo Gnola e l'armonica di Andy J. Forest. Senza dimenticare la produzione e l'aiuto musicale di Antonio "Cooper" Cupertino e l'etichetta Route 61 Music di Ermanno Labianca.
Il pregio più grande di Tenca è quello di riuscire ad unire così bene l'America musicale del blues, del blue-collar e dei folksingers con il suo vissuto: l'impegno civile, il presente della sua vita quotidiana, l'attualità stantia della sua/nostra nazione. Amata nazione. Solo chi ama il luogo in cui vive può permettersi di denunciare la (quasi) scomparsa di quella classe operaia-con i suoi diritti calpestati-, motore del paese che fu, come fatto nel precedente disco Blues For The Working Class-opera da studiare come i migliori dischi di denuncia- e poi cercare di dare la scossa ad un paese da troppi anni fermo e impassibile, in balia di giocolieri e prestigiatori del potere  come canta nei sogni di rock'n'roll  di Big daddy, che potrebbe essere uscita dalla chitarra dell'amato Springsteen, a cavallo tra il 1980 e l'84.
Tenca non sogna l'America ad occhi aperti come molti, ma la metabolizza e la ospita a casa sua, integrandola benissimo con le pagine di cronaca cittadina della sua Milano." Dai, svegliati Nazione/Dai, svegliati Nazione/Dalla maledizione dei loro sporchi giochetti/Penso dovresti averne abbastanza/Di queste imitazioni di Dio a buon mercato"da Wake Up Nation. Come la battente apertura di Dead And Gone, monito contro l'emarginazione e tutti gli sporchi muri che dividono.
Persegue un sogno.Cercare un paese che smetta di trattarlo male e lo appunta nella continuazione di quell'elenco-che potrebbe essere senza fine- iniziato da Fabrizio De André e Massimo Bubola nel 1981 con Quello che non ho, quasi fosse una lista di una spesa da pagare sempre a caro prezzo, scritta a penna su carta stropicciata, dimenticata in qualche cappotto buono e sordo con What Ain't Got; un blues con l'armonica di Andy J Forest, presente anche trent'anni fa con De André, quasi l'armonicista statunitense fosse il collante necessario per chiudere il cerchio con il passato.
Le chitarre sono protagoniste indiscusse: compatte, poderose, assalgono e ringhiamo in Wake Up Nation, sferragliano nell'urbana elettricità di Default Boogie, stordiscono-complice Maurizio Glielmo Gnola- in Last Po'Man, prima cover delle tre presenti. Un brano del vecchio hobo/bluesman Seasick Steve. Un grande, riscoperto da se stesso e dai grandi a settant'anni. Non è mai troppo tardi, per tutti.
Un frugale e povero quadretto familiare tra padre e figlio può trasformarsi in un blues per la generazione più debole e indifesa, affamata di doverose risposte (What Do You Do). Cosa abbiamo lasciato alle generazioni future? Dobbiamo sentirci in colpa? Possiamo ancora sognare anche se pieni di ferite (The Wounds Stay With Me)? Nella delicata  Silver Dress ci si prova.   
Pesca una non banale, tonica e centrata It's All Good del recente Bob Dylan di Togheter Through Life (2009) e chiude i conti di un disco tutto in positivo, compatto e personale con Society di Jerry Hannan, in solitaria: voce, chitarra e pathos. La splendida canzone cantata da Eddie Vedder, che racchiude tutto il significato del film Into The Wild. Una scelta estrema, ma spesso doverosa."Società, sei una razza folle/spero che tu non ti senta sola senza di me/ società, pazza e profonda/spero che tu non ti senta sola senza di me".
Svegliati nazione!




vedi anche: RECENSIONE: DANIELE TENCA- Blues For The Working Class/Live For The Working Class (2010)




vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-You can't teach an old dog new tricks (2011)




vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN- Tempest (2012)




vedi anche RECENSIONE: MODENA CITY RAMBLERS- Niente di nuovo sul fronte occidentale (2013)



vedi anche RECENSIONE: HERNANDEZ & SAMPEDRO-Happy Island (2013)





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