lunedì 12 giugno 2017

RYLEY WALKER live@NoSilenz Festival, Cigole (BS), 9 Giugno 2017



La grande forza di creare l’atmosfera giusta. Un lungo viaggio strumentale in crescendo, quasi un blocco unico dall’inizio alla fine con la capacità di incollare davanti al palco e contemporaneamente trasportare lontano. Vibrazioni positive, circolari e dilatate. Ryley Walker, cantautore folk rock dell'Illinois ma di casa a Chicago (anche musicalmente) rilascia sul palco tutta la libertà compositiva tenuta a freno nei quattro dischi incisi fino ad ora, creando saliscendi vincenti tra continue scosse e rallentamenti. Accompagnato da tre strumentisti eccezionali che hanno nel sempre sorridente batterista il punto faro da seguire con gli sguardi. Così come è capitato al pubblico: vi ho visti!
Ryley Walker conduce dando gli attacchi ma si confonde e mimetizza presto in mezzo alle sue psichedeliche visioni e a quella libertà che ha solo come punto di partenza il folk (un bilanciato mix tra America e terra d’Albione) ma presto sconfina nella jam di stampo jazz e nella psichedelia californiana galoppante tra i 60 e i 70. Il cantato rapito seguendo i maestri Van Morrison e David Crosby (ma per descrivere la sua musica sono stati tirati in ballo anche Tim Buckley, Nick Drake e John Martin) diventa così solo uno sporadico contorno. Una enorme nota di merito ai suoni e alla location sempre accogliente di Cigole: limpidi, bilanciati e curati i primi, estiva, distensiva e rilassante la seconda. Un piacere per le orecchie e gli occhi.
Nutrivo una certa curiosità per vedere all'opera sul palco Ryley Walker: a fine serata sono uscito dal concerto e ne volevo ancora. Soddisfatto! 

giovedì 8 giugno 2017

RECENSIONE: DAN AUERBACH (Waiting On A Song)

DAN AUERBACH    Waiting On A Song (Easy Eye Sound, 2017)








WAITING ON A SONG è il disco di un uomo che ama troppo la musica: Dan Auerbach ha recentemente confessato di passare tutte le sue giornate in sala di registrazione. Da mattina a sera. Volete esempi calzanti? ‘Malibu Man’ è dedicata a Rick Rubin, uno dei produttori più richiesti degli ultimi trent'anni, ‘Waiting On A Song’ che apre il disco è stata scritta insieme a John Prine, cantautore tanto influente nel folk americano degli ultimi quarant'anni quanto spesso dimenticato (a quanto pare questa collaborazione è stata fruttuosa: i due hanno scritto almeno altri sette pezzi che però qui non ci sono), nella divertente ‘Shine On Me’ che ricorda qualcosa dei magnifici Travelling Wilburys compare la chitarra di Mark Knopfler, la chitarra del mitico Duane Eddy, leggenda vivente della chitarra rock'n'roll è presente in almeno quattro pezzi, presenti anche Bobby Wood e Gene Chrisman, musicisti dei Memphis Boys, la band fissa degli American Sound Studio di Memphis che suonarono pure alla corte di Elvis Presley, e poi un pletora di altri musicisti di Nashville che potete trovare tutti in posa nella foto interna di copertina. Già Nashville, è lì che Dan Auerbach vive da circa sette anni, e lì che ha registrato come si faceva un tempo, tutto in presa diretta, al fianco di questi musicisti leggendari. DAN AUERBACH si è preso una seconda vacanza solista dai BLACK KEYS (era stanco della vita da tour e infatti per questo disco non ci saranno date live) dopo il bellissimo KEEP IT HID del 2009. Si potrebbe aggiungere anche la parentesi con gli Arcs. Ma non cercate tracce di quel disco di debutto, perché Auerbach questa volta è andato in altre direzioni. Vie che portano indietro nel tempo, partono dai settanta e arrivano ai cinquanta, ai gruppi vocali, alla black music d’atmosfera (‘Undertow’), a un gusto soul retrò che viaggia lungo tutto il disco (le orchestrazioni di ‘King Of One Horse Town’ e 'Cherrybomb’), a leggere pennellate che sfociano volentieri nel pop di vecchia scuola (‘Show Me’, ‘Stand By My Girl’). Un disco costruito da fan della musica, totalmente disimpegnato, leggero, spontaneo, spensierato e poco pretenzioso, ma molto rispettoso verso le leggende che vi suonano. Un omaggio dichiarato a Nashville. Alla musica americana. “ Le canzoni non crescono sugli alberi. Bisogna afferrarle nell’aria” canta nella title track. Dan Auerbach ne ha afferrate una decina, talmente leggere che potrebbero volare alte in questa estate.





RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)




mercoledì 7 giugno 2017

RECENSIONE: MAGPIE SALUTE (Magpie Salute)

MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (Eagle Rock, 2017)






Corvi che tornano a volare insieme. RICH ROBINSON e MARC FORD sono le due chitarre che non si parlavano e sentivano dal lontano 2006, secondo quanto dichiarato da Rich Robinson a Rolling Stone, insieme hanno registrato due dei migliori dischi dei Black Crowes (THE SOUTHERN HARMONY AND MUSICAL COMPANION e AMORICA, il terzo fu THREE SNKES AND ONE CHARM, il tutto tra il 1992 e il 1996), insieme hanno limato antichi screzi e messo in piedi questa nuova e allargata big band: MAGPIE SALUTE.
“Come Delaney & Bonnie, uno dei miei gruppi preferiti. O gli inglesi Mad Dogs di Joe Cocker. Abbiamo tante persone sul palco e tutti sono così musicalmente abili che sembra funzionare tutto da solo”, dice Rich Robinson a Rolling Stone.
Aggiungete il tastierista Eddie Harsch, purtroppo scomparso lo scorso Novembre e che qui la lasciato le sue ultime impronte su una tastiera (cercate il commovente video in rete), il bassista Sven Pipien, e i vecchi corvi spelacchiati sembrano nuovamente ricompattati in stormo con piume nuove e lucenti. Come dite? Chris Robinson? No, lui rimane il corvo nero da allontanare e non chiamare. CHris è impegnato con la confraternita e sembra stare bene così. Il fratello Rich, incalzato sempre da Rolling Stone su una prossima eventuale reunion, sembra molto chiaro: “voglio dire, adesso... ? Non credo. Non si può mai dire mai per il futuro, sai? Ma in questo momento no “.
Quindi mettiamo l’anima in pace e godiamoci questo primo piccolo passo, costruito in totale libertà artistica e d’ispirazione tra southern rock, soul, country e spiritual. Anche se giustamente Rich Robinson incarta tutto in un più ruspante rock’n’roll. Questo debutto è stato registrato live in soli tre giorni all’ Applehead Studios di Woodstock, davanti a uno sparuto pubblico, proprio come fu registrato l’ultimo album dei Black Crowes BEFORE THE FROST…UNTIL THE FREEZE. C’è la voce nera di John Hogg, ci sono tre coriste e altri tre musicisti (Matt Slocum, Joe Magistro e Nico Bareciartua). Il repertorio comprende alcuni classici come 'Comin' Home' (Delanie & Bonnie), 'Goin' Down South' (Bobby Hutcherson), 'War Drums' (War), 'Fearless' (Pink Floyd) e 'Glad And Sorry' dei Faces, alcune canzoni già nel repertorio dei vecchi Black Crowes ('What Is Home', 'Wiser Time' e 'Time Will Tell') e l’unico inedito in studio ‘Omission’ con la voce di John Hogg e la forza di risvegliare antichi fantasmi da anni dormienti. Un singolo dal gran tiro che svolge benissimo il compito di presentazione e apripista. Poche vere novità in scaletta è vero, ma durante i live tutto si amplia ancora di più (una buona parte delle canzoni superano i sei minuti di durata). A proposito: è stato confermato un tour europeo a Luglio, che naturalmente non toccherà il nostro paese. Un primo passo verso qualcosa di importante? Un progetto estemporaneo? Un nuovo gruppo per il futuro? Rich Robinson sembra ben propenso per quest’ultima opzione e visto il buon stato di forma di Marc Ford, confermata dall’ispiratissimo THE VULTURE uscito l’anno scorso, il prossimo passo potrebbe comprendere qualcosa di nuovo, originale e molto interessante.






venerdì 2 giugno 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 35: GENE CLARK (White Light)

GENE CLARK  White Light (1971)





'For a Spanish Guitar’ l’avrebbe voluta scrivere Bob Dylan. Se con gli attestati di stima che contano si potesse vivere più a lungo, Gene Clark, dopo questa dichiarazione d’amore, sarebbe ancora qui con noi a vivere i suoi infiniti anni di vita eterna. Invece nel 1991, a soli quarantasei anni, ci lasciò, sconfitto dalle pesanti e irrimediabili consegue...nze lasciate da quei vizi con cui cercò di innaffiare una vita schiva, vissuta spesso in solitaria (ben raccontata in ‘One In A Hundred’) e con tante fobie che ne ridussero l’alto potenziale di successo commerciale. Anche se la sfortuna e la critica ebbero la loro buona mano pesante a riguardo. Dopo la straordinaria parentesi con i Byrds con cui scrisse almeno un poker di classici e i dischi con i fratelli Gosdin e Doug Dillard, l’avventura solista iniziò proprio con questo disco: un piccolo gioiello che splende di luce propria, fin dalla stupenda e evocativa foto di copertina, scattata da John Dietrich, che ne ritrae la sagoma davanti al caldo sole posato sulle sabbie del deserto Californiano. WHITE LIGHT (titolo che non compare in copertina) è un disco di country folk perfetto con l’ombra di Dylan che spesso si allunga (l’apertura ‘Virgin’), senza tempo, adatto per tutte le occasioni: intimista, visionario, malinconico, romantico, delicato e intenso che si regge in piedi e vola alto con pochissimo. Registrato nel suo personale rifugio a Mendocino, nel nord della California, si avvale della chitarra di Jesse Ed Davis, il basso di Chris Ethridge, la batteria di Gary Mallaber, la sua armonica, la sua chitarra acustica e poco altro. Pure l’unica cover, la già perfetta‘ Tears Of Rage’ di Dylan/The Band, riesce ad acquistare nuove sfumature. Gene Clark, a ventisei anni dalla morte, lo ricordiamo come quel poeta introverso del Missouri con metà sangue pellerossa, spesso dimenticato ma che diede il suo grande contributo al via della splendente stagione californiana dei settanta. Non da meno, anzi, fu il più complesso NO OTHER del 1974. Raccolse piccoli frutti ma piantò i semi migliori.


 

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

martedì 30 maggio 2017

RECENSIONE: RODNEY CROWELL (Close Ties)

RODNEY CROWELL  Close Ties (New West, 2017)






Chissà, forse non è proprio un caso che per il compleanno alcuni cari amici mi abbiano regalato il nuovo disco di Rodney Crowell. Un regalo apprezzato, perché CLOSE TIES è disco autobiografico, sincero, senza filtri. Proprio come dovrebbero essere gli amici. Un disco ricco di vita come pochi. Proprio come quella costruita con gli amici più fedeli, anno dopo anno. Legami stretti, appunto. Il cantautore texano ha attraversato gli ultimi quarant’anni di musica americana da gran protagonista, nonostante il suo nome non abbia mai bucato il vero mainstream a livello mondiale, soprattutto alle nostri latitudini. Non così in patria: a partire da DIAMOND & DUST del 1988, che fu un successo clamoroso, la sua fama, unita alla stima dei musicisti, è cresciuta in continuazione. Qui riscrive un nuovo capitolo della sua carriera guardando a 360 gradi indietro, avanti e nel presente della sua esistenza. Amori, vittorie, sconfitte, confessioni, debolezze, morte, luoghi, presagi futuri, amicizie musicali e private. Non manca nulla. Partecipano pure la ex moglie Susanna Cash e John Paul White in ‘It Ain’t Over Yet’, canzone scritta inizialmente per Guy Clark (“Stavo scrivendo questa canzone mentre gli facevo visita regolarmente durante gli ultimi mesi di vita.”), e Sheryl Crowe in ‘I’m Tied To Ya’. Anche musicalmente c'è tutto il meglio del repertorio: dalla dolente ballata folk country della finale ‘Nashville 1972’ che dice tutto nel titolo e racconta il primo incontro con la mecca del country con tanto di illustri protagonisti, che diventeranno poi colleghi (Guy Clark, Townes Van Zandt,Steve Earle) al rock bello tirato di ‘Storm Warning’. Dai momenti più lontani e privati riconducibili all’adolescenza, ben raccontati nell’apertura ‘East Houston Blues’, alle storie d’amore finite (‘Forgive Me Annabelle’), fino alle confessioni che sanno quasi di tardiva dichiarazione: ‘Life Without Susanna’ è dedicata a Susanna Clark, compagna di Guy Clark, una delle prime persone a credere nelle capacità artistiche di Crowell. Tra gli autori più ricercati, una delle ultime grandi penne della tradizione musicale americana. Nelle sue mani tutto può ancora diventare prezioso.


RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-Prodigal Son (2017)

venerdì 26 maggio 2017

RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD (Betty's Blends: Volume 3: Self-Rising, Southern Blends)

CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD - BETTY'S BLENDS: 'Volume 3: Self-Rising, Southern Blends.' (2017)






Per una band che ha preso forma nel 2011 sopra i palchi, questo disco è pura routine. Il giusto palcoscenico per la vera natura della band (i 14 minuti di ‘Ride’ il loro passaporto). Libertà di movimento in un flusso continuo e cangiante di ispirazione (forse non sempre al top, con la voce di Robinson non più ai massimo come ai vecchi tempi, ma da accontentarsi) che trova terreno fertile tra il blues, la psichedelia, il southern rock, il soul, là da qualche parte in mezzo alle strade che dai campi assolati della Florida arrivano alle vie trafficate della San Francisco in acido. Pura gioia di suonare, non mi viene in mente altra frase. Questa è la terza uscita della serie live denominata BETTY’S BLENDS, dischi che si vanno ad aggiungere ai cinque di studio già usciti. Tredici canzoni registrate nel 2015 in tre diverse date del tour nel Sud degli states, ad Atlanta in Georgia, Raleigh in North Carolina e Charleston in South Carolina, con l'aiuto della storica  Betty Cantor Jackson, archivista e fonico dei Grateful Dead. Un tour che toccò anche l’Italia. Accanto alle canzoni di Chris Robinson e soci (l’inconfondibile chitarra di Neal Casal, le tastiere sempre più presenti di Adam MacDougall , la batteria dell’ultimo entrato Tony Leone) troviamo alcune cover, vero punto d’interesse di queste uscite: ‘Get Out Of My Life Woman’ di Allen Toussaint, ‘ The Music’s Hot’ (Slim Harpo), ‘I’m A Hog For You’ (Leiber/Stoller), per concludere con i sette minuti di ‘She Belongs To Me’ di Dylan. Nessun calcolo e tanto cuore, da Chris Robinson e la sua congrega. Come sempre.


RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-Prodigal Son (2017)

martedì 23 maggio 2017

RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY (Prodigal Son)

ELLIOTT MURPHY  Prodigal Son (Route 61, 2017)




Da quando qualche anno fa lessi una recensione di un suo disco dove il giornalista scriveva di lui al passato, confondendolo evidentemente con qualche altro Elliott passato a miglior vita (Smith?), ad ogni nuova uscita di Elliott (Murphy), dentro di me una vocina dice “ah però, non male per uno che non c'è più”.Dopo aver rivisitato l’esordio AQUASHOW (uscito nel 1973), Elliott Murphy ritorna con un bel disco di nuove canzoni, intenso e ispirato, registrato a Parigi sotto la regia del figlio Gaspard (“l’album si intitola Prodigal Son ispirandosi alla storia nella Bibbia, anche se un sacco di gente pensa che sia dedicato al mio talentuoso figlio Gaspard Murphy che ha prodotto, arrangiato e mixato l'album”) e con i fedeli Normandy All Star ad accompagnarlo: Alan Fatras (batteria), l’inseparabile Olivier Durand alla chitarra e Laurent Pardo (basso), scomparso poco dopo le registrazioni. Il disco, che esce per l’etichetta Route 61 di Ermanno Labianca a quattro anni dall’ultimo IT TAKES A WORRIED MAN, è dedicato proprio al bassista. Nove canzoni tra cui le suggestioni rock dell’apertura ‘Chelsea Boots’, già in odor di classico nel suo repertorio e la lunga, cinematografica ‘Absalom, Davy & Jackie O’ che con i suoi undici minuti chiude il disco e diventa la sua canzone più lunga di sempre, “Ho provato a scrivere una canzone che si può ascoltare come si potrebbe guardare un film”. In mezzo il rutilante folkie ‘Alone In My Chair’, e un filo conduttore che si potrebbe individuare in uno spirito gospel soul che aleggia in parecchie canzoni tra cui la title track ‘The Prodigal Son’ con il pianoforte di Leo Cotton in cattedra, in ‘Let Me In’, nel crescendo di ‘Wit’s End’ con il violino di Melissa Cox. Elliott Murphy sembra non aver perso quella preziosa penna che ne faceva uno dei migliori e più coerenti songwriter della sua generazione (non per nulla è pure scrittore) che dopo aver camminato nei marciapiedi del Village, vissuto la New York glam degli anni '70, arrivò in Europa nel 1989 (nei settanta visse anche a Roma), e da qui non se n'è più andato. Lontano dai grandi circuiti che contano ma sempre più vicino ai cuori e all'anima. Quello che conta davvero, in fondo. Lunga vita a Elliott Murphy.


RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)

giovedì 18 maggio 2017

RECENSIONE: WILLIE NELSON (God's Problem Child)


WILLIE NELSON   God's Problem Child (Legacy/Sony, 2017)






84 anni compiuti lo scorso 29 Aprile per WILLIE NELSON. Ancora auguri! In concomitanza è uscito il nuovo GOD’S PROBLEM CHILD. Un disco dove il vecchio Willie fa volutamente veleggiare lo spettro della morte sopra alle sue canzoni. A volte ad alta quota, altre sfiorando quasi l’impatto. Presentato da una copertina che lo mostra assorto e pensieroso, e in mezzo ad alcuni episodi che mettono in risalto una visione romantica, mai sopita, ma ancora scalpitante della vita (la bellissima ‘True Love’, ‘A Woman’ s Love’), "credo non ci si possa occupare troppo del passato e degli errori fatti" disse in una recente intervista, tra le pieghe di qualche decisa e feroce opinione sulla politica odierna (‘Delete And Fast Forward’), tra un testo che sa di confessione al Signore ('I Made A Mistake'), fa però calare un pesante velo di malinconia. Ricordando i tempi andati (la ballata pianistica ‘Old Timer’) e vecchi amici della sua generazione che da pochissimo non ci sono più (‘Lady Luck’): da Merle Haggard (‘He Won’t Ever Be Gone’) con il quale incise l’ultimo album DJANGO & JIMMIE nel 2015 , a Leon Russell che proprio nella title track, un blues notturno scritto e suonato con Jamey Johnson e Tony Joe White, ha lasciato le sue ultime tracce in uno studio di registrazione.
Ma poi esce allo scoperto lo spirito ironico e sbeffeggiante a stemperare tutto: nell'honk tonk ‘Still Not Dead’ canta “Well I woke up still not dead again today. The internet said I had passed away. But if I died, I wasn’t dead to stay”. Mettendo a tacere, una volta per tutte, le reiterate bufale sulla sua morte presenti in rete. Difficile fermare le leggende. Già: mentre esce questo, lui è già al lavoro con i figli Lukas e Micah, proprio quelli che hanno accompagnato l'amico Neil Young ultimamente. Ne vedremo ancora della belle.







RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)



sabato 13 maggio 2017

RECENSIONE: CHRIS STAPLETON (From A Room, Volume I)

CHRIS STAPLETON    From A Room, Volume I (Mercury Nashville, 2017)




“Il luogo dove registri può influenzare, nel mio caso anche elevare, quello che fai”. Con queste parole CHRIS STAPLETON, 38 anni, sintetizza il titolo scelto per l’ambizioso progetto musicale di questo 2017. Il 5 Maggio sono uscite le prime nove canzoni raccolte sotto il titolo: From A Room, Volume I. A fine anno arriverà il volume II. Chris Stapleton ha registrato il seguito del fortunato debutto TRAVELLER, negli stessi studi di Nashville dove registrarono i suoi grandi idoli: Waylon Jennings, Willie Nelson, Elvis Presley. Mura piene di storia che un paio d’ anni fa furono salvate dal triste destino a cui stavano andando incontro: la demolizione. Scongiurata la wrecking ball rimane la magia. Prodotto con il fido Dave Cobb, che ci suona anche la chitarra acustica, Stapleton cerca di bissare il grande successo di un debutto nato sulle highway, durante un lungo viaggio con la moglie in cui cercò di recuperare il meglio di se stesso, dopo alcune delusioni di vita, e le sue esperienze musicali, comprese le parentesi con i suoi vecchi gruppi, e le tante canzoni scritte per altri come autore. Con lui in studio: la moglie Morgane Stapleton ai cori, il batterista Derek Mixon, il basso di J.T. Cure e le ospitate di Mickey Raphael all’ armonica, Robby Turner alla pedal steel e le tastiere di Mike Webb. 
 Volume I ripete bene la formula, bilanciando le varie anime della sua musica anche se a prevalere, come già anticipato dal debutto, è sempre quella più soul e nera grazie soprattutto alla sua straordinaria voce: ‘I Was Wrong’, l’incidere soffuso e notturno della finale ‘Death Row’, la splendida ‘Either Way’ che insieme a ‘Last Thing I Needed , First Thing This Morning’ (rubata a Willie Nelson) sono il punto più alto del disco e sembrano uscite da impolverati dischi motown abbandonati su una vecchia diligenza guidata da vecchi cowboy e persa tra le strade del Texas. Come se Otis Redding camminasse, senza fretta, sotto braccio a Waylon Jennings. Outlaw soul. Maggiore omogeneità rispetto al debutto, spezzata solamente da un lento walzerone country dominato dalla lap steel (‘Up To No Good Livin’’), un vecchio blues con l’armonica (‘Them Stems’), e l’incalzante rock di ‘Second One To Know’, il momento più elettrico e movimentato del disco. Chris Stapleton si conferma uno degli ultimi depositari di una vecchia formula che tra gli anni sessanta e i settanta cercò di riscrivere la musica americana. Anche se un punto inferiore al debutto, che poteva giocarsi la carta sorpresa, rimane pur sempre due punti superiore per spessore e intensità alla media delle uscite odierne nel suo campo. Ora non rimane che aspettare il secondo volume previsto per fine anno, che potrebbe riservare ulteriori sorprese, altrimenti non si spiegherebbe questa divisione, vista l’esigua durata del disco.


RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)


mercoledì 10 maggio 2017

RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO' (TajMo)

TAJ MAHAL & KEB’ MO’    TajMo (Concord Music, 2017)






Ieri in rete è andata in onda l’ennesima puntata di: "anche in musica i soldi possono dividere le persone". Il tutto riferito al prezzo dei biglietti del concerto dei Rolling Stones con pro e contro annessi. Passiamo oltre. Lasciamo parlare la musica. Fortunatamente in nome della musica ci si unisce anche e l’esordio di questa inedita quanto affiatata coppia di musicisti ne è la testimonianza più fresca e attuale. Un connubio cementificato dopo un tributo a Duane Allman e proseguito in questi due anni, culminato con questa raccolta di undici canzoni. “ E’ stato divertente. Questa collaborazione era nell’aria da diverso tempo, ma ora che si è compiuta sono veramente colpito. Keb’Mo’ è davvero bravo a tenere la palla in aria. È un inferno di chitarrista. Sono stupito dalle cose che è riuscito a tirare fuori”. Così Taj Mahal ha raccontato il feeling nato con il chitarrista di Los Angeles. L’alunno segue il maestro e il maestro lascia spazio all’alunno (comunque classe 1951), tanto che Keb’ Mo’ non si fa remore nel chiamare “guida” il suo esperto compagno. Comunque sia, due maestri nel loro campo. Due esperti in contaminazione. E il campo di gioco è lo stesso che Taj Mahal contribuì a svecchiare fin dal lontano esordio del 1968, allungando le radici versi tanti altri orizzonti sonori, rivestendo il blues di abiti moderni e all’avanguardia per l’epoca. Qui, nel 2017, in aggiunta: l’intreccio delle loro voci e delle chitarre. Tutto l’amore per il blues libero e contaminato che sa: essere elettrico (‘Don’t Leave Me Here’, ‘Show Knows How To Rock Me’), acustico, riprendendo quella ‘Diving Duck Blues’ di Sleepy John Estes dal debutto di Majal appunto, soul in ‘Shake In Your Arms’ con la chitarra ospite di Joe Walsh, stringere la mano al reggae nella cover degli Who ‘Squeeze Box’, bagnarsi nei mari dei Caraibi (‘Soul’), esprimere tutto l’amore per il Sud degli States (‘Don’t Lleave Me Here’), salutarci con la cover ‘Waiting On The World To change’ di John Mayer che ospita la voce di Bonnie Raitt. Il tutto senza mai perdere per strada eclettismo e freschezza. Niente di nuovo, nulla di rivoluzionario, non il disco dell’anno, ma certamente sarà il miglior disco da ascoltare in macchina durante le prossime lunghe (e corte) trasferte estive verso le mete dei vostri concerti. Pure se andrete a qualche concerto troppo costoso. Perché la musica, alla fine, ricuce e unisce tutto. Chiedere a Taj Mahal.






RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP (featuring CARLENE CARTER)-Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE:  GARLAND JEFFREYS -14 Steps To Harlem (2017)


lunedì 8 maggio 2017

RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS (14 Steps To Harlem)

GARLAND JEFFREYS    14 Steps To Harlem (Luna Park Records, 2017)





C’è chi della contaminazione ne fa una malattia, si inventa guerre puntellate sulle assi cigolanti dell’odio e della supremazia razziale, e poi c’è chi ne trae fuori bellezza e giovamento. Lasciamo i primi girare senza meta intorno al loro livore basato sull’invidia (“molta gente non è ancora pronta” dice Jeffreys) e facciamo un monumento a GARLAND JEFFREYS che dalla contaminazione (il suo sangue è di tanti colori e parla diverse lingue, la sua musica pure) si ècostruito una carriera, non sempre ai vertici del successo, ondulante tra picchi, cadute di tono e assenze prolungate, ma sicuramente degna di essere raccontata e rispettata. 14 STEPS TO HARLEM non sfugge a quello che ha sempre mostrato con la sua musica: di essere aperto a ogni suggestione musicale, a ogni genere, ad ogni luogo e ogni tempo. Da Brooklyn a Firenze dove studiò e abitò in gioventù, il passo è sempre più breve di quanto ci si aspetti. Se il disco si apre in leggerezza con un chorus pop rock quasi danzereccio (‘When You Call My Name’) dominato dai shynth che ti si stampa in testa, continua poi sulle antiche strade del blues, dell’amato reggae, del soul, del rock, della musica latina, dei linguaggi musicali più moderni del ghetto (‘Colored Boy Said’), delle classiche ballate newyorchesi. L’ambientazione è la stessa di sempre: parte dalle strade di New York , suggestiva la ballata ‘Luna Park Love Theme’ ambientata a Coney Island e che ospita Laurie Anderson al violino, e si propaga in giro verso le strade del mondo. Lo sguardo è spesso rivolto al passato. Principalmente a suo padre in ’14 Steps To Harlem’ , un onesto lavoratore che con i soldi guadagnati con tanta fatica gli permise di studiare all’università e lo introdusse alla musica,
quand’ero giovane mio padre mi introdusse nel mondo del jazz, ho visto grandi artidsti ad Harlem. Ho visto Nina Simone al Village Gates, l’ho conosciuta, suonava con Sonny Rollins”, alla sua infanzia (‘Schollyard Blues’), alla vecchia New York del 1981 che ospitava i Clash in tour mentre lui promuoveva l’acclamato ESCAPE ARTIST (‘Reggae On Broadway’) e tra gli spettatori c’era Joe Strummer . Ma anche al presente con i pensieri rivolti alla moglie (‘Venus’ potrebbe essere scritta da Van Morrison) e alle sue origini portoricane (‘Spanish Heart’). Piazza pure due cover: una carezzevole ‘Help’ dei Beatles dedicata a John Lennon, conosciuto al Record Plant e ‘Waiting For The Man’ dei Velvet Underground, un dichiarato omaggio al vecchio amico Lou Reed. “Ho incontrato Lou Reed alla mensa della Syracuse University nel 1961. Lou era al sencondo anno, Io una matricola. Nessuno ci ha presentato. Ci siamo fiutati a vicenda. Lui arrivava da Long Island io da Brooklyn”. Produce James Maddock. In questi giorni stavo cercando qualcosa di fresco che potesse sostituire gli abituali abitanti della mia autoradio. Sapete quei lunghi viaggi sulla lingua d’asfalto? 14 STEPS TO HARLEM si è guadagnato il primo posto con poca fatica!





RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP-Sad Clowns & Hillbillies (2017)


mercoledì 3 maggio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 34: EDOARDO BENNATO (Edo Rinnegato)


EDOARDO BENNATO    Edo Rinnegato (Warner Fonit, 1990)








Luglio 1990. Il gol del pareggio di Claudio Caniggia, o se volete l’uscita avventata di Walter Zenga (imbattuto fino a quel momento), spensero la terz’ultima stella di quelle notti magiche italiane. A far calare il buio completo ci pensarono i rigori falliti di Donadoni e Serena. Tutte le stelle spente, le notti perdono la scia magica, anche gli occhi di Schillaci non luccicano più. Argentina in finale. Il sipario calò miseramente... anche su quel tormentone (ascoltato fino allo sfinimento ovunque) musicato da Giorgio Moroder con il testo dell’inedita coppia Bennato/Nannini che ci accompagnò dal Dicembre dell’anno prima fino a quel 3 Luglio. Rivelandosi comunque, a fine anno, il singolo più venduto in Italia.
Ma Edoardo Bennato aveva già pensato a tutto, nuovamente: dal 20 al 28 Maggio, a pochissimi giorni dall’inizio dei mondiali chiamò con sé i vecchi amici Roberto Ciotti (l’ultima apparizione del bluesman romano in un disco di Bennato risaliva a BURATTINO SENZA FILI del 1977), Lucio Bardi e Luciano Ninzetti alle chitarre, Andy Forest all’armonica e in soli otto giorni, chiusi dentro ai Baby Record Studios di Milano, registrarono in presa diretta EDO RINNEGATO, un disco totalmente acustico con il non trascurabile primato di essere il primo (live) unplugged sul mercato italiano, prima ancora che MTV iniziasse a staccare le spine a tutti quanti.

Nella copertina, disegnata dallo stesso Bennato, c’era tutto il misero armamentario usato: chitarre acustiche, armoniche, tamburelli e kazoo. Stop. Ancora adesso se qualche neofita di Bennato, esiliato dal mondo fino a ieri in qualche isola (che non c’è), mi chiedesse un “disco iniziazione” all’opera di Bennato, lo farei partire da qui. Un riepilogo di carriera che parte dalle lontane ‘ Venderò’, ‘Rinnegato’, ‘Arrivano i Buoni’ ‘La Bandiera’, ‘Franz è il mio Nome’, ‘Ma Che Bella Città’ e arriva fino alle allora più recenti ‘Abbi Dubbi’, ‘Sogni’, ‘La Luna’, ‘La Chitarra’ completamente messe a nudo, svestite dai pesanti abiti anni 80. Il disco uscì a mondiali finiti, nell’autunno del 1990. Ma l’estate di Bennato non terminò con il terzo posto dell’Italia: il 13 Luglio partecipò a Pistoia Blues, dividendo il palco con sua maestà B.B. King e con il nuovo (e sfortunato) astro nascente della chitarra blues Jeff Healey. In quel Luglio del 1990 il campione del mondo fu Edoardo Bennato. Abbi dubbi? No!




DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

venerdì 28 aprile 2017

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Superdownhome)

SUPERDOWNHOME  Superdownhome (Roam, 2017)







Un contrasto vincente! Non lasciatevi ingannare troppo dalla copertina che li ritrae seduti, elegantemente vestiti, su due poltrone Chesterfield. E non dovrete farvi ingannare nemmeno da come si presentano in concerto: esattamente così. A cambiare sono solo le poltrone vintage, sostituite da due poveri sgabelli. Dal lato blu notte esce la figura di Enrico Sauda, seduto alle prese con le sue chitarre (cigar box artigianali comprese), dal lato rosso carminio Beppe Facchetti, seduto dietro a cassa e rullante. Il minimo indispensabile. Il contrasto qual è allora? La musica. Perché proprio di sottrazione vivono le loro canzoni. I due esperti musicisti bresciani sono in giro da circa due anni sotto il nome Superdownhome, ma solo ora sembrano aver trovato la strada vincente, e ce la mostrano con questo primo ep prodotto da Marco Franzoni e Ronnie Amighetti (preludio a qualcosa di più sostanzioso, si spera) composto da cinque brani: quattro autografi e la cover di ‘Shake Your Money Maker’ di Elmore James. Sauda e Facchetti hanno trovato nel rock blues viscerale, terroso, innaffiato da buone dosi di alcol, e molto vicino a personaggi come Seasick Steve e Scott H. Biram (giustamente omaggiati durante i live), ma anche i Black Keys, il loro punto in comune. Basterebbe l’ascolto della riuscitissima ‘Can’t Sweep Away’ a fugare ogni dubbio, con il bellissimo video compreso. Enrico Sauda è un dotatissimo chitarrista dall’animo rock blues, con un alcuni dischi solisti alle spalle, attualmente in vista con la band The Scotch, ammirata recentemente in apertura a Alejandro Escovedo a Chiari; Beppe Facchetti ha un curriculum vitae lunghissimo (che potrete cercarvi nel web) per cui mi limito a citare il suo prezioso lavoro con The Union Freego e Slick Steve And The Gangsters. Two men band, a volte è meglio di one.







BRESCIA ROCK (5 band da conoscere: Slick Steve & The Gangsters, Van Cleef Continental, Thee Jones Bones, Il Sindaco, The Union Freego)
RECENSIONE:  THEE JONES BONES-This Is Love (2017)
RECENSIONE: THE CROWSROADS-Reels (2016)

giovedì 27 aprile 2017

RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP featuring CARLENE CARTER (Sad Clowns & Hillbillies)

JOHN MELLENCAMP (featuring CARLENE CARTER)      Sad Clowns & Hillbillies (2017)






Prime luci dell’alba in autostrada, questa mattina 26 Aprile 2017, tra code, incidenti e diluvii-dicono che in questi tre giorni scenderà tutta l’acqua che di solito cade in un mese- ma con il nuovo salvifico SAD CLOWNS & HILLBILLIES a girare senza interruzioni nell’autoradio. Per tre volte consecutive. Un disco che impiega poco a scaldare e asciugare quello che trova intorno: cuore e asfalto su tutto. E posso dire di più: da alcuni anni JOHN MELLENCAMP non sbaglia un colpo, e fa piazza pulita intorno a sè. Quando scava così a fondo nelle radici americane ha veramente pochi rivali tra i colleghi coetanei. Sad Clowns & Hillbillies continua il discorso iniziato dal disco di cover TROUBLE NO MORE (2003) che toccò il culmine con NO BETTER THAN THIS (2010), ma va anche a riprendere i fili lasciati in dischi cardine della sua carriera come THE LONESOME JUBILEE (1987) e BIG DADDY (1989), soprattutto grazie alla presenza del violino di Miriam Strum che fa quello che faceva Lisa Germano. Ascoltare ‘All Night Talk Radio’ e ‘Indigo Sunset’.
Prima di questa nuova avventura musicale nata sui palchi del tour del penultimo, splendido disco PLAIN SPOKEN, Mellencamp, democratico di lungo corso, ha sentito il forte bisogno di dire la sua sulle condizioni in cui versa il suo paese “una riflessione sullo stato del nostro paese” dice a proposito della canzone ‘Easy Target’, piazzata qui a fine scaletta, ma che anticipò invece il disco e le elezioni americane in autunno. Fu un istant single, uscito un giorno prima dell’ l’insediamento di Donald Trump alla casa bianca. Mellencap canta di sucker town, di bersagli facili, delle minoranze più esposte al pericolo, di armi facili, povertà e razzismo, crea un quadro poco invitante che la mano di Trump potrebbe rovinare ancora di più con altre pennellate fuori fuoco. Sull’avvento di Donald Trump, Mellencamp raccontò: “non so davvero che cosa ha intenzione di fare o il perché dice una cosa e poi ne fa un'altra. Trump dice : ‘non abbiamo intenzione di coinvolgere Wall Street,' e tutto il suo gabinetto è Wall Street. Mi sto solo mettendo comodo per vedere le cose strane che arriveranno ".
Buona visione, aggiungo io. I risultati disastrosi sono già sotto i nostri occhi.
 "So Black Lives Matter, who we tryin’ to kid / Here’s an easy target / Don’t matter, never did / Crosses burnin’, such a long time ago / 400 years, and we still don’t let it go / Well, let the poor be damned and the easy targets, too / All are created equally, beneath you and me.” Canta Mellencamp.
E tutte le restanti canzoni del disco sono legate dallo stesso filo conduttore: la lotta. Contro noi stessi e contro quello che ci circonda. Sebbene il nome di CARLENE CARTER compaia in copertina (l'intesa artistica nacque dopo il musical  Ghost Brothers of Darkland County, scritto da Mellencamp con Stephen King), la figlia di June Carter e Carl Smith (figlioccia di Johnny Cash) duetta solamente in cinque canzoni su tredici, e tra queste c’è ‘My Soul Got A Wings’, con un testo di Woody Guthrie che Mellencamp ha musicato in salsa country gospel, perché il disco nacque per essere una raccolta di canzoni dal marcato sapore spiritual cantate in duetto. Con il tempo l’idea è stata abortita e da quelle registrazioni si sono salvati solo alcuni brani tra cui una buona ‘Damascus Road', infarcita di riferimenti biblici. Un disco molto più vario musicalmente rispetto alle ultime uscite: accanto a numeri folk come ‘What Kind Of Man Am I’, troviamo quel heartland rock alla vecchia maniera con le chitarre elettriche più marcate di ‘ Early Bird Cafe’ (brano di Lane Tietgen conosciuto nella versione di Jerryy Hahn) o di ‘Grandview’ in duetto con Martina McBride stavolta e la presenza di due ospiti come l’ex Guns N’ Roses Izzy Stradlin alla chitarra e Stan Lynch, l’ex Heartbreaker di Tom Petty, alla batteria; una ‘Sugar Hill Mountain’ che sbuffa come se fosse suonata da una big band e che non avrebbe sfigurato tra le Seeger Session di Bruce Springsteen e una magnifica ‘Sad Clowns’ che potrebbe essere uscita dall’ugola consumata dalla nicotina di un Tom Waits qualsiasi datato 1973-1978. Oltre ai già citati, ad accompagnare Mellencamp tra i tanti anche: i fidi Andy York, Troye Kinnett, Mike Wanchic e il vecchio amico Kenny Aronoff come ospite.
Chiamatelo ancora cougar, chiamatelo bastardo, additatelo come un tipo poco avvicinabile e burbero, ma quando ci si mette…

Nota a margine di un disco senza sbavature: il packaging del CD è inesistente. Una misera bustina di cartone con pochissime note (titoli e nomi dei musicisti) illeggibili sul retro e...stop. In tempi in cui si dovrebbe puntare almeno sulla qualità del supporto fisico, questo è un grande passo falso. Imperdonabile. Pollice verso. Consiglio di puntare sull'edizione in vinile.





RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP, STEPHEN KING, T BONE BURNETT, AA.VV. -Ghost Brothers Of Darkland County (2013)

RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP Live@Vigevano 9 Luglio 2011

 John Mellencamp – Recensione – Performs Trouble No More



lunedì 24 aprile 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 33: RONNIE LANE'S SLIM CHANCE (One For The Road)


RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (Island Records, 1976)





“Pronto? Ciao Ronnie, te la fai una birra giù al pub stasera?”
“Certo Enzo, solita ora lì?”
“Ok, a dopo.”
Semplice, no? Se potessi scegliere una bevuta al pub insieme ad una rockstar sceglierei Ronnie Lane. Ma, un attimo: ho usato una parola che non va bene. Non è birra, non è pub, ovviamente. Ronnie Lane ha un passato radioso con gli Small Faces e con i Faces poi, ma di rockstar non ne voleva proprio sentir parlare. È sempre fuggito da quel mondo, e lo dimostra bene la sua carriera solista, durata veramente poco, il giro di un poker di album nei settanta, ma intensa. Come poteva amare hotel, piscine e mega tour uno che mise in piedi una sorta di carovana da circo itinerante denominata Passing Show, la si può vedere nel retro copertina, per poter portare la sua musica (una sorta di country folk rustico americano ma in salsa britannica) in giro nei posti più inconsueti e sperduti delle campagne inglesi in totale libertà? Naturalmente non fu mai un successo. Ma poco importa. Uno che si inventò uno studio di registrazione mobile che ben presto divenne ricercatissimo proprio dalle rockstar: il Ronnie Lane’s Mobile Studio. Lì, dentro a quel camper attrezzatissimo, ci registrarono Quadrophenia gli Who e Phisical Graffiti i Led Zeppelin. Ma anche Rory Gallagher e Eric Clapton. Proprio davanti alla roulotte/studio posa insieme ai suoi Slim Chance per la copertina del terzo disco On The Road.
Chiarissimo esempio della sua musica povera e rudimentale.
Folk dylaniano fortemente legato alle radici, rock'n'roll sbilenchi spesso alticci, impreziositi da violini, fisarmoniche e mandolini; ma anche del suo modo di affrontare la vita: un forte legame con la natura (viveva quasi come un contadino nelle campagne del suo amato Galles) e le cose più semplici ed appaganti che ispireranno i testi, l' alcol o la sbandata religiosa verso il guru indiano Mether Baba sempre in testa. Ronnie Lane era un’anima pura e il destino si sa va spesso a cercare dove non dovrebbe. Lane morì a soli cinquantuno anni nel 1997 dopo anni di dura lotta contro quello che il destino aveva preparato per portarselo via: la sclerosi multipla. Cheers Ronnie, a stasera, solito posto.





DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)


mercoledì 19 aprile 2017

RECENSIONE: CHUCK PROPHET (Bobby Fuller Died For Your Sins)

CHUCK PROPHET     Bobby Fuller Died For Your Sins (2017)






‘Bad Year for Rock and Roll’ (lo è stato o no il 2016? Viene pure citato Bowie), ‘Killing Machine’, ’Jesus Was a Social Drinker’, ‘If I Was Connie Britton’, ‘Post-War Cinematic Dead Man Blues’. Con dei titoli di canzoni così, il quattordicesimo album dell’ex Green On Red, parte già vincente. Il nuovo disco del folle CHUCK PROPHET, dedicato a Bobby Fuller (‘Bobby Fuller Died for Your Sins’), l’indimenticato interprete che portò al successo 'I Fought The Law', la cui prematura morte è ancora avvolta in un mistero, sta girando da settimane senza sosta, e credo che lo farà ancora per molto. Se amate il rock’n’roll, in ogni sua forma, è impossibile resistere al sound, alle numerose citazioni, alla curiosità espressiva e all’ironia nera di alcuni pezzi. C'è pure un omaggio ad Alan Vega e ai Suicide (il ritmo danzereccio e marziale di ‘In The Mausoleum’), e si conclude con ‘Alex Nieto’, per non dimenticare il giovane di San Francisco ucciso, senza apparente ragione dai 14 spari della polizia nel 2014. Quanta vitalità in un disco che chiama spesso in causa la morte. Un ‘California Noir’ come lo ha definito lo stesso Prophet: la tensione tra finzione romanzata e realta' che si cela sotto. Le tante contraddizioni della sua California. Un disco camaleontico, che schizza incontrollato in tutte le direzioni, dalla delicatezza pop di ‘Open Up Your Heart’ alla perfetta parodia byrdsiana di ‘Rider Or The Train’ alle dissonanze garage di ‘Alex Nieto’. Il tutto suonato insieme ai fedeli Mission Express. Disco con una marcia in più, con la giusta dose di esuberanza-e ironia- per distinguersi dalle tante (troppe?) uscite discografiche di questi nostri giorni.