BLACK STONE CHERRY Kentucky (Mascot Records, 2016)
Ritorno al passato
Se avevate puntato le vostre preziose fiches su questa band di giovani e sconosciuti americani, quando uscì il loro debutto nel 2006, e poi siete rimasti parzialmente delusi dalle successive mosse discografiche che sempre più spesso hanno abbandonato il roccioso southern rock a forti dosi hard per sviare verso la melodia, viatico per raggiungere il grande pubblico e il successo su scala mondiale, questo quinto album ha tutte le prerogative per farvi tornare sui vostri passi. Un ritorno al coraggio istintivo rispetto alla minuziosa cura dei dettagli della maturità.
Titolo e metodo di lavorazione (tante analogie con il debutto) sembrano chiudere il cerchio nel migliore dei modi: a Chris Robertson e compagni non è mai venuta meno la bravura (sono quasi tutti figli d’arte) ma questa volta sembrano superarsi riacciuffando quei pesanti riff cari allo Zakk Wylde più mainstream (The way Of The Future, Rescue Me) e quel sano e primigenio spirito da figli del sud (la ballata acustica The Rambler, la cover “Motown era” War) che quando fu camuffato da nuovi Nickelback non faceva loro onore. Enzo Curelli 8 da Classic Rock (Marzo 2016)
vedi anche
RECENSIONE: SUPERSONIC BLUES MACHINE-West Of Flushing, South Of Frisco (2016)
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
martedì 15 marzo 2016
venerdì 11 marzo 2016
RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE-Ouroboros (2016)
RAY LAMONTAGNE-Ouroboros (RCA Records, 2016)
Forse il primo Lamontagne (periodo Ethan Johns) lo abbiamo perso definitivamente. Dopo SUPERNOVA, prodotto da Dan Auerback, disco mal digerito dai fan della prima ora ma segno di una voglia di sperimentare che non gli si può reprimere, anche questo nuovo OUROBOROS cerca di cambiare le carte in tavola in modo diverso. Nuovamente. Jim James dei New Morning Jacket in produzione favorisce un nuovo viaggio cosmico diviso in otto atti che marciano uniti senza stacchi come un corpo celeste perso nell'universo. Un moto ciclico.
Lamontagne ha già definito la collaborazione con James presso lo studio di registrazione a Louisville come la migliore della sua carriera artistica e l'apertura 'Homecoming' con i suoi quasi nove minuti di durata è il miglior esempio di quanta libertà artistica si sia preso questa volta.
Sempre meno folk più space rock, blues elettrico alieno ('The Changing Man', 'Hey, No Pressure') e psichedelia e più di un gancio pinkfloidiano ('While It Stills Beats', 'In My Own Way'). Quaranta minuti poco immediati, da affrontare nel buio a occhi chiusi. Per me è un sì!
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
Forse il primo Lamontagne (periodo Ethan Johns) lo abbiamo perso definitivamente. Dopo SUPERNOVA, prodotto da Dan Auerback, disco mal digerito dai fan della prima ora ma segno di una voglia di sperimentare che non gli si può reprimere, anche questo nuovo OUROBOROS cerca di cambiare le carte in tavola in modo diverso. Nuovamente. Jim James dei New Morning Jacket in produzione favorisce un nuovo viaggio cosmico diviso in otto atti che marciano uniti senza stacchi come un corpo celeste perso nell'universo. Un moto ciclico.
Lamontagne ha già definito la collaborazione con James presso lo studio di registrazione a Louisville come la migliore della sua carriera artistica e l'apertura 'Homecoming' con i suoi quasi nove minuti di durata è il miglior esempio di quanta libertà artistica si sia preso questa volta.
Sempre meno folk più space rock, blues elettrico alieno ('The Changing Man', 'Hey, No Pressure') e psichedelia e più di un gancio pinkfloidiano ('While It Stills Beats', 'In My Own Way'). Quaranta minuti poco immediati, da affrontare nel buio a occhi chiusi. Per me è un sì!
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
mercoledì 9 marzo 2016
RECENSIONE: JESSE MALIN live@Latteria Molloy, Brescia, 8 Marzo 2016
C'è stato un particolare momento, tra i tanti di ieri sera, che mi ha fatto capire quanto Jesse Malin sia un grande artista. Paradossalmente però la musica si era zittita, sono cresciuti gli applausi e il sipario era appena calato dopo quasi tre ore di concerto (comprese le buonissime aperture del giovane Trapper Schoepp-ne sentiremo parlare-e il tosto set dell'esperto Don DiLego che oltre a presentare il suo nuovo lavoro ha proposto una 'State Trooper' di Springsteen mica male). Il concerto era appena terminato. Finito. Ma torniamo indietro di tre minuti. Ultima canzone in scaletta è 'You Know It's Dark When Atheists Start To Pray', brano che conclude anche l'ultimo album OUTSIDERS, suonata in stile New Orleans con tromba e sax in grande evidenza. Malin balza giù dal palco insieme ai fiati, come del resto ha fatto più volte durante la serata (riuscendo pure a far sedere tutta la sala senza troppi sforzi), e cammina in mezzo al pubblico che riempie la Latteria Molloy, continuando a cantare e portando al termine la canzone dal banchetto del merchandising dove pochi istanti dopo, posato il microfono, inizia a firmare autografi e posare per le consuete foto. Fino alla chiusura del locale. Bene, in questo inconsueto finale ho visto tutta l'attitudine e la passione di un artista che vive ancora il rock in modo sano. Libero. Con la ingenua visione da fan che ancora lo attanaglia e le numerose cover che piazza durante i suoi concerti testimoniano benissimo quanto sia ancora un prigioniero del rock'n'roll senza via di scampo: 'Russian Roulette' dei sempre dimenticati Lords Of The New Church di Stiv Bators è stata tra i pezzi forti della serata, le sue pose, i suoi movimenti ricordano spesso lo Springsteen dell'Hammersmith Odeon, annata 1975. Ma lui è ancora lontanissimo da quelle barriere artista-pubblico che a certi livelli diventano insostenibili, se non odiose quando non c'è rispetto da entrambe le parti. E di barriere, anche tra generi musicali, ieri sera ne sono state abbattute parecchie. Lo stesso Malin ci ha scherzato su quando ha posato la chitarra acustica che lo faceva sembrare un "Jesse Cougar Mellencamp" per incamminarsi verso l'infuocato finale che lo ha riportato ai tempi dei D Generation, primi anni novanta, con due versioni da togliere il fiato di 'Rudie Can't Fail' (Clash) e 'Do You Remember Rock'n'Roll Radio' (Ramones). E poi c'è stata la sua New York che ha sempre aleggiato nell'aria, la difficile infanzia al Queens superata camminando dal lato giusto della strada come dirà parlando di quel suo debutto solista THE FINE ART OF SELF DESTRUCTION uscito nel 2003: i giornalisti hanno sempre associato la Grande Mela e quel titolo alle droghe che però non hanno mai avuto troppa importanza nella sua vita. Stasera abbiamo avuto la conferma: Jesse Malin si è sempre fatto di rock'n'roll. Anche a musica finita.
SETLIST: She's So Dangerous/Boots Of Immigration/Hotel Columbia/Addicted/Downliner/The Year That I Was Born/If I Should Fall From Grace With God (THE POGUES)/She Don't Love Me Now/Outsiders/Bar Life/Death Star/Mona Lisa/Wendy/Turn Up The Mains/Russian Roulette (LORDS OF THE NEW CHURCH)/All The Way From Moscow/Rudie Can't Fail (THE CLASH)/Do You Remember Rock'n'Roll Radio (RAMONES)/You Know It's Dark When Atheists Start To Pray
domenica 6 marzo 2016
RECENSIONE:STEVE FORBERT (Compromised)
STEVE FORBERT
Compromised
(Rock Ridge Music, 2016)
Nessun compromesso
Superato l’impatto cromatico con la poco riuscita copertina che in qualche modo sembra voler ricordare il suo capolavoro JACKRABBIT SLIM del 1979, quel secondo disco di un autore che a soli venticinque anni sembrava predestinato a seguire le orme dei grandi folk singer , il nuovo album è tutto in discesa pur se tenuto in piedi dal gran mestiere. Forbert un grande lo è a tutti gli effetti ma la sua carriera si è sviluppata sempre dietro al sipario che divide il palco delle star dal backstage di chi, per sfortuna o (strana) scelta, il pubblico delle grandi occasioni davanti a sé lo ha visto raramente. Il sedicesimo album è la summa della carriera (folk, rock e gusto pop) con un marcato accento nostalgico che esce in due tracce: ‘You’d See the Things That I See (The Day John Met Paul)’, in cui cerca di descrivere il primo incontro tra gli adolescenti John Lennon e Paul McCartney e ‘Welcome To The Rolling Stones’ in cui si immedesima in chi era presente nel triste concerto degli Stones ad Altamont nel 1969. Se non è amore per la musica questo… (Enzo Curelli) da Classic Rock # (Marzo, 2016)
Nessun compromesso
Superato l’impatto cromatico con la poco riuscita copertina che in qualche modo sembra voler ricordare il suo capolavoro JACKRABBIT SLIM del 1979, quel secondo disco di un autore che a soli venticinque anni sembrava predestinato a seguire le orme dei grandi folk singer , il nuovo album è tutto in discesa pur se tenuto in piedi dal gran mestiere. Forbert un grande lo è a tutti gli effetti ma la sua carriera si è sviluppata sempre dietro al sipario che divide il palco delle star dal backstage di chi, per sfortuna o (strana) scelta, il pubblico delle grandi occasioni davanti a sé lo ha visto raramente. Il sedicesimo album è la summa della carriera (folk, rock e gusto pop) con un marcato accento nostalgico che esce in due tracce: ‘You’d See the Things That I See (The Day John Met Paul)’, in cui cerca di descrivere il primo incontro tra gli adolescenti John Lennon e Paul McCartney e ‘Welcome To The Rolling Stones’ in cui si immedesima in chi era presente nel triste concerto degli Stones ad Altamont nel 1969. Se non è amore per la musica questo… (Enzo Curelli) da Classic Rock # (Marzo, 2016)
mercoledì 2 marzo 2016
RECENSIONE: SUPERSONIC BLUES MACHINE (West Of Flushing, South Of Frisco)
SUPERSONIC BLUES MACHINE West Of Flushing, South Of Frisco (Mascot Records, 2016)
Un mese fa avevo anticipato l’uscita. Ora i SUPERSONIC BLUES MACHINE (nome abbastanza orribile in verità) sono realtà concreta nel mio stereo. WEST OF FLUSHING, SOUTH OF FRISCO è l'album di debutto di questo nuovo power blues trio esistente dal 2012 e formato in realtà da tre veterani dell'ambiente musicale: il texano Lance Lopez (cantante e chitarrista con una buona carriera solista), Fabrizio Grossi (bassista, principale songwriter e produttore del lavoro) dalle chiare origini italiane e prezzemolo "fior fiore di professionista" Kenny Aronoff (batteria). Si candida, fin da ora, a diventare uno dei dischi più bollenti di questo primo scorcio del 2016, pur non proponendo nulla di assolutamente nuovo ma facendo leva sulla varietà, il mestiere e le ospitate, anche se loro dicono di essere una sola, unica grande famiglia. Progetto aperto quindi. Potente blues dalle massicce fiammate hard (‘I Ain't Fallin' Again’), southern rock ('Miracle man' con la slide in evidenza) ma anche tanto amore per il soul, il funky (la divertente ‘Watchagonnado’) e le atmosfere notturne che avvolgono la cover di ‘Ain’t No Love (In The Heart Of The City’ di Bobby "Blue" Bland, conosciuta anche nella versione dei Whitesnake.
E poi con una lista di ospiti così provano a vincere già in partenza: Billy Gibbons, padrino del progetto, nella esplosiva e alcolica 'Running Whiskey' scarto dell’ultimo LA FUTURA dei ZZ Top, Warren Haynes che piazza un assolo mirabolante in 'Remedy', e ancora Robben Ford nella ballata pianistica ‘Let’s Call It a Day’, Eric Gales nella rocciosa ‘Nightmare’s And Dreams’, il redivivo Walter Trout in ‘Can’t Take It No More’ tra i picchi del disco se non altro per le ultime vicissitudini di quest'ultimo, e Chris Duarte in ‘That’s My Way’. Piacevole ascolto con chitarre in grande spolvero da cima a fondo.
vedi anche
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
Un mese fa avevo anticipato l’uscita. Ora i SUPERSONIC BLUES MACHINE (nome abbastanza orribile in verità) sono realtà concreta nel mio stereo. WEST OF FLUSHING, SOUTH OF FRISCO è l'album di debutto di questo nuovo power blues trio esistente dal 2012 e formato in realtà da tre veterani dell'ambiente musicale: il texano Lance Lopez (cantante e chitarrista con una buona carriera solista), Fabrizio Grossi (bassista, principale songwriter e produttore del lavoro) dalle chiare origini italiane e prezzemolo "fior fiore di professionista" Kenny Aronoff (batteria). Si candida, fin da ora, a diventare uno dei dischi più bollenti di questo primo scorcio del 2016, pur non proponendo nulla di assolutamente nuovo ma facendo leva sulla varietà, il mestiere e le ospitate, anche se loro dicono di essere una sola, unica grande famiglia. Progetto aperto quindi. Potente blues dalle massicce fiammate hard (‘I Ain't Fallin' Again’), southern rock ('Miracle man' con la slide in evidenza) ma anche tanto amore per il soul, il funky (la divertente ‘Watchagonnado’) e le atmosfere notturne che avvolgono la cover di ‘Ain’t No Love (In The Heart Of The City’ di Bobby "Blue" Bland, conosciuta anche nella versione dei Whitesnake.
E poi con una lista di ospiti così provano a vincere già in partenza: Billy Gibbons, padrino del progetto, nella esplosiva e alcolica 'Running Whiskey' scarto dell’ultimo LA FUTURA dei ZZ Top, Warren Haynes che piazza un assolo mirabolante in 'Remedy', e ancora Robben Ford nella ballata pianistica ‘Let’s Call It a Day’, Eric Gales nella rocciosa ‘Nightmare’s And Dreams’, il redivivo Walter Trout in ‘Can’t Take It No More’ tra i picchi del disco se non altro per le ultime vicissitudini di quest'ultimo, e Chris Duarte in ‘That’s My Way’. Piacevole ascolto con chitarre in grande spolvero da cima a fondo.
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RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
lunedì 29 febbraio 2016
RECENSIONE: SEDDY MELLORY (Urban Cream Empire)
SEDDY MELLORY Urban Cream Empire (Kandinsky Records, 2016)
Una ventina di minuti sono già impegnati, al sicuro. Passati sopra ad un tavolo in cucina, concentrato, a cercare di riconoscere le ghigne dei tanti personaggi presenti in copertina che avanzano minacciosi e sbeffeggianti come i guerrieri della notte. Non è del tutto facile, soprattutto quando te ne mancano una manciata e strizzi la poca memoria rimasta per arrivarci. Leggasi anche come ignoranza. Nulla. Non rimane che Google photos in tuo soccorso. Quelli in prima fila sono riconoscibili e sono pure i protagonisti di alcune canzoni: il dito medio di Johnny Cash non si vede ma si sente durante tutto il disco e rimane il gesto punk più rivoluzionario della storia. Copertina d'impatto per il terzo album della band bresciana (Blodio, Paul Mellory e Thunder Tony). Ma tutto lo è! Dentro la busta: un vinile rosso (o bianco, potete scegliere) cattura l'occhio e non aspetta altro che una puntina inizi a torturarlo, graffiandolo a sangue, e pure la versione cd schizza fuori scalpitante come una sorpresa dall'uovo di pasqua che hai appena martellato con furore assassino! Nel cd pure due bonus tracks tra cui una loro versione di 'Guns Of Brixton' di chi: voi sapete chi. Non Rimane altro che farsi travolgere dalla carica garage rock'n'roll del trio. Il dito medio di Johnny Cash ('Cheap Johnny Cash') era punk prima di te ma qui è infilato per dare sommo piacere o piacevole dolore (che è la stessa cosa) e le fiamme della chitarra di Ace Frehley sputano calore inebriante. Un bacio caldo e umido. I cori da stadio dell'apertura 'Get In/Get Out' te li porti dietro anche dopo aver alzato la puntina e sarebbero piaciuti al Gazza Gascoigne calciatore, genio del calcio rintracciabile tra quel gol strepitoso segnato il 15 giugno del 1996 alla Scozia in quel di Wembley e la bottiglia sempre piena che si portava e porta ancora dietro. La canzone 'Punk Rock#1 (Gazza Song)' è tutta per lui.
A Brescia si sente il puzzo proveniente dai bidoni della spazzatura nel retro del CBGB annata 1975, si soffia ai glitter svolazzanti persi dalle migliori annate glam, si raccolgono i cocci di bottiglia fuori dal Marquee Club nelle nottate della Londra 77, si attaccano un po'di toppe dei propri idoli NWOBHM al vecchio gilet di jeans, si sente ancora il basso tuonante di Lemmy prima degli acquazzoni e si cammina con orgoglio e a testa alta tra i striptease club della Los Angeles di metà anni ottanta. Tutto chiaro? Spero di aver reso l'idea: in mezzo a questi solchi si inala solo del sano rock'n'roll. Poche menate!
I Seddy Mellory nascono a Brescia nel 2005. Discografia: Boris & Betty Vs. Black Nutria (EP, 2009), Lookin' For A Wild Pialla In The Club Copula (EP, 2010), Fake As Your Mom's Orgasm (2012), Urban Cream Empire (2016). All'attivo numerosi tour europei e aperture per Gaslight Anthem, Datsuns, Constantines, Imperial State Electric, Gogol Bordello, Quireboys. Attuale formazione: Paul Mellory (Voce, Basso), Blodio (Chitarra), Thunder Tony (Batteria).
vedi anche
BRESCIA ROCK (5 band da conoscere: Slick Steve & The Gangsters, Van Cleef Continental, Thee Jones Bones, Il Sindaco, The Union Freego)
Una ventina di minuti sono già impegnati, al sicuro. Passati sopra ad un tavolo in cucina, concentrato, a cercare di riconoscere le ghigne dei tanti personaggi presenti in copertina che avanzano minacciosi e sbeffeggianti come i guerrieri della notte. Non è del tutto facile, soprattutto quando te ne mancano una manciata e strizzi la poca memoria rimasta per arrivarci. Leggasi anche come ignoranza. Nulla. Non rimane che Google photos in tuo soccorso. Quelli in prima fila sono riconoscibili e sono pure i protagonisti di alcune canzoni: il dito medio di Johnny Cash non si vede ma si sente durante tutto il disco e rimane il gesto punk più rivoluzionario della storia. Copertina d'impatto per il terzo album della band bresciana (Blodio, Paul Mellory e Thunder Tony). Ma tutto lo è! Dentro la busta: un vinile rosso (o bianco, potete scegliere) cattura l'occhio e non aspetta altro che una puntina inizi a torturarlo, graffiandolo a sangue, e pure la versione cd schizza fuori scalpitante come una sorpresa dall'uovo di pasqua che hai appena martellato con furore assassino! Nel cd pure due bonus tracks tra cui una loro versione di 'Guns Of Brixton' di chi: voi sapete chi. Non Rimane altro che farsi travolgere dalla carica garage rock'n'roll del trio. Il dito medio di Johnny Cash ('Cheap Johnny Cash') era punk prima di te ma qui è infilato per dare sommo piacere o piacevole dolore (che è la stessa cosa) e le fiamme della chitarra di Ace Frehley sputano calore inebriante. Un bacio caldo e umido. I cori da stadio dell'apertura 'Get In/Get Out' te li porti dietro anche dopo aver alzato la puntina e sarebbero piaciuti al Gazza Gascoigne calciatore, genio del calcio rintracciabile tra quel gol strepitoso segnato il 15 giugno del 1996 alla Scozia in quel di Wembley e la bottiglia sempre piena che si portava e porta ancora dietro. La canzone 'Punk Rock#1 (Gazza Song)' è tutta per lui.
A Brescia si sente il puzzo proveniente dai bidoni della spazzatura nel retro del CBGB annata 1975, si soffia ai glitter svolazzanti persi dalle migliori annate glam, si raccolgono i cocci di bottiglia fuori dal Marquee Club nelle nottate della Londra 77, si attaccano un po'di toppe dei propri idoli NWOBHM al vecchio gilet di jeans, si sente ancora il basso tuonante di Lemmy prima degli acquazzoni e si cammina con orgoglio e a testa alta tra i striptease club della Los Angeles di metà anni ottanta. Tutto chiaro? Spero di aver reso l'idea: in mezzo a questi solchi si inala solo del sano rock'n'roll. Poche menate!
I Seddy Mellory nascono a Brescia nel 2005. Discografia: Boris & Betty Vs. Black Nutria (EP, 2009), Lookin' For A Wild Pialla In The Club Copula (EP, 2010), Fake As Your Mom's Orgasm (2012), Urban Cream Empire (2016). All'attivo numerosi tour europei e aperture per Gaslight Anthem, Datsuns, Constantines, Imperial State Electric, Gogol Bordello, Quireboys. Attuale formazione: Paul Mellory (Voce, Basso), Blodio (Chitarra), Thunder Tony (Batteria).
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BRESCIA ROCK (5 band da conoscere: Slick Steve & The Gangsters, Van Cleef Continental, Thee Jones Bones, Il Sindaco, The Union Freego)
giovedì 25 febbraio 2016
RECENSIONE:BLACK SABBATH (The End)
BLACK SABBATH-The End (2016)
La fine? Io ci credo poco (incrociando le dita, visti i tempi). Certo, l’ultimo 13 si apriva con ‘l’inizio della fine’ e questo CD di otto pezzi ci trascina proprio là dove vogliono portarci. Quattro outtakes provenienti dalle prolifiche sedute di registrazione con il produttore Rick Rubin che avevano condotto, però, all’inclusione di sole otto tracce per 13 (alcune canzoni come ‘Methademic’, ‘Peace Of Mind’, e ‘Pariah’ furono inserite nelle varie limited edition di tre anni fa) più altre quattro registrate dal vivo negli ultimi tour: ‘God is Dead?’ in Australia (2013), ‘Under the Sun’ in Nuova Zelanda (2013), ‘End of the Beginning’ e ‘Age of Reason’ in Canada (2014). Sui quattro inediti c’è poco da dire. I Black Sabbath di 13 mi sono sembrati in buona forma, nonostante le ripetute, ma comprensibili, autocitazioni che non mancano nemmeno qui. Mentre ‘Season Of The Dead’ durante i suoi sette minuti gioca con i continui cambi di tempo, ‘Cry All Night’ è quella che si spinge più indietro nel tempo, concludendosi con rintocchi di campane e tuoni proprio come quando tutto ebbe inizio nel lontano 1970, ‘Take Me Home’ avanza come un pachiderma guidata dal riff duro di Iommi per poi sorprendere con una chitarra spagnoleggiante che si palesa nel mezzo, e ‘Isolated Man’ sembra molto più vicina agli ultimissimi episodi della carriera solista di Ozzy Osbourne, e la sua voce viene stravolta da effetti vari.
Arrivati fino a qui, però, bisogna dire che THE END (il disco) lo si potrà trovare in vendita solamente durante le tappe del tour mondiale iniziato lo scorso 20 Gennaio a Omaha in Nebraska e che si concluderà il 21 Settembre a Phoenix (anche se voci raccontano di un prolungamento verso l’anno 2017. Altro che fine!), passando per la data italiana del 13 Giugno all’Arena di Verona. Dietro alla batteria siederà Tommy Clufetos, già nella band di Ozzy Osbourne. Con un po’ di ricerca lo si può scaricare tranquillamente in rete. Al prossimo inizio, quindi.
La fine? Io ci credo poco (incrociando le dita, visti i tempi). Certo, l’ultimo 13 si apriva con ‘l’inizio della fine’ e questo CD di otto pezzi ci trascina proprio là dove vogliono portarci. Quattro outtakes provenienti dalle prolifiche sedute di registrazione con il produttore Rick Rubin che avevano condotto, però, all’inclusione di sole otto tracce per 13 (alcune canzoni come ‘Methademic’, ‘Peace Of Mind’, e ‘Pariah’ furono inserite nelle varie limited edition di tre anni fa) più altre quattro registrate dal vivo negli ultimi tour: ‘God is Dead?’ in Australia (2013), ‘Under the Sun’ in Nuova Zelanda (2013), ‘End of the Beginning’ e ‘Age of Reason’ in Canada (2014). Sui quattro inediti c’è poco da dire. I Black Sabbath di 13 mi sono sembrati in buona forma, nonostante le ripetute, ma comprensibili, autocitazioni che non mancano nemmeno qui. Mentre ‘Season Of The Dead’ durante i suoi sette minuti gioca con i continui cambi di tempo, ‘Cry All Night’ è quella che si spinge più indietro nel tempo, concludendosi con rintocchi di campane e tuoni proprio come quando tutto ebbe inizio nel lontano 1970, ‘Take Me Home’ avanza come un pachiderma guidata dal riff duro di Iommi per poi sorprendere con una chitarra spagnoleggiante che si palesa nel mezzo, e ‘Isolated Man’ sembra molto più vicina agli ultimissimi episodi della carriera solista di Ozzy Osbourne, e la sua voce viene stravolta da effetti vari.
Arrivati fino a qui, però, bisogna dire che THE END (il disco) lo si potrà trovare in vendita solamente durante le tappe del tour mondiale iniziato lo scorso 20 Gennaio a Omaha in Nebraska e che si concluderà il 21 Settembre a Phoenix (anche se voci raccontano di un prolungamento verso l’anno 2017. Altro che fine!), passando per la data italiana del 13 Giugno all’Arena di Verona. Dietro alla batteria siederà Tommy Clufetos, già nella band di Ozzy Osbourne. Con un po’ di ricerca lo si può scaricare tranquillamente in rete. Al prossimo inizio, quindi.
lunedì 22 febbraio 2016
G-FAST live@Il Circolino, Vercelli, 20 Febbraio 2016
Da un concerto di G-Fast si esce soddisfatti, anche se il locale è mezzo vuoto e tra i presenti c'è pure un cane a far numero, ma è tra i padroni di casa e fa poco testo. Una normale serata di metà febbraio, freddo ma non troppo: si dice che in giro ci siano ancora i carnevali e in città siano sbarcati, non si sa bene da dove, pure due importanti dj. Sarà...ma veramente il pubblico di G-Fast frequenta le discoteche e le preferisce al proprio idolo? Ho i miei dubbi e l'esecuzione di The Dj Is Dead, canzone del suo primo album DANCING WITH THE FREAKS (2011) sembra essere chiara ed esplicita su quello che Gianluca Fasteni (G-Fast è lui) pensi a proposito. Ha ragione lui. Stasera i pochi presenti si sono comunque goduti lo spettacolo itinerante che questo milanese dal sangue misto camuno, ma residente a Roma, porta in giro per l'Italia a ritmo di cento concerti l'anno. Un Medicine Show moderno e rumoroso. G-Fast è un one man band che sa come costruire uno spettacolo con poco (anche se sembra tanto): chitarre artigianali a tre e una corda (ottenuta dalla scatola che conteneva una bottiglia di Jägermeister), cigarbox, dobro, loop station, pedal board, la banjo-tromba di sua invenzione, microfoni vari, cassa e rullante, una voce profonda e graffiante e canzoni che nascono grezze dal blues di John Lee Hooker, passano dal british blues e arrivano ai nostri giorni con Seasick Steve e Rage Against The Machine come punti di riferimento. Aggiungete una marcata vena (auto)ironica e un continuo filo diretto con il pubblico e avrete tutto. Comunque tanto per una persona sola. Il secondo disco GO TO M.A.R.S. è uscito l'anno scorso e ha messo in mostra le sue influenze più pesanti (la title track) anche se non mancano alcune ballate, strategicamente piazzate per tirare il fiato. A fine concerto, l'alto numero di CD venduti (c'è perfino chi ha detto che non comprava un cd da quattro anni, ma quello di G-Fast non si poteva perdere) e i tanti attestati di stima, nonostante il numero esiguo di spettatori, sono i segni che da un suo concerto si esce sempre soddisfatti.
vedi anche
RECENSIONE: SEASICK STEVE-Hubcap Music (2013)
venerdì 19 febbraio 2016
RECENSIONE: MONSTER TRUCK (Sittin' Heavy)
MONSTER TRUCK-Sittin’ Heavy (Mascot Records, 2016)
Altra interessante uscita Mascot Records, fuori il 19 Febbraio. Oggi. Dopo l' annunciata uscita dei SUPERSONIC BLUES MACHINE (26 Febbraio), ecco i canadesi MONSTER TRUCK, guidati dal frontman Jon Harvey e dal chitarrista Jeremy Widerman. Nomem omen aggiungo fin da subito. Undici canzoni che avanzano cariche di groove, ora pesanti e massicce recuperando la migliore lezione grunge stoner degli anni novanta (l’apertura ‘Why Are You Not Rocking?’ è una dichiarazione d’intenti sparata a sangue freddo, ‘Another Man’s Shoes’, ‘The Flame’), ora più legate al southern rock di stampo Outlaws (‘For The people’), poi ad un rock’n’roll pesante e saltellante che strizza velocemente l’occhio anche al R&B (‘Things Get Better’) e a quello più selvaggio, feroce, tamburaggiante ma corale (‘The Enforcer’ è un inno di battaglia scritto appositamente per il loro sport preferito: l’hockey) con una mano sempre attenta ad intercettare le giuste melodie. Perché i Monster Truck con una mano tirano fendenti e con l’altra ti curano. Gli spettri dei BLS di Zakk Wylde fanno spesso visita. Qui non s’inventa nulla, ci si diverte.
Non mancano le boccate d’ossigeno in ballate bluesy ed elettriche (c’è pure un tastierista in formazione), che non cadono mai nello sdolcinato (‘Black Forest’, ‘Enjoy The Time’). Durante i live d’apertura a nomi importanti come Slash, Alice In Chains, ZZ Top, Rival Sons hanno dimostrato di non temere nessuno e Mike Inez (Alice In Chains) non ha risparmiato lodi pubbliche nei loro confronti. Le porte le sfonderanno con questo secondo disco. Garantito. E la copertina con la camicia di jeans di quel famoso marchio, con il rettangolino rosso, per duri e puri ma che piace a tutti, potrebbe essere anche la loro filosofia artistica, ma anche il punto debole. Vedremo.
Altra interessante uscita Mascot Records, fuori il 19 Febbraio. Oggi. Dopo l' annunciata uscita dei SUPERSONIC BLUES MACHINE (26 Febbraio), ecco i canadesi MONSTER TRUCK, guidati dal frontman Jon Harvey e dal chitarrista Jeremy Widerman. Nomem omen aggiungo fin da subito. Undici canzoni che avanzano cariche di groove, ora pesanti e massicce recuperando la migliore lezione grunge stoner degli anni novanta (l’apertura ‘Why Are You Not Rocking?’ è una dichiarazione d’intenti sparata a sangue freddo, ‘Another Man’s Shoes’, ‘The Flame’), ora più legate al southern rock di stampo Outlaws (‘For The people’), poi ad un rock’n’roll pesante e saltellante che strizza velocemente l’occhio anche al R&B (‘Things Get Better’) e a quello più selvaggio, feroce, tamburaggiante ma corale (‘The Enforcer’ è un inno di battaglia scritto appositamente per il loro sport preferito: l’hockey) con una mano sempre attenta ad intercettare le giuste melodie. Perché i Monster Truck con una mano tirano fendenti e con l’altra ti curano. Gli spettri dei BLS di Zakk Wylde fanno spesso visita. Qui non s’inventa nulla, ci si diverte.
Non mancano le boccate d’ossigeno in ballate bluesy ed elettriche (c’è pure un tastierista in formazione), che non cadono mai nello sdolcinato (‘Black Forest’, ‘Enjoy The Time’). Durante i live d’apertura a nomi importanti come Slash, Alice In Chains, ZZ Top, Rival Sons hanno dimostrato di non temere nessuno e Mike Inez (Alice In Chains) non ha risparmiato lodi pubbliche nei loro confronti. Le porte le sfonderanno con questo secondo disco. Garantito. E la copertina con la camicia di jeans di quel famoso marchio, con il rettangolino rosso, per duri e puri ma che piace a tutti, potrebbe essere anche la loro filosofia artistica, ma anche il punto debole. Vedremo.
mercoledì 17 febbraio 2016
BRESCIA ROCK (5 band da conoscere: Slick Steve & The Gangsters, Van Cleef Continental, Thee Jones Bones, Il Sindaco, The Union Freego)
Ho seguito l'amore. Sono arrivato a Brescia. Ho trovato una città piena di musica come poche. Una scena musicale viva e scalpitante: tante band, tanti artisti, tanti generi musicali, tanti locali che puntano sulla musica originale e di qualità. In più, un intreccio di collaborazioni tra gli artisti che mi ha lasciato favorevolmente colpito. Si respira rock a pieni polmoni, anche tra l'inquinamento che ha raggiunto i valori massimi. Provare per credere. A conferma di quel che ho percepito io (forse per chi ci vive non sarà così), in tarda primavera e inizio estate partono una miriade di manifestazioni e festival che coinvolgono tutta la città e provincia: dal 4/4 organizzato dalla Latteria Molloy (giudicato tra i migliori locali live d'Italia dal Mei) dove si sfida l'impossibile facendo suonare ogni anno almeno cento artisti/band (famosi e non) del posto sopra allo stesso palco nel giro di una giornata, alla festa della musica che coinvolge ogni via e ogni piazza della città. In questi mesi ho ascoltato tanti di questi artisti. Sono riuscito a scrivere qualcosa su di loro sulle riviste Classic Rock e Classix!, anche se mai come avrei voluto. Sono poche righe, di presentazione, ma spero abbastanza per incuriosirvi e spronarvi all'approfondimento. Ho raccolto tutto e ve ne presento cinque. Per ora. Tante altre potrebbero arrivare: Seddy Mellory, Plan De Fuga, Ovlov, Alessandro Sipolo, Claudia Is On The Sofa, Hell Spet, Jet Set Roger, Dead Candies, Nana Bang!, Crowsroads.
SLICK STEVE & THE GANGSTERS On Parade (Go Down Records, 2015)
Il primo consiglio che vi lascio è: se vi capitano sotto il naso, non fateveli sfuggire dal vivo. Uno degli spettacoli musicali più completi in cui potete imbattervi in Italia. La giovane band bresciana guidata dal funambolico Stephen Hogan (un piccolo Tom Waits laureato in prestidigitazione) dimostra di non essere da meno anche in studio, e dal cilindro di questo secondo disco esce tutto l’amore per il vecchio rockabilly ’50, il blues, il country e i personaggi meno convenzionali e più bizzarri. Da Classix!
VAN CLEEF CONTINENTAL Unda Maris (GODDESS RECORDS, 2015)
Mare salato
L’ultima onda è di quelle devastanti, con la forza di spazzare via tutto. I bresciani incidono il secondo album (il primo RED SISTERS nel 2008, in mezzo: l’ancora fresco EP) nell’apnea di un trip circolare, diretto e senza fronzoli dove i primordiali Black Sabbath e lo Stoner ’90 trovano spesso la via delle divagazioni lisergiche. Ma mentre esce il disco e la formazione si stabilizza intorno ad Andrea Van Cleef, Helgast, Giorgio Fnool e Lady Cortez , un altro cerchio si chiude: la band, a sorpresa, ci saluta. Avete tempo fino a Novembre (2015, tempo scaduto!) per vederli dal vivo. Le onde, purtroppo, vanno e vengono… Enzo Curelli 8 da Classic Rock
THEE JONES BONES Cheers! (AUTOPRODUZIONE, 2015)
Se l’Italia fosse il paese rock che non è, la band bresciana, attiva da più di un decennio, tirerebbe le fila del movimento. Dei cavalli di razza, quelli vecchi e affidabili che non faresti mai abbattere: puro rock’n’roll come se gli Stones ’70 avessero in mano un biglietto di sola andata per gli States. Tutto buono e vintage a partire dalla confezione. Da Classic Rock
IL SINDACO Come I Cani Davanti Al Mare (LAVORARE STANCA/AUDIOGLOBE, 2015)
Dopo le prime note di Maciste, pare che nel secondo disco de Il Sindaco (il bresciano Fabio Dondelli) si nasconda un omaggio a Lucio Dalla. C’è molto altro. E’ l’unione tra il cantautorato italiano a cui Dondelli lima gli spigoli in favore di semplicità e fervore pop, e il roots americano: tra desert folk e country. Ad accompagnarlo i vecchi amici Annie Hall. Da Classic Rock
THE UNION FREEGO In Null Komma Nichts (2015)
Non ho mai capito come funzioni il marketing discografico. Oddio, un'idea ce l'avrei pure, ma...non importa. Mi interessa, invece, capire perché questo disco non stia girando come dovrebbe tra gli appassionati di musica. Buona musica. Non so se per pigrizia, modestia o falsa modestia degli autori, ma sto riscontrando l'assenza della dovuta pubblicità. Oppure la colpa è semplicemente di noi che stiamo intorno e non cogliamo qualche messaggio nascosto, ma...nuovamente, non importa. Per cui mi prendo le mie responsabilità e faccio lo sporco lavoro (comunque bellissimo): se amate il classic rock americano, quello che nasce dal vecchio folk più oscuro e sporco, incontra prima Bob Dylan sulla propria strada, la parte visionaria e psichedelica di fine sessanta, poi la west coast californiana e più malata dei '70 e la vecchia old black di Neil Young che allunga sulle curve a gomito, sfiora il Paisley underground degli anni ottanta, l'alt country recente di Uncle Tupelo e Wilco, quello più recente ancora di Okkervil River e Decemberists e finisce la sua corsa alzando la polvere dei dei deserti dell'Arizona (Calexico, Giant Sand) e anche po' più a sud, cercate il secondo disco della band bresciana [continua a leggere]
SLICK STEVE & THE GANGSTERS On Parade (Go Down Records, 2015)
Il primo consiglio che vi lascio è: se vi capitano sotto il naso, non fateveli sfuggire dal vivo. Uno degli spettacoli musicali più completi in cui potete imbattervi in Italia. La giovane band bresciana guidata dal funambolico Stephen Hogan (un piccolo Tom Waits laureato in prestidigitazione) dimostra di non essere da meno anche in studio, e dal cilindro di questo secondo disco esce tutto l’amore per il vecchio rockabilly ’50, il blues, il country e i personaggi meno convenzionali e più bizzarri. Da Classix!
Mare salato
L’ultima onda è di quelle devastanti, con la forza di spazzare via tutto. I bresciani incidono il secondo album (il primo RED SISTERS nel 2008, in mezzo: l’ancora fresco EP) nell’apnea di un trip circolare, diretto e senza fronzoli dove i primordiali Black Sabbath e lo Stoner ’90 trovano spesso la via delle divagazioni lisergiche. Ma mentre esce il disco e la formazione si stabilizza intorno ad Andrea Van Cleef, Helgast, Giorgio Fnool e Lady Cortez , un altro cerchio si chiude: la band, a sorpresa, ci saluta. Avete tempo fino a Novembre (2015, tempo scaduto!) per vederli dal vivo. Le onde, purtroppo, vanno e vengono… Enzo Curelli 8 da Classic Rock
THEE JONES BONES Cheers! (AUTOPRODUZIONE, 2015)
Se l’Italia fosse il paese rock che non è, la band bresciana, attiva da più di un decennio, tirerebbe le fila del movimento. Dei cavalli di razza, quelli vecchi e affidabili che non faresti mai abbattere: puro rock’n’roll come se gli Stones ’70 avessero in mano un biglietto di sola andata per gli States. Tutto buono e vintage a partire dalla confezione. Da Classic Rock
IL SINDACO Come I Cani Davanti Al Mare (LAVORARE STANCA/AUDIOGLOBE, 2015)
Dopo le prime note di Maciste, pare che nel secondo disco de Il Sindaco (il bresciano Fabio Dondelli) si nasconda un omaggio a Lucio Dalla. C’è molto altro. E’ l’unione tra il cantautorato italiano a cui Dondelli lima gli spigoli in favore di semplicità e fervore pop, e il roots americano: tra desert folk e country. Ad accompagnarlo i vecchi amici Annie Hall. Da Classic Rock
THE UNION FREEGO In Null Komma Nichts (2015)
Non ho mai capito come funzioni il marketing discografico. Oddio, un'idea ce l'avrei pure, ma...non importa. Mi interessa, invece, capire perché questo disco non stia girando come dovrebbe tra gli appassionati di musica. Buona musica. Non so se per pigrizia, modestia o falsa modestia degli autori, ma sto riscontrando l'assenza della dovuta pubblicità. Oppure la colpa è semplicemente di noi che stiamo intorno e non cogliamo qualche messaggio nascosto, ma...nuovamente, non importa. Per cui mi prendo le mie responsabilità e faccio lo sporco lavoro (comunque bellissimo): se amate il classic rock americano, quello che nasce dal vecchio folk più oscuro e sporco, incontra prima Bob Dylan sulla propria strada, la parte visionaria e psichedelica di fine sessanta, poi la west coast californiana e più malata dei '70 e la vecchia old black di Neil Young che allunga sulle curve a gomito, sfiora il Paisley underground degli anni ottanta, l'alt country recente di Uncle Tupelo e Wilco, quello più recente ancora di Okkervil River e Decemberists e finisce la sua corsa alzando la polvere dei dei deserti dell'Arizona (Calexico, Giant Sand) e anche po' più a sud, cercate il secondo disco della band bresciana [continua a leggere]
lunedì 15 febbraio 2016
RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS (It's Great To Be Alive!)
DRIVE-BY TRUCKERS
It’s Great To Be Alive! (ATO RECORDS, 2015)
Il rock è morto? Ascoltate qui…
Scrivo queste righe mentre i Coldplay rilasciano l’ennesimo proclama che puzza di promozione: “il rock è morto, il futuro della musica è nei nuovi suoni” sentenziano Chris Martin e soci. A chi volete credere? A loro o alla southern band di Athens guidata da Patterson Hood e Mike Cooley che quei nuovi suoni non sa nemmeno cosa siano? La domanda è retorica. Ma se avete ancora dei dubbi, le 35 canzoni di questo triplo disco registrato durante tre serate al Fillmore di San Francisco (cose veramente d’altri tempi) li fugheranno a suon di chitarre sferraglianti che scorticano e si allungano toccando il culmine nei tredici epici minuti finali di Grand Canyon, nel fumoso e veloce honk tonk Get Downtown o nei rallentamenti country di Angels And Fuselage.
Difficile estrapolare più canzoni, qui si acquista tutto in blocco.
Dopo vent'anni di onorata carriera e il prestigioso merito di aver tenuto alto il vessillo di un certo modo di suonare e vivere il rock tutto americano, impreziosito da liriche amare ed ironiche sempre al di sopra della media (degli affreschi gotici delle terre del sud), sono una band viva da tenere stretta e usare quando qualcuno spara sentenze fuorvianti. Capito mister Martin? Enzo Curelli 8 da Classic Rock # 39 (Febbraio 2016)
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
Il rock è morto? Ascoltate qui…
Scrivo queste righe mentre i Coldplay rilasciano l’ennesimo proclama che puzza di promozione: “il rock è morto, il futuro della musica è nei nuovi suoni” sentenziano Chris Martin e soci. A chi volete credere? A loro o alla southern band di Athens guidata da Patterson Hood e Mike Cooley che quei nuovi suoni non sa nemmeno cosa siano? La domanda è retorica. Ma se avete ancora dei dubbi, le 35 canzoni di questo triplo disco registrato durante tre serate al Fillmore di San Francisco (cose veramente d’altri tempi) li fugheranno a suon di chitarre sferraglianti che scorticano e si allungano toccando il culmine nei tredici epici minuti finali di Grand Canyon, nel fumoso e veloce honk tonk Get Downtown o nei rallentamenti country di Angels And Fuselage.
Difficile estrapolare più canzoni, qui si acquista tutto in blocco.
Dopo vent'anni di onorata carriera e il prestigioso merito di aver tenuto alto il vessillo di un certo modo di suonare e vivere il rock tutto americano, impreziosito da liriche amare ed ironiche sempre al di sopra della media (degli affreschi gotici delle terre del sud), sono una band viva da tenere stretta e usare quando qualcuno spara sentenze fuorvianti. Capito mister Martin? Enzo Curelli 8 da Classic Rock # 39 (Febbraio 2016)
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
martedì 9 febbraio 2016
RECENSIONE: NATHANIEL RATELIFF & THE NIGHT SWEATS (Nathaniel Rateliff & The Night Sweats)
NATHANIEL RATELIFF & THE NIGHT SWEATS
Nathaniel Rateliff & The Night Sweats
(Stax/Universal, 2015)
Nuovo inizio
Nella vita si cambia per non morire. Rateliff era destinato a soccombere sotto un canonico suono folk rock inflazionatissimo, quello su cui erano costruiti i suoi tre precedenti dischi solisti. Tutto questo fino all’incontro con una masnada di sette brutti ceffi (i Night Sweats) che, a suon di ipervitaminico R&B e southern soul con una sezione fiati che fa la differenza, hanno estrapolato il suo vero punto di forza: una voce baritonale che ama mettersi in competizione con quella dei migliori esponenti del genere. Anche se la partita è persa in partenza Rateliff sa scrivere canzoni, esaltare e far muovere le gambe: il crescendo di ‘S.O.B.’ (sì, proprio Son Of A Bitch) è sconsigliato con un volante tra le mani. Ho già provato io per voi. Prendete un po’ di Otis Redding , Wilson Pickett e di Sam Cooke, mischiatelo ad un’attitudine garage rock e avrete le vivaci, arrembanti e genuine canzoni di questo nuovo inizio. La rinata Stax, infine, ci mette il sigillo di qualità.
vedi anche
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
Nuovo inizio
Nella vita si cambia per non morire. Rateliff era destinato a soccombere sotto un canonico suono folk rock inflazionatissimo, quello su cui erano costruiti i suoi tre precedenti dischi solisti. Tutto questo fino all’incontro con una masnada di sette brutti ceffi (i Night Sweats) che, a suon di ipervitaminico R&B e southern soul con una sezione fiati che fa la differenza, hanno estrapolato il suo vero punto di forza: una voce baritonale che ama mettersi in competizione con quella dei migliori esponenti del genere. Anche se la partita è persa in partenza Rateliff sa scrivere canzoni, esaltare e far muovere le gambe: il crescendo di ‘S.O.B.’ (sì, proprio Son Of A Bitch) è sconsigliato con un volante tra le mani. Ho già provato io per voi. Prendete un po’ di Otis Redding , Wilson Pickett e di Sam Cooke, mischiatelo ad un’attitudine garage rock e avrete le vivaci, arrembanti e genuine canzoni di questo nuovo inizio. La rinata Stax, infine, ci mette il sigillo di qualità.
vedi anche
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
giovedì 4 febbraio 2016
REC ENSIONE: BILLY GIBBONS AND THE BFG'S (Perfectamundo)
BILLY GIBBONS AND THE BFG'S Perfectamundo (Concord Records, 2015)
Sasso, carta o forbici?
Quando con l’avvento degli anni ottanta gli ZZ Top iniziarono ad abusare di synth, qualcuno, per dispetto, avrebbe preso volentieri in mano le forbici e puntato dritto verso qualche barba. Anno 2015: le lunghe barbe sono ancora al loro posto e il primo album solista di Gibbons (chitarra e voce della blues band texana), conferma quanto quegli esperimenti durati un buon decennio non furono tutta casualità e furbizia commerciale ma anche sperimentazione e tanto divertimento. Un menù micidiale, coraggioso e divertente è anche quello servito per questa prima uscita solitaria dopo quarantacinque anni di carriera. Accanto all’inconfondibile chitarra, una varietà infinità di portate: dall’amore, nato in gioventù e sbocciato dopo la recente partecipazione all’Havana Jazz Festival, per i suoni afro-cubani (presenti ovunque) al latin rock, dall’hip hop alla presenza del vocoder, in verità fastidioso e unico punto negativo. A Baby Please Don’t Go di Lightnin’ Hopkins, comunque stravolta, e Treat Her Right di Roy Head il compito di tenere lontane quelle famose forbici. Enzo Curelli 7 da Classic Rock # 38
Sasso, carta o forbici?
Quando con l’avvento degli anni ottanta gli ZZ Top iniziarono ad abusare di synth, qualcuno, per dispetto, avrebbe preso volentieri in mano le forbici e puntato dritto verso qualche barba. Anno 2015: le lunghe barbe sono ancora al loro posto e il primo album solista di Gibbons (chitarra e voce della blues band texana), conferma quanto quegli esperimenti durati un buon decennio non furono tutta casualità e furbizia commerciale ma anche sperimentazione e tanto divertimento. Un menù micidiale, coraggioso e divertente è anche quello servito per questa prima uscita solitaria dopo quarantacinque anni di carriera. Accanto all’inconfondibile chitarra, una varietà infinità di portate: dall’amore, nato in gioventù e sbocciato dopo la recente partecipazione all’Havana Jazz Festival, per i suoni afro-cubani (presenti ovunque) al latin rock, dall’hip hop alla presenza del vocoder, in verità fastidioso e unico punto negativo. A Baby Please Don’t Go di Lightnin’ Hopkins, comunque stravolta, e Treat Her Right di Roy Head il compito di tenere lontane quelle famose forbici. Enzo Curelli 7 da Classic Rock # 38
domenica 31 gennaio 2016
RECENSIONE: PETER CASE (HWY 62)
Sentieri sonori
Tutti
abbiamo la nostra Highway 62 da percorrere. Sulla strada che dal Messico arriva
fino in Canada, hanno viaggiato poeti, santi, corrotti, rigattieri,
spacciatori. Ma anche Buddy Holly e Woody Guthrie. Peter Case su quelle strade,
dalle parti di Buffalo, ci è nato e cresciuto. Dopo cinque anni di assenza
ritorna con un disco impeccabile che riprende il discorso acustico dei suoi
esordi solisti, lasciando da parte il lato più elettrico della sua musica.
Dalla iniziale 'Pelican Bay', descrizione e denuncia del sistema carcerario e
giudiziario americano, a 'Long Time Gone' recupero di un Bob Dylan d'annata, è
un tragitto folk blues percorso sulla corsia preferenziale, e benedetto dalla
slide ospite di Ben Harper e dalla batteria di D.J. Bonebrake (X). La
riconferma di aver fatto la scelta giusta, quando abbandonò le strade post punk
percorse in gioventù con i Nerves e poi i Plimsouls per virare verso i più
tranquilli sentieri roots. (Enzo Curelli) da CLASSIX! # 46 (Gennaio/Febbraio 2016)RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
mercoledì 27 gennaio 2016
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS (The Ghosts Of Highway 20)
LUCINDA WILLIAMS The Ghosts Of Highway 20 (Highway 20 Records/Thirty Tigers, 2016)
Se è vero che meno te la passi bene, più sei prolifico ed ispirato, a Lucinda Williams dobbiamo erigere un totem per il modo in cui ci sta spiegando questa semplice equazione di vita tanto veritiera quanto amara. Suo malgrado, purtroppo, e mettendo BLACKSTAR di David Bowie fuori classifica per ovvie ragioni che non sto qui a spiegare. Noi da ascoltatori egoisti gioiamo in rispettoso silenzio. Negli ultimi anni ha viaggiato spesso su queste autostrade di vita con la sofferenza al fianco, seduta silente nel lato passeggeri: dopo la morte della madre che guidò la stesura di WEST (2007), ora è la morte del padre, lo scrittore e poeta Miller Williams, la principale e più sentita delle perdite umane tanto da ispirarle due canzoni dolorose e struggenti come il folk di If There's A Heaven e If My Love Could Kill. In quest'ultima, la malattia che ha portato via il padre, l'Alzheimer, s'innalza a protagonista in negativo, ladra di tempo, speranze e memoria, divoratrice di pelle e di ossa. Quasi da brividi. C'è però un altro padre che è uscito dalla sua vita recentemente: il genitore del marito e produttore Tom Overby, a lui è dedicata la cover di Factory di Bruce Springsteen. Overby senior fu un operaio diligente per tutta la sua esistenza e la canzone di Springsteen, originariamente contenuta in DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN dipingeva la dura vita di un altro padre, Douglas Springsteen: "è una vita di lavoro, nient'altro che lavoro" è il concetto. Lucinda la fa sua infarcendola oltre modo d'enfasi. Un inno per tutti gli eroi della classe operaia.
Nel giro di due anni ci dona due doppi dischi (ben otto facciate di vinile per volere esagerare) nati e cresciuti insieme ma profondamente diversi e distinti, a partire dalle atmosfere musicali pigre, malinconiche e rarefatte che avvolgono le quattordici canzoni, tanto che House Of Earth, il cui testo è di Woody Guthrie ma non era mai stato musicato fino ad oggi, sembra un sussurro cantato a voce bassa a tarda notte, con tutta l'accortezza di far meno rumore possibile. Diversi sono anche i musicisti che l'hanno accompagnata in studio: oltre a David Sutton (basso) e Butch Norton (batteria), spiccano le chitarre di Greg Leisz, la sei corde che esce alla sinistra delle nostre casse, di Bill Frisell quella nella parte destra. Chitarre protagoniste che generano fantasmi nella spettrale I Know All about It, creano atmosfera nell'acustica Place In My Heart, e tessono tristi ragnatele di morte in Death Came.
Dopo il pluri glorificato e premiato DOWN WHERE THE SPIRIT MEETS THE BONE, disco che nulla aveva da invidiare ai suoi dischi più riusciti, CAR WHEELS ON A GRAVEL ROAD (1998) in testa, questa volta affronta a modo suo il tema del viaggio facendo tappa nelle città che hanno segnato la sua vita (i nove minuti del folk crepuscolare Lousiana Story parlano di sua madre, del luogo dove è sepolta), spesso in modo doloroso, ripercorrendo quella strada che dal Texas porta alla Carolina del Sud e mettendo in fila tutti quei ricordi (fantasmi) che la legano ai territori del Sud e che l'epicità della title track con la chitarra di Val McCallum espongono così bene in primo piano. "Conosco questa strada come il palmo della mia mano/Ogni uscita lascia un po' di morte"
Un disco con pochissimi assalti rock: Doors Of Heaven tra le più elettriche, il country di Bitter Memory tra le più mosse e frizzanti, i tredici minuti della finale Faith & Grace, la più particolare, aperta e senza schemi, e con la sezione ritmica quasi funky in primo piano. Meno diretto rispetto al precedente, preferisce nascondersi dentro alle ombre dei silenzi, spiare dall'uscio e poi addentrarsi negli angoli più oscuri della vita. Le canzoni hanno il passo lento, cupo e malinconico, ma si distinguono tutte per profondità, ispirazione e tanto vissuto. Troppo vissuto. Ballate da prendere in blocco, tormentate, che alla fine lasciano un velo di tristezza nel cuore e piacere nelle orecchie (il suono delle chitarre è tra i punti di forza). Questa è la sua strada. La sa a memoria e si viaggia bene. Ancora una volta.
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-Blessed (2011)
Se è vero che meno te la passi bene, più sei prolifico ed ispirato, a Lucinda Williams dobbiamo erigere un totem per il modo in cui ci sta spiegando questa semplice equazione di vita tanto veritiera quanto amara. Suo malgrado, purtroppo, e mettendo BLACKSTAR di David Bowie fuori classifica per ovvie ragioni che non sto qui a spiegare. Noi da ascoltatori egoisti gioiamo in rispettoso silenzio. Negli ultimi anni ha viaggiato spesso su queste autostrade di vita con la sofferenza al fianco, seduta silente nel lato passeggeri: dopo la morte della madre che guidò la stesura di WEST (2007), ora è la morte del padre, lo scrittore e poeta Miller Williams, la principale e più sentita delle perdite umane tanto da ispirarle due canzoni dolorose e struggenti come il folk di If There's A Heaven e If My Love Could Kill. In quest'ultima, la malattia che ha portato via il padre, l'Alzheimer, s'innalza a protagonista in negativo, ladra di tempo, speranze e memoria, divoratrice di pelle e di ossa. Quasi da brividi. C'è però un altro padre che è uscito dalla sua vita recentemente: il genitore del marito e produttore Tom Overby, a lui è dedicata la cover di Factory di Bruce Springsteen. Overby senior fu un operaio diligente per tutta la sua esistenza e la canzone di Springsteen, originariamente contenuta in DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN dipingeva la dura vita di un altro padre, Douglas Springsteen: "è una vita di lavoro, nient'altro che lavoro" è il concetto. Lucinda la fa sua infarcendola oltre modo d'enfasi. Un inno per tutti gli eroi della classe operaia.
Nel giro di due anni ci dona due doppi dischi (ben otto facciate di vinile per volere esagerare) nati e cresciuti insieme ma profondamente diversi e distinti, a partire dalle atmosfere musicali pigre, malinconiche e rarefatte che avvolgono le quattordici canzoni, tanto che House Of Earth, il cui testo è di Woody Guthrie ma non era mai stato musicato fino ad oggi, sembra un sussurro cantato a voce bassa a tarda notte, con tutta l'accortezza di far meno rumore possibile. Diversi sono anche i musicisti che l'hanno accompagnata in studio: oltre a David Sutton (basso) e Butch Norton (batteria), spiccano le chitarre di Greg Leisz, la sei corde che esce alla sinistra delle nostre casse, di Bill Frisell quella nella parte destra. Chitarre protagoniste che generano fantasmi nella spettrale I Know All about It, creano atmosfera nell'acustica Place In My Heart, e tessono tristi ragnatele di morte in Death Came.
Dopo il pluri glorificato e premiato DOWN WHERE THE SPIRIT MEETS THE BONE, disco che nulla aveva da invidiare ai suoi dischi più riusciti, CAR WHEELS ON A GRAVEL ROAD (1998) in testa, questa volta affronta a modo suo il tema del viaggio facendo tappa nelle città che hanno segnato la sua vita (i nove minuti del folk crepuscolare Lousiana Story parlano di sua madre, del luogo dove è sepolta), spesso in modo doloroso, ripercorrendo quella strada che dal Texas porta alla Carolina del Sud e mettendo in fila tutti quei ricordi (fantasmi) che la legano ai territori del Sud e che l'epicità della title track con la chitarra di Val McCallum espongono così bene in primo piano. "Conosco questa strada come il palmo della mia mano/Ogni uscita lascia un po' di morte"
Un disco con pochissimi assalti rock: Doors Of Heaven tra le più elettriche, il country di Bitter Memory tra le più mosse e frizzanti, i tredici minuti della finale Faith & Grace, la più particolare, aperta e senza schemi, e con la sezione ritmica quasi funky in primo piano. Meno diretto rispetto al precedente, preferisce nascondersi dentro alle ombre dei silenzi, spiare dall'uscio e poi addentrarsi negli angoli più oscuri della vita. Le canzoni hanno il passo lento, cupo e malinconico, ma si distinguono tutte per profondità, ispirazione e tanto vissuto. Troppo vissuto. Ballate da prendere in blocco, tormentate, che alla fine lasciano un velo di tristezza nel cuore e piacere nelle orecchie (il suono delle chitarre è tra i punti di forza). Questa è la sua strada. La sa a memoria e si viaggia bene. Ancora una volta.
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-Blessed (2011)
lunedì 25 gennaio 2016
RECENSIONE:ANTHRAX(For All Kings)
ANTHRAX-For All Kings (Nuclear Blast, 2016)
Ho sempre amato il carattere degli Anthrax. Un gruppo che non si è mai preso troppo sul serio (la copertina del nuovo album disegnata da Alex Ross parla chiaro ancora una volta), eppure si è sempre dimostrato attento osservatore del mondo, portando a galla ingiustizie e precarietà. E FOR ALL KINGS non difetta: ‘Evil Twin’ nasce dopo l’attentato parigino alla sede di Charlie Hebdo e fa da traino a tutto il disco. Tutti possiamo essere dei re a patto di prenderci le nostre responsabilità, è questo il messaggio del titolo spiegato dal veterano chitarrista Scott Ian. Anche se non ho ancora perdonato loro la cacciata di John Bush con cui avevano inciso uno dei migliori e sottovalutati dischi pesanti degli anni novanta (SOUND OF WHITE NOISE) devo ammettere che il ritorno dello storico vocalist Joey Belladonna, fin dal precedente ma riuscito a metà WORSHIP MUSIC, sembra aver riportato un minimo di freschezza e pure un marcato ritorno all’epicità che serpeggiava in dischi come lo storico SPREADING THE DISESAE (1985).
Basti ascoltare gli intermezzi presenti in ‘Breathing Lightning’ o gli otto minuti della pesante ‘Blood Eagle Wings’. Piace pure il groove di ‘Defend Avenge’ guidata dal basso di Frank Bello e il mid-tempo‘This Battle Chose Us’, mentre ‘Zero Torelance’ chiude ad alta velocità un disco che non ha degli anthem che si possano avvicinare al vecchio repertorio e inchiodarsi nella testa, ma dimostra sia la sua forza che il suo limite nella compattezza d’insieme e in una insistita ricerca melodica che spesso cozza troppo con il vecchio repertorio di una delle quattro band da prima pagina del thrash metal americano. Insomma, manca un po’ di sana cattiveria. Con il batterista Charlie Benante spesso in infermeria (il tunnel carpale da poca tregua), è da segnalare, infine, l’entrata in pianta stabile del chitarrista Jon Donais (ex -Shadows Fall) al posto di Rob Caggiano, passato definitivamente nei danesi Volbeat.
Ho sempre amato il carattere degli Anthrax. Un gruppo che non si è mai preso troppo sul serio (la copertina del nuovo album disegnata da Alex Ross parla chiaro ancora una volta), eppure si è sempre dimostrato attento osservatore del mondo, portando a galla ingiustizie e precarietà. E FOR ALL KINGS non difetta: ‘Evil Twin’ nasce dopo l’attentato parigino alla sede di Charlie Hebdo e fa da traino a tutto il disco. Tutti possiamo essere dei re a patto di prenderci le nostre responsabilità, è questo il messaggio del titolo spiegato dal veterano chitarrista Scott Ian. Anche se non ho ancora perdonato loro la cacciata di John Bush con cui avevano inciso uno dei migliori e sottovalutati dischi pesanti degli anni novanta (SOUND OF WHITE NOISE) devo ammettere che il ritorno dello storico vocalist Joey Belladonna, fin dal precedente ma riuscito a metà WORSHIP MUSIC, sembra aver riportato un minimo di freschezza e pure un marcato ritorno all’epicità che serpeggiava in dischi come lo storico SPREADING THE DISESAE (1985).
Basti ascoltare gli intermezzi presenti in ‘Breathing Lightning’ o gli otto minuti della pesante ‘Blood Eagle Wings’. Piace pure il groove di ‘Defend Avenge’ guidata dal basso di Frank Bello e il mid-tempo‘This Battle Chose Us’, mentre ‘Zero Torelance’ chiude ad alta velocità un disco che non ha degli anthem che si possano avvicinare al vecchio repertorio e inchiodarsi nella testa, ma dimostra sia la sua forza che il suo limite nella compattezza d’insieme e in una insistita ricerca melodica che spesso cozza troppo con il vecchio repertorio di una delle quattro band da prima pagina del thrash metal americano. Insomma, manca un po’ di sana cattiveria. Con il batterista Charlie Benante spesso in infermeria (il tunnel carpale da poca tregua), è da segnalare, infine, l’entrata in pianta stabile del chitarrista Jon Donais (ex -Shadows Fall) al posto di Rob Caggiano, passato definitivamente nei danesi Volbeat.
sabato 23 gennaio 2016
martedì 19 gennaio 2016
RECENSIONE:THE UNION FREEGO (In Null Komma Nichts)
THE UNION FREEGO In Null Komma Nichts (2015)
Non ho mai capito come funzioni il marketing discografico. Oddio, un'idea ce l'avrei pure, ma...non importa. Mi interessa, invece, capire perché questo disco non stia girando come dovrebbe tra gli appassionati di musica. Buona musica. Non so se per pigrizia, modestia o falsa modestia degli autori, ma sto riscontrando l'assenza della dovuta pubblicità. Oppure la colpa è semplicemente di noi che stiamo intorno e non cogliamo qualche messaggio nascosto, ma...nuovamente, non importa. Per cui mi prendo le mie responsabilità e faccio lo sporco lavoro (comunque bellissimo): se amate il classic rock americano, quello che nasce dal vecchio folk più oscuro e sporco, incontra prima Bob Dylan sulla propria strada, la parte visionaria e psichedelica di fine sessanta, poi la west coast californiana e più malata dei '70 e la vecchia old black di Neil Young che allunga sulle curve a gomito, sfiora il Paisley underground degli anni ottanta, l'alt country recente di Uncle Tupelo e Wilco, quello più recente ancora di Okkervil River e Decemberists e finisce la sua corsa alzando la polvere dei deserti dell'Arizona (Calexico, Giant Sand) e anche po' più a sud, cercate il secondo disco della band bresciana. Non ve ne pentirete. Una band che conferma di essere un organico compatto e tenuto insieme dall'amicizia, a proprio agio tra la rilassatezza compositiva e il totale distacco da certi circuiti e cortocircuiti del mercato discografico, e forse la loro forza sta tutta lì, in quella pigrizia compositiva: il primo EP GREETINGS FROM THE NE uscì nel 2005, il primo album HARD FOLK LIGHTNING SUCKER nel 2009. Una band dal passo lento che sembra uscire allo scoperto solamente quando ce n'è bisogno e quando i numerosi impegni lo permettono. Ora a sei anni di distanza l'organico di esperti musicisti formato da Ronnie Amighetti (chitarra e voce), Marco Franzoni (chitarre), Matteo Crema (basso) e Beppe Facchetti (batteria) ingloba al suo interno la tromba di Francesco Venturini, che diventa presenza fissa e indispensabile per segnare questo nuovo corso, ospita Ottavia Brown (voce in Waltz In The Desert) e Filippo Pardini (sax in Everywhere e Family) e vira il proprio sound, senza snaturarlo troppo, verso le lande più marcatamente tex mex del proprio background (Vision, Waltz). Mantenendo quella capacità camaleontica di passare dal caldo al freddo, dal pulito allo sporco.
IN NULL KOMMA NICHTS vengono ripresi vecchissimi brani da tempo già presenti nei loro concerti, altri vecchi ma non troppo estrapolati dalla band parallela DAS tra cui una quasi morriconiana Surrender e una magnifica Incandescent Translucent Magnificent, e si prosegue con la saga Judo#3 iniziata fin dal primo EP, un brano presente nei loro tre dischi e suonato per tre volte in modo diverso.
Forse ho capito: la buona musica non ha bisogno di essere svenduta in radio e tv ma necessita e richiede l'amore e la curiosità anche di un semplice passaparola. Io vi ho avvertito. Ora lo sporco lavoro fatelo anche voi. Come si dice: fate girare. Oppure presentatevi a un loro concerto prima che la cover di Don't Cry No Tears di Neil Young faccia calare il sipario sull'esibizione. E' il loro arrivederci preferito. Forti della recente e calda serata in apertura a Tito & Tarantola, da qualche parte vi aspettano. Lì danno il meglio.
Qui sotto il video di Blues For An Asshole (dal loro primo disco HARD FOLK LIGHTNING SUCKER) registrato live proprio in apertura per Tito & Tarantula, il 7 Settembre 2015 alla Latteria Molloy di Brescia
THE UNION FREEGO, live @ I Love Cocaine, Montichiari (BS), 18 Dicembre 2015
Non ho mai capito come funzioni il marketing discografico. Oddio, un'idea ce l'avrei pure, ma...non importa. Mi interessa, invece, capire perché questo disco non stia girando come dovrebbe tra gli appassionati di musica. Buona musica. Non so se per pigrizia, modestia o falsa modestia degli autori, ma sto riscontrando l'assenza della dovuta pubblicità. Oppure la colpa è semplicemente di noi che stiamo intorno e non cogliamo qualche messaggio nascosto, ma...nuovamente, non importa. Per cui mi prendo le mie responsabilità e faccio lo sporco lavoro (comunque bellissimo): se amate il classic rock americano, quello che nasce dal vecchio folk più oscuro e sporco, incontra prima Bob Dylan sulla propria strada, la parte visionaria e psichedelica di fine sessanta, poi la west coast californiana e più malata dei '70 e la vecchia old black di Neil Young che allunga sulle curve a gomito, sfiora il Paisley underground degli anni ottanta, l'alt country recente di Uncle Tupelo e Wilco, quello più recente ancora di Okkervil River e Decemberists e finisce la sua corsa alzando la polvere dei deserti dell'Arizona (Calexico, Giant Sand) e anche po' più a sud, cercate il secondo disco della band bresciana. Non ve ne pentirete. Una band che conferma di essere un organico compatto e tenuto insieme dall'amicizia, a proprio agio tra la rilassatezza compositiva e il totale distacco da certi circuiti e cortocircuiti del mercato discografico, e forse la loro forza sta tutta lì, in quella pigrizia compositiva: il primo EP GREETINGS FROM THE NE uscì nel 2005, il primo album HARD FOLK LIGHTNING SUCKER nel 2009. Una band dal passo lento che sembra uscire allo scoperto solamente quando ce n'è bisogno e quando i numerosi impegni lo permettono. Ora a sei anni di distanza l'organico di esperti musicisti formato da Ronnie Amighetti (chitarra e voce), Marco Franzoni (chitarre), Matteo Crema (basso) e Beppe Facchetti (batteria) ingloba al suo interno la tromba di Francesco Venturini, che diventa presenza fissa e indispensabile per segnare questo nuovo corso, ospita Ottavia Brown (voce in Waltz In The Desert) e Filippo Pardini (sax in Everywhere e Family) e vira il proprio sound, senza snaturarlo troppo, verso le lande più marcatamente tex mex del proprio background (Vision, Waltz). Mantenendo quella capacità camaleontica di passare dal caldo al freddo, dal pulito allo sporco.
IN NULL KOMMA NICHTS vengono ripresi vecchissimi brani da tempo già presenti nei loro concerti, altri vecchi ma non troppo estrapolati dalla band parallela DAS tra cui una quasi morriconiana Surrender e una magnifica Incandescent Translucent Magnificent, e si prosegue con la saga Judo#3 iniziata fin dal primo EP, un brano presente nei loro tre dischi e suonato per tre volte in modo diverso.
Forse ho capito: la buona musica non ha bisogno di essere svenduta in radio e tv ma necessita e richiede l'amore e la curiosità anche di un semplice passaparola. Io vi ho avvertito. Ora lo sporco lavoro fatelo anche voi. Come si dice: fate girare. Oppure presentatevi a un loro concerto prima che la cover di Don't Cry No Tears di Neil Young faccia calare il sipario sull'esibizione. E' il loro arrivederci preferito. Forti della recente e calda serata in apertura a Tito & Tarantola, da qualche parte vi aspettano. Lì danno il meglio.
Qui sotto il video di Blues For An Asshole (dal loro primo disco HARD FOLK LIGHTNING SUCKER) registrato live proprio in apertura per Tito & Tarantula, il 7 Settembre 2015 alla Latteria Molloy di Brescia
THE UNION FREEGO, live @ I Love Cocaine, Montichiari (BS), 18 Dicembre 2015
lunedì 18 gennaio 2016
RECENSIONE: THE BOTTLE ROCKETS (South Broadway Athletic Club)
THE BOTTLE ROCKETS
South Broadway Athletic Club
(Bloodshot Records/IRD, 2015)
Duri a morire
Disseminata lungo la strada del tempo un po’ di quell’ energia giovanile che nei primi anni novanta ne fecero, insieme ai vicini di casa Uncle Tupelo, tra i portabandiera dell’alt country (oppure chiamatelo Americana), la band di St. Louis guidata dagli unici sopravvissuti della prima incarnazione, Mark Ortman e Brian Henneman (che dei Tupelo fu anche roadie e chitarrista) non ha smarrito la schietta attitudine e quella semplicità che ne hanno fatto una delle band più stimate ma anche dimenticate e sottovalutate di quella generazione. La recente ristampa dei due primi album, ad opera della Bloodshot Records, potrebbe aiutare nel darvi un’idea.
La vita vista dal basso, la strada e le periferie rimangono ancora le fonti principali a cui attingere per costruire le canzoni: quando ripassano gli insegnamenti melodici degli amati Byrds in Dog, quando si lanciano all’inseguimento delle chitarre più rozze dei Crazy Horse nel blue collar rock di Building Chryslers, oppure quando nuotano nelle atmosfere country e ariose di Smile. Una garanzia. Enzo Curelli 7 da Classic Rock # (Dicembre 2015)
Duri a morire
Disseminata lungo la strada del tempo un po’ di quell’ energia giovanile che nei primi anni novanta ne fecero, insieme ai vicini di casa Uncle Tupelo, tra i portabandiera dell’alt country (oppure chiamatelo Americana), la band di St. Louis guidata dagli unici sopravvissuti della prima incarnazione, Mark Ortman e Brian Henneman (che dei Tupelo fu anche roadie e chitarrista) non ha smarrito la schietta attitudine e quella semplicità che ne hanno fatto una delle band più stimate ma anche dimenticate e sottovalutate di quella generazione. La recente ristampa dei due primi album, ad opera della Bloodshot Records, potrebbe aiutare nel darvi un’idea.
La vita vista dal basso, la strada e le periferie rimangono ancora le fonti principali a cui attingere per costruire le canzoni: quando ripassano gli insegnamenti melodici degli amati Byrds in Dog, quando si lanciano all’inseguimento delle chitarre più rozze dei Crazy Horse nel blue collar rock di Building Chryslers, oppure quando nuotano nelle atmosfere country e ariose di Smile. Una garanzia. Enzo Curelli 7 da Classic Rock # (Dicembre 2015)
martedì 12 gennaio 2016
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 8: TIN MACHINE (Tin Machine)
TIN MACHINE-Tin Machine (1989)
Se BLACKSTAR è un trionfale e geniale commiato al mondo che solo David Bowie poteva inventarsi, l'ultimo capolavoro, c’è stato un periodo, all’alba degli anni novanta, in cui cercò riparo all’ombra della sua stella. Ennesimo trasformismo: si nasconde e camuffa dentro a una band, senza vistosi trucchi ma indossando semplicemente una barba più lunga del consueto, una camicia bianca, una cravatta e abiti scuri. La prima vera volta a carriera già avviata. Abbandonando per una breve parentesi le mire da rockstar solista e lasciando alla sezione ritmica dei fratelli TONY e HUNT SALES (presenti in LUST FOR LIFE di Iggy Pop), ma soprattutto alla chitarra selvaggia e pungente di REEVES GABRELS , che in alcuni punti straborda nel noise, il compito di caricare a salve un disco rock, grezzo, istintivo e vario quanto basta per segnare un netto confine tra il recente passato pop (TONIGHT, NEVER LET ME DOWN), fortemente preso di mira dalla critica musicale, e il prossimo futuro non ancora scritto.
“Non voglio più essere David Bowie, voglio diventare solo il cantante dei Tin Machine” dirà con convinzione. Con questo intento e seguendo le orme di nuovi amori musicali (Pixies) e anticipando, perché no, nuove correnti musicali in dirittura d’esplosione, si spinge verso torrenziali blues come l’iniziale ‘Heaven’s In Here’ e la marziale ‘Crack City’ che sembra addirittura citare i Black Sabbath nell’incipit iniziale, anfetaminici hard rock come ‘Sacrifice Yourself’ e il singolo ‘Under The God’, veloci incursioni in territori punk ( ‘Tin Machine’ e ‘Pretty Thing’), senza mai rinnegare buoni esercizi bowiani come ‘Prisoner Of Love’ , la citazione a Warhol in ‘I Can’t Read’ che lo riporta quasi ai livelli eccelsi dei ’70 (“Andy where's my 15 minutes?”) e una rivisitazione di ‘Working Class Hero’ di John Lennon che per l’occasione è rivestita di funk soul acido e corrosivo. Seguiranno ancora TIN MACHINE II (1991) e la testimonianza live di OY VEY, BABY (1992). Poi tornerà a fare DAVID BOWIE a tempo pieno ma sotto altri cieli. Amo questo disco.
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON-Very Extremely Dangerous (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #5: BIG COUNTRY-Steeltown, 1984
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #6: TESLA-Five Man Acoustical Jam, 1990
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY-Pride & Glory (1994)
Se BLACKSTAR è un trionfale e geniale commiato al mondo che solo David Bowie poteva inventarsi, l'ultimo capolavoro, c’è stato un periodo, all’alba degli anni novanta, in cui cercò riparo all’ombra della sua stella. Ennesimo trasformismo: si nasconde e camuffa dentro a una band, senza vistosi trucchi ma indossando semplicemente una barba più lunga del consueto, una camicia bianca, una cravatta e abiti scuri. La prima vera volta a carriera già avviata. Abbandonando per una breve parentesi le mire da rockstar solista e lasciando alla sezione ritmica dei fratelli TONY e HUNT SALES (presenti in LUST FOR LIFE di Iggy Pop), ma soprattutto alla chitarra selvaggia e pungente di REEVES GABRELS , che in alcuni punti straborda nel noise, il compito di caricare a salve un disco rock, grezzo, istintivo e vario quanto basta per segnare un netto confine tra il recente passato pop (TONIGHT, NEVER LET ME DOWN), fortemente preso di mira dalla critica musicale, e il prossimo futuro non ancora scritto.
“Non voglio più essere David Bowie, voglio diventare solo il cantante dei Tin Machine” dirà con convinzione. Con questo intento e seguendo le orme di nuovi amori musicali (Pixies) e anticipando, perché no, nuove correnti musicali in dirittura d’esplosione, si spinge verso torrenziali blues come l’iniziale ‘Heaven’s In Here’ e la marziale ‘Crack City’ che sembra addirittura citare i Black Sabbath nell’incipit iniziale, anfetaminici hard rock come ‘Sacrifice Yourself’ e il singolo ‘Under The God’, veloci incursioni in territori punk ( ‘Tin Machine’ e ‘Pretty Thing’), senza mai rinnegare buoni esercizi bowiani come ‘Prisoner Of Love’ , la citazione a Warhol in ‘I Can’t Read’ che lo riporta quasi ai livelli eccelsi dei ’70 (“Andy where's my 15 minutes?”) e una rivisitazione di ‘Working Class Hero’ di John Lennon che per l’occasione è rivestita di funk soul acido e corrosivo. Seguiranno ancora TIN MACHINE II (1991) e la testimonianza live di OY VEY, BABY (1992). Poi tornerà a fare DAVID BOWIE a tempo pieno ma sotto altri cieli. Amo questo disco.
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON-Very Extremely Dangerous (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #5: BIG COUNTRY-Steeltown, 1984
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #6: TESLA-Five Man Acoustical Jam, 1990
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY-Pride & Glory (1994)
lunedì 4 gennaio 2016
RECENSIONE: CHEAP WINE (Mary And The Fairy)
CHEAP WINE Mary And The Fairy (Cheap Wine Records, 2015)
Secondi a nessuno
La presenza del loro CRIME STORIES (2002) nel novero dei venti dischi rock italiani da avere, scelti da Federico Guglielmi su queste pagine, potrebbe bastare come buon biglietto da visita e incuriosire chi ancora non li conoscesse. La band dei fratelli Marco e Michele Diamantini arriva anche al prestigioso traguardo dei vent’anni di carriera con il secondo disco dal vivo dopo il doppio STAY ALIVE! (2010). Quello che esce prepotente da questi concentratissimi sessanta minuti di classic rock, registrati durante la data del 30 Aprile al Teatro Sperimentale della loro Pesaro, è la perfetta coesione raggiunta negli anni (in mezzo alle chitarre, in cattedra ci finisce spesso il pianoforte di Alessio Raffaelli) e culminata nella perfezione degli ultimi due album in studio. Anche stavolta troviamo quella voglia di fare musica che non si è mai spenta, né piegata a mode e che mai ha tentato di percorrere le facili scorciatoie del successo. Le canzoni scelte sono solamente otto ma le capacità di riarrangiarle, allungarle (Mary) e farle rivivere le fanno sembrare infinite e senza tempo. Avanti così. Enzo Curelli 8, da Classic Rock #37 (Dicembre 2015)
RECENSIONE: CHEAP WINE-Beggar Town (2014)
RECENSIONE: CHEAP WINE-Based On Lies (2012)
Secondi a nessuno
La presenza del loro CRIME STORIES (2002) nel novero dei venti dischi rock italiani da avere, scelti da Federico Guglielmi su queste pagine, potrebbe bastare come buon biglietto da visita e incuriosire chi ancora non li conoscesse. La band dei fratelli Marco e Michele Diamantini arriva anche al prestigioso traguardo dei vent’anni di carriera con il secondo disco dal vivo dopo il doppio STAY ALIVE! (2010). Quello che esce prepotente da questi concentratissimi sessanta minuti di classic rock, registrati durante la data del 30 Aprile al Teatro Sperimentale della loro Pesaro, è la perfetta coesione raggiunta negli anni (in mezzo alle chitarre, in cattedra ci finisce spesso il pianoforte di Alessio Raffaelli) e culminata nella perfezione degli ultimi due album in studio. Anche stavolta troviamo quella voglia di fare musica che non si è mai spenta, né piegata a mode e che mai ha tentato di percorrere le facili scorciatoie del successo. Le canzoni scelte sono solamente otto ma le capacità di riarrangiarle, allungarle (Mary) e farle rivivere le fanno sembrare infinite e senza tempo. Avanti così. Enzo Curelli 8, da Classic Rock #37 (Dicembre 2015)
RECENSIONE: CHEAP WINE-Beggar Town (2014)
RECENSIONE: CHEAP WINE-Based On Lies (2012)
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