domenica 29 settembre 2024

RECENSIONE: JACK WHITE (No Name)

 

JACK WHITE  No Name (Third Man, 2024)






assalto rock

Detroit, Nashville e Londra. Sono le tre città, le uniche tre al mondo ad ospitare negozi della Third Man Records, da cui si è iniziato a spargere il nuovo verbo che poi è un ritorno a una vecchia lingua lasciata decantare un po' di tempo a favore di altri strani e bizzarri svolazzi sul pianeta musica. 

Capita che un giorno d'estate,  esattamente il 19 Luglio del 2024,  in contemporanea, i clienti che fecero un acquisto nei negozi della Third Man ricevessero un regalo in cassa, un vinile anonimo intitolato No Name  con due sole scritte, una per lato: "heaven and hell" e "black and blue". Ogni riferimento è puramente "non casuale". Me li vedo una volta  arrivati a casa, dimenticare i loro nuovi acquisti sul tavolo della cucina e incuriositi mettere subito sul piatto quel vinile misterioso. Non ci sono nemmeno i titoli ma appena appoggiata la puntina una scarica hard blues ha vibrato lungo la spina dorsale : è l'opener 'Old Scatch Bkues'. Perché  i titoli poi, sono arrivati con calma. E se ti sei recato alla Third Man Records e fai 1+1 capisci che quella voce, quella chitarra selvaggia, che macina riff e assoli acidi  sono di Jack White che ha deciso di promuovere così il suo nuovo disco in uscita. Il giorno dopo la notizia si è già propagata in tutto il mondo, l'invito a scaricarlo fa il suo "sporco" lavoro ma visto che Jack White è uno alla vecchia maniera, dopo un paio di mesi ecco anche la versione fisica per tutti. Ora si può dire: No Name è il nuovo disco di Jack White.  Un'operazione di marketing che aleggia tra passato e presente, romanticismo e spavalderia, cose da sempre comuni al suo autore. 

Che stia vivendo un periodo di grande ispirazione lo si era capito dall'ultima uscita Entering Heaven Alive (2002) che viaggiava in coppia con il più sperimentale Fear Of The Dawn. Ma se lì abbracciava l'intero universo musicale americano (spaziando tra rock e folk) su No Name a stagliarsi sopra tutto è l'urgenza elettrica di un hard blues ('Missionary')  sporcato di garage punk (l'assalto di 'Bombing Out') e qualche seme crossover anni novanta ('Bless Yourself' potrebbe uscire da un disco dei Rage Against The Machine, 'Number One With A Bullet' batte ritmi funk metal). La fascinazione per i Led Zeppelin è la torcia accesa che tiene vivo il suono delle tredici canzoni: 'It's Rough On Rats (If You're Asking)', 'Tonight (Was A Long Time Ago)' e 'Underground' camminano sul terreno delle brughiere britanniche calpestato da Plant e Page. Pure il passato a strisce ritorna prepotente in tracce come 'What's The Rumpus'. 

Un assalto sonoro (placato in parte nella finale 'Terminal Archenemy Endling') che mette in guardia tutti gli aspiranti rocker di questa terra. Una visione romantica di come si può lasciare ancora un segno nero e blu dopo averlo lasciato bianco e rosso. Se il rock vuole libertà e anarchia Jack White le indossa ancora con disinvoltura alle soglie dei cinquant'anni e in un mercato discografico che vivacchia grazie a uscite nostalgiche che guardano al passato (vecchi concerti come se piovesse), un'uscita del genere non può fare che bene. Una rinfrescata strabordante e sopra le righe. Che amiate o meno White: così è.






sabato 21 settembre 2024

RECENSIONE: BLUES PILLS (Birthday)

 

BLUES PILLS  Birthday (BMG, 2024)




nuovi nati

Molto probabilmente nell'imminete tour dei Blues Pills che toccherà l'Italia l'8 Dicembre (al Magnolia di Milano), la cantante Elin Larson viaggerà di città in citta, di palco in palco, in compagnia del piccolo pargolo nato da poco. La gravidanza l'ha accompagnata durante la registrazione del loro quarto disco Birthday appena uscito e la copertina e le foto interne che  ritraggono il pancione della Larson in bella evidenza  non cercano di nascondere nulla, anzi testimoniano la nuova vita, anche musicale e perché no cercano di lanciare un messaggio chiaro a una società che vede nelle gravidanze un ostacolo alla produttività. Ecco una buona risposta. 

Il chitarrista, ex bassista,  Zack Anderson in una recente intervista: "la musica rock è dominata da band composte esclusivamente da uomini, quindi sembra una cosa fantastica avere una cantante solista super incinta in copertina".

Un disco importante per la loro carriera: per come è nato e si è sviluppato, per la libertà di scrittura che hanno adottato, per verificare se i vecchi fan accetteranno queste novità.

L'impianto blues (che da sempre sposa l'hard blues targato seventies con Janis Joplin) è lo stesso di sempre, anche se con l'uscita di Dorian Sorriaux, visto recentemente live con gli americani El Perro ha portato via la componente più heavy, eterea e psichedelica. Il calore soul della voce della Larson si è mantenuto intatto, le chitarre graffiano ancora anche se meno sovente rispetto al passato (l'apertura 'Birthday' è comunque d'impatto) ma in questa raccolta di undici canzoni si percepisce la voglia di sintetizzare al massimo la forma canzone, di arrivare prima al punto anche cavalcando nuovi suoni che a qualcuno potranno far storcere il naso: 'Piggyback Ride', che loro dicono ispirata addirittura dai Gorillaz, è la più moderna con un riff di chitarra in bella evidenza, sezione ritmica funky e chorus che straborda con tutto il suo peso nel pop, 'Holding Me Back' è rock ma di quello che le radio più commerciali da pomeriggi settimanali non disdegrerebbero, 'Don't You Love It' tocca invece quei  territori boogie quasi danzerecci cari agli ultimi Black Keys.

Passate queste novità più spiazzanti i Blues Pills immergono le loro canzoni nel vecchio classico rock che include l'urgenza funky di 'Bad Choices', il blues in crescendo di 'Somebody Better' e quello acustico che va giù di slide ('Shadows')  più due ballate  ('Top Of The Sky' e  'What Has This Life Done To You') che sembrano spingersi indietro fino agli anni cinquanta. C'è pure una cover ('I Don't Wanna Get Back On That Horse') di un misconosciuto gruppo svedese, i Grande Roses,  con interventi di pianoforte e dai forti richiami gospel.

Gli svedesi con questo disco si giocano la carta della notorietà su scala mondiale. Hanno perso le spigolosità hard, gli allunghi psichedelici, fumosi e jammati, hanno guadagnato le canzoni, tutte belle secondo me. Il disco è piacevole ma per chi ha amato i primi due dischi potrebbe essere veramente troppo. Aspetteremo il prossimo nato (disco naturalmente) per vedere quale sarà la loro strada futura.






sabato 14 settembre 2024

MUDHONEY live@Santeria, Milano, 13 Settembre 2024


Forse il segreto sta tutto lì, in quella linea tentatrice che dal culto si espone al mainstream. I Mudhoney continuano a cavalcarla con lo stesso impeto, la stessa sregolatezza e lo stesso impulso primordiale degli esordi guardandosi bene nell'oltrepassarla. 

Nella sua autobiografia Steve Turner ha scritto: "Eddie Vedder non poteva andare al supermercato, ma io sì". Tutto detto.

Furono tra i primi a dare visibilità a una generazione (i Green River subito ma immancabile è Touch Me I'm Sick dietro) e possiamo dirlo: sono tra gli ultimi rimasti in piedi, fedeli a sé stessi. Quasi due ore di concerto pregne di calci sugli stinchi ben assestati e pure ben simboleggiati dalle due pedate che Mark Arm rifila ai due malcapitati (forse era pure lo stesso, recidivo) che hanno surfato per raggiungere il palco per un stage diving prontamente neutralizzato sul nascere. Una sala sold out  tenuta in pugno da tre ex ragazzi in buonissima forma (Mark Arm, Steve Turner, e Dan Peters) più l'ultimo entrato, comunque venticinque anni fa (il bassista Guy Maddison) che di posare le armi non hanno assolutamente voglia, tuttalpiù Arm posa la chitarra per impugnare il microfono e diventare il "crooner" del loro lato più punk e anarchico. 


Non si tira mai il fiato in mezzo alla loro commistione di garage rock, blues rumoroso e psichedelia acida, l'unica pausa la regala il basso di Maddison che richiede cinque minuti di manutenzione, Arm ne approfitta per per presentarci il suo bicchiere di Vermentino.

Presente, ben rappresentato dagli ultimi album  Digital Garbage e Plastic Eternity (saccheggiati a dovere) e passato (Superfuzz Bigmuff e Mudhoney usciti poco prima di entrare nei novanta) sono dati in pasto (quasi una trentina i brani in scaletta) con l'antica veemenza che negli anni ha guadagnato in esperienza e il rispetto che si deve a una band che stasera, ma lo farà fino alla fine dei suoi giorni, ha impartito una lezione di coerenza rock'n'roll che pochi possono vantare ed esibire con tale esuberanza dopo quarant'anni di carriera e che noi presenti ricorderemo certamente a lungo.




giovedì 5 settembre 2024

RECENSIONE: RED SHAHAN (Loose Funky Texas Junky)

 

RED SHAHAN  Loose Funky Texas Junky (Lemon Pepper Records, 2024)



la buona tradizione


Forse per molti basterà sapere che Marc Ford è il produttore del quarto disco del songwriter texano Red Shahan per avvicinarsi incuriositi. O forse basterebbe questa copertina che mi ha catturato ricordandomi il primo Little Feat, dove là c'era un muro qui c'è un vecchio vagone merci abbandonato.E sorpresa: ascoltando le canzoni lo spirito di Lowell George sembra avvolgerne molte, anche la voce di Shaham a volte ricorda George.

Se cresci nella desolazione del West Texas e in qualche modo ne esci fuori con le tue forze, qualche qualità dovrai pur averla. Red Shehan, che prima di scegliere la musica ha cercato la sua strada nel baseball, nei rodeo e perfino nel corpo dei pompieri, con Loose Funky Texas Junky cala tutte le sue carte vincenti confezionando un album profondamente americano giù fino alle viscere che potrebbe piacere a molti. La sbandata funky, promessa dal titolo, rispetto ai precedenti dischi (l'album è stato registrato nei leggendari Fame Studio, Muscle Shoals) è netta e preponderante fin dall'apertura Evangeline, dove serpeggia un po' dello spirito di Dr. John nell'uso di tastiere e piano, continua in canzoni come Wish Me Well e Ain't A Shame e nella più soul Desperate Company.

Uno stacco dal classico country texano che comunque continua là dove dominano chitarre e lap steel: Supernova è un country rock che ha l'incedere del Tom Petty dei tempi andati, Midnight Tiger un vivace honky tonk da consumare in strada, Room Full Of Desirée una ballata con il piano a dettare la falcata, Big Wide Open puro cantautorato texano.

Shehan canta di bar poco raccomandabili ma è anche molto introspettivo quando ci racconta le difficoltà famigliari post covid nel country folk di Clues.

Un album certamente piacevole che punta ad arrivare a più persone possibili senza svendersi. La firma di Marc Ford in produzione è la garanzia di qualità e la coda d'estate invita a salire su un'auto e viaggiare con queste canzoni a fare compagnia.





sabato 24 agosto 2024

RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE (Long Way Home)

RAY LAMONTAGNE  Long Way Home (Liula Records, 2024)


ma che film la vita


In una recente intervista Ray Lamontagne parlando di 'I Wouldn' t Change A Thing', canzone contenuta in questo bellissimo disco, che in qualche modo si e ci chiede "se siamo felici di dove siamo in questo momento" confessa che qualche anno fa ebbe la fortuna di chiacchierare con Bob Dylan: lo ringraziò e gli confessò che attraverso la sua musica aveva trovato un posto dove stare, un mondo che pensava non esistesse. Da allora trovò la sua strada di musicista. Se c'è un artista che in questi ultimi vent'anni è riuscito a farmi fare  un giro intorno alla musica che amo quello è certamente Ray Lamontagne. Un antidivo che per continuare a mantenersi e mantenere la famiglia con la quale vive in una fattoria del Massachusetts (famiglia composta da sua moglie conosciuta quando entrambi avevano otto anni e i  due figli nati dalla relazione) ha lavorato duro dentro e fuori la musica. Fece pure il falegname per qualche anno.

Long Way Home ha un sottile filo conduttore che vuole portarci a cercare la serenità dentro di noi (la contemplazione di 'Yearning') lasciando fuori da corpo e mente tutto ciò che potrebbe fare da ostacolo. Un viaggio dalla fanciullezza all'età adulta che viene ben spiegato nella title track raccolta di ricordi d'infanzia dove canta di prati verdi, ruscelli di montagna e frutteti sulla collina. Mi è impossibile non riportare alla mente polaroid di certe mie estati in campagna quando l'unico pensiero della giornata era cavalcare una bicicletta con una rudimentale canna da pesca in mano e raggiungere il fiumiciattolo in mezzo al bosco, sperando che qualche pescetto di acqua dolce si lasciasse fregare da un bambino di dieci anni. 

"Ogni canzone di Long Way Home in un modo o nell'altro onora il viaggio. I giorni languidi della giovinezza e dell'innocenza. Le innumerevoli battaglie dell'età adulta, alcune vinte, più spesso perse. È stata una strada lunga e dura, e non cambierei un minuto. Mi ci sono volute nove canzoni per esprimere ciò che Townes è riuscito a dire in un verso. Immagino di avere ancora molto da imparare" spiega Lamontagne. Il verso della canzone di Townes Van Zandt a cui di riferisce è "when here you been is good and gone, all you keep is the getting there" da 'To Live Is To Fly'.

All'uscita di Ouroboros (2016) pensavo che il vecchio Lamontagne dei primissimi dischi lo avessimo perso definitivamente, dentro a album, sì sempre più coraggiosi che si spingevano in territori psichedelici e sperimentali (salutando i Pink Floyd) ma che in qualche modo tradivano quelle origini così semplici costruite su folk, country, soul e blues che ci aveva donato agli esordi. Poi arrivò Monovision (2020) che tornava alla semplicità di un tempo, e ora questo Long Way Home che mette nuovamente in fila i suoi primi grandi amori musicali: da Van Morrison che  influenza il giubilio musicale di 'My Lady Fair' arricchito dai fiati, la west coast dei settanta e il Neil Young bucolico di Harvest rivivono in 'And They Called California', il soul e il gospel marchiato Stax nell'apertura 'Step Into Your Power'.

Registrato e prodotto nel suo studio di registrazione insieme al fidato Seth Kauffman con l'aiuto di pochissime persone tra cui le Secret Sisters ai cori e Carl Broemel (My Morning Jacket) alla pedal steel e Ariel Bernstein alla batteria. La sua incredibile voce e i tanti strumenti che suona. 

Se tutti fossimo in grado di trovare bellezza e pace interiore negli accadimenti della vita come ha fatto Ray Lamontagne nelle nove canzoni di Long Way Home (poco più di mezz'ora tra cui la strumentale 'So, Damned, Blue') il mondo sarebbe un posto migliore per tutti. Bentornato, anzi no, perché in fondo Lamontagne non se n'è mai andato e se oggi è qui è perché ha onorato tutto il suo passato. Bello e brutto.

Positivo, riflessivo, introspettivo. Semplice. L'album di questo quieto fine Agosto. Comunque il fatto che la mia canna da pesca di legno non tirò mai su nessun pesce poteva già mettermi in guardia su cosa potesse essere la vita che avevo davanti a soli dieci anni.





lunedì 12 agosto 2024

RECENSIONE: CEK & THE STOMPERS (Mr. Red)

CEK & THE STOMPERS  Mr. Red (Gulf Coast Records, 2024)



salto americano

Il Cek (Andrea Franceschetti) ha iniziato il tour per presentare il nuovo album Mr. Red nel biellese, aprendo per la Fabio Treves Band. E io non c'ero, quella sera ero emigrato in quel di Torino ma sempre per la buona causa musicale. Peccato: per una  volta che lo avevo sotto casa...

Discograficamente lo avevo invece lasciato sulle rive del suo lago d'Iseo sulle sponde di Pisogne, paese che lo ha visto crescere, l'ultimo che si specchia sul lago prima di salire in Valcamonica. Era in attesa dell'arrivo della Sarneghera, tempesta che nelle giornate estive porta scompiglio e che diede il titolo all' ultimo album Sarneghera Stomp uscito nel 2021. Un disco segnato fortemente dalle cicatrici (anche personali) lasciate dal lockdown.

Lo ritroviamo tre anni dopo con un progetto completamente diverso, quasi corale, che si avvale dell'aiuto dei suoi Stompers formati da Luca Manenti (chitarre, mandolino e co autore di dieci pezzi insieme a lui), Pietro Ettore Gozzini dai Slick Steve and The Gangsters (contrabbasso), Federica Zanotti (percussioni) e Andrea Corvaglia dei Crowroads (armonica), l'aiuto di Annalisa G. Favero ai cori e della cantautrice, amica e conterranea Laura Domeneghini, autrice di  'Please Me'. L'altra cover è 'Thirteen Days' di JJ Cale che chiude il disco registrato ai Poddighe Studio di Brescia, saga sulla vita on the road dei musicisti e arrangiata in linea con lo stile molto roots che aleggia su tutto il disco. 

L'importante firma per l'etichetta americana Gulf Coast Records, prima band europea a entrare nel rooster, con una distribuzione che coprirà anche l'America naturalmente è solo uno dei tanti pregi di cui si fregia questo disco.

L'album Mr. Red prende il titolo dall'omonima canzone, un veloce blues'n'roll, dedicata  a Lousiana Red, bluesman e chitarrista americano scomparso nel 2012, vero mago della slide che visse una buona parte degli ultimi suoi anni in Germania. Molti tour in Europa e in Italia quindi e proprio durante questi viaggi di città  in città che il Cek ebbe modo di incontrarlo e passarci molto tempo insieme. La canzone è un po' un diario di quegli incontri ricchi di scambi musicali.

Uno dei dischi più vari della sua carriera, ricco di sfumature musicali come insegnato da Ry Cooder,  dal blues dell'iniziale 'The Peach And The Snake' e di 'Seventh Heaven', alle atmosfere autunnali che accompagnano 'The Heat' a quelle irish che soffiano dentro 'Fairy Tales', al contrasto vincente che contrappone l'elettrica 'Once Upon A Time In The South' alla folkie e solitaria 'Going To The Circus'.

C'è poi 'Juanita', storia di un ragazzo innamorato del blues che molla tutto e va nel sud degli Stari Uniti, a New Orleans, per realizzare il suo sogno: finirà in Spagna, innamorato, dove sposerà la sua Juanita. Storia che accomuna. 

Storpiando un vecchio detto possiamo dire "non si possono insegnare nuovi trucchi a un vecchio bluesman", e il Cek raggiunta la mezza età è a tutti gli effetti uno dei migliori alfieri del blues italiano che potrebbe insegnare un po' di cose a tanta gente. Sempre unico e inimitabile.






lunedì 5 agosto 2024

RECENSIONE: EELS (Eels Time!)

EELS
 Eels Time! (eWorks, 2024)






Cos'è la vita? 

Tutto ciò che passa in mezzo tra un Mr E gigione e ciarliero che l'anno scorso (Aprile 2023) all'Alcatraz di Milano aveva imbottito la scaletta di un concerto superbo dall'anima rock'n'roll con tante canzoni dell'ultimo disco Earth To Dora (2020), quello scritto in piena pandemia ("abbiamo finito per fare alcuni dei migliori spettacoli che abbiamo mai fatto" ) e una foto in bianco e nero postata sui social da Mr E a inizio Maggio di quest'anno che lo ritrae a torso nudo in piedi con fare quasi orgoglioso mostrare una cicatrice lunga 30 cm che gli divide in due il petto, ricordo perenne dell'operazione a cuore aperto che gli ha probabilmente salvato la vita. "Sembra che l'operazione a cuore aperto non sia riuscita a rallentarmi" scrive lui. Ecco l'ultimo suo anno! In tutto questo ha trovato il tempo di incidere un disco che intitola Eels Time! E potrebbe già bastare così. Scritto in parte prima dell'intervento (molte canzoni le ha buttate giù collaborando con Tyson Ritter degli All-American Rejects), indaga con serafica calma pop sul trascorrere del tempo (in 'Time' lo dice chiaramente di quanto a volte ce ne servirebbe "di più") preannunciando in qualche modo ciò che gli sarebbe poi capitato di lì a poco e sbircia tra le pieghe impalpabili dell'amore ('Sweet Smile', in 'If I'm Gonna Go Anywhere' si chiede“ Cos’altro c’è se non l’amore?" in una atmosfera psichedelica). Beatlesiano ('I Can't Believe it's True') con echi Beach Boys ('And You Run') e surreale come sempre quando racconta che la sua relazione più duratura è quella con il pesce rosso di casa ('Goldy'). Un disco a tratti quasi fragile, dalle atmosfere rarefatte, contemplativo sulla fugacità della gioia che sembra cozzare con l'esuberanza rock'n'roll vista e ascoltata nell'ultimo tour visto. Ecco cos'è la vita: un saliscendi emozionale che conosce fin troppo bene. Non rientrerà tra i dischi migliori della sua discografia, certamente tra i più importanti e salvifici (quasi tutti in verità e purtroppo), ma dona comunque un caldo e sincero abbraccio. Già solo il fatto di essere qui ad ascoltarlo dopo che il suo cuore di neo sessantenne è uscito fuori dal corpo per una messa a punto è già di per se un buon ascoltare. C'è una foto simbolica all'interno del disco: mostra Mr. E, con occhiali da sole, giacca e cravatta sotto il "leggero" peso un immenso cielo azzurro... Sì va avanti, di tempo ce n'è anche se mai abbastanza naturalmente.





domenica 28 luglio 2024

THE CULT live@Carroponte, Sesto San Giovanni (Mi), 27 Luglio 2024


Se il sogno di Ian Astbury è suonare alla Scala di Milano come ci ha confessato a fine concerto direi che dopo la performance di stasera potrebbe anche meritarsela. Una prestazione vocale da tempi d'oro mentre con i tamburelli si è divertito fino alla fine, lanciandoli, riprendendoli al volo e colpendoli con il tacco del piede come il miglior fromboliere calcistico. Regalandoli. Da sempre camaleontico, sciamano che negli anni ha curato anima e corpo con la musica, a volte non riuscendoci, folgorato in giovane età sulla via dei nativi americani, ha sempre lottato sotto il continuo  attacco dei demoni ed in perenne viaggio verso la ricerca della pace interiore.

 Da lui non sai mai cosa aspettarti, oggi era in forma splendida (e carisma strabordante), esempio per giovani frontman in erba e coetanei che alla sua età sembrano arrancare già. Esempio: prima del bis è sceso dal palco e ha firmato autografi ai primi sotto la transenna. Non è così scontato.


Eh sì, a momenti non sembrava, ma c'erano quarant'anni di musica da festeggiare e mi ha fatto estremamente piacere che nella setlist non abbiano dimenticato album dignitosi ma spesso in secondo piano realizzati negli ultimi vent'anni: il pesante e moderno Beyond Good And Evil ('Rise') che aveva aperto gli anni duemila con il botto, lo sciamanico Choice Of Weapon ('Lucifer') e l'ultimo ammaliante e visionario Under The Midnight Sun ('Mirror') per me degno di stare tra i migliori dischi della loro carriera e credetemi pochi gruppi dopo quarant'anni di musica sono in grado  di far uscire dischi così intensi. C'è pure una 'Star' estrapolata dal disco controverso e grungy con la pecora  in copertina che fu preludio allo scioglimento in quegli anni novanta difficili per tutti. Quando hai due personalità così forti in formazione (naturalmente l'altra metà è  Billy Duffy) i rischi sono sempre in agguato. Loro ne pagarono le conseguenze

Che siano sempre stati difficili da inquadrare lo si capisce osservando il pubblico, diviso tra i nostalgici della prima ora (con look rigorosamente eighties) devoti al post/punk a tinte gotiche dei primi dischi che comunque tornano a casa soddisfatti con le immancabili canzoni di Love ('Brother Wolf, Sister Moon, Rain, She Sells Sanctuary, The Phoenix) e Dreamtime ('Resurection Joe' e 'Spiritwalker'), e i rocker devoti al brusco cambio in direzione hard rock portato da Electric ('Love Removal Machine', 'Wild Flower') e consolidato dal loro best seller Sonic Temple ('Fire Woman', 'Sweet Soul Sister' e il sipario acustico della sempre commovente 'Edie (Ciao Baby)') che ha garantito grandi palchi e pubblico più numeroso. Manca all'appello Ceremony completamente snobbato. Peccato.

Se a centro palco Ian Astbury  intrattiene, sparando fuori anche poco comprensibili parole in italiano, John Tempesta (con il suo passato "pesante" tra White Zombie, Exodus e Testament) e Charlie Jones (alla corte di Page e Plant negli anni novanta) sono garanzia di solidità ritmica, alla sinistra di Astbury, Billy Duffy con la sua  Gretsch White Falcon è instancabile e perennemente concentrato a tenere in pugno quarant'anni di riff legati alla melodia. Potrebbe prendersi la scena come il più vanesio dei chitarristi, non lo fa mai. Uno dei più grandi della sua generazione con l'umiltà che l'ha però sempre tenuto inchiodato alle assi del palco quasi dovesse tenere fede alla sua provenienza: la classe operaia di Manchester. Un lavoratore crudo, semplice e istintivo. Influente. Un chitarrista che ogni band pagherebbe oro per avere.

Sono arrivato al concerto spossato da una settimana faticosa, inoltre sigillata dal caldo della giornata, nonostante tutto appena è partito il concerto sulle note di 'In The Clouds' tutti i malanni sono sembrati sparire per un'ora e mezza veramente ad alti livelli, intensi e diretti, vissuti in ogni particolare che mi hanno fatto pensare a cosa potrebbe restare del rock'n'roll quando anche questi vecchi gruppi passeranno la mano. Dove andremo a trovare le cure giuste? Come si dice? "Concertone"? Sì!




sabato 27 luglio 2024

RECENSIONE: MDOU MOCTAR (Funeral For Justice)

 

MDOU MOCTAR  Funeral For Justice (Matador Records, 2024)



mondi lontani sempre più vicini

Da alcuni anni è ormai palese: chi ha voglia di trovare quell'urgenza limpida, genuina e viscerale che scorreva nel vecchio rock’n’roll occidentale e che ora chiamiamo vintage o solo revival per farcelo piacere ancora, chi vuole trovare dei veri testi di denuncia combattivi e incazzati con ragione, mica per finta per fare solo un po' di scena, deve guardare in basso e puntare occhi e tutto quanto verso l'Africa. Mdou Moctar, chitarrista del Tuareg di casa in Niger, con Funeral For Justice si conferma, insieme alla sua band,  un vero combattente del desert blues. E non è il solo. Missione: far conoscere all'Occidente la condizioni del popolo Tuareg. Quando non suona porta avanti la sua missione umanitaria, quando imbraccia la chitarra smuove le coscienze  con il suo blues che questa volta sembra farsi meno psichedelico per diventare più hendrixiano e incazzato. Un assalto sonoro  ipnotizzante e con poca tregua: ritmi magnetici e persuasivi tra gioia e consapevolezza, triste realtà e radiosa speranza. Ed è forse quest'ultima, che spesso manca dalle nostre parti a rendere tutto così fresco e dannatamente stimolante.

Basterebbe l'attacco al fulmicotone, punk e rabbioso, della title track per portare a casa tutto:"Dear African leadership, hear my burning question, Why does your ear only heed France and America?", cantato in inglese per arrivare a tutti, il resto del disco è quasi tutto cantato in Tamasheq.

La psichedelia, distorta e  velocizzata di 'Imouhar' o i ritmi desertici di 'Takoba' per capire quando la band sappia lavorare dentro al pianeta musica con straordinaria naturalezza. 'Oh France' per capire quanti dsnni abbiano procurato i vecchi "padroni". Produce l'americano Michael Coltun.

La gente qui non guadagna nemmeno 2 dollari al giorno, eppure viene bombardata da missili che costano milioni. A mio avviso, tutti i leader mondiali sono responsabili di ciò che sta accadendo in Niger” dice Mdou Moctar. Uno stile chitarristico  tutto suo:  costruì la sua prima chitarra a dodici anni con un pezzo di legno e dei freni di biciletta, è mancino, adora Hendrix ma ancor di più Van Halen dal quale rubò qualche segreto imparando dai video in rete ma soprattutto è in grado di riaccendere quella fiammella del rock un po' assopita alle nostre latitudini. Per vedere come brucia basterà presenziare al concerto di fine Agosto al Magnolia di Milano.





sabato 20 luglio 2024

RECENSIONE: DAVE ALVIN & JIMMIE DALE GILMORE (Texicali)

 

DAVE ALVIN & JIMMIE DALE GILMORE  Texicali (Yep Roc Records, 2024)



buon viaggio

È ancora il tema del viaggio ad unire Dave Alvin e Jimmie Dale Gilmore proprio come avvenne nel precedente disco Downey To Lubbock uscito nel 2018.

In mezzo tra Dave Alvin proveniente da Downey, California, e Jimmie Dale Gilmore da Lubbock, Texas, c’è la grande America “centinaia di miglia, deserti, montagne e fiumi” come dice Dave Alvin, in profondità, giù radicate, le radici musicali comuni, quelle che si sviluppano verso il vecchio blues, il folk, il R&B di New Orleans, la country music, le border songs, il rock’n’roll dei ‘50, persino il reggae come avviene nella rilettura di 'Roll Around' brano del vecchio amico Butch Hancock datato 1997.

"Veniamo da posti diversi, ma musicalmente veniamo dallo stesso posto" dicono.

Seppur con qualche anno di differenza, esattamente dieci, anni di stima reciproca e un'amicizia nata nei primi anni novanta hanno trovato sfogo in alcune date live suonate insieme nel 2017. Da lì a incidere il primo disco, il passo fu  veramente corto, veloce e senza sforzo alcuno. Due passati importanti da ricordare, uno nei Blasters, l’altro con i Flatlanders, entrambi vecchi frequentatori del folk club The Ash Grove a Los Angeles, entrambi con le stesse canzoni nel cuore. 

Questa volta rivisitano loro canzoni ('Borderland' è una vecchia canzone di Gilmore), omaggiano Alan Wilson dei Canned Heat con 'Blind Owl' canzone scritta da Dave Alvin, riprendono un vecchio blues di Blind Willie McTell ('Broke Down Engine'), viaggiano placidamente nel folk  'Trying To Be Free' e sopra ad un treno nell'ariosa ballata 'Southwest Chief'. 'Down the 285'  di Austin Josh White affronta la libertà del viaggio in solitaria, mentre il rock’n’roll di 'Why  I'm Walking' infiamna e alza polvere e sudore.

Celebrano la loro resistenza nella finale e autobiografica 'We're Still Here', sopravvissuti alla malattia (un cancro per Alvin), al Covid che ha fermato questo secondo progetto per un paio di anni, a tanti amici incontrati lungo la strada e passati a miglior vita.

Potrebbe essere il disco da viaggio di questa estate: che stiate percorrendo la Interstate 10 che unisce la California al Texas o la congestionata A4  sotto il sole rovente di un'estate italiana.




mercoledì 10 luglio 2024

RECENSIONE: LIFE IN THE WOODS (Looking For Gold)

 

LIFE IN THE WOODS  Looking For Gold (Moletto/Universal, 2024)




born in Italy

Ache l'Italia ha i suoi Rival Sons! Detta così potrebbe essere una boutade pretenziosa che sa di revival del revival. Fermi tutti: il trio romano composto da Logan Ross (chitarra e voce), Frank Lucchetti (basso) e Tomasch Tanzilli (batteria) è al momento la miglior band di classic rock italiana così come i californiani lo sono a livello mondiale ormai. La partita è per ora chiusa.

Esordirono nel 2019 con Blue prodotti da Gianni Maroccolo che col senno di poi si può dire abbia visto giusto e lungo. La pandemia non aiutò certo quel disco fatto di poche canzoni a raggiungere il grande pubblico anche se chi doveva accorgersi del loro talento l'ha fatto: critici e colleghi musicisti con più anni alle spalle avevano alzato le antenne di fronte al trio romano.

Ora è arrivato il momento che tutti si accorgano di loro. Eccoli qua con un disco d'esordio fresco, elettrico ma anche crepuscolare e poetico, appassionato e genuino che raccoglie tutto il meglio del passato per sputarlo fuori in forma alquanto attuale, moderna e internazionale. Quello che sorprende di più è proprio la capacità di rendere fresche e contemporanee canzoni con un DNA attaccato al collo che  pesca nel pozzo quasi ottuagenario del rock'n'roll tutto.

Il "One, two, three, four" che apre 'Caravan' e il disco sono i numeri che trascinano l'hard rock in questo 2024 con convinzione da veterani (e loro sono giovanissimi), 'Trick Man' abbassa i toni addentrandosi nel soul, 'Nothing Is' rende doveroso pegno al vecchio blues, 'Mad Driver' è una dinamitarda fast song che sembra esulare dal resto ma ha il compito di dividere il disco mostrando il lato più diretto e selvaggio, in netto contrasto con la epica coralità della title track che vede la partecipazione del soprano Olivia Calò e i momenti acustici come 'Without A Name', americana nel suono, e 'Hey Blue' dal sapore più british. 

E poi una canzone come 'Fistful Of Stones' non è da tutti: Logan Ross unisce in un solo colpo Jeff Buckley e Robert Plant, avvicinandosi in modo impressionante alla voce di Jay Buchanan dei Rival Sons e il suono hard rock dei seventies porge la mano al grunge degli anni novanta.

Non hanno il look stereotipato di chi cerca di emulare le grandi rockstar del passato, il disco è confezionato nei minimi dettagli e avvolto dentro all'evocativo disegno di copertina creato dall'artista Mark Kostabi (Guns N'Roses, Ramones). Insomma tutte le prerogative per fare il botto anche fuori dall'Italia anche se sarebbe molto bello se i Life In The Woods aprissero veramente le porte del vero rock nel nostro paese, cosa che si pensò potesse avvenire con il successo planetario dei Maneskin poi rivelatasi più  facciata che sostanza. Qui di sostanza c'è n'è da vendere: la finale 'Manifesto' basti per avvalorare questa tesi...pardon: verità.




domenica 7 luglio 2024

RECENSIONE: JOHNNY CASH (Songwriter)

JOHNNY CASH  Songwriter (Mercury, 2024)




canzoni ritrovate

Scaricato a metà anni ottanta da una  Columbia delusa dalle scarse vendite di un personaggio che i loro occhi con pupille a forma di dollaro consideravano ormai perso in un lento declino se non finito del tutto, anche lo stesso Johnny Cash non nascose delusione e stanchezza di fronte all'etichetta che da circa trent'anni pubblicava i suoi dischi, un odio reciproco: "ero stufo di sentirli parlare di statistiche, ricerche di mercato, di nuove evoluzioni del genere country e di tutta una serie di tendenze che remavano contro la mia musica…". Avevano ragione entrambi. 

Ma in quegli anni le cose che andavano storte erano maggiori di quelle positive nella vita di Cash: scosso dalla morte del padre Ray a ottantotto anni con il quale dopotutto aveva dei rapporti non troppo idilliaci, Johnny Cash trova un tetto apparentemente sicuro sotto la Mercury Records che inizialmente sembra lasciargli l'illusione della migliore carta bianca su cui scrivere il proprio futuro. Sei dischi incisi, tanto freschi e ispirati quanto ignorati dal grande pubblico e dimenticati troppo in fretta, complice la scarsa promozione dell'etichetta (allora è un vizio!). Se ci mettiamo alcuni problemi di salute tra cui un ricovero per aritmia cardiaca nel 1987 che lo porterà all'inserimento di un bypass due anni dopo (Roy Orbison morì per lo stesso motivo in quei mesi) e anche la morte della madre avvenuta nel 1991, ne esce un quadro generale non troppo esaltante per un personaggio in cerca di riscatto in un mondo musicale che stava viaggiando veloce lontano dalle sue rotte. 

Anche questa parentesi verrà archiviata velocemente e lo stesso Cash che nonostante tutto considerava questo periodo "il più felice della mia carriera discografica", sconfortato, dirà: "per un po' mi sentii sollevato ma i vertici della Mercury a New York cambiarono opinione  e scivolai lentamente nel dimenticatoio. I miei dischi non meritavano di essere promossi nel migliore dei modi. Jack (Clement) e io ci impegnammo a fondo in sala di registrazione  e abbiamo prodotto brani di cui sono molto orgoglioso ma era come se avessi cantato in un teatro vuoto. I miei singoli non passavano alla radio e non c'era nessun investimento pubblicitario per promuovere i miei album".

Un disco rotto che gira. 

Entra negli anni novanta con un tentativo di tornare ai suoni delle origini con Boom Chicka Boom (1990) e al suono dei Tennessee Two, prodotto da Bob Moore e che inizia con la classica intro live "Hello, I'm Johnny Cash" a introdurre la giocosa 'A Backstage Pass', scherzosa rappresentazione del backstage di un concerto di Willie Nelson, con 'Hidden Shame'  scritta per l'occasione da Elvis Costello e 'Cat' s In The Cradle' di Harry Chapin, con alcune B-side aggiunte e la forte identità che lo porta a essere il suo miglior disco targato Mercury, e poi The Mistery Of Life (1991) con in scaletta vecchi successi consolidati e alcune riletture tra cui 'The Hobo Dong' di John Prine, disco fresco e da rivalutare che chiude la parentesi Mercury e che include anche 'The Wanderer' insieme agli U2, "del mio ultimo album per la Mercury sono state realizzate solo cinquecento copie. Anche da parte loro mi sono sentito propinare le solite storie su statistiche e ricerche di mercato". La solita vecchia storia. 

Fortunatamente dietro l'angolo c'era già uno scalpitante Rick Rubin pronto a  dare inizio  all'ultima incredibile parte di carriera di Johnny Cash, questa volta sì baciata da successo e pubblico.



Ma immediatamente prima di Rubin Johnny Cash registrò alcune demo in solitaria negli studi LSI di Nashville, versioni grezze di canzoni scritte anche molti anni prima da proporre a qualche nuova etichetta discografica per raccimolare un contratto. Con l'arrivo di Rubin furono accantonate e dimenticate per essere riportate alla luce solo recentemente dal figlio John Carter che con l'aiuto di David Fergie Ferguson, vecchio ingegnere del suono di Cash, uno che conosce bene il man in black,  hanno costruito intorno alla voce di Cash undici nuove canzoni  complete e finite cercando di rimanere il più possibile fedeli alle originali o comunque cercando di immaginare come le avrebbe completate Cash in vita. Se due abbiamo avuto il tempo di conoscerle sotto la cura Rubin, trattasi di 'Driven On' e 'Like A Soldier' (ma qui in versioni diverse), le altre grazie all'intervento di navigati musicisti che con Cash avevano già lavorato come la chitarra del pupillo Marty Stuart già  con i Tennessee Three, il bassista Pete Abbot e il batterista Dave Roe hanno raggiunto una forma finale che veste sulla voce di Cash come un abito di alta sartoria vestirebbe uno sposo all'altare. Sembra fatto tutto con rispetto e delicatezza e si sa quanto queste operazioni siano sempre un'arma a doppio taglio non troppo amate dai puristi del rock.

Il titolo dell'album Songwriter vuole proprio sottolineare e portare s galla quanto Johnny Cash, oltre a essere un grande interprete, fu anche un paroliere dalla scrittura incisiva pungente e ironica, a volte anche molto semplice e popolare nei temi trattati come l'amore per la famiglia ('I Love You Tonite' è una lettera d'amore indirizzata a June), il rispetto della propria terra ('Have You Ever Been To Little Rock'), la redenzione, le perdite (di un amore in 'Spotlight' dove compare la chitarra di Dan Auerbach), le vittorie sui propri demoni che ne hanno segnato gran parte della vita  ('Like A Soldier' dove compare pure la voce di Waylon Jennings).

A partire da una 'Hello Out There',  canzone ispirata dall'astronave Voyager che pare volare direttamente nel futuro trainata da un effetto echo nella voce, straniante quanto suggestivo cosmic country che non ti aspetti ma che funziona, fino al rockabilly anni cinquanta di 'Well Allright',  un semplice quanto cinematografico quadretto d'amore dipinto dentro a una lavanderia a gettoni, i suoi testi scrivono un immaginario popolare in parte scomparso ma in grado di arrivare ancora oggi giocando sulla suggestione. 'Poor Valley Girl' è un country, atto d'amore verso June Carter e la mamma di lei Maybelle, in 'She Sang Sweet Baby' racconta di una madre che per addormentare il proprio piccolo si affida alla canzone di James Taylor.

Sentire nuovamente la straordinaria voce di Johnny Cash in canzoni nuove, mai sentite prima mi fa superare e dimenticare il modo in cui ci sono arrivate in questa estate del 2024, ventuno anni dopo la morte. Molti non la penseranno così  ma riesco a sentirci dentro tutto l'amore e il rispetto di chi ha voluto questo disco di un gigante della musica americana.




domenica 30 giugno 2024

RECENSIONE: STEVE CONTE (The Concrete Jangle)

 

STEVE CONTE  The Concrete Jangle (Wicked Cool Records, 2024)


rock'n'roll solo rock'n'roll


Sarebbe veramente un delitto lasciar passare questo 2024 senza nominare uno dei migliori dischi di schietto e spavaldo rock'n'roll usciti in questi mesi. Sappiate che Ian Hunter che partecipa ai cori in una canzone scrive nello sticker che accompagna la copertina:"grandi voci, armonie, arrangiamenti, produzione e chitarre", sembra tutto perfetto per il vecchio Ian! Steve Conte, con una mamma jazzista e battezzato in giovanissima età da un concerto di Chuck Berry, non ha bisogno di troppe presentazioni: chitarra nella seconda vita dei New York Dolls, dell'attuale band di Michael Monroe e di altre decine di artisti con i quali ha collaborato e suonato. In questo disco che esce per la Wicked Cool Records di Steve Van Zandt (anche questa è una garanzia visto i gusti "vintage" del piccolo Steven) che inizialmente fu anche il primo prescelto come produttore ma alla fine ha fatto tutto Conte. Ma le sorprese non finiscono visto che il disco si divide in due facciate abbastanza distinte. Un lato A che vede la partecipazione di Andy Partridge degli XTC come co-autore nelle cinque canzoni che battono la strada del rock'n'roll stradaiolo ('Fourth Of July', 'Hey, Hey, Hey (Aren't You The One)'), del glam dal chorus contagioso ('We Like It'), del power pop ('Shoot Out The Stars') e delle strade più ardite come in 'One Last Bell' con la tromba di Chris Anderson a disegnare traiettorie. La collaborazione con Partridge sembra un sogno che di avvera per Steve Conte, da sempre fan degli XTC: "Andy è il mio eroe del rock 'n' roll e del cantautorato".

Il lato B si apre con uno scatenato omaggio alla musica uscita dalla città di Detroit ('Motor City Love Machine'), una 'Girl With No Name' omaggio al r&b sixties, la melodica 'All Tied Up' sembra uscire dalla migliore stagione del Jersey Sound caro a Little Steven e al suo "capo", ma poi a prevalere sono due esercizi beatlesiani come 'I Dream Her' e 'Decomposing A Song For You' con i suoi fiati che soffiano vento british.

Peccato siano solo 34 minuti perché di sano e vecchio rock'n'roll così non ci si stufa mai. Ottimo disco.






sabato 22 giugno 2024

RECENSIONE: MIKE CAMPBELL & The DIRTY KNOBS (Vagabonds, Virgins & Misfits)

 

MIKE CAMPBELL & The DIRTY KNOBS   Vagabonds, Virgins & Misfits (BMG, 2024)




atto terzo

Il terzo disco di Mike Campbell si apre come se stesse finendo un concerto. Un concerto di Tom Petty naturalmente. 'The Greatest' è l'ultima jam prima di salutare un pubblico entusiasta e plaudente: "tu sei il più grande, guarda questo posto, guarda queste facce..." canta Campbell con quella sua voce nasale che racchiude un terzo di Bob Dylan, un terzo di Ozzy Osbourne e un terzo di Tom Petty. Io il "più grande" me lo persi in quel Giugno del 2012 a Lucca: davanti a una scelta, scoprii di aver  fatto quella sbagliata, non immaginando minimamente cosa potesse riservare il futuro. So solo che rimane uno dei più grandi rimpianti musicali della mia vita. Ok, andiamo avanti.

Oggi però non c'è nessuno al mondo che possa fare Tom Petty come sa fare Mike Campbell. "Tutto quello che ho fatto da quando Tom è morto, incluso nell'album con i The Dirty Knobs, è nello spirito di onorare ciò che abbiamo fatto insieme" raccontò Mike Campbell all'uscita del debutto della band che mise in piedi per divertimento quasi vent'anni fa, tra un tour degli Heartbreakers e l'altro.

Vagabonds, Virgins & Misfits si candida, a pochi giorni dall'uscita, a diventare il migliore dei tre album pubblicati da Campbell con i Dirty Knobs (Chris Holt alle chitarre e tastiere, Lance Morrison al basso, Matt Laug alla batteria).

Oltre al fantasma di Petty che si aggira indisturbato tra le note di 'Angel Of Mercy' e 'Hands Are Tied' ("se ci penso troppo, divento triste" ha lasciato detto recentemente Campbell), si percepisce tutta la voglia del chitarrista di lasciarsi andare, suonare e divertirsi, portando avanti si un' eredità pesante ma segnante e significativa negli ultimi cinquant'anni di american music: che sia l'hard rock veloce e guizzante di 'So Alive', il blues di 'Shake These Blues' con quel finale di chitarre veloci, tutto l'amore per i Byrds che permea 'Innocent Man' o il tanto alcol versato nel country 'My Old Friends' che contiene nel testo più nomi di bevande alcoliche del menù del peggior bar della città.

Piacciono poi gli interventi discreti ma di spessore di tre amici ospiti: con la presenza di Graham Nash in 'Dare To Dream', Campbell corona il sogno di fare una canzone nello  stile degli amati Hollies con Nash ai cori, affida a Lucinda Williams 'Hell Or High Water' una ballata folk arricchita da archi e fiati con un testo scritto con occhio femminile e si catapulta in uno scatenato honky tonk da fine serata ('Don't Wait Up') in compagnia di Chris Stapleton e con Benmont Tench a saltellare sul pianoforte. 

Ecco, la presenza di Tench e di Steve Ferrone in un paio di canzoni, alcune di queste recuperate dal passato e lasciate riposare fino ad oggi (decisivo l'invito della moglie Marcie che compare  pure ai cori in 'Hands Are Tied') sembrano ricompattare quei cuori spezzati ma non ancora smarriti che a questo punto potrebbero essere l'ultima mia salvezza per alleviare un rimpianto che esce ogni qual volta il nome di Tom Petty compare fuori. Tipo ora. A rincarare la dose è appena uscito un tributo della scena Country americana a Tom Petty a cui partecipano tra i tanti anche Steve Earle, Chris Stapleton, Margo Price, Dolly Parton, Willie & Lukas Nelson, Marty Stuart, Rhiannon Giddens e Mike Campbell e Benmont Tench appunto.






domenica 16 giugno 2024

RECENSIONE: THE DECEMBERISTS (As It Ever Was, So It Will Be Again)

 

THE DECEMBERISTS  As It Ever Was, So It Will Be Again (Thirty Tigers, 2024)



perdersi nel loro mondo

Bentornati ai Decemberists. Oggi piove, non è certo una novità di questi tempi, ma il nuovo As It Ever Was, So It Will Be Again sembra viaggiare proprio bene tra vetri schizzati di gocce d'acqua (da immaginare come una foto in bianco e nero), foglie ormai verdi, verdissime, che dondolano pigre sotto il cadere incessante dell'acqua e nubi color grigio che non lasciano intravedere troppo in lontananza. Si può giocare di fantasia. Il dipinto di copertina disegnato dalla illustratrice Carson Ellis, popolato da esseri viventi (animali e uomini, ci siamo anche se in lontananza, giustamente ce lo aggiungo io) sembrano vivere felicemente insieme, in posa per un ritratto che cerchi di dare un senso al titolo "com'è sempre stato, così sarà ancora". Si può continuare a giocare di fantasia.

Sono passati sei anni dall'azzardo modernista del precedente I'll Be Your Girl , ma qui la creatura di Colin Meloy riprende il discorso interrotto dallo splendido, americano e rurale The King Is Dead aggiungendo quell'onirica scia progressive che abitava l'ambizioso The Hazards Of Love.

Mai banali i Decemberists. I quasi venti minuti della finale 'Joan In The Garden' riassumono bene tutte le molteplici parentesi della loro carriera: una prima parte folk, la metà ambient indie-rumorista, la seconda metà liberatoria tra chitarre cavalcanti al limite dell'hard e fughe tastieristiche verso le stagioni del prog.

 I Decemberists hanno l'innato dono di rapirti dentro al loro mondo, a tratti surreale, popolato da santi, figure letterarie, oniriche, tra passato e attualità, tra racconti popolari e il presente che ti passa davanti, dove però incontri il caldo vecchio abbraccio delle chitarre byrdsiane ('Burial Ground'), il country americano sognante attaccato a una pedal steel, i colori del folk ('The Reapers') spesso occhieggiante al Regno Unito , lo sbuffare dei fiati che ti consegnano nelle mani del sergente beatlesiano ('America Made Me'), il gusto profondo e avvincente del pop sixties.

E visto che in questi giorni si parla tanto di REM, la presenza di Mike Mills fa più che piacere. C'è pure James Mercer degli Shins.

È un disco lungo (un doppio d'altri tempi se si pensa al vinile, diviso in quattro facciate) ma si sta prenotando senza difficoltà alcuna un posto tra i dischi dell'anno. Qui dentro la musica svolge degnamente il suo compito.





sabato 8 giugno 2024

RECENSIONE: KING HANNAH (Big Swimmer)

KING HANNAH - Big Swimmer (City Slang, 2024)




avanti tutta

Le prospettive su alcuni artisti cambiano radicalmente dopo averli visti sopra un palco. I King Hannah sono delle anti-rockstar per eccellenza. L'ho appurato l'anno scorso quando suonarono prima dei Wilco al Todays Festival di Torino. La loro musica che su disco arriva con poca immediatezza ma arriva, live mi prese prima la testa per arrivare solo dopo alle gambe, senza trucchi e nessun inganno.

Hannah Merrick, chitarra e voce e Craig Whittle, chitarra elettrica, accompagnati dalla loro sezione ritmica salirono sul palco timidamente senza lo straccio di un look e con toni quasi dimessi ma piano piano dopo la mente iniziarono a impossessarsi dei corpi grazie alla loro idea di rock: molto basica, lo fi, senza inutili sovrastrutture, diretti e genuini dove il mood ipnotico, melodico e intrigante dei testi dalla penna cinematografica cantati o quasi recitati con voce salmodiante dalla Merrick vengono accompagnati e poi squarciati dell'elettricità delle chitarre che irrompono e  allungano ('The Mattress' e 'Milk Boy' qui presenti sono buoni esempi) con fare grezzo, spesso imperfetto come farebbe la old black del caro vecchio Neil Young.

Un'onda che da calma si fa tempestosa per poi smorzarsi nuovamente e riprendere vigore con la base ritmica che fa da accompagnamento senza mai prevaricare.

Presentarono il debutto I'M Not Sorry , I Was Just Being Me (2022) a cui aggiunsero la cover di 'State Trooper' di Springsteen presa da quel Nebraska che sembra dettare la via della sottrazione. 

Questo Big Swimmer è il loro american dream che in qualche modo si è avverato e materializzato molto presto in undici canzoni che riescono a darne una cifra stilistica più concreta e personale rispetto al primo disco, certamente più vario. Anche se non mancano divagazioni come  la più spensierata 'Davey Says', la title track che apre il disco in acustico per poi virare nell'elettrico (pure manifesto del loro pensiero) e l'ambient di 'This Wasn't Intentiobal'.

 Pensato e scritto durante i mesi di tour negli States  è un vero e proprio diario di viaggio da nord a sud, da una giornata tipo a  New York trascorsa tra i locali ('New York, Let's Do Nothing') fino a raggiungere i pericolosi confini con il Messico ('Somewhere Near El Paso') di due musicisti di Liverpool che caricano di suggestioni le ore di quotidianità trascorse in viaggio, spiando fuori dai vetri  e vivendo in diretta il proprio sogno americano anche citando altri artisti viventi e non ('John Prine On The Radio') e invitando la cantautrice Sharon Van Etten a collaborare in un paio di pezzi.

Inquietudine ed esuberanza che si tengono per mano. Ci sento la strada battuta dal sole e ci vedo le luci al neon in piena notte.

In questi giorni stanno avendo grande hype tra le riviste di settore e nel web, tanti cori di  positivo entusiasmo  ma naturalmente anche parecchi detrattori che ritengono eccessiva questa sovraesposizione (ho letto pure tante sciocchezze gratuite). Come sempre la verità sta nel mezzo.

Io dico solo che se in un disco di oggi ci trovi tracce di Neil Young con i Crazy Horse, Lou Reed, i Velvet Underground, Kim Gordon, Sonic Youth, Patti Smith, Lucinda Williams e Slint un disco brutto non può esserlo. Poi mi è venuto in mente Daniel Lanois: qui ci sarebbe materiale per lui. Chissà cosa riserverà il futuro?





domenica 2 giugno 2024

RECENSIONE: GUN (Hombres)

 

GUN  Hombres (Cooking Vinyl, 2024)



ritorno al passato

Chi si ricorda degli scozzesi Gun? Nati nel 1987, tra il 1989 e il 1994 fecero uscire tre dischi di discreto successo (il debutto Talking  On The World che conteneva la loro prima hit 'Better Days', Gallus, forse il loro miglior disco e Swagged), avevano fan di un certo livello come Steve Harris degli Iron Maiden, aprirono tour importanti per Rolling Stones (periodo Steel Wheels), Def Leppard e Bon Jovi poi nel 1997 si sciolsero dopo il poco riuscito 0141 632 6326. Undici anni dopo si riformarono anche se i tempi sembravano decisamente cambiati per riprendere i discorsi interrotti a metà anni novanta. E ora rieccoli con il loro miglior disco da quegli anni gloriosi. 

Questo è uno degli album di cui siamo più orgogliosi, rappresenta davvero i Gun nella loro forma migliore” racconta il chitarrista Giuliano Gizzi.

A comando della band sono rimasti i due fratelli di chiare origini italiane Dante Gizzi alla voce e Giuliano Gizzi alla chitarra. Insieme a loro Pau McManus (batteria), Andy Carr (basso) e Dave Aitken (chitarra), un mix di esperienza e gioventù che hanno donato freschezza a queste nuove dieci canzoni che non stravolgono l'idea iniziale della band: un hard rock melodico dove America e terre britanniche trovano la giusta via d'unione tra  chitarre graffianti ('All Fired Up'), riff importanti ('Boys Don't Cry', Take Me Back Home') e blues ('Fake Life'). Tanti i cori in risalto in tutto il disco, a partire dalla semi ballad 'Falling' fino a una 'Lucky Guy' che farebbe comodo agli ultimi Def Leppard, a partecipare tante ospiti come Beverly Skeete (Elton John, Tom Jones, Johnny Cash), Mary Pearce (Primal Scream, Lionel Ritchie) e Sarah-Jane Skeete (Robbie Williams, Kylie Minogue). Se la ruffiana  'You Are What I Need' sembra trasportarci allo street metal americano a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta con un piacevole retrogusto soul,  'Never Enough' ci rammenta quanto i Bad Company siano stati importanti per tutte le band venute dopo che hanno cercato di sposare chitarre e melodia. In conclusione una 'A Shift In Time' che inizia acustica per esplodere in un corale inno da glam rock seventies, assolo incluso.

"Somo Tus Hombres" hanno gridato loro dei fan spagnoli durante il loro ultimo tour a Madrid:" siamo i vostri uomini". Ecco trovato il titolo di un disco, divertente e stimolante, per nulla pretenzioso ma che vuole solamente essere suonato a tutto volume come ai bei vecchi tempi. Bentornati.





sabato 25 maggio 2024

RECENSIONE: SLASH (Orgy Of The Damned)

 

SLASH  Orgy Of The Damned (Gibson Records, 2024)




tra le belle sorprese dell'anno

Sapere che un inedito Iggy Pop è qui alle prese con 'Awful Dreams' di Lightnin' Hopkins potrebbe bastare per dare un ascolto curioso a questo disco. Voce da crooner e chitarra i soli ingredienti. Dischi di cover blues ne è pieno il mondo: spesso inutili e di maniera, a volte divertenti, raramente indispensabili. Orgy Of Damned non è certamente indispensabile ma divertente secondo me lo è. Il taglio rock della chitarra di Slash contribuisce a dare quel tocco di diversità indispensabile per creare delle cover quantomeno singolari e ben riuscite. I puristi del blues grideranno allo scandalo. Ma chi se ne frega. La produzione di Mike Clink, l'uomo dietro a Appetite For Destruction è anche una garanzia.

E poi tutti gli altri ospiti che in qualche modo lasciano il loro segno: Chris Robinson sembra a suo agio con 'The Pusher' degli Steppenwolf che non sfigurerebbe in qualsiasi setlist dei Black Crowes, la chitarra di Gary Clark Jr. incrocia quella di Slash in mezzo al crocicchio presidiato da Robert Johnson (Crossroads) ed è un bel sentire, Billy Gibbons si intrufola in 'Hoochie Coochie Man' con la facilità con la quale pettina la sua barba ogni mattina, Crhis Stapleton in 'Oh Well' dei Fleetwood Mac è meglio di qualunque cosa abbia registrato nel suo ultimo disco. Brian Jhonson ora sa cosa fare quando smetterà di torturarsi l'ugola con gli Ac Dc ('Killing Floor' con l'armonica di Steve Tyler funziona), le quote rose sono assicurate da Dorothy ('Key to the Highway') ma soprattutto da una sorprendente e pop Demi Lovato in un classico che più classico non si può come 'Papa Was a Rolling Stone' e da una sempre rassicurante e grintosa Beth Hart in 'Stormy Monday'. Quattordici minuti totali per loro due.

Completano Tash Neal (presente in tutto il disco con la sua chitarra) in una quasi commovente 'Living For The City' di Stevie Wonder presa da quel capolavoro che fu Innervisions del 1973 ("quella era la traccia che sapevo sarebbe stata quella più insidiosa per la persona media, ma era la mia canzone preferita quando Innervisions uscì quando avevo circa 9 anni. Ho adorato quella canzone" ha detto recentemente Slash) e un impeccabile e di mestiete Paul Rodgers con 'Born Under a Bad Sign' di Albert King.

Un disco inseguito da più di trent'anni quando dopo lo scioglimento dei Guns N'Roses mise in piedi la band Slash's Blues Ball, dalla quale recupera i vecchi compagni Johnny Griparic al basso e Teddy Andreadis alle tastiere.

Un disco simile Slash lo aveva già fatto nel 2010 (Ian Astbury, Ozzy Osbourne, Lemmy, Iggy Pop, Chris Cornell, Dave Grohl tra i tanti cantanti presenti allora) ma con tutte canzoni inedite. Qui l'unica traccia inedita la lascia nel finale, la strumentale, melodica ed espressiva 'Metal Chestnut'. Prendetevi un buon cocktail e rilassatevi con queste dodici canzoni registrate senza troppe menate in una atmosfera sicuramente rilassata. Si percepisce. Funziona tutto. Poi arriveranno anche gli odiatori seriali ma li mettiamo insieme ai puristi del blues. 





sabato 18 maggio 2024

RECENSIONE: KULA SHAKER (Natural Magick)

KULA SHAKER  Natural Magick (Strange Folk Records, 2024)



il bello del 2024

Natural Magick è uno dei dischi più spassosi, divertenti e colorati che ho ascoltato in questi primi mesi del 2024. Il concerto all'Alcatraz di Milano del 13 Maggio si candida a concerto del 2024.

"Beh, quando penso al rock 'n' roll, penso ai fratelli Marx tanto quanto penso ai Kinks o a Jerry Lee Lewis. Penso che il rock 'n' roll sia uno stato d'animo. È un tipo di anarchia spirituale, sana ed eterna"  così Crispian Mills (voce, chitarra e maggior autore dei testi), recentemente, ha detto la sua sul pianeta musica che lui e la sua band circumnavigano da quel lontano 1996 quando uscì l'esordio K , perfettamente in orario per l'esplosione del brit pop di cui furono brillanti esponenti, certamente tra i più fantasiosi e poco etichettabili nel loro intento di creare ponti con l'Oriente come insegnato dai Beatles, e da George Harrison in particolare. Per tanti che li premiarono furono anche massacrati.

Due uscite in poco più di un anno per una formazione che ci aveva abituato a tempi lunghissimi tra un disco e il successivo sembrano parlare chiaro: la band di Londra sta vivendo un periodo di fertile ispirazione. Il ritorno in formazione del primo tastierista Jay Darlington li catapulta addirittura indietro di venticinque anni per riprendere in mano tutte le influenze assorbite fin dagli esordi (è il primo album con la formazione originaria dal 1998: con Mills e Darlington, il bassista Alonza Bevan e il batterista Paul Winter Hart): ci sono i Kinks già dal riff iniziale del rock 'Gaslighting' e delle successive 'Waves' e 'Natural Magick' (venuta in ispirazione dopo aver ascoltato i Can!), rock pop, semplici, trascinanti e d'impatto assicurato. Da 'Indian Record Player' iniziano ad affiorare in superficie le care influenze indiane di Mills che si amalgamano con rock'n'roll e spezie tex mex fino a confluire nella cavalcata western 'Chura Liya' cantata da Laboni Barua. Difficile annoiarsi di fronte alla psichedelia pop sixties disegnata dall'armonica e dalle percussioni in 'Something Dangerous', vietato non sognare di fronte alle ballate 'Stay With Me Tonight' e 'Give Me Tomorrow' dal forte aroma anni cinquanta tutto brillantina e neon colorati sullo sfondo, viaggiare di fantasia sotto l'accecante solarità di 'Kalifornia Blues', vietato non meditare davanti al sitar che chiama in causa Krishma nella psichedelica 'Happy Birthday', o non protestare su una 'F- Bombs', che pare quasi fuori contesto, un canto anti guerra purtroppo sempre d'attualità che esplode in ripetuti "fuck war" che dal vivo, ne sono sicuro, faranno faville.  Non il massimo dell'originalità ma sempre utile. Io per non sbagliarmi qualche settimana fa ho preso il biglietto per il loro concerto all'Alcatraz di Milano che si terrà tra circa un mese. Voglio toccare con mano questo loro ispirato e colorato ritorno.

"Il mondo ha bisogno del rock 'n' roll in questo momento", firmato Crispian Mills. Fosse anche con un "è solo" davanti, va bene ugualmente.





domenica 12 maggio 2024

RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Picasso's Villa)

 

ANDERS OSBORNE  Picasso's Villa (Missing Piece Records, 2024)



lo svedese di New Orleans

Durante il lockdown ci fu un "uso" alquanto superficiale e scorretto degli artisti e dei musicisti. Il loro compito sembrava fosse solo uno: far divertire la gente. Fare passare qualche minuto, qualche ora, diventati giorni e poi mesi in totale spensieratezza a chi (noi) come loro era chiuso in casa. Naturalmente senza compenso, dimenticando che tanti erano professionisti messi al palo, a paga zero, dall'epidemia. Per qualche politico un atto dovuto: l'arte come lavoro era ed è ancora qualcosa di inconcepibile per alcuni. La domanda: "sì ma di lavoro cosa fai?" non è così rara da sentire.

Nella canzone musicalmente spensierata e puntellata dall'Hammond  'Picasso's Villa' che da anche il titolo all' album, il diciasettesimo, Anders Osborne sembra proprio rivolgersi a tutte quelle persone che gravitano intorno all'arte con sprovveduta superficialità (lui è pure un pittore):

"Picasso's Villa tenta di descrivere il business della musica e il ruolo da giullare che hanno i musicisti. Siamo una valuta utilizzata, giudicata, negoziata, scambiata, valutata e talvolta scartata".

Se due anni fa Anders Osbourne si presentò al Buscadero Day in solitaria, era appena uscito lo stupendo  Orpheus And The Mermaids (2021), un disco acustico trainato dai venti leggeri della West Coast Music che continuavano a sbuffare dal precedente Buddha And The Blues (2019), con questo nuovo Picasso's Villa, invece, ritorna ad abbracciare l'intera rosa dei venti musicali che hanno scompigliato i suoi capelli, ora bianchi, negli anni. Abbiamo imparato a amare i suoi primi dischi più conosciuti come  Which Way To Here (1995) e  Living Room (1999), quelli più marcatamente intrisi degli umori di New Orleans come Coming Down (2007), le canzoni più cupe e scure come quelle che uscivano da American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy (2012) e cose più bizzarre e giocose come le canzoni di Peace (2013), sfrontato fin dalla copertina e che iniziava a lasciarsi indietro problemi personali che lo stavano attanagliando.

Anders Osbourne non ha mai fatto dischi brutti (forse i primi più ruspanti si fanno preferire ma sono sottigliezze) e Picasso' s Villa va ad aggiungersi ad una lista da fare invidia a nomi più blasonati che continuano a vivere di rendita.

Straordinaria voce, chitarrista eccelso , autore sopraffino, dotato di limpida ironia e della rara dote di  saper colorare i suoi pezzi con sfumature sempre sgargianti ma anche buon conoscitore dei tempi su cui mette i piedi ogni giorno: 'Bewildered' prende in esame gli accadimenti degli ultimi quarant'anni nelle terre americane (tra cronaca, musica e politica) che lo hanno adottato quando dalla Svezia andò a cercarsi la sua America, con un suono di chitarre elettriche che chiama in causa i Crazy Horse di Neil Young e non è un caso che in produzione e nei suoni ci siano uomini che con il canadese hanno intrecciato spesso il percorso, ossia Nico Bolas e Chad Cromwell.

Splendide canzoni, dal piglio elettro acustico che spesso richiamano e omaggiano New Orleans nelle liriche, luogo che lo ha accolto e dove ha piantato  le sue radici europee, succhiandone l'anima: l'apertura 'Dark Decatur Love', un country in crescendo che mi ha ricordato Johnny Cash, e la finale 'Le Grande Zombie', dedicata a un ambasciatore importante come Dr. John e portata avanti in una babilonia di strumenti (archi e fiato) e suoni che chiudono il disco con colorato carattere malinconico.

Proprio nella ormai "sua" New Orleans ha registrato il disco insieme a una bella parata di ospiti tra cui spiccano la chitarra di Waddy Wachtel, il bassista Bob Glaub, l'armonica di Johnny Sansone e Ian Neville al B3. Otto canzoni che toccano con più insistenza il rock rispetto al recente passato: 'Reckless Heart' si pone a metà strada tra Springsteen e Petty, i sei minuti di 'Real Good Dirt' e 'Returning To My Bones' hanno l'inconfondibile passo elettrico dei Crazy Horse. Oggi sono veramente pochi gli artisti così completi come Anders Osborne. Con lui si va sempre sul sicuro.