martedì 8 agosto 2017

RECENSIONE: JOHN MURRY (The Graceless Age-2013/A Short History Of Decay-2017)



Dietro all’aspetto apparentemente pulito che traspare da alcune foto e video promozionali (‘California’), in controtendenza con l’imperante trasandatezza dei neo-folkers, e dietro a due occhi uguali ai cieli sopra alla sua Tupelo, il trentatreenne John Murry nasconde la sofferenza di un animo tormentato da demoni interni in perenne combutta per l’egemonia ed una classicità di scrittura da veterano del folk/rock. Un drogato di letteratura ed eroina: la prima, ereditata dallo zio premio Nobel e romanziere William Faulkner, è servita da ispirazione “ho letto veramente tanto senza un motivo reale, è come una dipendenza”, la seconda lo ha anche steso orizzontalmente.

Dopo WORLD WITHOUT END debutto distante sette anni in comproprietà con il vecchio folk singer Bob Frank, con THE GRACELESS AGE (2013) scrive un diario biografico estremamente crudo e analitico, quasi confessionale, dove folk, dimessa elettronica e squartanti aperture elettriche contribuiscono ad innalzare i livelli di pathos e redenzione che aleggiano sui testi. Canzoni dalla lunga e sofferta gestazione uscite nel 2012 ed ora ristampate, prodotte insieme a Tim Mooney, batterista degli American Music Club, scomparso poco prima che il disco vedesse la luce. Nei dieci intensi, fulgidi e drammatici minuti di ‘Little Coloured Balloons’, una ballata pianistica in bilico tra Bill Fay e Bruce Springsteen arricchita da parche orchestrazioni d’archi, esorcizza la morte e racconta la sua straziante esperienza “ho voluto esporre i miei demoni, il falso mantello che indossa ogni drogato…ho avuto un’overdose e sono stato clinicamente morto per alcuni minuti”. Un tunnel lungo, il suo, popolato dai tanti fantasmi delle terre del sud (‘Southern Sky’), gli stessi raccontati da Faulkner, dai buchi emotivi lasciati dalla dura infanzia segnata dall’adozione, dalle ferite di relazioni umane finite sempre male. Il tutto impresso sul retro delle stesse pagine scritte dallo Springsteen più oscuro e austero di ‘Nebraska’ e ‘Ghost Of Tom Joad’. Ma là dove Springsteen era osservatore attento e acuto di quegli angoli d’America dimenticati dalla grazia di Dio, Murry sembra essere un timido protagonista di quegli anfratti, ci sprofonda totalmente, lasciando sul suo taccuino, ora visibile a tutti, la sua inadeguatezza, il suo ostentato timore di non essere all’altezza di stare al mondo come canta in ‘If I’m To Blame’. Questa volta la musica ha lavorato a favore della vita. Chuck Prophet, ospite e amico sintetizza così: ”John ha fatto un disco, e ciò che stupisce è che ci sia riuscito nonostante se stesso”.
E in questo 2017, a cinque anni di distanza  esce un disco che si riempie nuovamente di tutte le cose che ha smarrito per strada: questa volta la famiglia. A SHORT HISTORY OF DECAY (TV Records, 2017) ripropone vecchie e nuove ferite sempre aperte e lontane dal cicatrizzarsi. A goderne è la sua musica anche se mi sento il dovere di dare un voto inferiore rispetto al precedente disco che vince per intensità e tragicità. John Murry continua a vivere con complessità e difficoltà i suoi giorni in questa terra tanto da avere costantemente bisogno di una guida spirituale che lo tenga per mano e lo incoraggi. Prima fu Tim Mooney, scomparso dopo le registrazioni di The Graceless Age, oggi è Michael Timmins dei Cowboy Junkies a tirare fuori il profondo disagio ma anche la limpida onestà di un cantautore che sembra guardare solamente dentro a se stesso senza fare troppi calcoli su ciò che gli gira intorno. Nato in poche settimane tra l'esilio in Irlanda e gli studi di registrazione di Timmins a Toronto con il basilare aiuto del fratello di quest'ultimo Peter Timmins alla batteria, Josh Finlayson al basso e i cori di Cait O'Riordan (Pogues). "E' stata una settimana di registrazione molto ispirata e molto intensa. Penso che abbiamo catturato l'essenza grezza di John nello scrivere e suonare" racconta Timmins a proposito della settimana di registrazione in Canada. Quello che ne è uscito è un disco più immediato musicalmente, costruito sulla semplice base rock blues ('Defacing Sunday Bulletins'), pizzicata dalla sporadica presenza delle tastiere come avviene nell'apertura 'Silver Or Lead', o dalla più massiccia presenza delle chitarre elettriche in 'Countess Lola's Blues (All In This Togheter)', mantenendo sempre in primo piano la sua voce greve e profonda, spesso doppiata da Cait O'Riordan. Piace l'acustica crudezza di 'Wrong Man' e il pianoforte di 'When God Walks In' che sembra riallacciarsi al precedente The Graceless Age. Chiude l'album 'What Jail Is Like', canzone degli Afghan Whigs di Greg Dulli, un altro che ha sempre saputo raccontare le ombre dell'amore e del sesso in modo unico e sublime. Il bello di John Murry è racchiuso in quel senso di incompiutezza esistenziale che rimane anche dopo numerosi ascolti di queste dieci canzoni, avvolte nella nebbia e smarrite in quel bosco verde che lo avvolge in copertina. Quel "...e domani come sarà?" che continua a girarti in testa all'infinito e ti fa continuare a vivere e a sperare in qualcosa di meglio nel futuro. 



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