mercoledì 19 luglio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 38: ROD STEWART (Every Picture Tells A story)

ROD STEWART-Every Picture Tells A Story (1972)






Dopo la basilare gavetta con Jeff Beck, culminata con l’album TRUTH (1968) e in simultanea con l’avvio della nuova avventura The Faces- corta, sgangherata ma esaltante come poche-Rod Stewart da il via alla carriera solista. Se il debutto THE ROD STEWART ALBUM e il successivo GASOLINE ALLEY , pur ben accolti dalla critica, sembrano riscuotere più successo di pubblico oltre oceano che in patria, solo con il terzo EVERY PICTURE TELLS A STORY qualcosa cambia veramente. “ Stavolta ero davvero unicamente io a figurare come produttore: mi lasciarono gestire le cose da solo…Giunti alla terza occasione, i musicisti conoscevano bene il modo di suonare degli altri, e nella registrazione questo si sente”. Parteciparono alla registrazione: Mick Waller alla batteria, l’inseparabile Ron Wood alle chitarre e basso, Pete Sears al piano più una lunga sfilza di ospiti tra cui Martin Quittenton (coautore di ‘Maggie May’) alla chitarra acustica e Ian McLagan all’organo. Come i precedenti due dischi, le canzoni esaltano il lato roots (gran dispiegamento di strumenti acustici), folk-blues della sua voce calda e roca in contrapposizione con il lato più selvaggio e rock'n'roll che assumeva parallelamente nei Faces. Anche questo disco mischia cover tra cui ‘Tomorrow Is A Long Time’ di Dylan, ‘Reason To Believe’ di Tim Hardin e ‘(I Know) I’m Losing You’ dei Temptation e composizioni originali. “’Every Picture Tells A Story’, ‘Mandolin Wind’ e ‘Maggie May’, "un vago resoconto di quando persi la verginità in un incontro mordi e fuggi con una donna più grande di me al Beaulieu Jazz Festival nel 1961". E ‘Maggie May’, come sapete, cambiò ogni cosa.” ‘Maggie May’ fu scritta insieme al chitarrista Martin Quittenton “un ragazzo gentile, molto tranquillo e diligente con la fronte sempre aggrottata (e una fidanzata adorabile), che in quel periodo era il chitarrista più inventivo che avessi mai incontrato” registrata in sole due take con l’aiuto del mandolino di Ray Jackson dei Lindisfarne. “ Non avrei mai pensato che potesse diventare un singolo…Era senza ritornello. C’erano solo quelle strofe sconnesse. Non aveva niente di orecchiabile”. ‘Maggie May’ fu relegata come b side del singolo ‘Reason To Believe’ fino a quando un dj americano iniziò a passarla in radio. Nonostante i suoi cinque minuti di durata, fu un immediato successo che trascinò l’intero album in cima alle classifiche sia americane che inglesi. “Con mio enorme stupore, e non trascurabile orgoglio, di colpo avevo il singolo e l’album numero uno su entrambe le sponde dell’Atlantico. Era come un allineamento dei pianeti. Nessuno ci era mai riuscito prima: nemmeno Presley, nemmeno i Beatles”. Brani tratti da ‘Rod Stewart-L’autobiografia’.



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

lunedì 17 luglio 2017

RECENSIONE: LEE BAINS III + The Glory Fires (Youth Detention)

LEE BAINS III + The Glory Fires   Youth Detention (2017)







Là dove il debutto era un concentrato di southern/swamp rock caricato a salve da accecanti, limpide e calde striature soul distribuite anche lungo tranquille camminate nel country, nel secondo disco, anche se pasticciato in produzione, venivano lucidate a dovere le canne dei fucili, pronte per sparare una raffica di tosto e spavaldo garage rock, sporco proto punk-i fumi da polvere da sparo di Stooges e MC5 apparvero ad intossicare in continuazione-con chitarre sature di fuzz e feedback, in questo terzo disco YOUTH DETENTION si prosegue su quella strada minata e pericolosa. Tanto da non sembrare nemmeno la stessa band di quell'esordio. Le chitarre di Andy Wallace davanti in prima linea, la voce e i testi-che contano- di Lee Bains immediatamente dopo, in lotta per catturare la scena attraverso strofe pesanti e taglienti di denuncia sociale dedicate, come scritto nei credits, a tutta la valorosa gioventù americana che ha combattuto per i propri diritti indistintamente dal colore della propria pelle, dal sesso e classe sociale. Per non sentirsi straniero nella propria terra, per combattere per la libertà: motti che qualcuno potrebbe scambiare per anacronistici ma purtroppo sempre validi a certe latitudini. Pochi ricami e tanta furia, il messaggio prima di tutto. Si parte dalle ingiustizie presenti dai bassifondi della loro Birmingham (Alabama) e si amplia il discorso a livello nazionale verso i piani più alti. Potrebbe bastare l’ascolto della belluina doppietta piazzata a metà disco, formata da ‘I Can Change!’ e ‘The City Walls’ per capire gli intenti barricaderi della band. 17 canzoni, infarcite di slogan nati dal basso, per poco meno di un’ora dove i momenti di calma si riducono giusto a un paio, tra cui l’acustica ballata dagli umori sudisti ‘The Picture Of A Man’. Lee Bains è incazzato e ha tanti buoni motivi per esserlo ma poche band americane hanno il loro coraggio in questo momento.





RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
  

giovedì 13 luglio 2017

RYAN ADAMS live@Anfiteatro Del Vittoriale, Gardone Riviera (BS), 12 Luglio 2017

Già da alcune foto e un filmato postati nel tardo pomeriggio nel profilo instagram dallo stesso RYAN ADAMS, si poteva capire che il Vittoriale di Gardone Riviera gli andasse a genio. Come dargli torto? Posto incantevole, acustica giusta e senza pecche, visuale perfetta. Aggiungo: tramonto e luna sul lago di Garda, lì appena dietro il palco. Era lecito, quindi, aspettarsi qualcosa in più rispetto a quanto offerto la sera prima a Roma. I racconti di chi c'era non sono stati entusiasmanti. Così è stato. Non tanto nella scaletta e nei suoni che testimoniano l’amore e la fedeltà nei suoi due ultimi lavori in studio RYAN ADAMS e PRISONER ('Outbound Train' e 'Trouble' tra le mie preferite): per me un aspetto positivo e vero giudice per tastare un artista con più di quindici album in carriera che non ha nessuna intenzione di vivere nel passato, quanto nel modo di affrontare il pubblico, con un piglio che mixa insieme arroganza, dietro cui si cela una latente fragilità emotiva e tanta timidezza, e spensierata giocosità da eterno fanciullo. Ryan Adams si veste come noi ai concerti e potrebbe essere quello al tuo fianco se ti volti: t-shirt dei suoi gruppi metal preferiti (anche se stasera indossa una delle sue magliette), jeans e scarpe da ginnastica. Ecco che quel inquietante gattone nero incappucciato che ogni tanto sbucava fuori dalle retrovie con un tamburello in mano, che unitamente agli ampli giganti richiamano il Rust Never Sleeps tour di Neil young, diventa il suo alter ego aizzatore di folla che gli permette di starsene quasi sempre in seconda fila a comandare la giovanissima band e essere giudice nel bene e nel male della serata. Dai divertenti siparietti con i musicisti al cazziatone iniziale, con quasi espulsione, rivolto a qualcuno in prima fila che smanettava troppo con il cellulare, fino a captare gli assist del pubblico trasformandoli in musica: un blues improvvisato (‘Walter Grey’) e poi rispolverare la chitarra acustica facendoci capire che la sua anima folk, tanto cara ai die hard fan della prima ora, è ancora viva e necessita solo di essere spronata quel giusto (‘English Girls Approximately’ è un piccolo gioiello). Ed è già tanto. La serata è vissuta di due momenti ben distinti, l'inizio sparato senza soste a presentare gli ultimi due album dal taglio rock chitarristico ma tanto inclini al pop, album saccheggiati per bene durante tutta la serata, una parte centrale dominata da una 'Cold Roses' jammata fino a raggiungere territori psichedelici, immediatamente seguita da una veloce scheggia punk tratta dal personale tributo alla scena hardcore americana degli anni 80 ('When The Summer Ends') e una seconda parte molto più sciolta, improvvisata e dilatata dove il genio musicale di Adams è venuto allo scoperto senza più timori, scavando anche nel passato.
Il bel finale sulla tirata di 'Shakedown In 9th Street' lo vedete nella foto qui sotto e non ha bisogno di troppi commenti.







SETLIST
Do You Still Love Me?/Gimme Something Good /Am I Safe/Stay With Me/Outbound Train/Prisoner/Let It Ride/Juli/Doomsday/When the Stars Go Blue/Anything I Say to You Now/Cold Roses/I See Monsters (plus Cold Roses reprise)/When the Summer Ends/This House Is Not for Sale/I Just Might /Two/English Girls Approximately/Walter Grey/Halloweenhead /Sweet Illusions /Everybody Knows /New York, New York /To Be Without You /Trouble /Shakedown on 9th Street


mercoledì 5 luglio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 37 : CAPTAIN BEYOND (Captain Beyond)

 
CAPTAIN BEYOND   Captain Beyond (Capricorn Records, 1972)





Potessi riscrivere la storia del rock, o almeno una piccola parte, darei al debutto dei CAPTAIN BEYOND un posto meritevole, lì tra i grandi dischi hard rock (o semplicemente rock) più influenti e da ricordare degli anni settanta. Copertina compresa. I Captain Beyond prendono forma all’indomani dall’uscita di METAMORPHOSIS, quarto album in studio degli IRON BUTTERFLY, un disco diverso e importante per i cambiamenti in formazione e per le nuove strade imboccate, ma come tutta la discografia della band di San Diego schiacciato sotto l’imponenza di un brano monstre come ‘In-A-Gadda-Da-Vida’, uscito qualche anno prima, in grado di diventare un tutt’uno con la band e mangiarsi tutto il resto. Il consolidamento della formazione con due nuovi chitarristi al posto del dimissionario Eric Braunn, paradossalmente, porterà il bassista Lee Dorman e il chitarrista Rhino Rheinhart a cementare la loro intesa fuori dal gruppo madre, dando sfogo alle loro intuizioni musicali con questa nuova e indefinibile creatura. Si uniranno il batterista Bobby Caldwell, che ricordiamo negli And di Johnny Winter e il cantante Rod Evans, in cerca di riscatto negli States dopo i primi dischi registrati come voce dei Deep Purple e la successiva cacciata. La musica dei Captain Beyond è difficilmente etichettabile: una miscela magica di riff hard rock, planate nello space rock, progressioni strumentali, intermezzi acustici e arpeggiati, funanbolismi psichedelici. Un monolite di 35 minuti che se non fosse diviso in 13 tracce che si inseguono con continui rimandi in un gioco di suadente complessità, potrebbe essere preso come un blocco unico e andrebbe bene ugualmente. La chitarra di Rhino ama dividersi tra Jimi Hendrix,. Santana e Tony Iommi, la batteria e le percussioni di Coldwell sono fantasiose e mai banali, il basso di Dorman batte forte, mentre la voce di Evans declama testi che spesso si perdono tra le galassie. Complicato citare le canzoni, visto l’unitarietà del disco, per cui ne scelgo una per tutte da esempio: la sfacettata e multicolore ‘Thousand Days Of Yesterdays’. Creativa, eterea, visionaria, potente, raffinata e sognante, la musica dei Captain Beyond lascia sempre il segno. Senza tempo. Uscito per la Capricorn e dedicato a Duane Allman scomparso da poco ( fu lui a farli firmare per la prestigiosa etichetta che però, bisogna dirla tutta, non li sostenne mai a dovere), in verità il disco ha poco da spartire con il southern rock, candidandosi, invece, a diventare un punto fermo per la generazione stoner californiana, gravitante intorno ai deserti di Palm Springs a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta.


 
 

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

giovedì 29 giugno 2017

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES (To The Top)

BLACKFOOT GYPSIES    To The Top (Plowboy Records, 2017)




Le cose si fanno bene o non si fanno. Anche quando le cose odorano di vecchio, stantio e si presentano polverose e derivative. I BLACKFOOT GYPSIES da Nashville, nati inizialmente come duo, giunti al terzo disco diventando quattro, lo sanno bene e alle note vecchie e arrugginite aggiungono una buona dose di carica, ad...renalina e un pesante colpo di spugna fresca, tanto da far apparire tutto come nuovo e scintillante. Così se mentre faccio girare queste quindici ruspanti tracce (per 60 minuti) pensando ai Kinks (‘I’M So Blue’), a Chuck Berry (‘Promise To Keep’), a Bo Diddley (Gypsies Queen), al Bob Dylan (“ci piace molto Dylan” confessano) più rurale legato a The Band (‘Woman Woman’,’Potatoes And Whiskey’, il country walzer ‘Velvet Low Down Blues’ è dedicata a Lou Reed -“siamo tutti grandi fan di Lou Reed e dei Velvet Underground. Questa canzone è per Lou Reed ed è stata scritta il giorno dopo la sua morte”- ), senza riuscire a tenere fermo il piedino, loro avranno già portato a casa la partita e mi allungano un bicchiere di vino per darmi il benvenuto nella loro personale American Church of Rock’n’Roll. Cheers! Il frontman Matthew Paige alla chitarra e voce, Dylan Whidow al basso, il nuovo acquisto ma veterano della scena di Nashville Ollie Dogg all’armonica, Zack Murphy alla batteria sanno come divertirsi con il blues (‘I’ve Got The Blues’), il funk con quei cori viziosi alla Rolling Stones (‘Everybody’s Watching’), il garage marcato Detroit style con le chitarre elettriche davanti (‘I Wanna Be Famous’, 'I Had A Vision'), il New Orleans sound con tanto di fiati (‘Back To New Orleans’), il southern rock vitaminico caro ai primi Black Crowes (‘Can I Get A Warning’) e lo fanno registrando in presa diretta come fosse un concerto piazzato dentro a un festival a cavallo tra i sessanta e i settanta. A proposito di live: lì sembrano dare il meglio, lo confermano le date negli Stati Uniti in apertura a Alabama Shakes e Drivin’ N’Cryin. Non ci si stanca nemmeno per un secondo. Potrebbe sembrare una botte troppo ricca e dispersiva, ma questo vino è troppo buono per lasciarlo diventare aceto!





RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

 

martedì 27 giugno 2017

RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES (So You Wannabe An Outlaw)

STEVE EARLE & THE DUKES  So You Wannabe An Outlaw (Warner Bros, 2017)
 
 
 
 
 
 
Recentemente Billy Joe Shaver e Willie Nelson hanno cantato in coppia una canzone dal titolo 'Hard to Be an Outlaw'. Un piccolo manifesto dedicato a una generazione di ribelli che sta piano piano scomparendo.
Steve Earle è uno dei pochissimi che può prendere in prestito quel “fuori legge” senza sfigurare, anzi, ci è dentro con naturalezza e pochi sforzi. "Questi artisti non facevano quello che dicevano loro le case discografiche"  racconta Earle in una recente intervista. Con certi personaggi ci è cresciuto, fianco a fianco, ha visto nascere dischi importanti degli anni settanta. "Si tratta solo di riconoscere da dove provengo" ha detto. Sono stati i suoi primi maestri, tanto che GUITAR TOWN, il suo primo disco solista batteva già quelle strade. In So You Wanna Be An Outlaw rende loro omaggio, così come nel precedente TERRAPLANE rese omaggio al blues. C'è Willie Nelson che duetta nella title track, c'è il fantasma di Waylon Jennings che si aggira continuamente, c'è una stupenda canzone acustica ‘Goodbye Michelangelo’, dedicata a Guy Clark, che chiude il disco in modo sublime. In mezzo ci sono anche belle chitarre rock ("ci sono cose di rock piuttosto duro, ma credo sia un disco country"), la sua Telecaster '66, ('The Firebreak Line', If Mama Could Seen Me', 'Fixin’To Die'), ariosi percorsi country folk ('News From Colorado'), ci sono strascichi del recente divorzio dalla moglie Allison Moorer, l’ennesimo, ci sono Miranda Lambert e Johnny Bush (Walkin in LA) come ospiti, ci sono i fedeli Dukes ad accompagnarlo. Ci sono strade, luoghi, chilometri, sbarre e sbagli di una vita. Poi alla fine piazza un poker di cover, riprendendo canzoni di Billy Joe Shaver, Willie Nelson, Waylon Jennings, per ribadire il concetto: è dura essere un fuori legge. Non per lui. Naturalmente.
 
 
 

domenica 25 giugno 2017

NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS live@Parco Estivo PalaBrescia, 23 Giugno 2017



NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS live@Parco Estivo PalaBrescia, 23 Giugno 2017

 La manifestazione si chiama “dal Mississippi al Po”, anche se stasera bagna Brescia, ma durante il lungo tragitto qualche volantino che pubblicizzava l’evento dev'essere caduto in acqua senza arrivare a destinazione. Peccato. La prossima volta occorre più pubblicità! Eravamo in pochi nell’area esterna del PalaBrescia dove, a sorpresa, tirava un’arietta fresca dopo l’insopportabile calura del giorno. Pochi ma buoni come si dice. Così come pochi sopra al palco sono i North Mississippi Allstars. Tre: la chitarra e voce, e che chitarra, di Luther Dickinson e due batterie, tra cui quella dello straordinario e simpatico fratello Cody, all’occorrenza alla seconda chitarra per un paio di pezzi ('Deep Ellum'), voce e poi con una mano imprestata alle tastiere e quant’altro quando necessario.
“Abbiamo fatto il disco on the road: abbiamo registrato un po’ di ore a Brooklyn, un po’ a New Orleans, un po’ a St. Louis, una giornata al Royal Studios a Memphis”. Così Luther Dickinson ha presentato le genesi del nuovo disco PRAYER FOR PEACE, il primo su major, durante una recente intervista. Un disco blues nato per le strade che non ha impiegato molto a intrufolarsi e mimetizzarsi dentro a quello che ai fratelli Dickinson riesce meglio da sempre: suonare live. Come potrebbe essere diversamente per due persone cresciute a fianco di una leggenda della musica americana come il padre Jim? Live dove ipnotica energia, e qui la geniale trovata delle due batterie gioca un ruolo importante (imponetene il sempre sorridente Brady Blade) rispetto per la tradizione (anche se non manca quel tocco di innovazione che li ha sempre distinti- ecco ‘You Gotta Move’) hanno accompagnato quella straordinaria gioia di suonare che traspare ad ogni loro movimento. Un’intesa tra fratelli che va aldilà dei vent’anni di carriera musicale, dei dischi fatti, della bastarda miscela tra cover e pezzi propri, dell’importante e lungo curriculum accumulato, e che a conti fatti vince su tutto. Straordinario il finale con il rompete le righe (pubblico finalmente in piedi davanti al palco) e Luther Dickinson alle prese con la piccola chitarra artigianale costruita con un barattolo di pelati, due corde e un bastone. Il mio momento della serata: la jam tra ‘Hear My Train A-Comin’ e ‘Mistery Train’.








lunedì 19 giugno 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 36: JOHNNY WINTER (Second Winter)

JOHNNY WINTER  Second Winter (1969)







"Non avevamo abbastanza musica per riempire quattro facciate, ma ne avevamo troppa per solo due. Decidemmo di farne tre. Non so perché la CBS ci disse di farlo. Ma lo fecero”. Così Johnny Winter, il più nero dei texani bianchi, racconta una delle particolarità più significative di questo doppio disco con un lato completamente vuoto, uscito a soli pochi mesi dal debutto. Un tentativo di ripeterne immediatamente lo straordinario successo, anche se SECOND WINTER spingeva maggiormente sul lato rock, rafforzando la band, fino ad allora un power trio, con l’entrata in formazione del fratello Edgar alle tastiere e sax. Un innesto importante. Ne esce un disco incendiario e in continuo movimento ben rappresentato dallo scatto fotografico di Richard Avedon in copertina. Un approccio live che si ripercuote anche in studio di registrazione: “ Se non si riusciva a registrare una canzone in uno o due take si passava alla successiva” dirà il fratello Edgar. Registrato a Nashville con Tommy Shannon al basso e Uncle John Turner alla batteria, se le prime due facciate sono un omaggio alla storia della musica con personali riletture di Percy Mayfield, con ‘Johnny B. Goode’ (Chuck Berry) e una ‘Highway 61 Revisited’ di Bob Dylan che poteva rivaleggiare in contemporanea con la ‘All Along The Watchtower’ di Hendrix, (“Bob Dylan è sempre stato uno dei miei favoriti. Non puoi avere la mia età senza amare Dylan” dirà in seguito) nel terzo lato la slide di Winter compie voli pindarici giocando di contrasto: ‘I Love Everybody’ è tanto acida quanto ‘I Hate Everybody’ è jazzy. Il finale con ‘Fast Life Rider’ è un fuoco d’artificio che fatica a stemperarsi. Tanto che ci vuole un’intera facciata di silenzio per riprendersi. Ecco a cosa serve un lato vuoto. Essenziale. Qualcuno (chi? Scaruffi!) arrivò a definire patetici e noiosi i suoi primi tre dischi, le ristampe più recenti riempirono il lato vuoto con inediti e live. Il resto è storia. “Suonavamo il blues con la forza e l’energia del rock’n’roll. Le stesse cose che feci più tardi con Stevie Ray Vaughan” Tommy Shannon.
Amen.



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

martedì 13 giugno 2017

It's Just Another Town Along The Road, tappa 5: LUCA ROVINI (Figure Senza Età)


LUCA ROVINI- Figure Senza Età (autoproduzione/IRD, 2017)




Avevo già scritto la recensione di FIGURE SENZA ETÀ da qualche settimana, ero in attesa di pubblicarla quando pochi giorni, fra le tante parole che viaggiano confuse nel social network, lo stesso che mi ha fatto conoscere il simpatico Luca Rovini, ho trovato un buono spunto per descrivere e presentarvi in primis la sua attitudine, il che, molte volte, è più esplicativa di una noiosissima recensione track by track. Per la musica, comunque, vi rimando anche alle recensioni dei due dischi precedenti che troverete nei link sotto.

Pochi giorni fa Rovini ha pubblicato sulla sua bacheca Facebook, con giusto orgoglio, il ritaglio di una recensione molto positiva uscita nel più venduto mensile italiano che tratta musica americana. Naturalmente sono fioccate le congratulazioni degli amici, tranne la voce fuori dal coro di un noto ex direttore di riviste musicali che scriveva, con fare abbastanza provocatorio, visto il passato e le sue relazioni con la rivista: "ti cambierà la vita?".
Luca non ha aspettato molto nel dare la sua risposta: "ma nemmeno te hai mai cambiato la vita a qualcuno. E poi io sto bene nella mia vita. È solo una bella soddisfazione" . Ecco, in queste parole di risposta c'è tutto lo spirito del cantautore pisano. A voi le conclusioni.
Non nascondo nemmeno che una tra le  principali ispirazioni per questa piccola rubrica dedicata alla musica italiana e la sua strada (chilometri, locali, viaggi nel tempo e nel futuro), mi è arrivata da Luca Rovini, anche se lui sembra smentirmi qualche riga più sotto nell'intervista, dicendo di essere molto legato  alle sue radici. Credo che Luca rappresenti bene in modo metaforico la strada di un musicista. Arrivato piuttosto tardi al primo disco, nel giro di tre anni ha macinato sia tanti chilometri di passione che altrettanti in crescita musicale: e la bella ballata di frontiera 'Companeros' con la tromba di Mike Perillo è lì a dimostrarlo. Figure Senza Età è il lavoro più centrato fino ad ora: a livello di testi quanto sotto l'aspetto musicale, curatissimo. Un disco piuttosto uniforme se togliamo l'up tempo di 'Boogie Finchè Mi Va' e la bella 'Vite di Contrabbando', ma in grado di mettere in fila alcune delle sue principali figure di riferimento: da Guy Clark (che qui rappresenta un po' tutto l'universo di una generazione di cantautori americani che ha lasciato il segno senza troppo clamore mediatico, amiamo chiamarli ancora loser) del quale rifà quella 'Desperados Waiting For The Train (che diventa  'Disperati In Cerca Di Una Vita') estrapolata dallo splendido OLD No 1, alla mitica figura di Carlo Carlini in 'L'ultimo Hobo', colui che per primo portò e fece conoscere in Italia e a un giovane Rovini in trasferta a Sesto Calende, una buona parte di quei cantautori.

"Non ho niente nelle mani, solo un boogie..." canta in 'Boogie Finchè Mi Va'.
Questa recensione è come avere nulla tra le mani, non cambierà la vita di nessuno, ne sono conscio, spero solo possa renderla più piacevole a più persone possibili. Almeno per quarantacinque minuti, tanto quanto la durata del disco. Noi stiamo bene nella nostra vita.





In viaggio con Luca Rovini

1) I km nel tuo disco. Il viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Indubbiamente sì, qualsiasi tipo di viaggio ha influenzato le mie canzoni. Non solo lo stare sulla strada, andare in giro per paesi, osservare la gente, credo in molti tipi di viaggio, c’è quello delle emozioni, quello dell’amore, quello della solitudine e spesso anche quello del dolore. Sono tutti viaggi che ti sbattono in qua e là, ti girano attorno e poi spariscono all’improvviso, magari non li vedi più ma restano dentro di te. Questo succede a tutti. Poi un giorno ti svegli e te li ritrovi lì che vogliono venire a trovarti, da me si materializzano con la voglia di scriverli come canzoni. E’ un viaggio della vita, io ho scelto di raccontarlo così, con una chitarra.
2) Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Adoro viaggiare per andare a suonare in giro, è una bella esperienza, si incontrano un sacco di persone, vedo anche molto entusiasmo, ci sono veri appassionati là fuori. Si fanno km su km per suonare 2 ore, questo è amore e quando è ripagato con gli applausi non c’è cosa più bella. Il palco, qualsiasi palco, è il luogo della vera libertà, quando sei lì sei libero e io lo adoro. Non c’è un locale che amo particolarmente, mi piace suonare ovunque sia ben accetto. Se proprio devo dirti un posto in cui amo ritornare ogni tanto è per strada, è bello suonare mentre la gente passa, tutti così carichi dei loro problemi, mi piace offrire un momento di leggerezza e svago. Quello è un luogo senza compromessi, quando suoni e i bambini si fermano ad ascoltare, loro che non hanno preconcetti, sono puri, è bello averli lì davanti, gli regalo sempre dei cd anche se i genitori non vogliono mai. Il lato negativo è quando le luci si spengono e torni a casa, ma dura un momento perché lì hai tre figlie meravigliose che ti aspettano, è un altro tipo di palco ed è bellissimo anche quello.
3) Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Sicuramente radici, mi piacciono le mie radici. Tante volte ho pensato di andarmene ma poi ho sempre pensato che non puoi andartene veramente se non con la tua testa. E mi piace far sentire le mie radici, credo anche che sia giusto. Ad esempio in molti mi dicono che quando canto si sente troppo il mio accento toscano, che dovrei studiare dizione, ma proprio è una cosa che non farò mai. Amo le radici e odio i confini.
4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Avrei voluto aprire per Willy Deville o per Steve Earle, oggi mi piacerebbe aprire per Francesco De Gregori. Tra vent’anni avrò 64 anni, non so se avrò fatto altri dischi ma di sicuro avrò una chitarra in mano e qualche nuova canzone da cantare a qualcuno.
 5) La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
Mi porto sempre un sacco di cd quando viaggio, Drive South di John Hiatt mi ha accompagnato per tantissimi anni, tutto Slow Turning in realtà ma quella è proprio la canzone che mi fa sentire bene. Mentre guido mi piace ascoltare anche Steve Earle, Elliott Murphy, David Johansen, Dwight Yoakam. Credo di non aver mai fatto un viaggio ascoltando i programmi alla radio.



RECENSIONE: LUCA ROVINI-Avanzi e Guai (2013)
RECENSIONE: LUCA ROVINI-La Barca Degli Stolti (2015)

It's Just Another Town Along The Road
tappa 1: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS/HERNANDEZ & SAMPEDRO
tappa 2: LUCA MILANI
tappa 3: PAOLO AMBROSIONI & THE BI-FOLKERS
tappa 4: MATT WALDON



lunedì 12 giugno 2017

RYLEY WALKER live@NoSilenz Festival, Cigole (BS), 9 Giugno 2017



La grande forza di creare l’atmosfera giusta. Un lungo viaggio strumentale in crescendo, quasi un blocco unico dall’inizio alla fine con la capacità di incollare davanti al palco e contemporaneamente trasportare lontano. Vibrazioni positive, circolari e dilatate. Ryley Walker, cantautore folk rock dell'Illinois ma di casa a Chicago (anche musicalmente) rilascia sul palco tutta la libertà compositiva tenuta a freno nei quattro dischi incisi fino ad ora, creando saliscendi vincenti tra continue scosse e rallentamenti. Accompagnato da tre strumentisti eccezionali che hanno nel sempre sorridente batterista il punto faro da seguire con gli sguardi. Così come è capitato al pubblico: vi ho visti!
Ryley Walker conduce dando gli attacchi ma si confonde e mimetizza presto in mezzo alle sue psichedeliche visioni e a quella libertà che ha solo come punto di partenza il folk (un bilanciato mix tra America e terra d’Albione) ma presto sconfina nella jam di stampo jazz e nella psichedelia californiana galoppante tra i 60 e i 70. Il cantato rapito seguendo i maestri Van Morrison e David Crosby (ma per descrivere la sua musica sono stati tirati in ballo anche Tim Buckley, Nick Drake e John Martin) diventa così solo uno sporadico contorno. Una enorme nota di merito ai suoni e alla location sempre accogliente di Cigole: limpidi, bilanciati e curati i primi, estiva, distensiva e rilassante la seconda. Un piacere per le orecchie e gli occhi.
Nutrivo una certa curiosità per vedere all'opera sul palco Ryley Walker: a fine serata sono uscito dal concerto e ne volevo ancora. Soddisfatto! 

giovedì 8 giugno 2017

RECENSIONE: DAN AUERBACH (Waiting On A Song)

DAN AUERBACH    Waiting On A Song (Easy Eye Sound, 2017)








WAITING ON A SONG è il disco di un uomo che ama troppo la musica: Dan Auerbach ha recentemente confessato di passare tutte le sue giornate in sala di registrazione. Da mattina a sera. Volete esempi calzanti? ‘Malibu Man’ è dedicata a Rick Rubin, uno dei produttori più richiesti degli ultimi trent'anni, ‘Waiting On A Song’ che apre il disco è stata scritta insieme a John Prine, cantautore tanto influente nel folk americano degli ultimi quarant'anni quanto spesso dimenticato (a quanto pare questa collaborazione è stata fruttuosa: i due hanno scritto almeno altri sette pezzi che però qui non ci sono), nella divertente ‘Shine On Me’ che ricorda qualcosa dei magnifici Travelling Wilburys compare la chitarra di Mark Knopfler, la chitarra del mitico Duane Eddy, leggenda vivente della chitarra rock'n'roll è presente in almeno quattro pezzi, presenti anche Bobby Wood e Gene Chrisman, musicisti dei Memphis Boys, la band fissa degli American Sound Studio di Memphis che suonarono pure alla corte di Elvis Presley, e poi un pletora di altri musicisti di Nashville che potete trovare tutti in posa nella foto interna di copertina. Già Nashville, è lì che Dan Auerbach vive da circa sette anni, e lì che ha registrato come si faceva un tempo, tutto in presa diretta, al fianco di questi musicisti leggendari. DAN AUERBACH si è preso una seconda vacanza solista dai BLACK KEYS (era stanco della vita da tour e infatti per questo disco non ci saranno date live) dopo il bellissimo KEEP IT HID del 2009. Si potrebbe aggiungere anche la parentesi con gli Arcs. Ma non cercate tracce di quel disco di debutto, perché Auerbach questa volta è andato in altre direzioni. Vie che portano indietro nel tempo, partono dai settanta e arrivano ai cinquanta, ai gruppi vocali, alla black music d’atmosfera (‘Undertow’), a un gusto soul retrò che viaggia lungo tutto il disco (le orchestrazioni di ‘King Of One Horse Town’ e 'Cherrybomb’), a leggere pennellate che sfociano volentieri nel pop di vecchia scuola (‘Show Me’, ‘Stand By My Girl’). Un disco costruito da fan della musica, totalmente disimpegnato, leggero, spontaneo, spensierato e poco pretenzioso, ma molto rispettoso verso le leggende che vi suonano. Un omaggio dichiarato a Nashville. Alla musica americana. “ Le canzoni non crescono sugli alberi. Bisogna afferrarle nell’aria” canta nella title track. Dan Auerbach ne ha afferrate una decina, talmente leggere che potrebbero volare alte in questa estate.





RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)




mercoledì 7 giugno 2017

RECENSIONE: MAGPIE SALUTE (Magpie Salute)

MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (Eagle Rock, 2017)






Corvi che tornano a volare insieme. RICH ROBINSON e MARC FORD sono le due chitarre che non si parlavano e sentivano dal lontano 2006, secondo quanto dichiarato da Rich Robinson a Rolling Stone, insieme hanno registrato due dei migliori dischi dei Black Crowes (THE SOUTHERN HARMONY AND MUSICAL COMPANION e AMORICA, il terzo fu THREE SNKES AND ONE CHARM, il tutto tra il 1992 e il 1996), insieme hanno limato antichi screzi e messo in piedi questa nuova e allargata big band: MAGPIE SALUTE.
“Come Delaney & Bonnie, uno dei miei gruppi preferiti. O gli inglesi Mad Dogs di Joe Cocker. Abbiamo tante persone sul palco e tutti sono così musicalmente abili che sembra funzionare tutto da solo”, dice Rich Robinson a Rolling Stone.
Aggiungete il tastierista Eddie Harsch, purtroppo scomparso lo scorso Novembre e che qui la lasciato le sue ultime impronte su una tastiera (cercate il commovente video in rete), il bassista Sven Pipien, e i vecchi corvi spelacchiati sembrano nuovamente ricompattati in stormo con piume nuove e lucenti. Come dite? Chris Robinson? No, lui rimane il corvo nero da allontanare e non chiamare. CHris è impegnato con la confraternita e sembra stare bene così. Il fratello Rich, incalzato sempre da Rolling Stone su una prossima eventuale reunion, sembra molto chiaro: “voglio dire, adesso... ? Non credo. Non si può mai dire mai per il futuro, sai? Ma in questo momento no “.
Quindi mettiamo l’anima in pace e godiamoci questo primo piccolo passo, costruito in totale libertà artistica e d’ispirazione tra southern rock, soul, country e spiritual. Anche se giustamente Rich Robinson incarta tutto in un più ruspante rock’n’roll. Questo debutto è stato registrato live in soli tre giorni all’ Applehead Studios di Woodstock, davanti a uno sparuto pubblico, proprio come fu registrato l’ultimo album dei Black Crowes BEFORE THE FROST…UNTIL THE FREEZE. C’è la voce nera di John Hogg, ci sono tre coriste e altri tre musicisti (Matt Slocum, Joe Magistro e Nico Bareciartua). Il repertorio comprende alcuni classici come 'Comin' Home' (Delanie & Bonnie), 'Goin' Down South' (Bobby Hutcherson), 'War Drums' (War), 'Fearless' (Pink Floyd) e 'Glad And Sorry' dei Faces, alcune canzoni già nel repertorio dei vecchi Black Crowes ('What Is Home', 'Wiser Time' e 'Time Will Tell') e l’unico inedito in studio ‘Omission’ con la voce di John Hogg e la forza di risvegliare antichi fantasmi da anni dormienti. Un singolo dal gran tiro che svolge benissimo il compito di presentazione e apripista. Poche vere novità in scaletta è vero, ma durante i live tutto si amplia ancora di più (una buona parte delle canzoni superano i sei minuti di durata). A proposito: è stato confermato un tour europeo a Luglio, che naturalmente non toccherà il nostro paese. Un primo passo verso qualcosa di importante? Un progetto estemporaneo? Un nuovo gruppo per il futuro? Rich Robinson sembra ben propenso per quest’ultima opzione e visto il buon stato di forma di Marc Ford, confermata dall’ispiratissimo THE VULTURE uscito l’anno scorso, il prossimo passo potrebbe comprendere qualcosa di nuovo, originale e molto interessante.






venerdì 2 giugno 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 35: GENE CLARK (White Light)

GENE CLARK  White Light (1971)





'For a Spanish Guitar’ l’avrebbe voluta scrivere Bob Dylan. Se con gli attestati di stima che contano si potesse vivere più a lungo, Gene Clark, dopo questa dichiarazione d’amore, sarebbe ancora qui con noi a vivere i suoi infiniti anni di vita eterna. Invece nel 1991, a soli quarantasei anni, ci lasciò, sconfitto dalle pesanti e irrimediabili consegue...nze lasciate da quei vizi con cui cercò di innaffiare una vita schiva, vissuta spesso in solitaria (ben raccontata in ‘One In A Hundred’) e con tante fobie che ne ridussero l’alto potenziale di successo commerciale. Anche se la sfortuna e la critica ebbero la loro buona mano pesante a riguardo. Dopo la straordinaria parentesi con i Byrds con cui scrisse almeno un poker di classici e i dischi con i fratelli Gosdin e Doug Dillard, l’avventura solista iniziò proprio con questo disco: un piccolo gioiello che splende di luce propria, fin dalla stupenda e evocativa foto di copertina, scattata da John Dietrich, che ne ritrae la sagoma davanti al caldo sole posato sulle sabbie del deserto Californiano. WHITE LIGHT (titolo che non compare in copertina) è un disco di country folk perfetto con l’ombra di Dylan che spesso si allunga (l’apertura ‘Virgin’), senza tempo, adatto per tutte le occasioni: intimista, visionario, malinconico, romantico, delicato e intenso che si regge in piedi e vola alto con pochissimo. Registrato nel suo personale rifugio a Mendocino, nel nord della California, si avvale della chitarra di Jesse Ed Davis, il basso di Chris Ethridge, la batteria di Gary Mallaber, la sua armonica, la sua chitarra acustica e poco altro. Pure l’unica cover, la già perfetta‘ Tears Of Rage’ di Dylan/The Band, riesce ad acquistare nuove sfumature. Gene Clark, a ventisei anni dalla morte, lo ricordiamo come quel poeta introverso del Missouri con metà sangue pellerossa, spesso dimenticato ma che diede il suo grande contributo al via della splendente stagione californiana dei settanta. Non da meno, anzi, fu il più complesso NO OTHER del 1974. Raccolse piccoli frutti ma piantò i semi migliori.


 

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)