lunedì 19 gennaio 2015

RECENSIONE: RYAN BINGHAM (Fear And Saturday Night)

RYAN BINGHAM  Fear And Saturday Night (Axster Bingham Records, 2015)



C'è un uomo con un cappello texano calato in testa che gira per le montagne della California, ha la barba sfatta, jeans lisi e alza polvere con gli stivali quando cammina, è lì da alcuni giorni, porta sempre con sé una chitarra, la suona appena può, in qualunque angolo si trovi. Le ragazze del primo paese vicino se ne sono già innamorate, il fascino da bello e dannato funziona anche ad alta quota. A tarda sera si ritira dentro alla sua roulotte: ha poche cose con sé, da lontano si vede una fioca luce di candela accesa fino a tardi, a notte fonda si sente una voce roca accompagnata da accordi di chitarra. Si dice in giro che sia uno importante, un musicista, uno che ha vinto addirittura un Oscar. Qualcuno ci crede. Allora, perché è solo? Perché la sua faccia si lascia andare poche volte ad un sorriso quando incrocia qualcuno del posto? Sembra pensieroso. Ryan Bingham costruisce così il quinto album in carriera, il più amaro e personale, ci aggiungo il più completo in generale. In totale solitudine, rimuginando su quelle ferite che spezzano il cuore ma che, come indelebili tatuaggi, rimarranno per sempre: le riflessioni su un figlio mai nato (o meglio non ancora nato) nella ballata folk con armonica Broken Heart Tattoo. Infanzia e vita difficili le sue. I genitori morti giovani e in circostanze drammatiche (il padre suicida, la madre alcolista), una vita tutta da costruire contando solo sulle proprie forze. Ma quello che la vita ha tolto, la musica ha ridato. Lui ha raccolto e continua a seminare bene. Dopo un disco "arrabbiato" (Tomorrowland), nato come risposta istintiva a quelle perdite - a cui si aggiunge la separazione dalla prima band The Dead Horse - e per certi aspetti deviante nella forma musicale tanto da far storcere il naso a molti fan della prima ora (disco da rivalutare assolutamente) ritorna, adesso, a calpestare le strade del primo Mescalito, un debutto che rasentò la perfezione, innalzandolo a nuovo eroe border rock Americana.
Fear And Saturday Night cresce nel profondo dell'anima, si nutre di dolore ma guarda fieramente avanti, e tutto esce bene dal testo del blues elettrico "Bo Diddley Beat" Hands Of Time. Se Tomorrowland era un grido istintivo e rumoroso, questo è l'analisi riflessiva nata in completa solitudine: "non temo niente tranne me stesso" canta nella title track. Si apre con un country rock dai ritmi pigri (Nobody Knows My Trouble), autobiografica panacea scaccia crisi e prosegue tra blues crudi (Top Shelf Drug) con chitarre toste e tese (Daniel Sproul e Jedd Hughes) con l'hammond di contrappunto (Chris Joyner) e country/folk elettro-acustici, polverosi, desertici e sornioni: la finale Gun Fightin Man, la cupa e dal passo lento Fear And Saturday Night, le pennellate romantiche di Snow Falls In June e della crepuscolare Darlin, la notturna e springsteeniana My Diamond Is Too Rough con un bel solo di chitarra nel finale, Radio, ballata che si perde nei percorsi più bui dell'esistenza e procede con il tipico passo younghiano, l'esuberanza alla Ryan Adams e gli accenti sudisti con un sussulto honk tonk nel mezzo. L' infanzia da piccolo nomade ritorna spesso nei temi dei testi: il viaggio come fuga salvifica (Island In The Sky), e della speranza, come quello dei due innamorati protagonisti del veloce assalto a tutta slide su ritmi mariachi della contagiosa Adventures Of You and Me.
Fear And Saturday Night è un passo indietro a livello musicale, un ritorno all'esordio, e due avanti a livello umano, un ostacolo in meno sulla sua strada. Risultato: il miglior album dopo Mescalito (2007).



vedi anche

RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)



RECENSIONE: RYAN BINGHAM & THE DEAD HORSE live @ Sarnico (BG), 19 Giugno 2011



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