JAKE BUGG Hearts That Strain (2017)
"How many roads must a man walk down
Before you call him a man"
Ottobre 2012, mi trovo a Dublino davanti alla vetrina di un grande Record Store: è tappezzata da tanti cd tutti uguali, in copertina campeggia il viso sbarbato e imbronciato di un ragazzo che pare appena uscito dall’ età adolescenziale. Assomiglia a Justin Bieber, ma lo conosco di nome e so che la sua musica è molto lontana dall’idolo pop delle teenager. Torno in Italia con il suo debutto in valigia che presto passa nell’impianto stereo: voce giovane ma nasale e musica elettro acustica che costruisce i ponti ideali tra il folk americano orbitante nei Coffee House di Minneapolis frequentati dal giovane Bob Dylan e il folk britannico di Donovan con gli antichi guizzi r’n’r di Buddy Holly e le melodie brit pop anni novanta degli Oasis. Sarà proprio Noel Gallagher a tesserne pubblicamente le lodi e portarselo in tour. L’idilio tra i due finì quando Gallagher scoprì che Bugg collaborò con due co-autori per la stesura di alcuni pezzi. Stranezze del Rock. Il debutto arriva a vendere 450.000 copie solo in UK, e non passa un anno che l’etichetta discografica decide di investire tutto sul giovane proveniente dall’operaia Nottingham: lo spedisce a Malibu, in California, sotto le mani esperte di Rick Rubin che mette a disposizione musicisti amici tra cui Chad Smith (Red Hot Chili Peppers). In SHANGRI LA l’aria si fa meno nebbiosamente brit ma più polverosamente yankee, con alcune possenti puntate punk rock. Rubin smussa l'ingenua urgenza esecutiva dell'esordio, arricchendo le canzoni di sfumature ma complicando ulteriormente la vita a chi cerca di inquadrarlo. Devono però passare tre anni per ritrovare nuovamente Jake Bugg in studio con ON MY ONE. Il ragazzo ha solo ventidue anni ma ha deciso che è il momento di camminare da solo: il disco è più il personale e autobiografico dei tre incisi, per le liriche (nella title track canta dei tre anni passati in tour e dei 400 concerti) e perché si cimenta per la prima volta anche come produttore, aggiungendo degli spiazzanti retaggi elettro Hip Hop al già ricco recente passato. Troppa carne al fuoco. Arrivati in questo 2017, mentre le sue canzoni ('Lightning Bolt') si possono sentire in TV abbinate a prodotti pubblicitari, la domanda sorge spontanea: qual è la sua reale strada artistica? Bene, nemmeno questo quarto disco
HEARTS THAT STRAIN ci darà una risposta esaustiva. (Che brutta copertina!). Bugg ha deciso di partire ancora una volta per gli Stati Uniti, destinazione Nashville. Lì incontra
Dan Auerbach con il quale scrive un paio di pezzi e che gli mette a disposizioni i migliori musicisti sulla piazza con una certa esperienza dietro, gli stessi che hanno registrato con lui l’ultimo solista: The Memphis Boys, Bobby Woods, Gene Chrisman . Ne esce un disco intimo e malinconico, costruito esclusivamente su ballate country folk leggere ma spesso dalle atmosfere grevi (‘Hearts That Strain’), quasi soffici con pochissimi guizzi lungo il percorso: a differenziarsi ‘Waiting’ cantata in coppia con
Noah Cyrus, sorella della più famosa Miley, un soul costruito su pianoforte e fiati, prima ti imbarazza ma poi ti conquista, e l’up tempo ‘Burn Alone’ comunque lontano da qualcosa che si possa chiamare rock, e qui il tocco di Auerbach si sente. Si viaggia sempre a favore del leggero vento west coast (‘How Soon The Dawn’) che ricorda gli America di metà anni settanta, quelli del periodo George Martin per intenderci, mentre la presenza del pianoforte in parecchie canzoni (‘The Man On Stage’) porta alla mente la musicalità gentile e raffinata di Graham Nash. Se aspettate il guizzo rock’n’roll che segnava i primi due dischi, mettetevi l’anima in pace: non arriverà mai.
I giudizi sul disco, facendo un giro nel web, non sono molto entusiasmanti (io non lo boccio ma lo rimando al prossimo, ah? Il prossimo era già questo?), e questo accentuato velo di nostalgia verso il passato che sembra avvolgere le canzoni ha avuto il suo peso nei giudizi, andando a cozzare contro l’ancora giovane età di Bugg. Sembra un settantenne che volge lo sguardo verso il passato. Che ti è successo Jake? Avrai tutto il tempo per queste nostalgie. L’unico consiglio che posso dare è quello di ritornare a sognare l’America avvolto dal grigio delle fabbriche della sua Nottingham, come avvenne all’esordio. Il suo vantaggio però sta tutto lì: davanti ha ancora tanta strada e tanti dischi. Invidiabile e non da tutti.
RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)
RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD-Party Of One (2017)