giovedì 31 marzo 2011

RECENSIONE: STOOP (Freeze Frames)

STOOP Freeze Frames (Bugbite Records ,2011)

La sensazione di entrare in un lungo e buio tunnel di cemento, lasciarsi alle spalle la vita che hai condotto fino ad ora, affrontare un percorso tortuoso con la fioca luce dell'uscita solo impressa nella tua testa come desiderio più imminente e simbolo di nuove buone cose che possano far dimenticare il passato. Una luce non poi così lontana nella realtà, pochi minuti, quelli che compongono le prime due tracce di Freeze Frames, il secondo lavoro degli Stoop. Our Modern Assaults e Migrations , dopo una breve intro, ti avvolgono con le loro atmosfere elettriche, dove l'alternative indie rock europeo dei primi anni novanta incontra sprazzi di folk con i bagliori di una psichedelia che trova supporto nell'originale uso di uno strumento come la tromba che di tanto in tanto (Trainwrecks e Fever is a ghost) colora canzoni architettamente perfette.
Ora, arbusti verdi, fiori color pastello e luce si sostituiscono al freddo gelo del cemento, l'acido folk nell'inizio di Remote, la magia ipnotizzante della bella Machine e le suggestioni quasi pinkfloydiane della finale We carry the fire con la sua coda noise, fanno da punti guida di un disco che gioca sul forte connubio elettro-acustico a livello musicale e sul passato-contemporaneo nei testi, per nulla banali, dove il forte richiamo al tempo passato, alle occasioni perdute, alle esperienze negative (Freeze frame), da vivere senza rimorso (10000 Bugs) diventa fuga da un mondo sempre più apocalittico fatto di soldi e potere ( Our modern Assault) ma colmo di speranze (Migrations).
Un disco che fa della omogeneità dei suoi chiaro-scuri ipnotici, disseminati per tutta la durata, il proprio punto di forza
, dove anche gli accenni pop nell'uso particolare delle voci fanno la loro figura, incastrandosi perfettamente nelle trame delle canzoni. Manca, forse, quel tocco di cattiveria in più che potrebbe renderlo perfetto e con un'altra sfumatura da aggiungere alle tante già presenti, se proprio bisogna trovare un appunto.
Ora posso dirlo, sottovoce, gli Stoop sono italiani, sanno scrivere belle canzoni dal tratto internazionale e proprio all'estero hanno già ottenuto importanti riconoscimenti che sono valsi l'importante collaborazione con Davide Bortolini (Kings of convenience) che ha mixato il loro brano In the cave in Norvegia e la partecipazione del loro brano We carry the fire( con ospiti membri di Julie's haircut,Zeta bum, Slugs) nella colonna sonora di Cenere, film di Martino Pompili. Nascono a Reggio Emilia nel 2003 e hanno all'attivo già un album, Stoopid monkeys in the house(uscito per Prismopaco records) nel 2008. Canzoni da bruciare lentamente per assaporarne le sfumature che gli ascolti fanno emergere, lontano dal quel tunnel di cemento che ingabbia certa musica italiana.

Dal 6 Maggio disponibile su iTunes, in anteprima esclusiva per due settimane, la Special Edition dell’album contenente 4 inedite live bonus tracks.
Dal 20 Maggio disponibile in versione digitale in tutti i migliori Digital Store e in download gratuito per una settimana su Nokia Music Store il singolo "Fever Is A Ghost"

INTERVISTA su impattosonoro.it

Per saperne di più visitate l'indirizzo http://www.prismopaco.com/home.php?l=it

lunedì 28 marzo 2011

RECENSIONE: MODENA CITY RAMBLERS ( Sul tetto del mondo)

MODENA CITY RAMBLERS Sul tetto del mondo ( Mescal, 2011)

Il tour di "Riportando tutto a casa, quindici anni dopo" era un importante segnale che si è materializzato in questo nuovo "Sul tetto del mondo". Il riavvicinamento a quella semplicità di suonare folk, come agli esordi, riguardando all'Irlanda e al combat -folk come principali fonti di ispirazione. Dall'uscita di Cisco, in seno al gruppo di Modena, sono successe tante cose, arrivi e partenze che hanno trasformato e rivoluzionato la band, senza però far perdere l'idea di base della grande famiglia. Persa per strada la voce femminile di Betty Vezzani, il "tuttofare" Angelo Kaba Cavazzuti e riassorbita la ferita per la prematura scomparsa di Luca Giacometti, due sono le nuove entrate, già presenti nel precedente tour, Luciano Gaetani già membro fondatore della band nel lontano 1991 e rientrato in pianta stabile e Luca Serio Bertolini, cantautore di professione che si presta alla chitarra.
Lontani i tempi della lotta politica, sempre più stemperata e moderata con il tempo, i Modena city Ramblers del 2011, sono un gruppo alla ricerca della semplicità, nei suoni e nei testi, pur non mancando di punzecchiare nel sociale. Sul tetto del mondo si vanta d'essere l'ultimo disco registrato negli studi Esagono di Rubiera (Reggio Emilia), a cui dedicano Il posto dell'Airone e proprio da questo suono vintage, privo di orpelli o tentazioni di modernità che avevano caratterizzato, anche troppo, le ultime produzioni dell'era Cisco, si riparte.
Senza dubbio il migliore album con la voce di Andrea "Dudu" Morandi, dove traspare chiaramente la voglia di suonare quel folk che aveva fatto nascere la band, con i traditionals irlandesi,i Pogues e i Waterboys come faro guida. Il violino torna protagonista e la dolce melodia costruita in Seduto sul tetto del mondo, accompagna una delle migliori ballad mai composte dalla band. Non solo violino, ma anche fisarmonica e flauto, come nella migliore tradizione folk britannica tornano al centro della proposta musicale, subito dall'apertura con AltrItalia, I giorni della crisi e Interessi Zero che lasciano poco spazio a fantasia e sogno, ma raccontano uno spaccato di contemporaneità da cui però si vorrebbe uscire volentieri. Qualcuno potrebbe fare dell'ironia sui testi retorici, ma va da sè che il momento socio-politico che stiamo vivendo in Italia lascia pochi spazi a dubbi o confusioni. Prendere o lasciare. Chiamiamolo ancora combat folk e andiamo avanti. Appunti partigiani nel dialetto di S'ciop e Picòun mentre le uniche strade che portano fuori dal verde irlandese sono l'orientaleggiante Povero Diavolo, il folk in levare di Camminare e la caraibica e piratesca Que viva Tortuga con tanto di citazione di Capitan uncino di Bennato e la presenza di Tony Esposito che proprio con Bennato lasciò il suo segno negli anni settanta.
I Modena city Ramblers, continuano a fare i Modena City Ramblers, non cercate altro da loro, chi li ama continuerà a seguirli, chi li ha abbandonati dopo l'uscita di Cisco potrebbe dare loro un ascolto e chi li ha sempre odiati continuerà a farlo. Anche questa è coerenza nel bene e nel male.

sabato 26 marzo 2011

RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS (Scandalous)

BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS Scandalous (Lost Highway, 2011)

Groove, fortissimamente groove. Se c'è una cosa che non si riesce a fare appena attacca Livin' in the jungle , prima traccia di Scandalous, seconda prova discografica di Black Joe Lewis e i suoi The Honeybears, è tenere il volume basso. L'istinto è alzare, alzare e muoversi. Le undici tracce che compongono l'album sono un bignami del rock, dove soul, black music, funky incontrano blues e rock'n'roll a tratti suonato con l'urgenza del garage proto-punk di Detroit, di cui Black Joe Lewis si professa grande fan. Un bel calderone, fresco ed elettrizzante, dove il "nulla di nuovo" si veste a festa e calamita l'attenzione, come una vecchia signora che detta ancora le regole. Una super band quella messa insieme dal coloured texano Black Joe Lewis. Due sax e una tromba che sul classico impianto rock, fanno la differenza, ascoltare la già citata Livin' in the jungle, dove la sagoma di James Brown sembra materializzarsi imponente e jammare con Sly & The Family Stone. Un disco dall'impronta live, chitarristico, bello da vivere sopra ad un palco, costruito per essere portato in giro e dato in pasto insieme al sudore. America, corse in autostrada, strade, vicoli malfamati e insegne al neon che indicano il nuovo locale dove esibirsi, evadere e divertirsi.
Corpi sciolti e trascinati dal suono mai domo e vivo, nei pezzi più veloci che si tratti di soul come in Booty City, funk come in Black Snake o il talkin' blues/rock di Mustang Ranch sia quando il ritmo cala come nella più oscura I'm gonna leave you, nella sensuale e ritmata perversione di She's so scandalous come insegnava papà Otis Redding.
Con Messin' , un canonico blues acustico, si gioca a fare i pionieri del blues nero, i fantasmi di Robert Johnson e Howlin Wolf sorridono compiaciuti.
You been Lyin' è cattiva, chitarre rock, stop and go R'n'B e vena funky in stile Funkadelic con i cori degli ospiti The Relatives a stemperare o elevare il tutto.
Nulla si inventa, ma tutto si trasforma e delle trasformazioni di Black Joe Lewis sentiremo ancora parlare.

Garage rock meets soul e il party abbia inizio.

giovedì 17 marzo 2011

RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS (Yanez)

DAVIDE VAN DE FROOS Yanez ( Universal,2011)


Davide Van De Sfroos ne ha fatta di strada, giù dalla stradine del suo paese di Mezzegra che lambisce il lago di Como per arrivare al punto che ha toccato con la sua partecipazione all'ultima edizione del festival di San Remo. Tra le montagne e il lago per arrivare al mare. Chi gli dava del matto, chi del venduto e chi, invece, la maggior parte dei suoi fans (i cauboi), bisogna riconoscerlo, era convinto che questa sua esposizione non avrebbe intaccato le genuina vena poetica dei suoi testi in lagheè. La conferma arriva proprio dal nuovo album, Yanez.
Un album "del coraggio" come lo stesso Davide Bernasconi ha voluto sottolineare, consapevolezza di uomo di 46 anni che ha deciso, dopo anni, dischi e libri con protagonisti gli altri, di mettersi a nudo e di raccontare un pò di sè. Sì, perchè in mezzo alla storie raccontate in Yanez, c'è modo di trovare qualcosa di autobiografico. Il viaggio di Semm Partii(2001), il mistero dei luoghi del suo capolavoro Akuaduulza (2005) e i personaggi tra mito e realtà che animavano Pica!(2008), per rimanere agli ultimi anni, lasciano spazio, per una volta anche a delle confessioni, dediche e ritratti più personali. Un disco intimo e raccolto, forse il meno giocoso e gioioso della sua carriera, tanto per ribadire e sottolineare che non basta una settimana in Riviera ligure per distruggere una carriera. Anzì dirò di più, Yanez contiene alcuni dei testi più belli mai composti da Van De Sfroos.
Chi ha conosciuto Van De Sfroos grazie al brano Yanez, un mariachi allegro e spensierato costruito sul parallelismo tra i personaggi di Salgari (a cent'anni dalla sua morte e quasi 150 dalla nascita, tanto per rimanere in linea con gli anniversari di quest'anno) e quei vitelloni da riviera romagnola sospesi tra gli anni sessanta e il moderno , deve mettere in conto di trovarsi di fronte a uno dei dischi più profondamente cantautorali del musicista lombardo. La stessa Yanez in realtà, dietro all'allegria musicale, nasconde dediche al padre e a certi miti romantici con cui Van De Sfroos è cresciuto.
La capacità di musicare e dare parola a dei piccoli film, quasi dei cortometraggi, completi di tutti i particolari, rimane il grande pregio della scrittura di Van De Sfroos. Canzoni in grado di far vivere all'ascoltatore i sapori, gli odori, saper coinvolgere fino all' immedesimazione, usando la poesia di frasi che solo il dialetto riesce a far risaltare.
L'infanzia del cantautore con la sua passione musicale, allora nascente, esce da La macchina del ziu Toni, un blues evocativo ( con la chitarra di Francesco Piu) dove la memoria torna alla campagna e a quella macchina in disuso parcheggiata nel fienile dove l'adolescenza cavalcava a suon di ribellione fatta in musica ( citati Black Sabbath, Ramones, Rolling Stones, Bob Marley) e i sogni che presto hanno dovuto fare i conti con la dura realtà. I miti musicali di una volta ritornano e si fanno maturi nel folk sospeso tra Dylan e Guthrie di Il camionista Ghost Rider, geniale viaggio tra la via Emilia e il west dove Johnny Cash, Guthrie stesso, Robert Johnson e Jimi Hendrix diventano protagonisti di un fantomatico viaggio nella pianura padana, che sembra quasi di esserci sopra a quel tir insieme al camionista.
Tra le pieghe della ballata Dona Luseerta si nasconde la dedica al padre e la frase finale è sintomatica (E sarà menga questa polaroid cun soe una facia s'è sculurida a scancelà la mann che m'ha tegnuu in brasc) come non è difficile leggere un fiero bilancio di vita fatto in Long John Xanax (E vò innanz a ruzza la mia biglia perchè fin che gh'è tèra la voe rutulà).


Anche quando vuole raccontare spaccati di vita contadina, che sembrano arrivare da lontano, ma che nei paesi di tutta Italia continuano a vivere e sopravvivere come tradizioni da tramandare di generazione in generazione. E' il caso di Setembra , canzone dall'andatura sbilenca ed avvinazzata che rende perfettamente l'atmosfera da festa di paese, tra gioia e triste malinconia o El carnevaal de Schignan, che apre il disco e musicalmente fa il paio con la sanremese Yanez.
Il dialetto riesce a rendere meno scontata ed elevare Maria, canzone dal tema un pò abusato, sulla prostituzione imposta ad una extracomunitaria e riesce ad unire idealmente l'Italia in Dove non basta il mare. Ospiti Luigi Maieron, Patrizia Laquidara, Peppe Voltarelli e Roberta Carrieri intenti a cantare ,ognuno nel suo dialetto, una strofa della canzone.
Piedi ben piantati in terra e poca concessione a idee di successo, questo è quello che i suoi fans continuano ad aspettarsi e lui li ripaga con canzoni come El Pass del Gatt, alta vena poetica su tappeto di steel guitar e fisarmonica ( Davide Brambilla), (E ho fa'l bagn insema ai aspis, ho majà sceres o ho majà caden, gh'è anca una foto induè paar che ridi ma l'è una smorfia per la tropa luus) o la triste storia de Il Reduce, viola, violini (Angapiemage G. Persico) e tromba e la memoria torna alla guerra , ai racconti di chi porta i segni indelebili nella memoria e nel corpo (Eri mai cupaa gnaa un fasàn e ho trataa sempru bee anca i furmiigh serum in tanti cargà in sole quel trenu, cume foej destacàa e imraum la geografia...).
Un disco che nel finale nasconde le gemme più poetiche di Van De Sfroos, la pianistica e orchestrale tragedia di un amore impossibile, vissuto desfroos contro ogni maldicenza, La figlia del tenente, le chitarre di Maurizio "Gnola" Glielmo guidano il Blues di Santa Rosa, il mississippi si materializza a Como.
L'evocativa melanconia di Ciamel Amuur e Rosa del vento, chiudono un disco di conferme di un cantautore in grado di ingrandire anche le cose più piccole e semplici, grazie all'uso delle parole musicate come un folk singer americano con la fantasia tutta italiana. Un cantastorie , quasi d'altri tempi, che dopo il sold out al Forum di Assago e l'esposizione di Sanremo è tornato a guidare verso le sue due modeste strade: una porta verso il suo lago, l'altra è quella del suo percorso artistico e tutte e due sono chiare e definite con un'unica destinazione che lo porteranno in cerca di nuove storie da musicare.



Van De Sfroos, vedi anche :
http://www.impattosonoro.it/2010/05/26/reportage/davide-van-de-sfroos-koko-club-castelletto-cervobi-7-maggio-2010/

mercoledì 16 marzo 2011

RECENSIONE : PAOLO BENVEGNU'( Hermann)

PAOLO BENVEGNU' Hermann ( La Pioggia Dischi, 2011)

Ci vuole del tempo, quello che si trova dopo una giornata di lavoro, la sera quando tutti i pensieri e le domande del giorno vengono accantonate. Quel tempo spesso prezioso da dedicare a se stessi, ad un libro o al disco di Paolo Benvegnù. Liberate la mente perchè il terzo disco dell'ex cantante dei Scisma ha tanto da offrire per riempirvela nuovamente. Un disco che conferma Benvegnù come uno dei migliori cantautori attualmente in Italia e uno dei pochi a poter ereditare la forma e la sostanza della cara categoria italica.
Ambizioso è l'aggettivo che forse più si addice a raccontare le tredici canzoni che compongono una sorta di concept basato sull'umanità e la sua evoluzione che come un boomerang sta trasformandosi in involuzione, tratto liberamente da un racconto di un certo Fulgenzio Innocenzi, di cui nessuno ha mai sentito parlare, esisterà veramente?
Gli spunti, gli agganci e i riferimenti storici e letterari a cui Benvegnù si affida sono molteplici e ad un primo ascolto anche intricati da cogliere. Si parte da molto lontano per arrivare al quotidiano con tutto tutto quello che vi è in mezzo. Dalla mitologia, passando per Sartre, arrivando alla frenesia del lavoro di oggi.
Uomo fatto di carne, sentimenti, ambizione,coraggio e valore,valoroso e traditore, capace di pugnalare alle spalle per l'innalzamento del proprio ego per poi affidarsi alla fede arrivando infine a negarla. Nessuno esce da questa categoria. Chi più, chi meno ci portiamo addosso la reputazione e il Dna che ci siamo costruiti nei secoli. Ecco che il tempo diventa prezioso alleato per cercare sosta ed un riparo dalla marcia di progresso , cui siamo costretti a partecipare quasi come automi senza controllo e a domandarci in quanto uomini, cosa vogliamo?


Il tempo come alleato e nemico per capire la nostra collocazione sulla terra(Non sai distinguere il tempo perso da quello vissuto) nell'iniziale Il Pianeta perfetto o come pretesto per tornare all'inizio dei secoli per raccontare l'origine dell'uomo (Ma poi finirono le terre ed inventammo Dio , lo trafiggemmo all'alba, l'ultima volta che provò a sorridere, così inventammo la notte...) in Love is talking. I secoli che passano, i posti e la gente pure ma i problemi sempre presenti e l'uomo, al centro di tutto, come sempre si accorge che le distrazioni lo hanno allontanato dal proprio essere interiore.



Se la speranza era quella che il trascorrere dell'età riuscisse a trascinare con sè il benessere, bisogna invece fare i conti con l'esatto contrario. Il dito indice accusatorio sempre pronto ad inquadrare qualcuno da sacrificare e punire in Date fuoco (Il primo dice che è stato lui a ricoprire il mondo di automobili e il terzo dice che non si vedeva niente), prendendo spunto dall'"eretico" Giordano Bruno e trasportando il tutto al presente.
La bramosia di conquista ed invicibilità di Moses (...Infliggi le tue regole, distruggere per conquistare...), l'amore , anche non a lieto fine, come evasione e rifugio da tutti i mali , Johnnie and Jane, così come il viaggio, per approdare ed affrontare qualcosa di nuovo in Il Mare è bellissimo(...e un viaggio senza destinazione significa destinazione...) ed il tempo che torna inesorabile a scandire la vita (...e intanto si è fatto tardi e tardi è legge e attendere un'attesa sempre attesa...).





L'uomo inerme davanti alla sua vita, al trascorrere degli eventi che ha visto e vissuto, la consapevolezza che poi,alla fine, l'eguaglianza tra di noi non è così lontana dall'essere trovata in Io ho visto , uno dei punti più alti del disco ( ...Ho visto il sole restare al buio e gli animali rimanere in branco fiutando il cielo più sicuro...ho visto inverni piegare gli alberi e setacciare al grembo con le mani cercando polvere e ho bestemmiato iddio perchè non si fa mai vedere e ho perso falangi nei combattimenti e nelle fabbriche...)
Un disco dall'anima rock, che si concede fughe orchestrali, suonato da una band, "i Paolo Benvegnù", appunto, alcuni tratti pop presenti nei ritornelli in inglese di Love is talking e Good Morning, Mr.Monroe, piccola messa in musica dei tempi moderni(con l'inizio che tanto mi ricorda Milano circonvallazione esterna degli Afterhours) che cercano la continuità con il suo passato in un disco impervio che vuole essere diretto nella sua complicata complessità e spronante nel metterci di fronte al punto in cui l'essere umano, perso, è arrivato a piantare la sua bandierina di evoluzione, così poco colorata da esserne poco fieri.

venerdì 11 marzo 2011

RECENSIONE: DROPKICK MURPHYS ( Going Out in Style)

DROPKICK MURPHYS Going Out In Style (Born & Breed Records, 2011)

Cornelius " Connie" Larkin. Chi era costui? Going Out in Style, ultima fatica dei Dropkick Murphys è dedicato in tutto e per tutto a lui. Lo si capisce subito, dalle prime due pagine del booklet, che narrano la sua storia e dalle numerose foto interne. Pure alcune canzoni sembrano indirizzare a lui.
Larkin è un arzillo signore di 78 anni, veterano della guerra di Corea. Arrivato a sedici anni in America direttamente dall'Irlanda. Nasce così un racconto scritto insieme allo scrittore di Boston, Michael Patrick MacDonald, che fa da concept all'intero disco.Un racconto tra fantasia e realtà da parte della più famosa band irish punk americana.
Possiamo chiamarli veterani e questo loro settimo disco è senza ombra di dubbio il più folk da loro composto. Attenzione però, la componente punk-street/hardcore non è svanita ma per la prima volta gli strumenti classici del folk irlandese compaiono e accompagnano le strutture rock in tutte le canzoni. Il picco di maturità degli irlandesi di Boston. Fin dalla classica chiamata alle armi dell'iniziale Hang'em High, il disco è furente e classico dall'inizio alla fine, non senza delle sorprendenti sorprese. Il crescendo di Going Out in Style che sfocia nel velocissimo finale alterna i cori di illustri ospiti come Fat Mike(NOFX), Chris Cheney(The Living End) e Lenny Clarke(Rescue Me).
Il sangue irlandese del gruppo di Boston scorre ancora caldo e carico, sia quando bisogna scuotere gli animi a chi vuole migliorare la propria posizione di vita come traspare in Memorial Day, come se i Clash incontrassero il folk irlandese o raccontando lontane storie di emigranti di fine '800 nella evocativa, guidata dal flauto, Broken Hymns o tragedie come quelle evocate in The Hardest Mile.
La cornamusa di Scruffy Wallace e le chitarre pesanti scandiscono Deeds not Words mentre Sunday Hardcore Matinee, già dal titolo dice tutto, omaggiando la scena anni '80 con tanto di citazioni (GBH e Agnostic Front).
Le vere sorprese sono il folk acustico di Take 'em down, vera e propria chiamata in rivolta della classe operaia, con la voce di Al Barr, armonica e clap hands e l'illustre ospite Bruce Springsteen che da alcuni anni a questa parte, dalle Seeger Sessions in avanti, non manca occasione per rinverdire le proprie origini irlandesi. Il duetto con Springsteen nel traditional-amoroso Peg O' my heart è alcolico e divertente al punto giusto.
Pub e pinte di Guiness sembrano materializzarsi anche nella finale e corale The Irish Rover, altro traditional che stempera le lyrics sociali delle precedenti canzoni.
Con questo disco i Dropkick Murphys giocano più del solito a fare i Pogues e il tutto sembra deporre a loro favore. Cheers e appuntamento al giorno di San Patrizio.


vedi anche RECENSIONE:  FLOGGING MOLLY -Speed Of Darkness (2011)






martedì 8 marzo 2011

RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS ( Blessed)

LUCINDA WILLIAMS Blessed (Lost Highway, 2011)

Benedetto sia l'operaio cinese che cuce in un sotteraneo di New York, benedetta la ragazza indiana che passeggia per i boulevard con il suo cagnolino di rosa vestito, benedetto il signore d'età tatuato e sfrattato che vive le sue giornate sopra ad un grosso van, benedetto il tassista con la coppola in testa figlio di emigrati, benedetti i due innamorati con zaino seduti sul marciapiede che si baciano, benedetto il maturo biker figlio degli anni sessanta che anche senza più i lunghi capelli continua a inseguire la sua utopia, benedetto il giovane emigrato arabo che studia e che da qualche anno non passa più inosservato nella grande America, benedetto l' indios in jeans e cappello che vive i tempi moderni in una riserva indiana a difendere i valori dei suoi antenati.
Benedetto sia, allora, il cantautore Vic Chesnutt, scomparso suicida, a cui Lucinda Williams dedica ispirata con tormento la rabbiosa e chitarristica Seeing Black . La tormentata vita di un cantautore che portava dentro di sè una verità e una visione di vita dai colori ben definiti.
Benedetta sia Copenhagen in Ottobre, sotto la neve, quando tristi notizie arrivano e sembrano unirsi tutt'uno con il grigiore del tempo, quasi a voler amplificare le lacrime di Lucinda che passeggia per le strade della capitale danese.
Benedetto sia il soldato di Soldier's Song, ballad malinconica ed oscura dedicata a chi vive lontano dagli affetti cari.
Benedetto sia Elvis Costello, ospite alla chitarra elettrica nell'iniziale Buttercup, forse la canzone più solare, se si può passare il termine di un disco carico di speranza vista attraverso gli occhi degli altri, dei più deboli e di chi la debolezza l'ha pagata anche a caro prezzo.
Benedetto il carattere dualistico delle canzoni. Rock e folk. Scatti di rabbia, vendetta e tenue dolcezza. Da una parte le chitarre , anche esplosive come in Awakening, un risveglio lento che sbotta in feedback, la chitarra di Costello in Convince me o il rock oscuro della title track, elegia e perno dell'intero lavoro. Lezione di vita, che insegna a cercare la bellezza nei volti, nelle persone che apparentemente di solito ignoriamo, attratti dal facile e poco abituati per pigrizia e diffidenza a scavare in profondità.
Benedetto l'amore di Sweet Love, folk di poche e dolci parole dedicate presumibilmente al neo marito o l'amore universale di Born to be Loved, i consigli e le verità di Ugly truth.
Benedetta sia allora Lucinda Williams, che fa uscire un disco bilanciatissimo e maturo, prodotto da una "vecchia volpe" come Don Was. Forse lontano dal suo capolavoro assoluto che rimane "Car Wheels on a Gravel Road" , ma sicuramente superiore alle ultime e comunque buone prove di studio.

Benedetta la versione deluxe del disco che include un secondo cd denominato Kitchen tapes, dove il carattere delle canzoni, la voce della Williams vengono fuori ancora più prepotenti nella crudezza di versioni casalinghe registrate solo voce e chitarra, stupenda Copenhagen. Uscirà in diverse copertine raffiguranti i "benedetti" e silenziosi protagonisti della vita che ci circonda. Un invito a guardarsi intorno, a scoprire le facce che ci girano a fianco, ognuna delle quali nasconde ne più ne meno quello che noi nascondiamo loro: la vita. Quando solo i silenzi di uno scatto ed un cartello dicono più di mille parole.



sabato 5 marzo 2011

retroRECENSIONE: GRAZIANO ROMANI (ZAGOR, king of Darkwood)

GRAZIANO ROMANI Zagor, king of darkwood (Coniglio editore, 2009)

Graziano Romani è certamente una delle voci rock italiane più profonde e vere, con più di 25 anni di carriera alle spalle: prima con i Rocking Chairs, band che attingeva a piene mani dal folk e rock'n'roll americano, poi da solista con una gran quantità di dischi, tra cui numerose presenze in tributi a Bruce Springsteen che hanno visto il suo nome affiancato ai grandi del rock mondiale, da Bowie a Willie Nile, Joe Cocker, Billy Bragg ed Elvis Costello. Partecipazioni che hanno accresciuto la sua popolarità internazionale, certamente superiore a quella ottenuta in patria.
L'idea originale di questo concept dedicato a Zagor parte, innanzitutto, dalla grande passione di Romani per i fumetti e per "l'eroe di Darkwood" principalmente, a cui fa seguito una canzone singola, Darkwood, appunto, scritta nel 2008. Quella che doveva essere una canzone unica dedicata al suo eroe preferito, piace talmente tanto agli editori del fumetto da spingere e solleticare l'artista emiliano nell'ardua ed originale impresa, riuscita, di scrivere un intero album-concept dedicato a Zagor. Senza dimenticare la grande importanza e lo spazio che la musica e le canzoni avevano all'interno delle strisce dedicate allo "spirito con la scure".
Il fumetto Zagor nasce dalla mente di Sergio Bonelli e dai disegni di Gallieno Ferri nei primissimi anni sessanta, raggiungendo il culmine di notorietà nei settanta, periodo in cui rivaleggiava in popolarità con Tex. Zagor è un eroe schierato dalla parte dei più deboli, senza distinzione di razza, viaggia con scure e pistola, indossando jeans e una maglietta rossa da nativo americano. In compagnia dell'amato e goffo amico, il messicano Cico, le sue avventure si svolgono nella foresta di Darkwood, dove vive tra amici e molti nemici da combattere e sconfiggere in nome della giustizia.

Uscito sul finire del 2009, distribuito dalla casa editrice Coniglio che pubblica attualmente le avventure di Zagor, fu venduto e distribuito, per mantenere fede alla tradizionalità dei fumetti, solamente in edicola.
In queste 15 canzoni tra cui 4 covers, i protagonisti del fumetto diventano i protagonisti di canzoni folk-rock che si spingono anche oltre toccando Irish e tex mex. Accompagnato da Lele Cavalli al basso e chitarre più Pat Bonan alla battrista e svariati ospiti in diverse canzoni.
L'apertura non poteva che essere affidata a Darkwood, la canzone che diede inizio a tutto il progetto e che ha il compito di inquadrare l'ambiente in cui si svolgeranno le avventure ma soprattutto l'animo e il carattere del protagonista (...I will let my spirit free to roam...). Un folk acustico e narrativo così come in Clear Water Home, Zagor ripercorre la sua infanzia con i ricordi che tornano al padre e alla madre (...Sometimes i recall that old familiar place,where i got to know the greatest love and pain...) e alla vecchia casa nativa. La natura, gli uomini e il loro destino escono da The Tin Star, una western song con la dobro guitar di Niki Milazzo gran protagonista, evocativa e toccante.
Non poteva mancare una canzone dedicata al grande amico di Zagor, Cico Felipe Cayetano Lopezy Martinez y Gonzales, un mariachi travolgente guidato dal violino di Giulia Nuti, da dove esce il carattere goliardico ma anche malinconico del paffuto amico (...yo quiero a la vida aunque la vida no me quiera a mi...). Ma neppure i nemici vengono risparmiati da Guitar Jim, il nemico gentil uomo e tutti gli altri elencati nella lunga sfilza di nomi della rockeggiante Bring on the bad guys.
In mezzo quattro traditionals, dall'irish di The Minstrel boy con Franco D'Aiello dei Modena City Ramblers al flauto, a Molly Malone con Andy White al canto , passando a The Willow Tree e On top of Gold Smoky con l'ospitata di Matthew Ryan alla voce e chitarra.

Un disco che sa affiancare la semplicità del folk rock alla complessità di riuscire a raccontare attraverso delle canzoni un personaggio dei fumetti . Solamente un grande amante del personaggio Zagor sarebbe riuscito a farlo. A patto che questo vorace lettore sia anche un grande musicista dalla voce stupenda come Romani. Come uno Springsteen che incontra un fumetto tutto italiano ma americano nelle sue radici.
L'unico grande rammarico è stato la poca pubblicità che un disco del genere ha avuto, rimanendo a tutt'oggi un prodotto di nicchia, forse già introvabile e per collezionisti, proprio come chi ama i fumetti. Tutto torna.

giovedì 3 marzo 2011

RECENSIONE: HAYES CARLL (KMAG YOYO-& other American stories)

HAYES CARLL KMAG YOYO(& other American stories) (Lost Highway, 2011)

Avesse vissuto negli anni settanta, Hayes Carll avrebbe preso di petto il conflitto socio-politico che la guerra del Vietnam causò con tutte le conseguenze che portò agli Stati Uniti. Lui, però, insieme a Ryan Bingham, è sicuramente uno dei più promettenti cantautori di "americana" usciti negli ultimi anni. Se Bingham con il suo ultimo disco( Junky Star), forte del premio oscar 2010 vinto dalla sua The Weary kind, smorza l'impatto e opta per il cantautorato folk, Carll con questo KMAG YOYO va giù duro nelle liriche e con certi guizzi ruspanti di country-rock.
Visioni dylaniane e cultura beat si mischiano al sarcasmo di un songwriter che sa pescare a piene mani nella giovane storia musicale statunitense. Rock'n'roll, country, folk e soul vengono saccheggiati e suonati in modo diretto come se lui e la sua band suonassero sopra ad uno sgangherato palco di un live club americano.
Il titolo dell'album, acronimo di "kiss your ass guys,you're on your own", frase in voga tra i militari americani è una dichiarazione d'intenti che fa il paio con la forte apertura affidata a Stomp And Holler e con l'artwork sarcastico-satirico. Canzoni nate durante il tour seguente al buon successo del precedente disco Trouble in mind e che prendono spunto dalla vita on the road e dagli avvenimenti che in quel periodo hanno toccato l'animo del trentaquatrenne cantautore, storie personali e non.
Fiumi in piena di parole che si trasformano in talkin' rock chitarristici come le speranze affidate a Stomp and Holler, le critiche all'esercito USA racchiuse nella title-track o le parole d'amore non convenzionali dell'honk-tonk The Lovin' Cup con la voce femminile di Bonnie Whitmore, presente anche nella country e delicata Chances Are.

Country spensierato ad alto tasso alcolico quello di Bottle in my Hand, racconto di viaggi e bevute in compagnia degli amici Todd Snider e Corb Lund alle voci.

Singolare la storia d'amore della ciondolante Another like You, cantata in coppia con Cary Ann Hearst dove l'opposizione e le diverse vedute politiche tra un uomo ed una donna, trovano un comune accordo in una stanza da letto, camera 402, per la precisione.
Più personali ed intime le liriche di The Letter, l'affresco familiare della talkin'folk Grateful For Christmas o della finale Hide me, resoconto degli ultimi fortunati anni di un texano uscito dall'anonimato con la musica che non ha perso, però, i suoi valori e dal futuro tutto da scrivere, ma più che roseo all'orizzonte.