giovedì 26 marzo 2015

RECENSIONE: LUCA ROVINI (La Barca Degli Stolti)

LUCA ROVINI  La Barca Degli Stolti (autoproduzione, 2015)



C'è una foto che dipinge bene le strade blu percorse (e quelle ancora da percorrere) dagli stivali di Luca Rovini: è stata scattata in Febbraio nel locale L'asino che Vola di Roma e ritrae il cantastorie toscano in mezzo ai due fratelli De Gregori: Francesco da una parte, Luigi Grechi dall'altra. Un gran colpo, e lo sarebbe per qualunque cantautore italiano. Due personaggi che sembrano racchiudere bene le caratteristiche principali della sua musica fatta in casa: le parole italiane impresse su un quaderno made in USA con tanti fogli di blues, folk e country che svolazzano, lasciando cadere, di volta in volta, politici, ballerine, amori, amanti, sognatori, illusi e ubriachi. Lui e noi. Dal primo e più famoso dei fratelli ha ereditato la forte passione per Dylan (ascoltate la dura Cappotto Di Vita, una meravigliosa narrazione che potrebbe essere uscita da Desire del Sommo per come è stata rivestita musicalmente), dal secondo, quello meno famoso, lo spirito artigianale e vagabondo che non gradisce troppo le spinte per farsi largo ma che può ancora fare la differenza in termini di sincerità, passione e onestà. Rovini ha percorso molti chilometri dal precedente Avanzi e Guai, tanto da arrivare addirittura a toccare l'acqua -il vino rimane da bere-trovandosi in pieno mare aperto dove la barca dipinta dal padre Umberto (stupenda anche la copertina) è una metafora di vita senza scadenza: cade a pezzi e va a fondo ma chi sta sopra non se ne cura e continua a far festa. Fottiamocene di un mondo che sta naufragando verso il basso e continuiamo a fare quello che più ci piace, sembra il messaggio, e Rovini nuota bene in quelle acque.
Sulla strada ha perso qualche amore, si è trascinato con forza gli affetti più cari e ha raccolto intorno a sè tanti amici musicisti pronti ad aiutarlo, sì perché, oltre a mantenere una scrittura limpida, ficcante e vissuta, La Barca Degli Stolti si differenzia da Avanzi E guai per le tante sfumature strumentali che gravitano intorno alle parole. Il presente violino di Chiara Giacobbe (Gocce Rosse Della Sera, Cappotto Di Vita), la presenza di un pianoforte (Francesco D'Acri) nell'apertura Dove Bevo Il Mio Cuore, la bizzarra andatura sbilenca di Il Quartiere Della Follia, incontro stralunato a tarda sera, sopra un marciapiede, tra Captain Beefheart, Tom Waits e uno sfuggente Dylan periodo Blonde On Blonde, dove l'amico-un po' di tutti dal suo ingresso in società in quel di Padova-Caterino "Washboard" Riccardi fa il bello e cattivo tempo con i suoi marchingegni da poche lire (che l'euro non ci piace). Scoppia La Testa è ormai il trademark, la sua sigla, già presente in Avanzi e Guai, qua viene trasformata nuovamente e funziona che è una meraviglia. Nuovamente.
Mentre le atmosfere desertiche, folk, agrodolci e solitarie di Verso Casa sono l'ulteriore conferma della buona qualità di scrittura. E poi, tante chitarre suonate dal fedele Claudio Bianchini e da Don Leady, l'armonica di Andrea Giannoni, la fisarmonica di Andrea Giromini (Incontro Al Tuo Viso). Ritroviamo perfino i fratelli De Gregori nelle due cover del disco, e non è un caso: traduttori dei testi di Powderfinger di Neil Young e The Angel Of Lyon (L'Angelo Di Lione) di Tom Russell.
Rimangono i difetti di chi è troppo sincero (spesso si chiamano pregi, quando va male anche guai), di chi manda avanti il cuore aperto, in avanscoperta tra le intemperie della vita: Dove Bevo Il Mio Cuore è il suo battito vitale, la cardiografia che disegna il percorso artistico ed umano. Poco importa se rimarrà anche questa volta Senza Una Lira. Le cose importanti, quelle che contano, sono tutte qua dentro.

vedi anche
RECENSIONE: LUCA ROVINI-Avanzi e Guai (2013)

domenica 22 marzo 2015

RECENSIONI: BOB DYLAN (The Bootleg Series: Vol. 10 Another Self Portrait, Vol.11 The Basement Tapes Complete)


BOB DYLAN ANOTHER SELF PORTRAIT (1969/1971)-THE BOOTLEG SERIES VOL.10
(Sony Music)



Fiori nascosti
“Cos’è questa merda?”. Negli annali è rimasta la frase iniziale della recensione di ‘Self Portrait’ fatta da Greil Marcus su Rolling Stone nel 1970. Ma dalla merda, si sa, con il tempo nascono anche profumati fiori pur se raccolti e destinati all’esclusivo mercato dei fan voraci. Questa volta, la nuova saga ‘Bootleg Series’ va a scavare nella profondità di un periodo controverso della carriera di Dylan, completando, con due CD pieni di inediti e versioni alleggerite dalla brutta produzione di allora attribuita a Bob Johnston, la panoramica che include oltre a ‘Self Portrait’ (composto quasi tutto da cover) anche il precedente ‘Nashville Skyline’ ed il successivo’ New Morning’, triade composta tra Nashville e New York, dopo la fuga da Woodstock e lontano dalla rivoluzione giovanile in atto in quegli anni e che lui stesso, in verità, anticipò molti anni prima. Era un Dylan neo padre, giocoso, country, a tratti pop, intrattenitore, dalla voce quasi irriconoscibile che all’epoca creò imbarazzo e sconcerto tra i fan bisognosi di nuove guide spirituali, ma importante per segnare in modo netto la rottura tra quello che rappresentò per i giovani nei 60 e quello che sarà a partire da ‘Planet Waves’ in avanti.
Un riscatto contro chi non ha mai capito quei dischi che, a sorpresa, rinascono negli scarni demo (‘Went To See The Gypsy’, ‘When I Paint My Masterpiece’), nelle versioni alternative, negli inediti lasciati fuori senza ragione: quasi tutti acustici, così come erano nati, suonati in solitaria o in compagnia dei fidi David Bromberg (chitarra) e Al Kooper (piano). C’è anche una ‘Working On A Guru’ che ospita, oltre a Charlie Daniels, anche George Harrison, fresco orfano dopo la separazione dei Beatles. Nella deluxe edition in più: il concerto all’isola di Wight (1969), splendido documento di uno dei rarissimi concerti dell’epoca già “bootlegato” negli anni ma qui rinato nella qualità e l’intero ‘Self Portrait’ originale ma rimasterizzato. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #38

 
BOB DYLAN AND THE BAND THE BASEMENT TAPES COMPLETE-THE BOOTLEG SERIES VOL.11 (Columbia/Sony Music)



Ora c’è tutto
Non tutti i mali vengono per nuocere. Avete mai immaginato cosa sarebbe successo se Dylan il 29 luglio del 1966 avesse preso bene quella curva con la moto? Una cosa è certa: uno dei più grandi tesori musicali della musica americana del 900 non sarebbe mai stato impresso su quel vecchio registratore a due bobine. All’indomani di quell’incidente, da sempre avvolto nella nebbia dei misteri, Dylan trascorse mesi di assoluto riposo tra le campagne di Woodstock, quasi rinnegando la sua rutilante e influente prima parte di carriera, lontano anche dai fumi psichedelici imperanti nel resto del mondo, immerso tra verdi boschi, rifugiandosi nella vita famigliare e trascorrendo interi pomeriggi di relax insieme ai fidi musicisti (The Hawks che diventeranno The Band). “Avevo avuto un incidente di moto ed ero rimasto ferito, ma mi ero rimesso. La verità era che volevo uscire da quella corsa disseminata” racconterà nella sua autobiografia.
Ma prima che anche questo buen retiro venga preso d’assalto dai voraci fan, riesce a registrare più di cento canzoni, tra autografe, ripescaggi nell’oscura antologia dell’American Folk Music e il rock’n’roll. Usciti ufficialmente nel 1975, in realtà non rappresentarono mai completamente quello che successe in quel semi interrato della Big Pink nel ’67 (ma anche nella Red Room di Dylan a Hi Lo Ha), un po’ per il bignami poco rappresentativo a cui venne ridotto, un po’ per le sovra incisioni apportate da Robbie Robertson, innescando invece il mercato dei bootleg, partito dal primo storico ‘Great White Wonder’.
A distanza di quarantasette anni, la Columbia decide di mettere in piazza tutto su 6 CD (due nella più economica versione Raw) in quella che si candida ad essere la più importante uscita Bootleg Series fino ad ora: accanto a storici brani già conosciuti appaiono ufficialmente per la prima volta alcune perle, nascoste tra le numerose alternate version, improvvisazioni e bozze di canzoni. 138 tracce totali. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #42



vedi anche
RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche: RECENSIONE LIVE REPORT: BOB DYLAN/MARK KNOPFLER live Forum di Assago (MI), 14/11/2011

domenica 15 marzo 2015

RECENSIONE: CRACKER (Berkeley To Bakersfield)

CRACKER Berkeley To Bakersfield (429 Records, 2014)




Puoi partire per un viaggio e stare comodamente seduto in poltrona. E' brutto, lo so, si perde tutto il meglio, ma a volte ci si rassegna a quello che la vita ha riservato senza essere troppo di manica larga. "Hai il minimo indispensabile. Accontentati e non rompere i coglioni". Questo mi dice la vita ultimamente. Obbedisco. Eccomi qua, immaginando un cappello da cow boy calato in testa, stivali sporchi in punta e un bicchiere di spirito in mano. Togliete il bicchiere, il resto è totalmente lontano dalla mia indole, e proprio per questo mi gusto tutto al meglio. Pronti? Girate la chiave dell'auto e godetevi il panorama dettato dalle luci notturne.
Una volta esisteva un gruppo di nome Camper Van Beethoven, californiani dalla spiccata vena creativa, una miscela eterogenea e multicolore, quanto spiritosa e pungente nella forma, dove le radici americane si espandevano bene tra il punk e i mille colori della musica etnica. Il tutto si svolgeva tra i campi delle campagne americane, in mezzo alla pura tradizione, senza uso di giochi di prestigio. Duri, puri e divertenti. Quasi la perfezione. Una delle realtà alternative più originali e significative degli States anni '80. Dei pionieri che hanno aperto strade e lasciato il segno. Già nel 1992 i Camper Van Beethoven non esistono più da due anni, ma il loro leader David Lowery (anche una buona carriera come produttore e da solista) non impiega molto per inventarsi i Cracker, creatura che prosegue lo stesso discorso della band madre, ossia: fottersene di tutte le etichette e approccio alla musica che se non è perfetto, poco ci manca. I Cracker incidono dieci dischi, nel frattempo i Camper Van Beethoven si riformano nel 1999, Lowery si divide in due, tanto che ad un certo punto inizia ad essere difficile distinguere le due realtà. Barkeley To Bakersfield è la summa di trent'anni di musica, un ambizioso viaggio che porta da Barkeley, città universitaria per eccellenza e madre di numerosi gruppi punk anni '90 (NOFX, Green Day, Rancid) fino a Bakersfield (patria di Merle Haggard), città  distante un poker di ore e prevalentemente agricola. Due dischi che racchiudono le due anime del gruppo, per una volta separate e distinte.
"E' stato uno shock quando ho ascoltato le cose che abbiamo registrato con la formazione originale a Barkeley, e poi di seguito quello che abbiamo registrato in Georgia. Ho ascoltato e pensato che fossero due cose diverse. Così abbiamo dovuto fare un doppio album, due dischi separati" racconta Lowery. Nel primo disco (Barkeley) si riforma la primissima line up della band (oltre a Lowery alle chitarre e voce, Davey Faragher al basso, Johhny Hickman alle chitarre, Michael Urbano alla batteria, Thayer Sarrano alle tastiere, Marc Gilley al sax e Mark Golde alle tastiere aggiunte). Il disco prende forma all'East Bay Recorders di Barkeley in California e come la stessa band precisa: cattura l'anima punk, garage e funk (El Cerrito) del posto (la Bay Area). Lo spirito rock'n'roll spruzzato di glam '70 di Beautiful, Life In The Big City e nella stoccata anti capitalismo, condita di dissacrante ironia, di March Of The Billionaires, l'imprescindibile pop dell'apertura Torches And PitchForks, della sussultante El Comandante, l'urgenza dell'assalto garage/punk You Got Yourself Into This.
Il viaggio prosegue fino a Bakersfield, il lato bucolico e agreste della California. Il secondo disco abbraccia la country music, grazie all'aiuto di numerosi sessionmen  in aiuto all'attuale formazione della band: "classiconi" infarciti di pedal steel alla Willie Nelson (California Country Boy), chitarre acustiche, western song (Almond Grove), ballate per gite on the road (King Of Bakersfield), pigri valzer (Tonight I Cross The Border),  violini, qualche svisata honk tonk (Get On Down The Road), veloci country guidati dal banjo (The San Bernardino Boy).
Il viaggio è finito. Dormite in pace. Domani si riparte.

vedi anche
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)




venerdì 6 marzo 2015

MARK LANEGAN BAND live @ Alcatraz, Milano, 5 Marzo 2015




Duke Garwood

Duke Garwood


SETLIST: When Your Number Isn't Up/Judgement Time/The Gravedigger's Song/Harvest Home/Quiver Syndrome/One Way Street/Gray Goes Black/Deepest Shade (The Twilight Singers)/Hit the City/Ode to Sad Disco/Riot in My House/Harborview Hospital/Floor of the Ocean/Torn Red Heart/Black Rose Way(Screaming Trees)/Sleep With Me/Death Trip to Tulsa/Methamphetamine Blues/Am the Wolf/The Killing Season


 

mercoledì 4 marzo 2015

RECENSIONE: RICHIE KOTZEN (Cannibals)

RICHIE KOTZEN  Cannibals (RedRoomHnc
, 2015)



Ventiquattro dischi in discografia (tra solisti, collaborazioni e band) sono tantissimi, cose da vecchio dinosauro della musica verrebbe da pensare, e la recente uscita Essential Richie Kotzen ha cercato di mettere un po' d'ordine senza riuscirci in modo esaustivo. No, Richie Kotzen ha soli quarantacinque anni e la sua prolificità ha un solo sinonimo a cui può legarsi: passione. Dopo tutti questi dischi, Cannibals si pone come un altro passo avanti verso l'ampliamento di quei territori musicali solo toccati in precedenza ma mai messi a fuoco così chiaramente come questa volta. Chi si aspetta l'attacco hard blues della sua ultima creatura The Winery Dogs o dei due inediti presenti in Essential, si troverà di fronte qualcosa di diverso. Molto diverso. Cannibals è un disco tanto personale e introspettivo, quanto soul, il più nero (musicalmente parlando) della sua carriera. Le prime scoperte adolescenziali legate al soul e al R & B trovano sfogo in queste dieci tracce da lui scritte, cantate (voce superba), arrangiate e completamente suonate. Una dimostrazione di forza compositiva che non ammette repliche ma solo ammirazione.
Tolte le toccanti ballate pianistiche, nel finale, Time For The Payment e  You, unico brano scritto con la figlia August Eve-anche ospite al pianoforte-il disco si dipana tra trascinanti funk rock (l'apertura Cannibals), caldi e flessuosi soul (In An Istant), fascinazioni '70 con l'hammond protagonista in Stand Tall e Shake It Off che richiama fortemente Sly Stone, sfiora la disco dance in Come On Free, mentre in I'M All In la chitarra è fieramente in prima linea e la voce ospite a duettare è quella di Dug Pinnick, voce e basso dei mai troppo lodati King's X. Artista completo, non solo chitarrista, che meriterebbe l'attenzione di tutti gli appassionati dei suoni più classici e roots del rock, gli stessi che scappano quando leggono i nomi di Mr.Big e Poison associati al suo. Lasciatevi incuriosire. Quello che vorrei tanto sentire-ancora-da Lenny Kravitz (quello dei primi due album), l'ho trovato in questo disco.

vedi anche
RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)
REPORT/LIVE: RICHIE KOTZEN live @ Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia (NO), 20 Marzo 2012
RECENSIONE: RICHIE KOTZEN-The Essential Richie Kotzen (2014)

lunedì 23 febbraio 2015

RECENSIONE:JONATHAN WILSON (Slide By)

JONATHAN WILSON Slide By (Bella Union Records, 2014)




Come una volta
Gli sono bastati due dischi per accaparrarsi prima le simpatie di quel pubblico che vive ancora dentro la bolla spazio-temporale dei ‘70, in seguito la stima di artisti che in quella bolla ci soffiarono dentro per primi, e scorrendo i credits del secondo album FANFARE si capisce bene chi siano. Se l’ascolto distratto della sua arte potrebbe far pensare ad un semplice replicante, con un po’ di pazienza (gli ascolti distratti non funzionano) si capisce quanto viva la musica con vero trasporto e che il Laurel Canyon non sia solo un luogo dove abitare ma un tatuaggio marchiato a fuoco nell’anima.
Questo EP di cinque canzoni, uscito a ridosso del Record Store Day, presenta due nuove composizioni recuperate dalle session di FANFARE (la pianistica Slide By e la dedica al suo idolo Alpha Blondy Was King) e tre cover: la dylaniana Coming To Los Angeles di Arlo Guthrie, Free Advice (The Great Society) e i quasi nove minuti di Angel (Fleetwood Mac). Artista a tutto tondo, produttore e, ora come ora, unico ponte lisergico e credibile tra passato e presente, USA e UK, tra rock e sogno.
 Enzo Curelli 7 da Classi Rock #27



lunedì 16 febbraio 2015

HAYSEED DIXIE live @ Spazio 211, Torino, 13 Febbraio 2015



SETLIST
Hells Bells/Kirby Hill/You Shook Me All Night Long/War-War Pigs/Tolerance/Eye Of The Tiger/Don't Stop Believin'/Laying In The Backyard/Ace Of Spades/Eine Kleine Trinkmusic/Bohemian Rhapsody/Schnaps Dar War Sein Letztes Wort/We're Not Gonna Take It/Corn Liquor/She Was Skinny When I Met Her/Fat Bottomed Girls/Pour Some Sugar On Me/I'm Keeping Your Poop/Moonshine's Daughter/Duelling Banjo/Highway To Hell/Hotel California (medley)/Whisper



sabato 7 febbraio 2015

RECENSIONE: DEVON ALLMAN (Ragged & Dirty)

DEVON ALLMAN  Ragged & Dirty (Ruff Records, 2014)



Sangue buono
Portare questo cognome nell’anno in cui ‘At Fillmore East’ è stato celebrato a dovere con l’esaustivo box e le recenti dipartite dalla band di Warren Haynes e Derek Trucks hanno riportato l’attenzione sull’ Allman Brothers Band (triste commiato o nuova rinascita?) non deve essere facile. Eppure, con il secondo album solista il quarantaduenne figlio d’arte piazza un disco che si abbevera tanto alla fonte del padre Gregg, spaziando tra le terre del sud, quanto tra le vie di Chicago, facendo della “varietà di qualità” un punto di forza: tra suoni più rocciosi (Ten Million Slaves), lunghi strumentali (Midnight Lake Michican) e funk pieni di groove (I’ll Be Around), Devon si conferma chitarrista e cantante dall’anima profondamente soul, caratteristiche forse troppo mimetizzate all’interno del suo gruppo Royal Southern Brotherhood, ma qui bene a galla, anche rispetto al precedente Turquoise. Quando il buon sangue che scorre tra le vene non viene sperperato.
da CLASSIX #42

venerdì 30 gennaio 2015

RECENSIONE: THE DECEMBERISTS (What A Terrible World, What A Beatiful World)

THE DECEMBERISTS   What A Terrible World, What A Beautiful World (Rough Trade Records, 2015)



Le tante facce della maturità
“Non possiamo più tollerare tragedie come queste. Dobbiamo cambiare. Farò qualsiasi cosa in mio potere, per bloccare il massacro”. Con queste parole, il 17 Dicembre 2012, Barack Obama tenne un discorso durissimo all’indomani del massacro di venti bambini e sei insegnanti in una scuola elementare di Newtown nel Connecticut. Da qui sembra ripartire l’affascinante (e più accessibile) viaggio sonoro di Colin Meloy e la sua band, dopo il tour solista e la buona carriera letteraria che lo hanno tenuto impegnato ultimamente. Colpito da quelle parole scrive la folkie 12/17/12, a testimonianza della consapevolezza ed equilibrio raggiunti in carriera ma soprattutto in vita. Un disco che tocca più strade: sfiora la più sperimentale ed epica (Cavalry Captain) di inizio carriera che li innalzò a nuovi eroi indie (la tesa Lake Song), la fascinazione per Phil Spector (Philomena) e il più marcato passo indietro verso le radici folk e country (Anti-Summersong) compiuto con il precedente THE KING IS DEAD. Il terribile e il magnifico mondo, appunto. In un solo disco.
Enzo Curelli voto 7   da Classic Rock  (Gennaio 2015)




lunedì 26 gennaio 2015

RECENSIONE LIBRO: GRAHAM NASH (WILD TALES-La Mia Vita Rock'n'Roll)


GRAHAM NASH
‘WILD TALES-LA MIA VITA ROCK’N’ROLL’
(Arcana Edizioni, pag.380, 22 euro)




“Pochi minuti dopo essere scesi dall’aereo, mi arrampicai sulla sommità della prima palma e dissi a Clarkie- Allan Clarke, leader degli Hollies- che non sarei mai più sceso. Una metafora a cui avrebbe dovuto prestare ascolto”. Così l’inglese Graham Nash racconta il primo contatto con L.A., avvenuto nel 1966 durante un tour USA del suo primo gruppo The Hollies. Da quella palma a stelle e strisce non scese mai se non per raccogliere i cocci causati dalle brusche cadute in una carriera di picchi altissimi e rovinosi abissi, suoi e dei tanti amici incontrati lungo la strada: dalla prima vera amica “americana” Cass Elliot (la cicciotta dei The Mamas & The Papas), al grande e travolgente amore per Joni Mitchell “era come un quadro di Escher, con tutti i suoi angoli acuti, attrattive inaspettate e abissi misteriosi”, i rapporti tempestosi con l’egocentrico Stephen Stills e il bizzoso Neil Young, fino all’incontro con il fraterno David Crosby, tanto che, pagina dopo pagina, la biografia sembra correre in parallelo con la vita disastrata da droghe e eccessi dell’amico Croz “aveva sempre l’erba migliore, le donne più belle, ed erano sempre nude”, quasi due biografie in una, verrebbe da dire.
©  Joel Bernstein, 1974
‘Wild Tales’ è un manifesto cronologico che scorre piacevole e veloce, diversamente dall’intricata, a tratti noiosa biografia di Neil Young: dall’infanzia nei sobborghi di una Manchester post guerra, il successo pop degli Hollies, nati sulle orme degli Everly Brothers ma con il tempo diventati sempre più stretti (Laurel Canyon calling), fino all’incontro con quelle due voci (Crosby e Stills) che gli cambiarono la vita. Woodstock, le droghe (la musica su tutte), le donne, il grande, proficuo ma illusorio tour del 1974 con CSNY (celebrato finalmente anche su disco), l’impegno politico al fianco di Jackson Browne, le grandi passioni per arte e fotografia.
Vita intensa la sua. Inutile dirvi che tre quarti di libro sono dedicati ai 60 e 70, lasciando al resto le briciole. Ma proprio in quel ventennio c’è tutto quello che vogliamo dal rock’n’roll. (Enzo Curelli) da CLASSIX!  # 42 (Dicembre/Gennaio)

vedi anche
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)





lunedì 19 gennaio 2015

RECENSIONE: RYAN BINGHAM (Fear And Saturday Night)

RYAN BINGHAM  Fear And Saturday Night (Axster Bingham Records, 2015)



C'è un uomo con un cappello texano calato in testa che gira per le montagne della California, ha la barba sfatta, jeans lisi e alza polvere con gli stivali quando cammina, è lì da alcuni giorni, porta sempre con sé una chitarra, la suona appena può, in qualunque angolo si trovi. Le ragazze del primo paese vicino se ne sono già innamorate, il fascino da bello e dannato funziona anche ad alta quota. A tarda sera si ritira dentro alla sua roulotte: ha poche cose con sé, da lontano si vede una fioca luce di candela accesa fino a tardi, a notte fonda si sente una voce roca accompagnata da accordi di chitarra. Si dice in giro che sia uno importante, un musicista, uno che ha vinto addirittura un Oscar. Qualcuno ci crede. Allora, perché è solo? Perché la sua faccia si lascia andare poche volte ad un sorriso quando incrocia qualcuno del posto? Sembra pensieroso. Ryan Bingham costruisce così il quinto album in carriera, il più amaro e personale, ci aggiungo il più completo in generale. In totale solitudine, rimuginando su quelle ferite che spezzano il cuore ma che, come indelebili tatuaggi, rimarranno per sempre: le riflessioni su un figlio mai nato (o meglio non ancora nato) nella ballata folk con armonica Broken Heart Tattoo. Infanzia e vita difficili le sue. I genitori morti giovani e in circostanze drammatiche (il padre suicida, la madre alcolista), una vita tutta da costruire contando solo sulle proprie forze. Ma quello che la vita ha tolto, la musica ha ridato. Lui ha raccolto e continua a seminare bene. Dopo un disco "arrabbiato" (Tomorrowland), nato come risposta istintiva a quelle perdite - a cui si aggiunge la separazione dalla prima band The Dead Horse - e per certi aspetti deviante nella forma musicale tanto da far storcere il naso a molti fan della prima ora (disco da rivalutare assolutamente) ritorna, adesso, a calpestare le strade del primo Mescalito, un debutto che rasentò la perfezione, innalzandolo a nuovo eroe border rock Americana.
Fear And Saturday Night cresce nel profondo dell'anima, si nutre di dolore ma guarda fieramente avanti, e tutto esce bene dal testo del blues elettrico "Bo Diddley Beat" Hands Of Time. Se Tomorrowland era un grido istintivo e rumoroso, questo è l'analisi riflessiva nata in completa solitudine: "non temo niente tranne me stesso" canta nella title track. Si apre con un country rock dai ritmi pigri (Nobody Knows My Trouble), autobiografica panacea scaccia crisi e prosegue tra blues crudi (Top Shelf Drug) con chitarre toste e tese (Daniel Sproul e Jedd Hughes) con l'hammond di contrappunto (Chris Joyner) e country/folk elettro-acustici, polverosi, desertici e sornioni: la finale Gun Fightin Man, la cupa e dal passo lento Fear And Saturday Night, le pennellate romantiche di Snow Falls In June e della crepuscolare Darlin, la notturna e springsteeniana My Diamond Is Too Rough con un bel solo di chitarra nel finale, Radio, ballata che si perde nei percorsi più bui dell'esistenza e procede con il tipico passo younghiano, l'esuberanza alla Ryan Adams e gli accenti sudisti con un sussulto honk tonk nel mezzo. L' infanzia da piccolo nomade ritorna spesso nei temi dei testi: il viaggio come fuga salvifica (Island In The Sky), e della speranza, come quello dei due innamorati protagonisti del veloce assalto a tutta slide su ritmi mariachi della contagiosa Adventures Of You and Me.
Fear And Saturday Night è un passo indietro a livello musicale, un ritorno all'esordio, e due avanti a livello umano, un ostacolo in meno sulla sua strada. Risultato: il miglior album dopo Mescalito (2007).



vedi anche

RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)



RECENSIONE: RYAN BINGHAM & THE DEAD HORSE live @ Sarnico (BG), 19 Giugno 2011



RECENSIONE: THOM CHACON-Thom Chacon (2013)





RECENSIONE: WILLIE NILE- If I Was A River (2014)






domenica 18 gennaio 2015

ANDY WHITE live @ Birrificio Sant'Andrea, Vercelli, 16 Gennaio 2015

ANDY WHITE
live@Birrificio Sant’Andrea, Vercelli, 16/01/2015

Cosa puoi dire a un uomo di 52 anni che sta girando l’Europa solo, trascinandosi dietro, con tanto amore, una custodia di chitarra e un trolley, con appiccicati al volto l’entusiasmo contagioso di un ragazzino che deve ancora scoprire tanto e l’esperienza di chi invece ne ha viste di più? Attacca il concerto con quella Religious Persuasion che dipinge perfettamente il quadro traballante attaccato al chiodo arrugginito delle religioni, del terrorismo, dell’Irlanda anni settanta, della sua Belfast di metà anni ‘80, racchiudendo perfettamente tutto il suo passato musicale, costruito sulle stesse parole pungenti di Dylan al Village, sulla poesia di Van Morrison, sull’attitudine alla Waterboys . ANDY WHITE agli esordi combatteva in prima linea.
Ma essere in prima linea anche con il cuore non è da tutti. E’ dei puri. Ora le linee sono più dolci e un po’ amare. Arriva così a raccontare la sua vita in modo poetico, disincantato e divertito: l’Australia, sua attuale casa, l’amore per l’Italia (Italian Girls On Mopeds), per la poesia (Looking For James Joyce’s Grave), la vita. L’ultimo disco How Things Are (l’undicesimo) è nato dopo una rottura sentimentale che lo ha segnato profondamente: registrato ancora una volta in solitaria insieme al figlio Sebastian (alla batteria), sembra trasmettere la giusta positività, non togliendo un grammo al peso specifico della parola AMORE, rafforzandola, traducendo in musica quell’entusiasmo che domani lo porterà verso un’altra città e conoscere nuova gente. Ho sempre nutrito una simpatia a pelle per White. Non sbagliavo e ne sono estremamente contento. Posso dire: THANX ANDY, mentre lui pensa se è già passato da Biella. Non credo, ma il giramondo sei tu. Potresti aver ragione. (Ha ragione).



giovedì 15 gennaio 2015

LUKE WINSLOW-KING live @ Teatro Duse, Besozzo (Va), 14 Gennaio 2015



 


 
 
 
 
 
RECENSIONE: LUKE WINSLOW-KING Everlasting Arms (Bloodshot Records/IRD, 2014)
Poi ci sono dischi che lasci per ultimi. In fondo alla pila, quella più alta, quella lì in fondo a sinistra, sotto a tutti gli altri. Sono ridotto così. Immancabilmente sai che diventeranno i primi della fila, superando nomi blasonati e uscite strombazzate ma poi trombate. Il motivo per cui rimangono ultimi? E' un affascinante mistero a cui non voglio dare mai risposte concrete, o più semplicemente non lo so? Everlasting Arms è un disco da mettere in vetrina. Luke Winslow-King ha raggiunto con il quarto album in carriera una scrittura da vecchio e maturo veterano. Tutto suona antico nella sua musica, ma tutto è fatto dannatamente bene e proiettato nel suo presente: la sua voce a tratti gentile e accomodante, a cui forse manca quella spigolatura in grado di lasciare il pungente graffio (ma sono dettagli trascurabili), una slide, suonata anche dall'amico italiano Roberto Luti, che imperversa da cima a fondo, la voce della moglie Ester Rose lo accompagna ai cori, i profumi sono quelli di legno tarlato e brillantina per capelli, di erba appena falciata e di fienili accanto casa, di sale da ballo affollate il sabato sera con i vecchi nonni d'America impegnati in sfrenati balli prolungati fin dopo mezzanotte per far concorrenza ai più giovani...  (Continua a leggere qui)





lunedì 12 gennaio 2015

RECENSIONE: STEFANO GALLI (Focus)

STEFANO GALLI   Focus (autoproduzione, 2014)



Stefano Galli fa nuovamente centro. E' passato un solo anno dal debutto Play It Loud!, ma l'esigenza di rimettersi in gioco era tanta e l'assenza di quel "band" dopo il nome presumo voglia testimoniare solamente quanto "di suo" ha riversato in queste personali dieci canzoni. La formazione infatti è la stessa del debutto: Roberto Aiolfi al basso, Marco Sacchitella alla batteria e Francesco Chebat alle tastiere. Un lavoro apparentemente più omogeneo sulla carta e nei credits, una sola cover (il classico soul Bring It On Home To Me di Sam Cooke) ma ancora con la varietà musicale che lo contraddistinse un solo anno fa. Registrato in quattro diverse e suggestive location, catturando il suono vero e diretto all'interno di mura e soffitti differenti: la ex Chiesa di Santo Spirito e il Teatro Circolo Fratellanza di Casnigo, le Officine meccaniche P.D.F. di Bergamo e la sua, meno suggestiva-penso-ma accomodante casa e in parte mixato a New York da Marc Ursilli (Lou Reed, Faith No More), Focus è un disco piacevolissimo dalla prima all'ultimissima nota, dove la chitarra è sempre ben presente senza invadere troppo la struttura generale delle canzoni, testimonianza della sua buona penna compositiva. Gli eleganti ricami chitarristici alla J.J.Cale/Eric Clapton (o Mark Knopfler se siete arrivati dopo) di Lonely Day, il tiro hard blues dell'iniziale Jealous giocata bene sulle tastiere '70 di Francesco Chebat, l'arpeggio lieve dell'attestato d'amore che esce da If I Lived (con la voce della piccola figlia nel finale) e da Catherine, la corsa strumentale del blues Funny Slide,  il funk di Price, la divertita I Can't Stand You Anymore, la jazzata Vesta Light. Tutte a mettere ulteriormente in mostra l'ecclettismo musicale di Galli. Due dischi: due centri su due. Ottima mira.




vedi anche


RECENSIONE: STEFANO GALLI BAND-Play It Loud (2013)












LA MIA PLAYLIST DISCHI ITALIANI 2014










martedì 6 gennaio 2015

RECENSIONE: LUKE WINSLOW-KING (Everlasting Arms)

LUKE WINSLOW-KING Everlasting Arms (Bloodshot Records/IRD, 2014)


Poi ci sono dischi che lasci per ultimi. In fondo alla pila, quella più alta, quella lì in fondo a sinistra, sotto a tutti gli altri. Sono ridotto così. Immancabilmente sai che diventeranno i primi della fila, superando nomi blasonati e uscite strombazzate ma poi trombate. Il motivo per cui rimangono ultimi? E' un affascinante mistero a cui non voglio dare mai risposte concrete, o più semplicemente non lo so? Everlasting Arms è un disco da mettere in vetrina. Luke Winslow-King ha raggiunto con il quarto album in carriera una scrittura da vecchio e maturo veterano. Tutto suona antico nella sua musica, ma tutto è fatto dannatamente bene e proiettato nel suo presente: la sua voce a tratti gentile e accomodante, a cui forse manca quella spigolatura in grado di lasciare il pungente graffio (ma sono dettagli trascurabili), una slide, suonata anche dall'amico italiano Roberto Luti, che imperversa da cima a fondo, la voce della moglie Ester Rose lo accompagna ai cori, i profumi sono quelli di legno tarlato e brillantina per capelli, di erba appena falciata e di fienili accanto casa, di sale da ballo affollate il sabato sera con i vecchi nonni d'America impegnati in sfrenati balli prolungati fin dopo mezzanotte per far concorrenza ai più giovani.
Nativo del Michigan, ma figlio adottivo di New Orleans, città incontrata per puro caso in gioventù ma che lo ha conquistato definitivamente e svezzato musicalmente. Da lì non si è più mosso: ha iniziato a studiare arte e musica, spostandosi spesso anche in Europa, ma nella città del jazz c'è rimasto a vivere, ne ha carpito tutti i segreti, l'ha vissuta sulla propria pelle suonando in tutti gli angoli possibili. Nella sua musica convivono gli umori del sud, riaffiorano vecchi suoni ante guerra, antichi ragtime, dixieland (Levee Man), blues del delta (The Crystal Water Springs) e blues rutilanti dal tiro rock'n'roll (Swing That Thing), country (Wanton Way Of Loving), vecchi canti creoli di protesta riaffiorati da antichi libri e poi musicati (Bega's Carousell). Un ricercatore che riporta a galla il recente passato, lo restaura e ce lo offre su quel piatto dove il vinile sa ancora girare senza fretta. Un disco senza tempo come tutti quelli che dimentico colpevolmente in fondo alla pila. Chissà cosa altro c'è?

vedi anche: live @ Teatro Duse, Besozzo (VA), 14 Gennaio 2015





LA CLASSIFICA DEI LETTORI E LA MIA PLAYLIST: DISCHI 2014









RECENSIONE: WILLIE NILE-If I Was A River (2014)