mercoledì 6 settembre 2017

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Hitchhiker)


NEIL YOUNG Hitchhiker (Reprise records, 1976/2017)
 

 

 

1975-1976: come vivere dieci anni in due. Proviamo a ricostruire cosa furono quei due anni per Neil Young. Con ZUMA uscito nel 1975 aveva rimesso in moto i Crazy Horse, reclutando il nuovo Poncho Sampedro alla chitarra in sostituzione di Danny Whitten. Un disco sostanzialmente rock ("uno dei miei preferiti" dice Young) che gli fece riprendere fiato dopo l'apnea esistenziale che avvolse la personale trilogia oscura (TIME FADES AWAY, ON THE BEACH e TONIGHT'S THE NIGHT), tra i picchi assoluti della sua carriera. Nel mezzo registra altri due album: HOMEGROWN, che lo stesso autore preferì mettere da parte, per le tante debolezze presenti disse, a favore della forza e la coesione di Tonight's The Night. Homegrown è ancora inedito oggi e molto probabilmente vedrà  la luce per la prima volta con l'uscita del prossimo giro di archivi. L'altro fu CHROME DREAMS. Intanto arriviamo al Gennaio del 1976: Young è a Miami con Stephen Stills, i due iniziano a definire le canzoni che finiranno nel loro album LONG MAY YOU RUN. Un disco carico di tante aspettative a cui seguiranno più delusioni che vero successo. Il tour conseguente andò a rotoli dopo poche date e Stills si ritrovò da solo a portare a termine il tour e con il buon servito di Young in tasca ("Eat The Peach"). Il 25 Novembre Neil Young insieme a una formidabile schiera d'artisti partecipa a The Last Waltz, il concerto d'addio della Band. In mezzo a tutte queste cose però, l'11 Agosto del 1976, Neil Young prese il suo pickup, chiamò con sé il fidato David Briggs (collaboratore fin dal 1968) e l'amico Dean Stockwell e si diresse agli Indigo Ranch Studios.

 

© Henry Diltz, 1975
“Nel 1976 ero una furia e siccome avevo preso l’abitudine di scrivere diverse canzoni alla settimana, mi ritrovai ingolfato: avevo troppo materiale e poco tempo in studio. Registravo ovunque potessi farlo e mi muovevo velocissimo, finendo i miei dischi molto rapidamente…
Una sera io e Mister Briggs prendemmo Stretch (un
Pickup Dodge Wagon Crew Cab Long-bed del 1975 soprannominato Scretch Armstrong) e andammo al suo posto preferito, gli Indigo Ranch Studios. Con David passai la notte a registrare nove canzoni acustiche e completammo un nastro che intitolai HITCHHIKER. Era un’opera fatta e finita, nonostante io fossi piuttosto strafatto, come si può sentire da quelle performance. Con noi quella sera c’era Dean Stockwell, mio amico e grande attore con cui in seguito lavorai come co-regista di Human Highway. Dean rimase lì con me nella stessa stanza dove registrai tutte le canzoni di seguito, tranne qualche piccola pausa per l’erba, la birra o la cocaina. Briggs stava in sala e missava in diretta sul suo banco preferito.
Stretch era il mezzo perfetto per raggiungere l’Indigo Ranch, lo studio dove creammo moltissima musica in un brevissimo lasso di tempo suddiviso nell’arco di un anno. Per me e Briggs fu uno dei periodi più creativi. Quello studio si trovava molto all’interno tra le colline sopra Malibu. Era su una strada sterrata alla fine del Canyon, oltre la casa di Garth Hudson (il magico organista di The Band). Lasciammo un bel po’ di anima in quell’edificio quando, pochi anni dopo, fu raso al suolo da un incendio che distrusse anche tutte le attrezzature analogiche preferite da David. Le cause dell’incendio rimangono ignote”
Neil Young dall'autobiografia Special Deluxe


Poi il nulla fino ad Aprile di questo 2017, quando un indizio malandrino fatto uscire dal fotografo Gary Burden riportò interesse verso quel disco perduto: la stupenda copertina di Hitchhiker fece la sua prima comparsa sui social, mettendo in subbuglio i fan, me per primo. Qualche mese di conferme, date d’uscita smentite e tracklist ipotizzate in mezzo all’intensa e disordinata attività artistica di Neil Young fatta di nuove uscite e vecchi archivi sempre in dirittura d’arrivo. L'attesa è finita, dopo 41 anni quelle registrazioni sono state pubblicate ufficialmente questo 8 Settembre. Ci sono dieci canzoni, otto già conosciute e pubblicate in diverse versioni in dischi successivi: 'Pocahontas' che si apre con la frase "are you ready Briggs?", 'Powderfinger', 'Ride My Llama' finirono su RUST NEVER SLEEPS (1979), 'Human Highway' su COMES A TIME (1978), 'Captain Kennedy' su HAWKS & DOVES (1980), 'The Old Country Waltz' su AMERICAN STARS 'N BARS (1977), 'Compaigner' vide la luce nella sostanziosa raccolta DECADE (1977), mentre la scura 'Hitchhiker' che da il titolo al disco è una piccola biografia in musica tra confessioni di paranoia e droga "la confessione della mia progressiva storia  con le droghe assunte nel corso della mia vita" venne recuperata molto tardi nel sempre sottovalutato LE NOISE del 2010.

Fanno la prima comparsa su disco invece: la misteriosa ‘Hawaii’ con un inaspettato chorus in simil falsetto e tanti rumori in sottofondo, e ‘Give Me Strenght’ che ha il passo di un suo classico, già presentata live, dove Young canta di solitudine e di un amore finito male:
" I'm Ridin' down Swett road in my old car/The moon is almost full; I see thec stars shinin''/The party ended long before the night/She made me feel alive and that's alright"

Un disco intimo, caldo e brillante seppur con un velo di tristezza che spesso si adagia riportando alla mente gli stati d'animo dei due anni precedenti, che va a rimpolpare ("completare" non si può ancora usare) uno dei periodi più prolifici del canadese che sfodera la grandezza dei pochi di fronte alla spoglia (embrionale) esecuzione in acustico di dieci canzoni: voce, una chitarra,  un'armonica, più un pianoforte che compare nella finale 'The Old Country Waltz'. Aggiungete un po' di sana stonatura da sostanze e Hitchhiker è completo nella sua spartana incompletezza. Tutto qui? Tanto direi.
Un inizio d'autunno caldo per tutti gli amici di Neil. 
Per me è già il miglior disco di questo 1976.
★★★★ 1/2 (5)

Come il precedente PEACE TRAIL, i testi sono stampati in un foglio dalle dimensioni gigantesche, contenuto all'interno del solito digipack versione archivi (CD). All'interno un intenso primo piano in bianco e nero, mentre nel retro copertina brilla una bella foto di Neil Young a passeggio sulla riva del mare, preceduto di pochi passi dal fido cane. I passi porteranno verso la tranquillità di COMES A TIME.


© Henry Diltz, 1975


RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE- Americana (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Bluenote Cafè (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG +PROMISE OF THE REAL-Earth (2016)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Peace Trail (2016)
NEIL YOUNG: gli ANNI 2000



 

martedì 5 settembre 2017

il SI e il NO: PARADISE LOST (Medusa), QUEENS OF THE STONE AGE (Villains)


 PARADISE LOST-Medusa (2017)    SI ↑






Un lungo cerchio che si chiude. Con MEDUSA il gruppo anglosassone completa il lungo viaggio, partito nel lontano 1990, con il nero che ha raggiunto il suo apice subito in album come SHADES OF GOD, GHOTIC e ICON, colonne che saranno portanti per decine di gruppi che arriveranno dopo. Hanno attraversato varie fasi arrivando perfino a quel punto impensabile dove la melodia dominava sul resto, fino a raggiungere l’impossibile e toccare l’elettronica con il comunque bello HOST (1999) per poi ritornare lentamente sui loro passi. Con Medusa si ritorna a calpestare le radici, attraverso il sound scuro, doom, death e gotico (gli otto minuti d’apertura di ‘Fearless Sky’ mettono in chiaro tutto), lo stesso che caratterizzava i primi dischi. Nick Holmes ha ricominciato a ruggire e usare la voce growl più massicciamente, perdendo forse quella varietà che comunque piaceva, e il produttore Arellano ha riportato la giusta dose di grezza pesantezza (‘Blood & Chaos’). Ma i Paradise Lost non sono un gruppo che rinnega del tutto i passaggi più melodici della propria storia: ‘Medusa’ e ‘Symbolic Virtue’, infatti, si riallacciano a ONE SECOND (1997), il capolavoro indiscusso di metà carriera. Nulla di veramente nuovo ma una band ritornata per riprendersi i meriti guadagnati, poi dispersi, in trent’anni di carriera e che spettano loro di diritto.






QUEENS OF THE STONE AGE-Villains (2017)    NO ↓






 Ho ascoltato il nuovo VILLAINS con tutte le buone intenzioni e senza pregiudizi. Premessa: per me i QOTSA dopo SONGS FOR THE DEAF non hanno più azzeccato un disco intero, perdendo un po’ identità (a me sembra sempre più il progetto solista di Josh Homme) e la bussola grezza e pura dei loro esordi (quanto mi manca l'esuberanza punk di Nick Oliveri!), esasperando la ricerca di strade nuove e colpi a sensazione che hanno funzionato sporadicamente per alcune canzoni ma mai sulla lunga distanza di un disco, anche se l’ultimo ...LIKE CLOCKWORK aveva lasciato buoni segni per il futuro. Il futuro è arrivato! I grandi magazine ne parlano già bene, a volte benissimo (Mojo, Uncut, Classic Rock, Rolling Stones) ma a me questa deriva funk danzereccia con synth annessi (l’apertura ‘Feet Dont Fail Me’ parte dopo un lungo e inutile intro, ‘The Way You Used To Do’) che a tratti sembra strizzare l’occhio a gruppi nati già fotocopie come Killers e Franz Ferdinand non convince per nulla. Mi annoia. E non c'è nemmeno la voce di Mark Lanegan a salvare la baracca, vista la recente svolta New Wave di quest’ultimo. In alcune canzoni spuntano alcuni rimandi del disco che Josh Homme ha fatto con Iggy Pop (‘Domesticated Animals’), altro disco osannatissimo ma che mi lasciò freddo. Pure quello. E non c'è nemmeno la vecchia iguana nuda al microfono. No, nemmeno lui. Ecco: freddo è quello che i QOTSA mi danno a fine disco. Fortunatamente, non butto via tutto: mi piacciono lo psycho rock’n’roll schizzato di ‘ Head Like Haunted House’ e ‘The Evil Has Landed’, i rimandi a Bowie della finale ‘Villains Of Circumstance’. Poi lo so già: sarà un disco osannatissimo e io continuerò ad ascoltare R. Ecco: forse l’aver messo R nella chiavetta dell’autoradio immediatamente dopo questo nuovo disco è stato deleterio per tutti: disco e mio giudizio finale. Tutti contenti? No.





lunedì 28 agosto 2017

RECENSIONE: LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL (Lukas Nelson & Promise Of The Real)

LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL  Lukas Nelson & Promise Of The Real (Fantasy/Universal, 2017)





Si giocano bene le loro carte Lukas Nelson e i Promise Of The Real. Il quarto album è un bel viaggio panoramico sopra alla musica americana. Tranquillo, rilassato, piacevole e con tutta la sicurezza che solo un figlio d’arte che dall’età di 13 anni (ora sono 28) frequenta i palchi e i backstage musicali di tutti gli States, potrebbe avere. Se negli episodi più country, le ballate ‘Ju...st Outside Of Austin’ e la finale ‘If I Started Over’ sorrette da buonissime melodie da polvere di stelle, le radici con il leggendario padre sembrano uscire fuori prepotenti dal terreno, Willie Nelson è pure ospite alla chitarra nella prima, i momenti migliori si hanno quando l’ormai rodata squadra allunga il passo. I sette minuti dell’iniziale ‘Set Me Down Of a Cloud’ e gli otto di ‘Forget About Georgia’, scritta ricordando una relazione sentimentale giunta al termine, si giocano le carte soul (belle le sfumature della sua voce lungo tutte le dodici canzoni) e sparando qualche leggero fumo di psichedelia, buon lascito dell'esperienza in studio e live con zio Neil Young (già pronto un altro disco registrato a Malibu) che oltre ad aver portato visibilità in più, ha regalato tanta esperienza e nuovi "vecchi" trucchi. “Questo disco, più degli altri, cattura la nostra vera essenza di band”, dice Lukas.
Tra leggerezza (‘Breath Of My Baby’), buoni R&B (‘Die Alone’, ‘Four letter Word’), accenti southern (‘Carolina’), qualche episodio da vecchio west (‘Runnin Shine’) e il più duro affondo politico e sociale in ‘High Time’, canzone dal passo simile ai migliori Tom Petty And The Heartbreakers (anche la copertina ricorda molto da vicino THE LAST DJ di Petty), incuriosisce la presenza della pop star Lady Gaga ai cori in un paio di episodi (‘Carolina’ e ‘Find Yourself’). Niente che faccia gridare allo scandalo ma segno che Lukas Nelson e i Promise Of The Real pur componendo musica che di moderno ha poco (mi piace inquadrarla dentro la retta che da The Band passa per i CCWR e porta a Waylon Jennings, papà Willie e Kris Kristofferson), sono perfettamente sintonizzati nel loro presente.



RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD-Party Of One (2017)
RECENSIONE: JOHN MURRY- The Graceless Age (2013) A Short History Of Decay (2017)
RECENSIONE: RAY WYLIE HUBBARD-Tell The Devil That I’m Gettin' As Fast I Can (2017)


mercoledì 23 agosto 2017

RECENSIONE: RAY WYLIE HUBBARD (Tell The Devil... I’m Gettin' There As Fast I Can)

RAY WYLIE HUBBARD  Tell The Devil That I’m Gettin' As Fast I Can (Bordello Records, 2017)






“Se vuoi diventare un fuorilegge, figliolo, pensaci due volte” canta Steve Earle nel suo ultimo album. Il texano d’adozione RAY WYLIE HUBBARD (nato in verità in Oklahoma), uno degli ultimi rimasti, e tra i più dimenticati di quella straordinaria generazione che cambiò radicalmente la country music negli anni settanta, potrebbe confermare dall’alto dei suoi quasi 71 anni d’età. E’ un lavoro difficile, lasciate fare a me, sembra pensare dalla foto che lo ritrae in copertina. Da qualche tempo, poi, sembra averci preso gusto e sta sfornando dischi a ripetizione (4 negli ultimi sette anni) tutti toccati dalla buona ispirazione e con una decisa virata verso un suono più paludoso e dark rispetto al passato. In questo TELL THE DEVIL...I’M GETTIN' THERE AS FAST AS I CAN emerge fuori dal nero della copertina con un paio d’ali per volare sopra alla sua musica costruita come sempre sull’ossatura di un folk blues semplice, fangoso e misterioso ma sempre ficcante e pieno di simboli e rimandi: quando ulula come un lupo alla luna piena nell’omaggio a Howlin Wolf (‘Old Wolf’), quando cita l’album del trio folk Koener, Ray & Glover, BLUES, RAGS AND HOLLERS (1963) in ‘Spider, Snaker and Little Sun’, quando riesce a scrivere una canzone sull’accordatura della sua chitarra in ‘Open G’, condotta in solitaria. Seppure non sia un concept come lui stesso ha dichiarato in un’ intervista, le undici canzoni sembrano seguire un corso logico: partono con la genesi (la strisciante ‘Good Looked Around’ guidata dai battiti di mano) e finiscono con qualcosa che si avvicina al paradiso nella finale ‘In Times Of Cold’ dedicata al produttore dei suoi ultimi due dischi George Reiff, scomparso l’anno scorso a soli 56 anni.
In mezzo: tutto il suo straordinario immaginario fatto di polvere e deserti (‘Dead Thumb King’), fede e peccato (la cowboy song ‘Prayer’), stivali e serpenti striscianti, diavoli rossi tentatori, fantasmi (‘House Of The White Rose Bouquet’) e la sempre giusta dose d’ironia. Immancabile. Ray è il traghettatore che trasporta le nostre anime dal bene verso il male e viceversa. Folk blues minimale, quanto di più si avvicini alle murder ballads acustiche con qualche buon graffio elettrico (‘Lucifer And Fallen Angels’) portato in dote dal figlio Lucas ormai spalla destra affidabile e preziosa nelle due tracce che aprono il disco. Ma sono tanti anche gli ospiti questa volta: da Lucinda Williams e Eric Church nella title track che avanza pigra a ritmo di un country valzer dylaniano scaldato sotto il sole dei deserti, a Patty Griffin nella conclusiva e già citata ‘In Times Of Cold’ ai Bright Light Social Hour al completo  nella più variegata e psichedelica (moderna?) del lotto ‘The Rebellious Sons’. E se fino a qui avevate scelto Steve Earle come disco dell’anno americano, ora dovete fare i conti con il vecchio Ray . La lotta è dura, come si conviene a due veri outlaw.







RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
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RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
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martedì 22 agosto 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 44 :TERRY REID (River)

TERRY REID      River (Atlantic, 1973)









 posso ma non voglio
"Terry Reid mi disse di aver fatto il mio nome a Jimmy. Da parte mia, sapevo che gli Yardbirds avevano sfornato pezzi favolosi. Li avevo visti suonare con Eric. Non avevo niente da perdere ". Così Robert Plant raccontò il suo primo incontro con Jimmy Page che sfocerà nella genesi dei Led Zeppelin. Chi invece aveva qualcosa da perdere era il buon Reid che fu la prima scelta del chitarrista: rispose no alla chiamata perché i...n quel momento era convinto che il trio che mise in piedi con Pete Solley e Keith Webb potesse dargli grandi soddisfazioni. Partì tutto in quarta con il buon riscontro dell'album BANG BANG YOU'RE TERRY REID (1968) e i successi dei tour successivi ma durò pochissimo, nonostante all'epoca, tutti i più grandi facessero il tifo per lui: Aretha Franklin, i Cream, i Rolling Stones. L'intesa tra i tre scemò velocemente e Reid si trovò presto da solo, proprio quando i Led Zeppelin iniziarono ad alzarsi da terra e salutare tutti. Reid non si lasciò sconfiggere dai rimorsi, in verità non lo fece mai ("avevo altri progetti" la frase più ricorrente), e tra altre offerte declinate (sembra che anche Ritchie Blackmore gli offrì il ruolo di cantante nei Deep Purple prima di puntare su Ian Gillan) riuscì ad incidere il secondo disco TERRY REID (1969). Ma bisognerà attendere il 1973 per apprezzare a pieno le capacità compositive e la straordinaria voce di Reid (tanti i soprannomi che la sua voce gli fece conquistare: "Superlungs", "Silver Scream"). RIVER rimarrà il suo capolavoro, un disco che unisce le influenze americane e quelle british, prendendo forma sull'asse California-Londra. Un disco a due marce e tante anime che si avvale della straordinaria partecipazione di David Lindley alle chitarre, Alan White alla batteria, Willie Bobo alle percussioni e la supervisione di Eddie Offord, ingegnere del suono degli Yes: una prima metà che batte territori blues ('Things To Try') sporcati dal black soul e dal funky ('Live Life'), e qui si può capire perché i due maggiori gruppi hard rock dell'epoca avessero puntato su di lui, la seconda metà più folk, sognante e psichedelica ('Dream')con non rare incursioni latine ('River') e jazzate ( la personale rivisitazione di 'Milestones' di Miles Davis). Il disco ebbe un buon riscontro ma bisognerà aspettare altri tre anni per riascoltare un altro disco di Reid, anche se questa volta si mise di mezzo la sfortuna con alcuni contratti discografici che si complicarono. Troppi anni per cercare di cavalcare il successo (nonostante l'appoggio di Graham Nash), abbastanza per decretare Terry Reid come l'artista delle occasioni perse che non seppe, ma sarebbe più giusto dire volle, raccogliere i frutti delle sue straordinarie e naturali doti vocali e chitarristiche.


PUNTATE PRECEDENTI
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #21-NICOLETTE LARSON-Nicolette (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #23-ERIC ANDERSEN-Blue River (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #24-BADLANDS-Voodo Highway (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #25-GEORGE HARRISON-Living In The Material World (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA#26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH-Wind On The Water (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #29: STEPHEN STILLS (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #31: SUZI QUATRO-Suzi Quatro (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #34: EDOARDO BENNATO- Edo Rinnegato (1990)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #35: GENE CLARK-White Light (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #37: CAPTAIN BEYOND-Captain Beyond (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #38: ROD STEWART-Every Picture Tells a Story (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS-Bad To The Bone (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #40: THE ROLLING STONES-Their Satanic Majesties Request (1967)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH-Daylight Again (1982)



 

sabato 19 agosto 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH (Daylight Again)

CROSBY, STILLS & NASH   Daylight Again (1982)







Nei tardi anni sessanta hanno toccato alte e inarrivabili cime seduti sopra al divano volante, hanno attraversato i settanta a bordo di una barca a vela con il mare ora calmo, ora in tempesta; David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash approdano negli anni ottanta a bordo di tre sgangherate astronavi, illuminatissime, ma con la rotta poco chiara. Nash e Stills guidano la fila con sicurezza, Crosby arranca dietro con il fiato corto, perso nelle sue reiterate cadute causate da vizi pericolosi, depressione e salute cagionevole. Questo disco doveva uscire a nome Nash/Stills ma l’etichetta Atlantic Records impose anche la presenza di Crosby. Graham Nash arrivava da un buon disco solista come EARTH & SKY (1980), Stills aveva nel sacco una buona quantità di canzoni, provenienti da un disco abortito sul nascere. E Crosby? Crosby dopo aver registrato alcune canzoni per un disco anch’esso rifiutato dalla casa discografica, si era autoesiliato, pericolosamente schiavo delle droghe, arrivando al punto di non farsi trovare al telefono neppure davanti a numeri amici, fino a quando dopo una insistente serie di chiamate da casa Nash: “lo facemmo venire a Los Angeles, ma la sua voce era in condizioni incredibilmente brutte. Non era in grado di cantare una sola nota. Quel meraviglioso, dolce vibrato gallese era sparito del tutto. Per cui, prendemmo un paio delle sue canzoni migliori dell’album rifiutato dalla Capitol, ‘Delta’ e ‘ Might As well Have A Good Time’, e le sottoponemmo a un trattamento CSN, il che significa che Stephen e io aggiungemmo le nostre voci”. Racconterà Nash nell’autobiografia uscita nel 2013. Anche se una canzone come ‘Delta’, la leggenda narra che sia stato Jackson Browne a costringere uno strafatto Crosby a portare a termine la canzone, potrebbe mettere in ombra qualunque delle restanti dieci canzoni.
A Nash spetta il compito del gioco duro e sporco. Sue le canzoni con i testi più pungenti: nel country rock ‘Wasted On The Way’ ragiona sul trascorrere del tempo e su tutte le occasioni musicali che il gruppo (Neil Young compreso, questa volta) ha perso rincorrendo le bizzarre follie delle rockstar, nel duro e scuro rock ‘Into The Darkness’ viene preso di mira l’amico Crosby, unitamente alla sua vita sempre più allo sbando. A bilanciare il tutto la più classica delle ballate pianistiche di Nash, ‘Song For Susan’, dedicata alla moglie Susan Sennett. Al prolifico Stills, invece, il compito di indirizzare il disco verso il rock (l’apertura ‘Turn Your Back On Love’, ‘Southern Cross’, ‘Since I Met You’), ma anche di scrivere due delle migliori canzoni in scaletta: ‘You Are Alive’ con la splendida armonica di Nash, e il finale acustico ‘Daylight Again’, recuperata dal lontano 1972 e abbinata a ‘Find The Coast Of Freedom’ con la voce di Art Garfunkel ospite. Il finale lo racconta Nash: “Due incubazioni, dall’inizio alla fine. Uno dei progetti più frustranti in cui io sia mai stato coinvolto. Ed ero convinto di aver fatto un ottimo lavoro per come eravamo riusciti a mettere tutto insieme su DAYLIGHT AGAIN, considerando che si trattata di elementi sparsi”. Un disco spesso dimenticato ma con almeno una manciata di canzoni da ricordare.



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

martedì 15 agosto 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI (Gente Come Noi)

NOMADI   Gente Come Noi (1991)






Il video di ‘Mai Noi No’ venne girato a Biella, al Piazzo, la parte alta della città, borgo medioevale mai sfruttato e rilanciato a dovere. Un posto comunque già entrato negli schermi della commedia leggera all’italiana: in precedenza vi furono girate alcune scene de I Due Carabinieri con Enrico Montesano e Carlo Verdone , in futur...o (dopo il 1991) vennero girate scene de Il Principe E Il Pirata di Leonardo Pieraccioni. Ricordo benissimo quegli anni (1991 e 1992), quelle canzoni che diventarono una piacevole ossessione che profumava di piada (‘’Dammi un Bacio’) e caffè (‘Il Serpente Piumato’), di vita (‘Cammina, Cammina’) e libertà (‘Uno Come Noi’). Di vacanze estive spensierate e di un futuro ancora non scritto. Come dimenticare che poco dopo, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro morirono due componenti di quella formazione che stava ritrovando gli antichi splendori grazie a nuovi e freschi innesti (Cico Falzone alla chitarra, Daniele Campani alla batteria) che si unirono ai veterani Augusto Daolio e Beppe Carletti, regalando ancora alcune canzoni che diventeranno dei classici in futuro (‘Gli Aironi Neri’, C’è Un Re’, ‘Ma Noi No’, ‘Ma Che Film La Vita’), a quasi trent'anni dalla nascita del gruppo. GENTE COME NOI è uno dei loro dischi migliori, forse il più completo mai registrato, dove la scrittura di Daolio è ai suoi massimi livelli, in perfetto equilibrio tra denuncia, immagini nitide e sogno. Oserei dire anche dimenticato quando bisogna tirare fuori dischi italiani di pop perfetti, senza riempitivi.

In quel 1992 beffardo trovarono la morte: prima Dante Pergreffi, bassista, in formazione dal 1984 quando sostituì Umberto Maggi, deceduto a Maggio in un incidente stradale, poi Augusto Daolio, voce storica, inconfondibile e vera guida spirituale del gruppo, morto a soli 45 anni in Ottobre dopo alcuni mesi di sofferenza, lascito di un male incurabile. Recentemente ho scaricato il cd in chiavetta per l’ascolto in macchina e confesso che l’altro ieri riascoltandolo mi è venuto un forte groppo alla gola e gli occhi mi si sono arrossati. Le profetiche ‘Salutami le Stelle’, ‘Cammina, Cammina’ e ‘Ma Che Film La Vita’ hanno assunto con il tempo il triste status di epitaffio anticipato ma hanno riaperto ricordi che pensavo ormai perduti. Commovente? Sì!



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

domenica 13 agosto 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 41: ALBERTO FORTIS (Alberto Fortis)

ALBERTO FORTIS    Alberto Fortis (1979)







Che esordio! Al giorno d’oggi pochi dischi al debutto riuscirebbero ad avvicinarsi al primo disco dell’ex studente di medicina di Domodossola: per coraggio, testi scomodi, sarcastici e poco accomodanti ma anche ricchi di buone trovate e fantasia, suoni, arrangiamenti e musicisti. Nel suo osare troppo, alla fine il risultato fu pure autolesionistico. Non le mandò a dire, andò subito diritto al punto da emerito sconosciuto, e quel suo viaggio che dalla deludente avventura a Roma (dove cercò vanamente il successo e incontrò tante porte chiuse) lo portò a Milano viene raccontato nelle prime tre imperdibili tracce. ‘A Voi Romani’, sulla scia del migliore Edoardo Bennato, gli creò tanti problemi con la città eterna e i suoi abitanti, i mass media fecero il resto (Pippo Baudo gli disse:"incivile!") senza capire che il bersagli andavano cercati nei piani alti e non dietro l’angolo dei poveretti (“E vi odio a voi romani, io vi odio tutti quanti/distruttori di finanze, nati stanchi/siete un peso alla nazione siete proprio brutta gente”), ‘Milano E Vincenzo’ fu in’invettiva contro il discografico e produttore romano Vincenzo Micocci (e la sua It) reo di aver fatto promesse alettanti e mai mantenute (“Vincenzo io ti sparerò, sei troppo ladro per capire”) e un elogio a Milano e al proprio futuro musicale nella capitale del nord (“Milano fai di me quello che vuoi”), che trova in ‘Il Duomo Di Notte’ la sublimazione, canzone che una giuria internazionale, anni fa, mise tra le cento canzoni più belle della storia del pop/rock, una grande soddisfazione per uno cresciuto a pane, Beatles e Bob Dylan.
Il resto sono altri sei brani senza punti deboli: la malattia trattata in ‘In Soffitta’ e nella sempre straziante ‘La Sedia Di Lilla’ valorizzata dal caratteristico falsetto (“è dedicata a un mio parente, è la mia Purple Rain” disse) e un lato B che raccoglie altre esperienze surreali (‘Nuda E Senza Seno’), personali, paure, speranze e l’inesorabile passaggio del tempo (‘L’Amicizia’, Sono Contento Di Voi’) spesso raccontate con frasi ad effetto e quasi non sense ad un primo ascolto. Aggiungete i musicisti che registrano in studio sotto la regia di Alberto Salerno, Mara Maionchi e Claudio Fabi: l’intera formazione della PFM (Franz Di Ciccio, Patrick Dijav, Francone Mussida, Flavio Premoli) a quei tempi impegnata anche con i concerti di Fabrizio De Andre e il quadro è disegnato. Alberto Fortis versa il caffè, la band è seduta al tavolo, a fine serata rimangono i vuoti (se girate la copertina), qualche avanzo e centomila copie  vendute.


DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

martedì 8 agosto 2017

RECENSIONE: JOHN MURRY (The Graceless Age-2013/A Short History Of Decay-2017)



Dietro all’aspetto apparentemente pulito che traspare da alcune foto e video promozionali (‘California’), in controtendenza con l’imperante trasandatezza dei neo-folkers, e dietro a due occhi uguali ai cieli sopra alla sua Tupelo, il trentatreenne John Murry nasconde la sofferenza di un animo tormentato da demoni interni in perenne combutta per l’egemonia ed una classicità di scrittura da veterano del folk/rock. Un drogato di letteratura ed eroina: la prima, ereditata dallo zio premio Nobel e romanziere William Faulkner, è servita da ispirazione “ho letto veramente tanto senza un motivo reale, è come una dipendenza”, la seconda lo ha anche steso orizzontalmente.

Dopo WORLD WITHOUT END debutto distante sette anni in comproprietà con il vecchio folk singer Bob Frank, con THE GRACELESS AGE (2013) scrive un diario biografico estremamente crudo e analitico, quasi confessionale, dove folk, dimessa elettronica e squartanti aperture elettriche contribuiscono ad innalzare i livelli di pathos e redenzione che aleggiano sui testi. Canzoni dalla lunga e sofferta gestazione uscite nel 2012 ed ora ristampate, prodotte insieme a Tim Mooney, batterista degli American Music Club, scomparso poco prima che il disco vedesse la luce. Nei dieci intensi, fulgidi e drammatici minuti di ‘Little Coloured Balloons’, una ballata pianistica in bilico tra Bill Fay e Bruce Springsteen arricchita da parche orchestrazioni d’archi, esorcizza la morte e racconta la sua straziante esperienza “ho voluto esporre i miei demoni, il falso mantello che indossa ogni drogato…ho avuto un’overdose e sono stato clinicamente morto per alcuni minuti”. Un tunnel lungo, il suo, popolato dai tanti fantasmi delle terre del sud (‘Southern Sky’), gli stessi raccontati da Faulkner, dai buchi emotivi lasciati dalla dura infanzia segnata dall’adozione, dalle ferite di relazioni umane finite sempre male. Il tutto impresso sul retro delle stesse pagine scritte dallo Springsteen più oscuro e austero di ‘Nebraska’ e ‘Ghost Of Tom Joad’. Ma là dove Springsteen era osservatore attento e acuto di quegli angoli d’America dimenticati dalla grazia di Dio, Murry sembra essere un timido protagonista di quegli anfratti, ci sprofonda totalmente, lasciando sul suo taccuino, ora visibile a tutti, la sua inadeguatezza, il suo ostentato timore di non essere all’altezza di stare al mondo come canta in ‘If I’m To Blame’. Questa volta la musica ha lavorato a favore della vita. Chuck Prophet, ospite e amico sintetizza così: ”John ha fatto un disco, e ciò che stupisce è che ci sia riuscito nonostante se stesso”.
E in questo 2017, a cinque anni di distanza  esce un disco che si riempie nuovamente di tutte le cose che ha smarrito per strada: questa volta la famiglia. A SHORT HISTORY OF DECAY (TV Records, 2017) ripropone vecchie e nuove ferite sempre aperte e lontane dal cicatrizzarsi. A goderne è la sua musica anche se mi sento il dovere di dare un voto inferiore rispetto al precedente disco che vince per intensità e tragicità. John Murry continua a vivere con complessità e difficoltà i suoi giorni in questa terra tanto da avere costantemente bisogno di una guida spirituale che lo tenga per mano e lo incoraggi. Prima fu Tim Mooney, scomparso dopo le registrazioni di The Graceless Age, oggi è Michael Timmins dei Cowboy Junkies a tirare fuori il profondo disagio ma anche la limpida onestà di un cantautore che sembra guardare solamente dentro a se stesso senza fare troppi calcoli su ciò che gli gira intorno. Nato in poche settimane tra l'esilio in Irlanda e gli studi di registrazione di Timmins a Toronto con il basilare aiuto del fratello di quest'ultimo Peter Timmins alla batteria, Josh Finlayson al basso e i cori di Cait O'Riordan (Pogues). "E' stata una settimana di registrazione molto ispirata e molto intensa. Penso che abbiamo catturato l'essenza grezza di John nello scrivere e suonare" racconta Timmins a proposito della settimana di registrazione in Canada. Quello che ne è uscito è un disco più immediato musicalmente, costruito sulla semplice base rock blues ('Defacing Sunday Bulletins'), pizzicata dalla sporadica presenza delle tastiere come avviene nell'apertura 'Silver Or Lead', o dalla più massiccia presenza delle chitarre elettriche in 'Countess Lola's Blues (All In This Togheter)', mantenendo sempre in primo piano la sua voce greve e profonda, spesso doppiata da Cait O'Riordan. Piace l'acustica crudezza di 'Wrong Man' e il pianoforte di 'When God Walks In' che sembra riallacciarsi al precedente The Graceless Age. Chiude l'album 'What Jail Is Like', canzone degli Afghan Whigs di Greg Dulli, un altro che ha sempre saputo raccontare le ombre dell'amore e del sesso in modo unico e sublime. Il bello di John Murry è racchiuso in quel senso di incompiutezza esistenziale che rimane anche dopo numerosi ascolti di queste dieci canzoni, avvolte nella nebbia e smarrite in quel bosco verde che lo avvolge in copertina. Quel "...e domani come sarà?" che continua a girarti in testa all'infinito e ti fa continuare a vivere e a sperare in qualcosa di meglio nel futuro. 



RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD-Party Of One (2017)

giovedì 3 agosto 2017

RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD (Party Of One)

GEORGE THOROGOOD     Party Of One (Rounder Records, 2017)






acustico sì ma la pensione è lontana

Il disco che non ti aspetti. George Thorogood mette da parte la potenza elettrica dei suoi Destroyers e a sei anni di distanza da 2120 SOUTH MICHIGAN AVE. che omaggiava la vecchia etichetta Chess Records, tributa la musica tutta in solitaria come non aveva mai fatto prima: solo chitarra (ora le Gibson, ora la Hohner, Dobro, Gretsch Resonator), un’ armonica e la voce. A tratti come un vecchio bluesman di Chicago seduto davanti alla platea di un club fumoso, a volte come un navigato folk singer errante al Greenwich Village di New York, sempre con grande grinta e credibilità. Suoni veri, atmosfera intima e ottima scaletta. Un ritorno anche alla vecchia etichetta Rounder Records con cui aveva registrato i suoi primi tre album a partire dal 1977. A tal proposito dice: “covavo questo progetto da lungo tempo. Forse avrebbe dovuto essere il primo album che abbia mai fatto…ma penso che i fan dei Destroyers – e gli hardcore fan del blues siano pronti per l'imprevisto. Questo disco è quello che ero, quello che sono e quello che sarà sempre". Sfilano così i bluesmen da una parte, partendo da Robert Johnson (‘I’m A Steady Rollin Man’), John Lee Hooker (‘Boogie Chillen’, ‘One Bourbon, One Scotch, One Beer’ in una registrazione live e vecchio cavallo di battaglia con I Destroyers fin dai loro esordi), Willie Dixon (‘Wang Dang Doodle’), Elmore James (‘Got To Move’, ‘The Sky Is Crying’), e I folk singer dall’altra, la parte certamente più inusuale e particolarmente riuscita: Bob Dylan (‘Down The Highway’), Johnny Cash (‘Bad News’), Hank Williams (‘ Pictures From Life’s Other Side’), senza dimenticare gli amici Rolling Stones (‘No Expectations’) che fanno categoria a se. C’è chi passa ai suoni acustici con l’avvicinarsi dell’età pensionabile, Thorogood anticipa i tempi con questa parentesi riuscita che ci mostra un nuovo lato poco esplorato fino ad ora, pronto a riprendere le redini dei suoi Destroyers in qualsiasi momento. Più forte di prima.


RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)