CESARE CARUGI Pontchartrain ( Roots Music Club/IRD, 2013)
La prova ascolto sopra ad un'automobile? Sempre rivelatrice con dischi come questo. Meglio: piacevole. Poco importa se la mia quattro ruote non è una Cadillac Eldorado del '72 e le strade non sono troppo panoramiche. L'asfalto bollente d'Agosto, l'aria che entra dai finestrini, il sole che perfora i vetri e brucia la pelle, sono gli stessi che animano le strade del mondo, e come il "toscanaccio" (di Cecina) Cesare Carugi mi disse nell'intervista di un anno fa, parlando del suo debutto: "spesso e volentieri non è il dove sono che mi ispira ma il cosa vedo. “Here’s To The Road” ha un approccio visivo tutto americano, ma le strade dove è nato sono anche quelle italiane. La strada è la strada ovunque tu vada." Pensiero che si adatta bene anche questa volta, arricchendosi di tanti altri particolari, ancor meglio se si inizia il viaggio dal radioso e placido ciondolamento '50 della speranzosa ultima traccia We'll Meet Again Someday, proprio quella con il video girato sopra ad una Cadillac Eldorado che scorazza per le nostrane vie tricolori in compagnia delle due chitarre degli orobici Mojo Filter, Carlo Lancini e Alessandro Battistini, a cui si aggiunge, su disco, anche il bassista Daniele Togni (ospiti graditi), e capisci quanto sia tutto vero. Canzone impeccabile.
Se il debutto Here's The Road (2011) vi era piaciuto, potete prolungare la gioia perché questo seguito, pur discostandosi dal precedente disco preferendo una maggiore omogeneità di fondo e facendosi apprezzare per il minuzioso lavoro negli arrangiamenti, è un altro piccolo miracolo tutto italiano di musica "made in America". L'ennesimo, oserei direi. Qui ci stanno viziando bene.
Meno diretto e più costruito, più scavato in profondità e meno istintivo, Pontchartrain è un viaggio agro-dolce che preferisce il lungo e disteso passo delle ballate, lasciando gli scatti rock unicamente all'apertura Troubled Waters, un numero alla Tom Petty & Heartbreakers che pare una outtake-di quelle buone-di Damn The Torpedoes impreziosita dalla slide dell'ospite Paolo Bonfanti capace di delineare spazi infiniti; all'incedere garage/psychobilly della terremotante (termine purtroppo adatto, visto il testo) Crack In The Ground , tetra e carica di chitarre elettriche (oltre a quella di Carugi, anche Leonardo Ceccanti e Matteo Barsacchi) e alla seconda parte di Your Memory Shall Drive Me Home, canzone che si sviluppa nell'intenso crescendo.
Carugi questa volta sembra preferire il gioco delle sfumature e lo si capisce quando con una magistrale prova vocale ci fa immergere dentro alle atmosfere soul/blues, fumose, notturne e sudaticce di My Drunken Valentine-già elevata a mia preferita-che fin dal titolo ci promette un giro tra il romanticismo e la decadenza metropolitana di piccoli club malfamati e vicoli sempre troppo stretti, gli stessi frequentati dal giovanissimo Tom Waits o dal miglior Billy Joel di ritorno nella grande mela di metà anni settanta, con i tasti del pianoforte di Jacopo Creatini a battere l'atmosfera giusta ed il testo che recita una storyboard fascinosamente intrigante; pianoforte che diventa protagonista insieme ai fiati (sax e clarinetto) in When The Silence Breaks Through, ballata epica che cita in causa Van Morrison e lo Springsteen romantico, sognatore e perso tra la giungla d'asfalto. Basterebbero queste due canzoni per capire l'alto livello raggiunto da Carugi come autore, qualità che lo porta a bussare alla porta dei grandi songwriters d'oltreoceano (a partire da John Prine arrivando fino a Ryan Adams) e ulteriormente confermata dal copione cinematografico, disteso e romantico degli amanti protagonisti di Charley Varrick cantata in coppia con Marialaura Specchia, cantante che abbiamo già conosciuto nei bravi-e concittadini di Cesare-Verily So; nella ballata acustica Drive The Crows Away con il prezioso violino di Chiara Giacobbe ad indicare la strada; nelle tristi solitudini da west coast notturna di Long Nights Awake con l'armonica di Andrea Giannoni a contare le stelle; o nelle paludi calpestate che circondano il lago Pontchartrain che oltre a dare il titolo al disco ed al blues di Pontchartrain Shuffle, che si avvale della chitarra di Francesco Più, delimita una impeccabile prova d'autore che meriterebbe di strabordare oltre ogni confine, nazionale ed internazionale. Il momento è giusto.
In uscita il 24 Settembre 2013.
vedi anche INTERVISTA: CESARE CARUGI, 7 Marzo 2012
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Here's To The Road (2011)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)
vedi anche RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock'n'Roll (2013)
venerdì 6 settembre 2013
martedì 3 settembre 2013
RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS (Electric Slave)
BLACK JOE LEWIS Electric Slave ( Vagrant Records, 2013)
Dannato di un Black Joe Lewis! Non ho ancora smesso di saltare davanti all'indemoniato e sudicio groove che usciva dalle casse che sparavano il precedente Scandalous (2011) che è giunto il momento di continuare il vizio ad oltranza nel nuovo terzo album Electric Slave. Tolta la firma dei fidi musicisti Honeybears dal monicker in copertina-ma ancora presenti con le mani allungate sugli strumenti, nonostante alcune defezioni come il cambio di batterista e l'abbandono del vecchio chitarrista che elegge Joe Lewis a unica ascia del gruppo-il suono della band si sposta maggiormente verso il lato garage minimalista della loro musica, inspessendo le chitarre e aggredendo l'ascoltatore piuttosto che ammaliarlo, senza rinunciare all'estrema varietà musicale che li caratterizza fin dall'esordio (Tell'Em What Your Name Is!-2009), anche se ascoltando la doppietta formata da My Blood Ain't Runnin' Right e Guilty esce tutto l'amore, sempre confessato, per la scena rock'n'roll di Detroit dei primi anni settanta: vocalità alla Iggy Pop, chitarre che intrecciano il serpeggiare dei fiati e il proto-punk è servito su un piatto d'argento fumante di tortillas texane appena sfornate.
Dall'alto della collina, vestiti da vecchi fuorilegge dell'antico west con tanto di armi e cinturoni che ricordano sia il solitario "papà" Taj Mahal-moltiplicato per sei- ritratto nella copertina di Giant Step quanto gli Eagles in versione Desperado, quelli che la band di Austin riversa fuori dagli amplificatori, fino ad arrivare giù a valle, sono suoni tosti e crudi: uno, due, tre, pronti, partenza, via e Skulldiggin inizia a schiaffeggiare e graffiare la pelle con la forza di una chitarra fuzz, il piano e l'hammond in sottofondo e la voce piena di feedback di Joe Lewis a salmodiare, quando non assale come avviene nel rock'n'roll disturbato e noise sparato nella viziosa Young Girls, a testimoniare che il nero musicista texano non ha perso né il pelo né il vizio, forte di una personalità e faccia tosta strabordanti che trovano la propria dimensione ideale sopra ai palchi, dove gli ululati che accompagnano Vampire, la canzone più lunga del disco, promettono sfaceli incastrati dentro al lento e lugubre inizio R'n'B che sale via via di velocità prestandosi alla lunga free jam finale.
Se non avevate ancora capito che Black Joe Lewis ha sbagliato nel venire al mondo con almeno più di trent'anni di ritardo, ascoltate cosa dice del titolo scelto per l'album e capirete cosa pensa del comodo vivere moderno: "gli schiavi elettrici sono tutte quelle persone che oggi tengono i loro volti attaccati agli iPhones, il solo modo per tenere una conversazione con loro è farlo attraverso le onde magnetiche. Il prossimo passo sarà quello di collegarli alla loro dannata testa".
Quando però la sua voce passa dall'essere "iguana" a "macchina del sesso"come quella gridata dai migliori interpreti soul alla Solomon Burke, James Brown, anche il set che gli sta intorno si trasforma e durante The Hipster sembra tramutarsi nell'insidioso palco cintato come un pollaio del Bob's Country Bunker con il materializzarsi dei "fratelli del blues" ai controcori, oppure rimanendo alla pellicola di John Landis, diventare il set del Palace Hotel di Chicago per invitarci a partecipare alla festa di Come To My Party dove l'anima nera, R&B, soul con i fiati a fare compagnia, esce prepotente ed invita alle danze sfrenate. E bisogna ancora passare dall'irresistibile groove funk alla Sly Stone/Funkadelic di Golem e Mammas Queen.
Black Joe Lewis taglia il traguardo del terzo disco facendo un occhiolino al popolo del rock, i tanti cambiamenti-dall'etichetta discografica, al produttore (ora è Stuart Sikes, più John Congleton in tre pezzi), al monicker, al suono-oltre a segnare un nuovo inizio, potrebbero far pensare ad un prossimo passo verso il successo su scala mondiale. Fortunatamente, per ora, la "favola alla Black Keys" sembra scongiurata. Joe Lewis sembra ancora troppo armato e pericoloso per compiacere chi lo vorrebbe invischiato dentro a certi giochetti mainstream.
vedi anche RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS-Scandalous (2011)
vedi anche RECENSIONE: JJ GREY & MOFRO-This River (2013)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
Dannato di un Black Joe Lewis! Non ho ancora smesso di saltare davanti all'indemoniato e sudicio groove che usciva dalle casse che sparavano il precedente Scandalous (2011) che è giunto il momento di continuare il vizio ad oltranza nel nuovo terzo album Electric Slave. Tolta la firma dei fidi musicisti Honeybears dal monicker in copertina-ma ancora presenti con le mani allungate sugli strumenti, nonostante alcune defezioni come il cambio di batterista e l'abbandono del vecchio chitarrista che elegge Joe Lewis a unica ascia del gruppo-il suono della band si sposta maggiormente verso il lato garage minimalista della loro musica, inspessendo le chitarre e aggredendo l'ascoltatore piuttosto che ammaliarlo, senza rinunciare all'estrema varietà musicale che li caratterizza fin dall'esordio (Tell'Em What Your Name Is!-2009), anche se ascoltando la doppietta formata da My Blood Ain't Runnin' Right e Guilty esce tutto l'amore, sempre confessato, per la scena rock'n'roll di Detroit dei primi anni settanta: vocalità alla Iggy Pop, chitarre che intrecciano il serpeggiare dei fiati e il proto-punk è servito su un piatto d'argento fumante di tortillas texane appena sfornate.
Dall'alto della collina, vestiti da vecchi fuorilegge dell'antico west con tanto di armi e cinturoni che ricordano sia il solitario "papà" Taj Mahal-moltiplicato per sei- ritratto nella copertina di Giant Step quanto gli Eagles in versione Desperado, quelli che la band di Austin riversa fuori dagli amplificatori, fino ad arrivare giù a valle, sono suoni tosti e crudi: uno, due, tre, pronti, partenza, via e Skulldiggin inizia a schiaffeggiare e graffiare la pelle con la forza di una chitarra fuzz, il piano e l'hammond in sottofondo e la voce piena di feedback di Joe Lewis a salmodiare, quando non assale come avviene nel rock'n'roll disturbato e noise sparato nella viziosa Young Girls, a testimoniare che il nero musicista texano non ha perso né il pelo né il vizio, forte di una personalità e faccia tosta strabordanti che trovano la propria dimensione ideale sopra ai palchi, dove gli ululati che accompagnano Vampire, la canzone più lunga del disco, promettono sfaceli incastrati dentro al lento e lugubre inizio R'n'B che sale via via di velocità prestandosi alla lunga free jam finale.
Se non avevate ancora capito che Black Joe Lewis ha sbagliato nel venire al mondo con almeno più di trent'anni di ritardo, ascoltate cosa dice del titolo scelto per l'album e capirete cosa pensa del comodo vivere moderno: "gli schiavi elettrici sono tutte quelle persone che oggi tengono i loro volti attaccati agli iPhones, il solo modo per tenere una conversazione con loro è farlo attraverso le onde magnetiche. Il prossimo passo sarà quello di collegarli alla loro dannata testa".
Quando però la sua voce passa dall'essere "iguana" a "macchina del sesso"come quella gridata dai migliori interpreti soul alla Solomon Burke, James Brown, anche il set che gli sta intorno si trasforma e durante The Hipster sembra tramutarsi nell'insidioso palco cintato come un pollaio del Bob's Country Bunker con il materializzarsi dei "fratelli del blues" ai controcori, oppure rimanendo alla pellicola di John Landis, diventare il set del Palace Hotel di Chicago per invitarci a partecipare alla festa di Come To My Party dove l'anima nera, R&B, soul con i fiati a fare compagnia, esce prepotente ed invita alle danze sfrenate. E bisogna ancora passare dall'irresistibile groove funk alla Sly Stone/Funkadelic di Golem e Mammas Queen.
Black Joe Lewis taglia il traguardo del terzo disco facendo un occhiolino al popolo del rock, i tanti cambiamenti-dall'etichetta discografica, al produttore (ora è Stuart Sikes, più John Congleton in tre pezzi), al monicker, al suono-oltre a segnare un nuovo inizio, potrebbero far pensare ad un prossimo passo verso il successo su scala mondiale. Fortunatamente, per ora, la "favola alla Black Keys" sembra scongiurata. Joe Lewis sembra ancora troppo armato e pericoloso per compiacere chi lo vorrebbe invischiato dentro a certi giochetti mainstream.
vedi anche RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS-Scandalous (2011)
vedi anche RECENSIONE: JJ GREY & MOFRO-This River (2013)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
giovedì 29 agosto 2013
RECENSIONE:LUCA MILANI (Lost For Rock'n'Roll)
LUCA MILANI Lost For Rock'n'Roll (Hellm Records, Martine Records/IRD 2013)
Quante volte ci siamo aggrappati al Rock'n'Roll? Attaccati alla funzione salvifica che gli attribuiamo molto volentieri nei momenti più difficili, quasi fosse un vecchio e saggio compagno a cui affidare segreti, sogni, istinti di rivincita e riceverne in cambio conforto, con il "piacevole" rischio di farlo diventare la colonna sonora portante di tutta un'esistenza. Vorrebbe dire che la vita è fatta per gran parte di sofferenza. Il già "salomonico" Rock'n' Roll, invece, regge il peso delle responsabilità e ti tira fuori dai guai. Funziona, quasi sempre. Ci si aggrappa a degli accordi, al ritmo, a delle chitarre, ad un testo, ai propri idoli che cantano e capiscono, meglio di qualunque altro, la nostra vita d'inferno in terra. Molte volte, la nostra vera religione. Il Rock 'n' Roll ce l'hanno cantato in tanti modi, decantandone la sua indispensabile funzione ed eternità: chi lo ha inventato, già con lungimiranza, ne cantava la superiorità a passo d'anatra con una chitarra a tracolla, chi gli augurava lunga vita sotto colorati arcobaleni hard, chi, con un flauto in mano, diceva di essere troppo vecchio per le chitarre ma troppo giovane per morire, chi tra morsi a indifesi volatili ne cantava l'immortalità e chi faceva la stessa cosa perso nel profondo buio, sentendosi-qualche anno dopo-anche un po' prigioniero in un mondo libero, "mani lente" su corde di chitarra che ci si foderavano il cuore, pietre rotolanti che ci riportano con i piedi in terra, dandone la migliore definizione possibile ed incastrandolo dentro alla giusta importanza (forse). La lista potrebbe andare avanti all'infinito. Ci si può perdere. Luca Milani si è perso come noi tutti e lo racconta attraverso dieci tappe di vita con il cuore libero ma scalpitante, sincero e verace.
Il cantautore milanese, al terzo disco dopo il buonissimo Sin Train (2011) e l'EP Scars And Tattoo (2009), lo canta nella title track così vicina al John Mellencamp di Human Wheels, e il sogno di rock'n'roll diventa una canzone da cantare fino alla fine della vita, fino all'inferno, più forte di tutte quelle brutte circostanze che sembrano inghiottirci e aver sempre la meglio, con le chitarre a scuotere ed un tappeto di hammond ad addolcire.
Milani riprende in mano la chitarra elettrica che ha segnato i suoi esordi nel gruppo File, e seppur lasci l'apertura del disco alla sommessa intimità folk urbana di On A Saturday Night, amara e greve riflessione sul trascorrere del tempo (qui, tra le tante cose, richiede indietro un concerto dei The Clash, a proposito di sogni di R'n'R), si lancia in fulminanti affreschi di blue-collar rock chitarristici, sudati e fumanti, nati ai margini della città (la sua Milano) che pagano dazio tanto alla poetica di strada di eroi come Bruce Springsteen e Willie Nile, quanto al miglior alternative punk/rock americano degli eighties (Social Distortion, Replacements, Raindogs) nell'energia sparata a tutta full band ( Giovanni Calella al basso e steel guitar, Luca Capasso alla batteria, Riccardo Maccabruni al piano) pur persa in momenti intimistici (Demons Inside), di speranza e rivincita (Second Chance); sia avvicinandosi ai Pearl Jam dell'amata scena grunge nella epica Party Dress, che alle ultime leve yankee come Jesse Malin (Silence In This Town) e Gaslight Anthem in Dust And Wind tra passi di vecchio rockabilly, armonica, pistole e amori.
Il vento che soffia forte su un' armonica e l'attacco di Dog in The Fog, viaggio con il piede pesante sull'acceleratore in fuga da nostalgie e illusioni alla ricerca dell'isola felice, mettono in risalto anche le zone d'ombra acustiche che riportano al precedente disco: gli amari addii dentro alla scheletrica costruzione sorretta da pianoforte e armonica di In The Wind, e nella finale Bar At The End Of The World per sola voce e chitarra.
Un disco sincero, secco, grigio ma ricco di colori di speranza; riflessivo e amaro in cui ci si perde volentieri da quanto ci si immedesima. E' rock'n'roll!
In uscita il 24 Settembre, sarà presentato live a partire dalla metà dello stesso mese. Ad accompagnare Milani: i Glorious Homeless, gruppo formato da alcuni membri dei Mojo Filter, protagonisti di questo inizio anno con il loro The Roadkill Songs.
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
Quante volte ci siamo aggrappati al Rock'n'Roll? Attaccati alla funzione salvifica che gli attribuiamo molto volentieri nei momenti più difficili, quasi fosse un vecchio e saggio compagno a cui affidare segreti, sogni, istinti di rivincita e riceverne in cambio conforto, con il "piacevole" rischio di farlo diventare la colonna sonora portante di tutta un'esistenza. Vorrebbe dire che la vita è fatta per gran parte di sofferenza. Il già "salomonico" Rock'n' Roll, invece, regge il peso delle responsabilità e ti tira fuori dai guai. Funziona, quasi sempre. Ci si aggrappa a degli accordi, al ritmo, a delle chitarre, ad un testo, ai propri idoli che cantano e capiscono, meglio di qualunque altro, la nostra vita d'inferno in terra. Molte volte, la nostra vera religione. Il Rock 'n' Roll ce l'hanno cantato in tanti modi, decantandone la sua indispensabile funzione ed eternità: chi lo ha inventato, già con lungimiranza, ne cantava la superiorità a passo d'anatra con una chitarra a tracolla, chi gli augurava lunga vita sotto colorati arcobaleni hard, chi, con un flauto in mano, diceva di essere troppo vecchio per le chitarre ma troppo giovane per morire, chi tra morsi a indifesi volatili ne cantava l'immortalità e chi faceva la stessa cosa perso nel profondo buio, sentendosi-qualche anno dopo-anche un po' prigioniero in un mondo libero, "mani lente" su corde di chitarra che ci si foderavano il cuore, pietre rotolanti che ci riportano con i piedi in terra, dandone la migliore definizione possibile ed incastrandolo dentro alla giusta importanza (forse). La lista potrebbe andare avanti all'infinito. Ci si può perdere. Luca Milani si è perso come noi tutti e lo racconta attraverso dieci tappe di vita con il cuore libero ma scalpitante, sincero e verace.
Il cantautore milanese, al terzo disco dopo il buonissimo Sin Train (2011) e l'EP Scars And Tattoo (2009), lo canta nella title track così vicina al John Mellencamp di Human Wheels, e il sogno di rock'n'roll diventa una canzone da cantare fino alla fine della vita, fino all'inferno, più forte di tutte quelle brutte circostanze che sembrano inghiottirci e aver sempre la meglio, con le chitarre a scuotere ed un tappeto di hammond ad addolcire.
Milani riprende in mano la chitarra elettrica che ha segnato i suoi esordi nel gruppo File, e seppur lasci l'apertura del disco alla sommessa intimità folk urbana di On A Saturday Night, amara e greve riflessione sul trascorrere del tempo (qui, tra le tante cose, richiede indietro un concerto dei The Clash, a proposito di sogni di R'n'R), si lancia in fulminanti affreschi di blue-collar rock chitarristici, sudati e fumanti, nati ai margini della città (la sua Milano) che pagano dazio tanto alla poetica di strada di eroi come Bruce Springsteen e Willie Nile, quanto al miglior alternative punk/rock americano degli eighties (Social Distortion, Replacements, Raindogs) nell'energia sparata a tutta full band ( Giovanni Calella al basso e steel guitar, Luca Capasso alla batteria, Riccardo Maccabruni al piano) pur persa in momenti intimistici (Demons Inside), di speranza e rivincita (Second Chance); sia avvicinandosi ai Pearl Jam dell'amata scena grunge nella epica Party Dress, che alle ultime leve yankee come Jesse Malin (Silence In This Town) e Gaslight Anthem in Dust And Wind tra passi di vecchio rockabilly, armonica, pistole e amori.
Il vento che soffia forte su un' armonica e l'attacco di Dog in The Fog, viaggio con il piede pesante sull'acceleratore in fuga da nostalgie e illusioni alla ricerca dell'isola felice, mettono in risalto anche le zone d'ombra acustiche che riportano al precedente disco: gli amari addii dentro alla scheletrica costruzione sorretta da pianoforte e armonica di In The Wind, e nella finale Bar At The End Of The World per sola voce e chitarra.
Un disco sincero, secco, grigio ma ricco di colori di speranza; riflessivo e amaro in cui ci si perde volentieri da quanto ci si immedesima. E' rock'n'roll!
In uscita il 24 Settembre, sarà presentato live a partire dalla metà dello stesso mese. Ad accompagnare Milani: i Glorious Homeless, gruppo formato da alcuni membri dei Mojo Filter, protagonisti di questo inizio anno con il loro The Roadkill Songs.
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
sabato 24 agosto 2013
RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND (Made Up Mind)
Basta poco per capire che Made Up Mind, seconda prova in studio del gruppo dei coniugi Derek Trucks e Susan Tedeschi, ha un passo decisamente superiore al pur multi premiato debutto Revelator uscito nel 2011. Bastano i primi trenta secondi della title track per capirlo, e non perché questa sbuffi più del solito come una locomotiva priva di freni nel suo circolare boogie blues a carattere evangelico-tra le undici canzoni è la traccia più prossima al rock insieme alla torrenziale The Storm che cita l'uragano Sandy prima di sfociare nelle jam finale con la chitarra di Trucks che s'infiamma-ma perché simboleggia perfettamente l'affiatamento acquisito con il tempo, la raggiunta consapevolezza di riuscire a trattare la materia con piglio autoritario ed un amalgama di squadra sublimato durante i concerti (e impresso su Everyboy's Talkin'-2012) e che il precedente disco lasciava solo intravedere. La simbiosi perfetta tra il talentuoso chitarrista, figlio d'arte già in scena con i riflettori puntati a soli dieci anni d'età e già nel mito solo per far parte del "mito" Allman Brothers Band ma anche con sei dischi sul groppone incisi con la prima incarnazione della band a suo nome, e la vocalità della cantante che finalmente esce in modo prepotente anche grazie al supporto di una super band ampliata di otto elementi (più una pletora di bassisti ospiti) che dalle retrovie tiene sempre accesa la candela, ricordando a più riprese le grandi famiglie musicali allargate degli anni settanta, da Delaney e Bonnie ai Mad Dogs di Joe Cocker. Due batteristi, uno per cassa, sezione fiati sempre presente, ed il gioco è fatto. "Quando è stata l'ultima volta che avete passato una serata in compagnia di undici persone di vostra conoscenza? Che non sia un matrimonio o un funerale. O un compleanno. O una riunione di lavoro". Così Mike Mattison, (ex?) cantante della Derek Trucks Band e solo corista qui (purtroppo), inizia la presentazione del disco nelle note introduttive del libretto, sottolineatura per ribadire quanto il gruppo abbia raggiunto l'amalgama e l'equilibrio perfetti.
La nota di maggior rilievo arriva dalla voce della Tedeschi che senza alzare troppo i toni, conduce a proprio piacimento l'andamento prevalentemente melodico e soul che avvolge un disco che preferisce fare sosta alla fermata con il cartello recante la scritta Memphis: dalle atmosfere R&B, doo-wop, ariose e assolate di Part Of Me cantata in coppia con il trombonista Saunders Sermons che incanta grazie allo splendido ed evocativo falsetto, alla melodica Idle Wind dove un dolce flauto jazzato suonato da Kofi Burbridge serpeggia e dispensa oniricità tra le trame leggere e sognanti di una chitarra acustica, il funk di Misunderstood, il dolce soul di Sweet And Low, o la finale e acustica Calling Out To You suonata e cantata unicamente dai due, a sancire-romanticamente-l'unione famigliare e il matrimonio musicale, e già li si immagina interpretarla seduti fianco a fianco sopra a due sgabelli durante i concerti.
Registrato a Jacksonville, prodotto dallo stesso Trucks insieme a Jim Scott, e scritto insieme a numerosi autori/amici tra cui spicca Gary Louris (la già citata Idle Wind, il southern/funk Whiskey Legs), Made Up Mind avvolge nella forza della compattezza dei testi intrisi di amore e fede religiosa (It's So Heavy) che solo gli sparsi assoli slide di Trucks interrompono per l'estrema goduria delle orecchie-si ascolti All That I Need per lo strappo e la sontuosa Do I Look Worried per il ricamo. Un disco impeccabile, suonato in totale libertà. Creato e registrato, con la gioia e la devozione necessarie, da persone nate già con le note musicali che nuotavano libere nel sangue per raggiungere gli ascoltatori amanti delle trasfusioni di buona musica, quella senza tempo e scadenza.
vedi anche RECENSIONE/REPORT live THE BLACK CROWES live@ Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013
vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-Hubcap Music (2013)
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways
(2013)
giovedì 22 agosto 2013
RECENSIONE: NERA LUCE (Ad Occhi Chiusi)
NERA LUCE Ad Occhi Chiusi (autoproduzione, 2013)
Vi ricordate la scena rock italiana della prima metà degli anni novanta? Una marea di gruppi con qualcosa da dire che erano riusciti ad elevare la lingua madre per comunicare, quasi fosse una sfida. I buoni esempi non mancavano nemmeno negli anni ottanta, ma il virus dilagò in maniera esponenziale nel decennio successivo. Testi in italiano dentro a trame musicali di rock anglofono, un connubio quasi impensabile e che iniziò a funzionare a pieno regime, una variegata scena che non si è mai più ripetuta a quei livelli. Con qualche rimpianto. Molte di quelle band hanno lasciato il segno, qualcuna è sopravvissuta, qualcuna è entrata nei circuiti mainstream che contano, tante sono scomparse velocemente, altre sono già entrate nel culto. C'era veramente di tutto: il rock "stonesiano" (i primissimi Negrita), il crossover (i memorabili Ritmo Tribale di "Tutti Vs.Tutti", i Casino Royale di "Dainamaita", Rapsodia, Bisca), il grunge (Karma), l'hard rock (Movida), l'hardcore punk (gli ultimi respiri dei Negazione), il thrash metal (In.si.dia), il rock e...basta (Timoria, la seconda parte di carriera dei Litfiba, Rats, Clandestino), l'alternative (C.S.I., Disciplinatha, Massimo Volume, Marlene Kuntz, Afterhours, Santo Niente, Malfunk). Ecco, ascoltando i Nera Luce, gruppo proveniente da Catanzaro, mi è tornata in mente quella scena musicale tanto prolifica quanto breve nella durata che ho vissuto in prima persona da ascoltatore, con tanto piacere. Alcuni di quei gruppi rivivono tra le dodici canzoni dei calabresi che non sembrano voler cavalcare nessuna moda finta o passeggera, facendosi bastare l'amore, l'onestà e la passione per alcune sonorità che hanno adorato e con le quali sono cresciuti musicalmente: dal grunge alla Alice In Chains (o Karma se si vuole restare in Italia) di Ultima Ora e della atmosfericamente acida Ombre, al rock'n'roll in stile Miura di Bambola, al veloce riffing distorto e metal di Istantanee, al crossover di La Voglia Nascosta, Ad Occhi Chiusi, a quello con inserti funkeggianti di La Mia Confidenza insieme all'ospite Gray ("... la mia confidenza è un lusso che non meriti..."), al pungente folk/hip hop elettrico di Taranta Violenta con il duo Eman e Kuanito. Fino ad allargare la loro forbice di azione-a volte un po' troppo, in verità-, toccando i lidi pop in episodi più leggeri come Settembre vicina ai primissimi Timoria e a Francesco Renga solista, nella ballata dall'intro arpeggiato e dal bel assolo di chitarra Il Tuo Soffrire e nella lenta e pianistica Domani con la presenza di Paola Cortese alla seconda voce.
Il gruppo-formato da Luigi Persampieri alla voce, Danilo Spanò e Danilo Ferragina alla chitarre, Giuseppe Galati alla batteria e Giuseppe Bisurgi al basso-è nato nel 2002 ed è al secondo lavoro (il primo Luci Nell'Ombra uscì nel 2010 per l'etichetta FermentiVivi/Edel). Nel curriculum live può vantare alcune aperture prestigiose e di tutto rispetto per svariati artisti internazionali ed italiani: da mitico "fratello" Dave Alvin dei Blasters a Piero Pelù, la partecipazione al Pistoia Blues Festival edizione 2007 nella stessa giornata di mostri sacri come Patti Smith e Jeff Beck, fino ai terremotanti Bachi da Pietra.
Sarò nostalgico ma, anche con la mano e l'aiuto di un buon produttore, i Nera Luce potrebbero riportare a galla una scena rock ed un periodo di cui ho sentito seriamente la mancanza in questi ultimi quindici anni di musica rock italiana.
vedi anche RECENSIONE: NO GURU-Milano Original Soundtrack (2010)
vedi anche RECENSIONE: BACHI DA PIETRA-Quintale (2013)
vedi anche RECENSIONE: REGO SILENTA- La Notte è suo agio (2013)
Vi ricordate la scena rock italiana della prima metà degli anni novanta? Una marea di gruppi con qualcosa da dire che erano riusciti ad elevare la lingua madre per comunicare, quasi fosse una sfida. I buoni esempi non mancavano nemmeno negli anni ottanta, ma il virus dilagò in maniera esponenziale nel decennio successivo. Testi in italiano dentro a trame musicali di rock anglofono, un connubio quasi impensabile e che iniziò a funzionare a pieno regime, una variegata scena che non si è mai più ripetuta a quei livelli. Con qualche rimpianto. Molte di quelle band hanno lasciato il segno, qualcuna è sopravvissuta, qualcuna è entrata nei circuiti mainstream che contano, tante sono scomparse velocemente, altre sono già entrate nel culto. C'era veramente di tutto: il rock "stonesiano" (i primissimi Negrita), il crossover (i memorabili Ritmo Tribale di "Tutti Vs.Tutti", i Casino Royale di "Dainamaita", Rapsodia, Bisca), il grunge (Karma), l'hard rock (Movida), l'hardcore punk (gli ultimi respiri dei Negazione), il thrash metal (In.si.dia), il rock e...basta (Timoria, la seconda parte di carriera dei Litfiba, Rats, Clandestino), l'alternative (C.S.I., Disciplinatha, Massimo Volume, Marlene Kuntz, Afterhours, Santo Niente, Malfunk). Ecco, ascoltando i Nera Luce, gruppo proveniente da Catanzaro, mi è tornata in mente quella scena musicale tanto prolifica quanto breve nella durata che ho vissuto in prima persona da ascoltatore, con tanto piacere. Alcuni di quei gruppi rivivono tra le dodici canzoni dei calabresi che non sembrano voler cavalcare nessuna moda finta o passeggera, facendosi bastare l'amore, l'onestà e la passione per alcune sonorità che hanno adorato e con le quali sono cresciuti musicalmente: dal grunge alla Alice In Chains (o Karma se si vuole restare in Italia) di Ultima Ora e della atmosfericamente acida Ombre, al rock'n'roll in stile Miura di Bambola, al veloce riffing distorto e metal di Istantanee, al crossover di La Voglia Nascosta, Ad Occhi Chiusi, a quello con inserti funkeggianti di La Mia Confidenza insieme all'ospite Gray ("... la mia confidenza è un lusso che non meriti..."), al pungente folk/hip hop elettrico di Taranta Violenta con il duo Eman e Kuanito. Fino ad allargare la loro forbice di azione-a volte un po' troppo, in verità-, toccando i lidi pop in episodi più leggeri come Settembre vicina ai primissimi Timoria e a Francesco Renga solista, nella ballata dall'intro arpeggiato e dal bel assolo di chitarra Il Tuo Soffrire e nella lenta e pianistica Domani con la presenza di Paola Cortese alla seconda voce.
Il gruppo-formato da Luigi Persampieri alla voce, Danilo Spanò e Danilo Ferragina alla chitarre, Giuseppe Galati alla batteria e Giuseppe Bisurgi al basso-è nato nel 2002 ed è al secondo lavoro (il primo Luci Nell'Ombra uscì nel 2010 per l'etichetta FermentiVivi/Edel). Nel curriculum live può vantare alcune aperture prestigiose e di tutto rispetto per svariati artisti internazionali ed italiani: da mitico "fratello" Dave Alvin dei Blasters a Piero Pelù, la partecipazione al Pistoia Blues Festival edizione 2007 nella stessa giornata di mostri sacri come Patti Smith e Jeff Beck, fino ai terremotanti Bachi da Pietra.
Sarò nostalgico ma, anche con la mano e l'aiuto di un buon produttore, i Nera Luce potrebbero riportare a galla una scena rock ed un periodo di cui ho sentito seriamente la mancanza in questi ultimi quindici anni di musica rock italiana.
vedi anche RECENSIONE: NO GURU-Milano Original Soundtrack (2010)
vedi anche RECENSIONE: BACHI DA PIETRA-Quintale (2013)
vedi anche RECENSIONE: REGO SILENTA- La Notte è suo agio (2013)
lunedì 19 agosto 2013
COVER ART# 6 : BOB SEGER (Against The Wind-1980)
autore: BOB SEGER
titolo: AGAINST THE WIND
anno: 1980
disegno: JIM WARREN
art direction: ROY KOHARA
canzoni da ricordare: Her Stut, No Man's Land, Against the Wind, Fire Like
Una delle ultime copertine create dal sessantaquatrenne artista californiano Jim Warren è stata Horses and High Heels(2011) di Marianne Faithfull . Nel disegno campeggia un cavallo immerso in un panorama naturale da paradiso terrestre, dove spiccano due scarpe rosse da donna con lunghi tacchi.
I cavalli, nelle opere di Warren, sono spesso presenti. Ma non è stato sempre così, e la colpa-o merito- è di Bob Seger.
titolo: AGAINST THE WIND
anno: 1980
disegno: JIM WARREN
art direction: ROY KOHARA
canzoni da ricordare: Her Stut, No Man's Land, Against the Wind, Fire Like
Una delle ultime copertine create dal sessantaquatrenne artista californiano Jim Warren è stata Horses and High Heels(2011) di Marianne Faithfull . Nel disegno campeggia un cavallo immerso in un panorama naturale da paradiso terrestre, dove spiccano due scarpe rosse da donna con lunghi tacchi.
I cavalli, nelle opere di Warren, sono spesso presenti. Ma non è stato sempre così, e la colpa-o merito- è di Bob Seger.
Warren racconta che nel 1979 spedì alcune foto dei suoi dipinti al direttore artistico della Capitol Records, alla ricerca di qualche collaborazione di lavoro con il mondo musicale. Dopo due settimane non aveva ancora ricevuto risposte e, scoraggiato, la prima cosa che pensò fu che i suoi disegni avessero preso la via poco romantica e remunerativa della spazzatura.
La grande sorpresa arrivò un anno dopo. Il direttore della Capitol si fece vivo proponendo a Warren la copertina per un disco di Bob Seger che però doveva avere come soggetti dei cavalli. Warren cercò di opporsi a quella richiesta, giustificandosi con il fatto che non aveva mai disegnato cavalli nelle sue opere. Insomma, non erano il suo "cavallo" forte d'artista. Alla fine, l'offerta era talmente allettante che cedette, disegnando la copertina che tutti conosciamo.
Passò un altro anno, Against The Wind nel frattempo raggiunse il primo posto nella classifica dei dischi più venduti, fu la prima volta per Seger. Against the wind fu un album diverso dai precedenti per il rocker del Michigan.
Quei cinque cavalli selvatici e liberi di correre contro vento immersi nell'acqua che ne proietta le ombre in avanti, rendendoli ancora più veloci, rappresentavano benissimo un disco che, grazie alle parole della stupenda title track, esorta a ritrovare se stessi dopo cocenti delusioni. La speranza è l'ultima a morire. C'è sempre un nuovo inizio."Bene, ora ho superato quei giorni movimentati/Adesso ho molte più cose a cui pensare/Scadenze e consegne/cosa lasciare e cosa tralasciare/Controvento/Sto ancora correndo controvento/Ora sono più vecchio, ma sto ancora correndo/Controvento".
Un disco che all'epoca fece storcere il naso ai devoti fan di Seger per via della leggerezza musicale che prendeva il sopravvento, forse più leggero rispetto al recente passato (il trittico Beautiful Loser, Night Moves, Stranger In Town rimane ineguagliabile), ma che comunque riusciva a mantenere intatte le caratteristiche del suo autore che non mancò mai di tesserne le lodi, considerandolo uno dei suoi migliori lavori di sempre. Against The wind rimase l'ultimo vero guizzo, la chiusura della prima parte di carriera. Gli anni ottantta, appena iniziati, porteranno pochissima gloria.
Nel 1981 il telefono bollente di Warren squillò un'altra volta. Dall'altra parte una voce lo informava con un assordante "Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!!". La sera prima si svolse il Grammy Award e Against the Wind vinse il premio per la migliore copertina dell'anno. Warren, che quella sera non guardò la televisione, cascò dalle nuvole. Sarà lui stesso a raccontare la morale di tutta questa storia: proprio lui che non aveva mai disegnato un cavallo in vita sua, da allora non smise più di disegnare equini. Ora sì, sono il suo piatto forte d'artista!
vedi anche COVER ART # 4: NEIL YOUNG- On The Beach (1974)
vedi anche COVER ART # 5: AMERICA- Homecoming (1972)
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venerdì 9 agosto 2013
RECENSIONE:ALICE IN CHAINS (The Devil Put Dinosaurs Here)
ALICE IN CHAINS The Devil Put Dinosaurs Here (Virgin/EMI, 2013)
"La nostra musica è un gigantesco ed efficace atto di esorcismo nei confronti di tutto quello che non amiamo o che finirebbe per portarci nella tomba...". Fa un certo effetto rileggere questa dichiarazione estrapolata da una vecchia intervista apparsa su HM nel Marzo del 1993, alla luce di quello che successe il 5 Aprile 2002, quando Layne Staley raggiunse il fondo di quell'abisso che lo accompagnò per tutti i suoi (soli) 35 anni di vita. Qualcosa non deve aver funzionato a dovere. Gli Alice In Chains hanno nuotato in acque torbide negli anni novanta, il loro disco di maggior successo commerciale, Dirt (1992), fu la ricetta per esorcizzare tutto ciò, premiata anche dalle vendite, ma nulla potè per depurare l'acqua, che anzi via via si fece sempre più nera e inzaccherata, preferendo seguire il pericoloso percorso scavato dal loro cantante. Gli Alice In Chains di oggi, però, vivono nel presente, Jerry Cantrell continua a ribadirlo a più riprese: non amano girarsi troppo indietro e già lo hanno dimostrato con Black Gives Way To Blue, il loro buonissimo ritorno di quattro anni fa. Continuano a camminare per la loro strada, lasciando ai critici il compito di nominare il nome di Layne Staley una volta su tre in cerca di paragoni (impossibili e deleteri). C'è la voglia di sotterrare i ricordi negativi (quelli pesanti, vissuti in prima persona) ma c'è anche la difficoltà nel farlo completamente; quelli che hanno segnato profondamente le liriche rimangono a dare l'imprinting della loro musica, lasciando solamente alle canzoni il compito di parlare, un po' come se la copertina di Dirt rappresentasse il loro status odierno: un po' dentro, un po' fuori da quelle sabbie. Se in questo momento dovessi scegliere la mia band preferita tra quello che ci è rimasto delle "big four" nate a Seattle negli anni '90, non avrei dubbi nel puntare su Jerry Cantrell e soci, con i Nirvana fuori dai giochi, ma soprattutto dopo la mezza delusione della reunion dei Soundgarden concretizzatasi con l'insipido e "mestierato" King Animal, ed i Pearl Jam ancora fermi al poco ispirato Backspacer(2009), puro esercizio di routine che dura da troppo tempo, anche se un nuovo singolo "punkettone" è stato lanciato in questi giorni per dare il benvenuto al nuovo album in uscita a fine anno.
William DuVall, poi, mi sta simpatico a pelle, si sta dimostrando un cantante-e chitarrista-con una personalità propria e vincente, capace di tenersi alla larga dai possibili paragoni con l'illustre, inarrivabile, e maledetto predecessore, anche se gli spazi sembra che debba guadagnarseli con il tempo e le unghie ben affilate. E sappiamo tutti quanto il cambio del cantante in una band sia sempre faccenda delicata, costruita su complessi equilibri interpersonali. La verità è che la band di Seattle sembra molto più compatta oggi di allora (sempre con Mike Inez al basso e Sean Kinney alla batteria), complice la maturità e l'esperienza.
The Devil Put Dinosaurs Here è un disco che avanza con lentezza ipnotica fin dall'apertura Hollow, un pesante monolite, sludge fino al midollo, acido negli assoli, con le classiche armonie vocali che li hanno resi riconoscibili ed unici a caratterizzarne l'impronta, ma anche con i fantasmi del passato che fanno spesso visita come nella allucinogena circolarità di Pretty Done, nella pesantezza di Phantom Limb, nella lenta marcia Hunk On A Hook, nella sabbathiana Stone, nella teoria anti-darwiana di The Devil Put The Dinosaurs Here che dà il titolo al disco ed è sviscerata su un arpeggio sinistro e cangiante lungo i sette minuti, diventando la canzone più lunga e strutturata del disco, nella claustrofobica Breath On A Widow che ci regala un bel assolo di Cantrell.
Nei quasi settanta minuti di durata totale, invece, c'è anche il tempo per la più leggera Voices, brano a presa immediata, per l'acustica Scalpel, quasi un dark country figlio del loro vecchio lavoro acustico Jar Of Flies (1994), fino alla malinconica chiusura acustica e corale Choke con l'assolo finale che chiude un disco che gira intorno all'eccellenza e alla buona vena ispiratrice di Cantrell, illuminato da nuova luce positiva.
Sicuramente mancano: sia l'ipnotica magia (nera), che la malattia vissuta sulla propria pelle come in passato, anche solo i pezzi da ricordare come una California (presente nel precedente album), ma il disco marcia in avanti, compatto, senza mai girarsi indietro con la testa, facendosi bastare un occhiolino furtivo al già accaduto, quasi il povero cane raffigurato sulla copertina di Aliche In Chains (1995)-Tripod-, ultimo album con Staley, avesse ritrovato l'equilibrio con la ricomparsa della quarta zampa, mancante da quel lontano 1995.
vedi anche RECENSIONE: BLACK SABBATH-13 (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)
"La nostra musica è un gigantesco ed efficace atto di esorcismo nei confronti di tutto quello che non amiamo o che finirebbe per portarci nella tomba...". Fa un certo effetto rileggere questa dichiarazione estrapolata da una vecchia intervista apparsa su HM nel Marzo del 1993, alla luce di quello che successe il 5 Aprile 2002, quando Layne Staley raggiunse il fondo di quell'abisso che lo accompagnò per tutti i suoi (soli) 35 anni di vita. Qualcosa non deve aver funzionato a dovere. Gli Alice In Chains hanno nuotato in acque torbide negli anni novanta, il loro disco di maggior successo commerciale, Dirt (1992), fu la ricetta per esorcizzare tutto ciò, premiata anche dalle vendite, ma nulla potè per depurare l'acqua, che anzi via via si fece sempre più nera e inzaccherata, preferendo seguire il pericoloso percorso scavato dal loro cantante. Gli Alice In Chains di oggi, però, vivono nel presente, Jerry Cantrell continua a ribadirlo a più riprese: non amano girarsi troppo indietro e già lo hanno dimostrato con Black Gives Way To Blue, il loro buonissimo ritorno di quattro anni fa. Continuano a camminare per la loro strada, lasciando ai critici il compito di nominare il nome di Layne Staley una volta su tre in cerca di paragoni (impossibili e deleteri). C'è la voglia di sotterrare i ricordi negativi (quelli pesanti, vissuti in prima persona) ma c'è anche la difficoltà nel farlo completamente; quelli che hanno segnato profondamente le liriche rimangono a dare l'imprinting della loro musica, lasciando solamente alle canzoni il compito di parlare, un po' come se la copertina di Dirt rappresentasse il loro status odierno: un po' dentro, un po' fuori da quelle sabbie. Se in questo momento dovessi scegliere la mia band preferita tra quello che ci è rimasto delle "big four" nate a Seattle negli anni '90, non avrei dubbi nel puntare su Jerry Cantrell e soci, con i Nirvana fuori dai giochi, ma soprattutto dopo la mezza delusione della reunion dei Soundgarden concretizzatasi con l'insipido e "mestierato" King Animal, ed i Pearl Jam ancora fermi al poco ispirato Backspacer(2009), puro esercizio di routine che dura da troppo tempo, anche se un nuovo singolo "punkettone" è stato lanciato in questi giorni per dare il benvenuto al nuovo album in uscita a fine anno.
William DuVall, poi, mi sta simpatico a pelle, si sta dimostrando un cantante-e chitarrista-con una personalità propria e vincente, capace di tenersi alla larga dai possibili paragoni con l'illustre, inarrivabile, e maledetto predecessore, anche se gli spazi sembra che debba guadagnarseli con il tempo e le unghie ben affilate. E sappiamo tutti quanto il cambio del cantante in una band sia sempre faccenda delicata, costruita su complessi equilibri interpersonali. La verità è che la band di Seattle sembra molto più compatta oggi di allora (sempre con Mike Inez al basso e Sean Kinney alla batteria), complice la maturità e l'esperienza.
The Devil Put Dinosaurs Here è un disco che avanza con lentezza ipnotica fin dall'apertura Hollow, un pesante monolite, sludge fino al midollo, acido negli assoli, con le classiche armonie vocali che li hanno resi riconoscibili ed unici a caratterizzarne l'impronta, ma anche con i fantasmi del passato che fanno spesso visita come nella allucinogena circolarità di Pretty Done, nella pesantezza di Phantom Limb, nella lenta marcia Hunk On A Hook, nella sabbathiana Stone, nella teoria anti-darwiana di The Devil Put The Dinosaurs Here che dà il titolo al disco ed è sviscerata su un arpeggio sinistro e cangiante lungo i sette minuti, diventando la canzone più lunga e strutturata del disco, nella claustrofobica Breath On A Widow che ci regala un bel assolo di Cantrell.
Nei quasi settanta minuti di durata totale, invece, c'è anche il tempo per la più leggera Voices, brano a presa immediata, per l'acustica Scalpel, quasi un dark country figlio del loro vecchio lavoro acustico Jar Of Flies (1994), fino alla malinconica chiusura acustica e corale Choke con l'assolo finale che chiude un disco che gira intorno all'eccellenza e alla buona vena ispiratrice di Cantrell, illuminato da nuova luce positiva.
Sicuramente mancano: sia l'ipnotica magia (nera), che la malattia vissuta sulla propria pelle come in passato, anche solo i pezzi da ricordare come una California (presente nel precedente album), ma il disco marcia in avanti, compatto, senza mai girarsi indietro con la testa, facendosi bastare un occhiolino furtivo al già accaduto, quasi il povero cane raffigurato sulla copertina di Aliche In Chains (1995)-Tripod-, ultimo album con Staley, avesse ritrovato l'equilibrio con la ricomparsa della quarta zampa, mancante da quel lontano 1995.
vedi anche RECENSIONE: BLACK SABBATH-13 (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)
mercoledì 31 luglio 2013
RECENSIONE:QUEENS OF THE STONE AGE(...Like Clockwork)
QUEENS OF THE STONE AGE ...Like Clockwork (Matador Records, 2013)
Nati come costola imbizzarrita ed imprevedibile dei Kyuss, la chitarra di Josh Homme era riuscita a prolungare anche negli anni duemila lo spirito desertico che ha animato la breve stagione stoner della band madre. Arrivati però all'esplosione mondiale con le onde radio ancora ben elettriche che imperversavano su Songs For The Deaf (2002) (imprescindibile per valutare il rock degli anni 2.0) a cui però ho sempre preferito i primi due dischi-soprattutto R (2000) che il sottoscritto ritiene il loro punto massimo in carriera-il gruppo, concrega sempre aperta ad interventi esterni di amici e conoscenti, una sorta di continuazione per le masse delle famigerate Desert Sessions, ha iniziato una preoccupante parabola discendente segnata da un netto calo d'ispirazione, continuazione infinita e ripetizione di una formula che da Lullabies To Paralyze (2005) fino all'altro ieri sembrava mostrare la corda, quasi gli effetti del peyote iniziassero a venire meno. Paradossalmente, i palazzetti hanno iniziato ad essere sold-out (sic, ed io che li vidi insieme ad un centinaio di persone nel non lontano 1998), mentre l'ispirazione musicale mostrava il suo knock-out. Quelle particelle nervose, libere di vagabondare dentro alla loro musica, che erano così imprevedibili sono diventate immaginabili, il loro fattore X era diventato stanca routine, i robotici riff di Homme mulinavano su se stessi con poca convinzione. Persi per strada quasi tutti i componenti originali, dal primissimo batterista Alfredo Hernandez, al compagno di merende allucinogene Nick Oliveri, ora riaccolto per un breve cameo vocale insieme a Mark Lanegan nella darkeggiante in odor di New Wave If I Had A Tail -Oliveri fu personaggio basilare nel condurre il gruppo verso l'imprevedibilità musicale- fino all'ultimo batterista Joey Castillo presente su metà disco e poi cacciato per far nuovamente posto al "prezzemolino" Dave Grohl e a Jon Theodore che li seguirà in tour. I QOTSA ( Dean Fertita e Troy Van Leeuwen a chitarre e tastiere, Michael Shuman al basso) sono diventati, a tutti gli effetti, la creatura personale del rosso Josh Homme.
Ma ...Like Clockwork mostra un insperato segno di ripresa, battendo altre strade musicali-qui si ritorna almeno all'imprevedibilità, all'ispirazione-certamente più mature, melodiche, arrivando a completare la visione totalitaria sul pianeta musica, e fortemente influenzate, nelle liriche, dai problemi di depressione passati e superati del chitarrista: "se la vita non è altro che un sogno, allora svegliatemi" canta in Keep Your Eyes Peeled, sinistro brano blues che apre il disco con l'aiuto di Jake Shears (Scissor Sisters) alla voce.
Là dove una volta prevalevano l'urgenza e l'immediatezza ora c'è un certosino lavoro di costruzione, di dosaggio. Perché, accanto al trade mark di fabbrica ancora presente come dimostra il singolo "pagano" My God Is The Sun vi sono molteplici e vari episodi di campionario musicale: dalla melodia pop di I Sat By The Ocean, dove la chitarra rimane ancora riconoscibilissima seppur si svesta degli abiti sporchi e pesanti dello stoner per pochi, per indossare quelli più leggeri e candidi della festa per tanti invitati, alla finale ...Like Clockwork, ballata pianistica con aggiunta degli archi che pare un numero da cantautorato seventies westcostiano che fa il paio con The Vampyre Of Time And Memory, persa tra le malinconiche note di pianoforte e moog e la riuscitissima I Appear Missing , autobiografica e punto più alto dell'intero disco nella sua "beatlesianità", con quell'assolo quasi rubato al campionario di Tom Morello.
Kalopsia scritta da Alex Turner (Artic Monkeys) con la voce Trent Reznor (Nine Inch Nails) ondeggia tra soffice psichedelia, Ziggy Stardust sbarcato su Marte e violente esplosioni elettriche mentre Fairweather Friends vede l'ospite Elton John a piano e voce-in verità presenza superflua e poco incisiva (che peccato)- canzone che descrive bene la nuova versatilità della scrittura del "rosso", un calderone con dentro teatralità, epicità hard e pomposità glam '70, lo stesso eclettismo che ritroviamo nella bizzarra Smooth Sailing, sbilenco blues che strizza l'occhio al dance floor funkeggiante prima di infilarsi nel vortice cacofonico finale.
Diffidate da chi vi dice che è il miglior disco dei QOTSA, ma fatelo anche di chi vi racconta che Josh Homme è morto. No, ha semplicemente imboccato tante nuove, spiazzanti e impervie strade, in cerca di armonia e bilanciamento delle parti fino ad ora sconosciute ma che ...Like Clockwork sembra sublimare man mano che scorrono gli ascolti, conquistando quasi come ai vecchi tempi ma con tante esperienze di vita in più da considerare al momento del giudizio definitivo. Homme credo abbia voglia di mettere sul tavolo tutta la sua creatività e ispirazione, fino ad ora tenuta a freno da un marchio di fabbrica ormai consolidato ma diventato ingombrante. La strada imboccata dal precedente Era Vulgaris era buia e senza uscita: quasi morta.
Non ci speravo più...lasciate che l'orologio batta il suo tempo.
vedi anche RECENSIONE/REPORT live THE BLACK CROWES live @ Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013
vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)
Nati come costola imbizzarrita ed imprevedibile dei Kyuss, la chitarra di Josh Homme era riuscita a prolungare anche negli anni duemila lo spirito desertico che ha animato la breve stagione stoner della band madre. Arrivati però all'esplosione mondiale con le onde radio ancora ben elettriche che imperversavano su Songs For The Deaf (2002) (imprescindibile per valutare il rock degli anni 2.0) a cui però ho sempre preferito i primi due dischi-soprattutto R (2000) che il sottoscritto ritiene il loro punto massimo in carriera-il gruppo, concrega sempre aperta ad interventi esterni di amici e conoscenti, una sorta di continuazione per le masse delle famigerate Desert Sessions, ha iniziato una preoccupante parabola discendente segnata da un netto calo d'ispirazione, continuazione infinita e ripetizione di una formula che da Lullabies To Paralyze (2005) fino all'altro ieri sembrava mostrare la corda, quasi gli effetti del peyote iniziassero a venire meno. Paradossalmente, i palazzetti hanno iniziato ad essere sold-out (sic, ed io che li vidi insieme ad un centinaio di persone nel non lontano 1998), mentre l'ispirazione musicale mostrava il suo knock-out. Quelle particelle nervose, libere di vagabondare dentro alla loro musica, che erano così imprevedibili sono diventate immaginabili, il loro fattore X era diventato stanca routine, i robotici riff di Homme mulinavano su se stessi con poca convinzione. Persi per strada quasi tutti i componenti originali, dal primissimo batterista Alfredo Hernandez, al compagno di merende allucinogene Nick Oliveri, ora riaccolto per un breve cameo vocale insieme a Mark Lanegan nella darkeggiante in odor di New Wave If I Had A Tail -Oliveri fu personaggio basilare nel condurre il gruppo verso l'imprevedibilità musicale- fino all'ultimo batterista Joey Castillo presente su metà disco e poi cacciato per far nuovamente posto al "prezzemolino" Dave Grohl e a Jon Theodore che li seguirà in tour. I QOTSA ( Dean Fertita e Troy Van Leeuwen a chitarre e tastiere, Michael Shuman al basso) sono diventati, a tutti gli effetti, la creatura personale del rosso Josh Homme.
Ma ...Like Clockwork mostra un insperato segno di ripresa, battendo altre strade musicali-qui si ritorna almeno all'imprevedibilità, all'ispirazione-certamente più mature, melodiche, arrivando a completare la visione totalitaria sul pianeta musica, e fortemente influenzate, nelle liriche, dai problemi di depressione passati e superati del chitarrista: "se la vita non è altro che un sogno, allora svegliatemi" canta in Keep Your Eyes Peeled, sinistro brano blues che apre il disco con l'aiuto di Jake Shears (Scissor Sisters) alla voce.
Là dove una volta prevalevano l'urgenza e l'immediatezza ora c'è un certosino lavoro di costruzione, di dosaggio. Perché, accanto al trade mark di fabbrica ancora presente come dimostra il singolo "pagano" My God Is The Sun vi sono molteplici e vari episodi di campionario musicale: dalla melodia pop di I Sat By The Ocean, dove la chitarra rimane ancora riconoscibilissima seppur si svesta degli abiti sporchi e pesanti dello stoner per pochi, per indossare quelli più leggeri e candidi della festa per tanti invitati, alla finale ...Like Clockwork, ballata pianistica con aggiunta degli archi che pare un numero da cantautorato seventies westcostiano che fa il paio con The Vampyre Of Time And Memory, persa tra le malinconiche note di pianoforte e moog e la riuscitissima I Appear Missing , autobiografica e punto più alto dell'intero disco nella sua "beatlesianità", con quell'assolo quasi rubato al campionario di Tom Morello.
Kalopsia scritta da Alex Turner (Artic Monkeys) con la voce Trent Reznor (Nine Inch Nails) ondeggia tra soffice psichedelia, Ziggy Stardust sbarcato su Marte e violente esplosioni elettriche mentre Fairweather Friends vede l'ospite Elton John a piano e voce-in verità presenza superflua e poco incisiva (che peccato)- canzone che descrive bene la nuova versatilità della scrittura del "rosso", un calderone con dentro teatralità, epicità hard e pomposità glam '70, lo stesso eclettismo che ritroviamo nella bizzarra Smooth Sailing, sbilenco blues che strizza l'occhio al dance floor funkeggiante prima di infilarsi nel vortice cacofonico finale.
Diffidate da chi vi dice che è il miglior disco dei QOTSA, ma fatelo anche di chi vi racconta che Josh Homme è morto. No, ha semplicemente imboccato tante nuove, spiazzanti e impervie strade, in cerca di armonia e bilanciamento delle parti fino ad ora sconosciute ma che ...Like Clockwork sembra sublimare man mano che scorrono gli ascolti, conquistando quasi come ai vecchi tempi ma con tante esperienze di vita in più da considerare al momento del giudizio definitivo. Homme credo abbia voglia di mettere sul tavolo tutta la sua creatività e ispirazione, fino ad ora tenuta a freno da un marchio di fabbrica ormai consolidato ma diventato ingombrante. La strada imboccata dal precedente Era Vulgaris era buia e senza uscita: quasi morta.
Non ci speravo più...lasciate che l'orologio batta il suo tempo.
vedi anche RECENSIONE/REPORT live THE BLACK CROWES live @ Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013
vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)
venerdì 26 luglio 2013
RECENSIONE:THE WINERY DOGS (The Winery Dogs)
THE WINERY DOGS The Winery Dogs (Loud & Proud Records, 2013)
Supergruppo che va (Black Country Communion), supergruppo che trovi. Quando artisti dal nome importante incrociano gli strumenti tra di loro non sai mai cosa aspettarti. Carriere e background differenti non sempre riescono a confluire in qualcosa di nuovo, esplosivo e coinvolgente, cadendo spesso nel compitino poco supportato dall'ispirazione, senza contare quando ci si mette l'ego di mezzo. Allora sì sono guai, i Black Country Communion ne sanno qualcosa, vero Joe Bonamassa?
La storia del rock è piena di dischi nati quasi morti alla nascita, carichi di enormi aspettative che poche volte hanno mantenuto quel che promettevano e ancor di meno sono riusciti a superare la prova del tempo. Non sembra il caso dei The Winery Dogs che, dopo una prima incarnazione che vedeva la partecipazione di John Sykes (Thin Lizzy, Whitesnake, Blue Murder) ma subito abortita, nascono dall'idea di tre grandi nomi dell'hard/heavy rock degli ultimi venti/trenta anni, nonché tre musicisti di prima grandezza: Mike Portnoy ex batterista dei Dream Theater e di mille altri progetti di cui si è perso anche il conto, uno che senza bacchette in mano non riesce a stare e che qui sembra finalmente umano e passionale, Billy Sheehan bassista monstre di Talas, Niacin e Mr.Big, ma anche di David Lee Roth, Greg Howe e tanti altri, ehm lui veramente è in giro da più di trent'anni, e Richie Kotzen, guitar hero ma musicista in primis che dopo una veloce apparizione nei Poison e Mr.Big dove lasciò il suo segno indelebile come zorro, si è costruito una carriera di tutto rispetto tra le ragnatele del blues, del funk, del southern rock e del soul, coltivando nel migliore dei modi anche la sua vocalità che, oggi come oggi, non ha nulla da invidiare a qualsiasi cantante di mestiere, e arricchendo il tutto con un songwriting-tutte sue le liriche del disco-introspettivo ed efficace. Un talento che trova conferma in due delle migliori tracce del disco, piazzate proprio là, nel finale: The Dying, lento e notturno blues con la voce di Kotzen che si eleva nello splendido falsetto e Regret, caldo soul/gospel puntellato dalle tastiere. Un finale che si raggiunge con piacere visto che l'alchimia fra i tre funziona alla grande durante le 13 canzoni e i sessanta minuti del disco.
Di fronte a tre maestri dello strumento, il pericolo che uscisse qualcosa di estremamente pesante da digerire era dietro l'angolo, ma fortunatamente è stato scansato a favore di un classic rock agile, dinamitardo e ruspante che non si perde mai in mero esibizionismo, preferendo la forma canzone legata alla tradizione come gli umori southern alla Black Crowes di One More Time quanto moderna e melodica come i vorticosi sali e scendi dell' apertura affidata a Elevate, o i tanti caratteri cangianti di The Other Side che parte veloce, sale nello spazio con l'assolo di Kotzen e finisce come un mattone scagliato in piena faccia dall'alto cielo. Ma anche canzoni cariche di groove come We Are One dalla base ritmica forte come un cingolato da guerra e le repentine scale di Kotzen a stupire, e l'hard/funk Desire tanto vicino agli ultimi dischi solisti di Kotzen nel suono-ricordandomi anche i primi dischi degli Extreme-quanto a Glenn Hughes nella voce, con Portnoy che dimostra finalmente di aver anche un cuore caldo e pulsante che le partiture del suo vecchio gruppo in parte sacrificavano a favore della perfezione.
E poi, piace l'estrema varietà delle tracce: si passa dalla melodia pop/soul alla Hall & Oates di Damaged, la raffinatezza di You Saved Me, e I'm No Angel all'oscuro malessere in stile Alice In Chains anni '90 che introduce Time Machine forte del suo vorticoso finale (la canzone è presente nell'edizione USA al posto di Criminal,altro buon brano con Sheehan in cattedra, presente nella versione giapponese), al cadenzato macigno di Six Feet Deeper dove i tre si concedono la meritata passerella con il basso di Sheehan che pare uscire dalle casse per bussare alle mura di casa, la batteria di Portnoy pronta ad abbatterle a colpi di rullante e la chitarra di Kotzen a ricamare per la ricostruzione. Proprio il chitarrista è quello che lascia maggiori tracce di sé lungo tutto il disco che recupera, in molti punti, lo stile dei suoi lavori solisti.
Affiatamento pazzesco che supera ogni più rosea aspettativa. Un power trio con gli attributi e le canzoni; sperando che, visti i buoni risultati, non si debba presto affiancare il loro nome a quei supergruppi che se ne vanno troppo in fretta. Se il supergruppo diventasse band?
Intanto, saranno in Italia il 18 Settembre al Live Club di Trezzo d'Adda (MI). voto: 7,5
vedi anche RECENSIONE/REPORT live RICHIE KOTZEN live @ Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia (NO), 20 Marzo 2012
vedi anche RECENSIONE/REPORT live THE BLACK CROWES live @ Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
Supergruppo che va (Black Country Communion), supergruppo che trovi. Quando artisti dal nome importante incrociano gli strumenti tra di loro non sai mai cosa aspettarti. Carriere e background differenti non sempre riescono a confluire in qualcosa di nuovo, esplosivo e coinvolgente, cadendo spesso nel compitino poco supportato dall'ispirazione, senza contare quando ci si mette l'ego di mezzo. Allora sì sono guai, i Black Country Communion ne sanno qualcosa, vero Joe Bonamassa?
La storia del rock è piena di dischi nati quasi morti alla nascita, carichi di enormi aspettative che poche volte hanno mantenuto quel che promettevano e ancor di meno sono riusciti a superare la prova del tempo. Non sembra il caso dei The Winery Dogs che, dopo una prima incarnazione che vedeva la partecipazione di John Sykes (Thin Lizzy, Whitesnake, Blue Murder) ma subito abortita, nascono dall'idea di tre grandi nomi dell'hard/heavy rock degli ultimi venti/trenta anni, nonché tre musicisti di prima grandezza: Mike Portnoy ex batterista dei Dream Theater e di mille altri progetti di cui si è perso anche il conto, uno che senza bacchette in mano non riesce a stare e che qui sembra finalmente umano e passionale, Billy Sheehan bassista monstre di Talas, Niacin e Mr.Big, ma anche di David Lee Roth, Greg Howe e tanti altri, ehm lui veramente è in giro da più di trent'anni, e Richie Kotzen, guitar hero ma musicista in primis che dopo una veloce apparizione nei Poison e Mr.Big dove lasciò il suo segno indelebile come zorro, si è costruito una carriera di tutto rispetto tra le ragnatele del blues, del funk, del southern rock e del soul, coltivando nel migliore dei modi anche la sua vocalità che, oggi come oggi, non ha nulla da invidiare a qualsiasi cantante di mestiere, e arricchendo il tutto con un songwriting-tutte sue le liriche del disco-introspettivo ed efficace. Un talento che trova conferma in due delle migliori tracce del disco, piazzate proprio là, nel finale: The Dying, lento e notturno blues con la voce di Kotzen che si eleva nello splendido falsetto e Regret, caldo soul/gospel puntellato dalle tastiere. Un finale che si raggiunge con piacere visto che l'alchimia fra i tre funziona alla grande durante le 13 canzoni e i sessanta minuti del disco.
Di fronte a tre maestri dello strumento, il pericolo che uscisse qualcosa di estremamente pesante da digerire era dietro l'angolo, ma fortunatamente è stato scansato a favore di un classic rock agile, dinamitardo e ruspante che non si perde mai in mero esibizionismo, preferendo la forma canzone legata alla tradizione come gli umori southern alla Black Crowes di One More Time quanto moderna e melodica come i vorticosi sali e scendi dell' apertura affidata a Elevate, o i tanti caratteri cangianti di The Other Side che parte veloce, sale nello spazio con l'assolo di Kotzen e finisce come un mattone scagliato in piena faccia dall'alto cielo. Ma anche canzoni cariche di groove come We Are One dalla base ritmica forte come un cingolato da guerra e le repentine scale di Kotzen a stupire, e l'hard/funk Desire tanto vicino agli ultimi dischi solisti di Kotzen nel suono-ricordandomi anche i primi dischi degli Extreme-quanto a Glenn Hughes nella voce, con Portnoy che dimostra finalmente di aver anche un cuore caldo e pulsante che le partiture del suo vecchio gruppo in parte sacrificavano a favore della perfezione.
E poi, piace l'estrema varietà delle tracce: si passa dalla melodia pop/soul alla Hall & Oates di Damaged, la raffinatezza di You Saved Me, e I'm No Angel all'oscuro malessere in stile Alice In Chains anni '90 che introduce Time Machine forte del suo vorticoso finale (la canzone è presente nell'edizione USA al posto di Criminal,altro buon brano con Sheehan in cattedra, presente nella versione giapponese), al cadenzato macigno di Six Feet Deeper dove i tre si concedono la meritata passerella con il basso di Sheehan che pare uscire dalle casse per bussare alle mura di casa, la batteria di Portnoy pronta ad abbatterle a colpi di rullante e la chitarra di Kotzen a ricamare per la ricostruzione. Proprio il chitarrista è quello che lascia maggiori tracce di sé lungo tutto il disco che recupera, in molti punti, lo stile dei suoi lavori solisti.
Affiatamento pazzesco che supera ogni più rosea aspettativa. Un power trio con gli attributi e le canzoni; sperando che, visti i buoni risultati, non si debba presto affiancare il loro nome a quei supergruppi che se ne vanno troppo in fretta. Se il supergruppo diventasse band?
Intanto, saranno in Italia il 18 Settembre al Live Club di Trezzo d'Adda (MI). voto: 7,5
vedi anche RECENSIONE/REPORT live RICHIE KOTZEN live @ Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia (NO), 20 Marzo 2012
vedi anche RECENSIONE/REPORT live THE BLACK CROWES live @ Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
martedì 23 luglio 2013
RECENSIONE:GUY CLARK (My Favorite Picture Of You)
GUY CLARK My Favorite Picture Of You ( Dualtone, 2013)
Devo ammetterlo, ultimamente pochi dischi mi sono penetrati così a fondo, dopo pochi ascolti, come questo. Dentro c'è una quantità smisurata di umanità (o semplicemente vita, o amore) che riuscirebbe a cambiare la sorte di un buon pezzetto di mondo se solo chi vive beato nel lato opposto a questo sentimento avesse la fortuna di ascoltarlo. Ma so che non sarà così, per cui, noi-e mi riferisco a tutti gli amanti della buona musica-non lasciamocelo sfuggire.
Susanna Clark, la giovane donna raffigurata nella polaroid che il vecchio Guy mostra in primo piano nella copertina del suo nuovo disco, il primo dopo quattro anni di silenzio e dopo il tributo che gli hanno regalato i tanti amici (da Willie Nelson, Joe Ely, Kris Kristofferson, a Steve Earle e Hemmylou Harris) ci ha lasciati a settantatre anni il 27 Giugno del 2012, sconfitta da un male incurabile. Susanna e Guy si erano conosciuti nel 1972 e da allora non si erano più separati, lei-a sua volta cantautrice e artista/pittrice-riuscì ad ammorbidire la scorza di uomo duro che avvolgeva Clark, diventando presto la musa ispiratrice, il centro della sua vita (vissuta a Nashville), della musica, del suo mondo, delle sue storie. Ora, ad un anno dalla scomparsa, il settantunenne cantautore texano vuole dividere con tutti noi (sempre noi, quelli di prima) la foto preferita della donna che ha sempre amato, e lo fa con un disco intenso, emozionale, che guarda al passato ma che sa riflettere anche sul presente, sulla clessidra degli anni che inesorabile continua la lenta corsa.
Undici piccole perle acustiche, semplici, austere (compresa Waltzing Fool di Lyle Lovett che accarezza trainata dal mandolino) infilate in fila indiana che sanno cullare come un lento valzer ballato a notte fonda in una dance hall texana, con la voce di Clark doppiata-come in gran parte del disco- da quella femminile di Morgane Stapletone (Cornmeal Waltz), graffiare con parole che descrivono l'amore, quel sentimento sconosciuto, maltrattato, a volte odiato così ben esposto tra le grevi note di un violoncello in Hell Bent On A Heartache, avvolgere con le parole scritte per la moglie Susanna in My Favorite Picture Of You, il toccante e personale saluto che diventa pubblico, canzone che prende forma proprio da quella foto degli anni settanta che nasconde un retroscena inaspettato e curioso: quel freddo giorno, Susanna, con le braccia conserte, era incazzata nera, aveva appena trovato-per l'ennesima volta-suo marito insieme a Townes Van Zandt- il compagno di mille avventure sia di vita che musicali-erano ubriachi e addormentati, e forse il suo limite di sopportazione arrivò al livello massimo. Eppure..." C'è il fuoco nei tuoi occhi/hai il cuore che esce dalla manica/la maledizione sulle labbra/ma tutto quello che vedo è splendido". Se non è amore questo? Quello scatto rubato dice tutto, e chissà cosa avrebbero combinato i due in questi ultimi vent'anni se Van Zandt non fosse scomparso così prematuramente nel 1997.
Clark che invece è ancora qui, solo, è sempre il cantante country "fuorilegge" capace di dipingere quegli intensi quadretti di vita americana del profondo sud abitati da perdenti in viaggio tra fughe e ritorni, gli stessi che popolavano le canzoni regalate ai tanti amici artisti incontrati lungo la strada o raccolte nei suoi migliori dischi degli anni settanta: il debutto inarrivabile Old No 1(1975), Texas Cookin'(1976) ma anche The South Coast Of Texas (1981), e ce lo dimostra raccontando l'America di frontiera che conosce come le tasche, ormai disegnata indelebilmente sopra alle sue pupille di uomo del sud, l'immigrazione clandestina ai confini con il Messico con i suoi contrabbandieri di manodopera (nella ispanica El Coyote), i reduci di guerra che diventano eroi (Heroes), i paesaggi evocativi durante il vagabondaggio nella splendida Rain In Durango.
La narrazione riflessiva, ironica (Good Advice), i ricordi, il tempo che passa inesorabile portandosi via sempre qualcosa ma lasciando in dono la saggezza (The High Price Of Inspiration), la stupenda autoriflessione della finale I'll Show Me raccontata in punta di strumenti grazie alla band che lo accompagna senza calcare mai la mano: Verlon Thompson e Shawn Camp alle chitarre, e Bryn Davies al basso.
"I kinda see myself as a Young Richard Burton/Readin' Dylan Thomas to some Welsh coquette/Drinkin' whiskey in a Swansea tavern/Me and trouble are a sure fire bet".
Oppure riprendendo la sua vecchia Sis Draper (dall'album Cold Dog Soup-1999), e scrivendone un seguito in The Death Of Sis Draper, scritta ancora insieme a Shawn Camp (anche co-produttore insieme allo stesso Clark e Chris Latham) e ancora fortemente influenzata dalla musica folk celtica.
My Favorite Picture Of You è l'intima pennellata di un songwriter dal passo lento, riflessivo, meticoloso che non ha mai sperperato le sue canzoni o registrato dischi inutili, nato per restare indelebile e far scuola, anche alle nuovissime generazioni di cantautori country/folk americani. Con gli acciacchi dell'età, qualche importante battaglia vinta sulla vita e la voce che si è fatta forse più stanca e segnata (gli spettri delle American Recordings cashiane ogni tanto fanno capolino) ma ancor meglio comunicatrice se incastrata dentro a undici canzoni che ho trovato perfette e già dei piccoli capolavori nella loro semplice, profonda, sofferta comunicatività e forza confessionale.
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL- Southeastern (2013)
vedi anche RECENSIONE:TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
vedi anche RECENSIONE:THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
Devo ammetterlo, ultimamente pochi dischi mi sono penetrati così a fondo, dopo pochi ascolti, come questo. Dentro c'è una quantità smisurata di umanità (o semplicemente vita, o amore) che riuscirebbe a cambiare la sorte di un buon pezzetto di mondo se solo chi vive beato nel lato opposto a questo sentimento avesse la fortuna di ascoltarlo. Ma so che non sarà così, per cui, noi-e mi riferisco a tutti gli amanti della buona musica-non lasciamocelo sfuggire.
Susanna Clark, la giovane donna raffigurata nella polaroid che il vecchio Guy mostra in primo piano nella copertina del suo nuovo disco, il primo dopo quattro anni di silenzio e dopo il tributo che gli hanno regalato i tanti amici (da Willie Nelson, Joe Ely, Kris Kristofferson, a Steve Earle e Hemmylou Harris) ci ha lasciati a settantatre anni il 27 Giugno del 2012, sconfitta da un male incurabile. Susanna e Guy si erano conosciuti nel 1972 e da allora non si erano più separati, lei-a sua volta cantautrice e artista/pittrice-riuscì ad ammorbidire la scorza di uomo duro che avvolgeva Clark, diventando presto la musa ispiratrice, il centro della sua vita (vissuta a Nashville), della musica, del suo mondo, delle sue storie. Ora, ad un anno dalla scomparsa, il settantunenne cantautore texano vuole dividere con tutti noi (sempre noi, quelli di prima) la foto preferita della donna che ha sempre amato, e lo fa con un disco intenso, emozionale, che guarda al passato ma che sa riflettere anche sul presente, sulla clessidra degli anni che inesorabile continua la lenta corsa.
Undici piccole perle acustiche, semplici, austere (compresa Waltzing Fool di Lyle Lovett che accarezza trainata dal mandolino) infilate in fila indiana che sanno cullare come un lento valzer ballato a notte fonda in una dance hall texana, con la voce di Clark doppiata-come in gran parte del disco- da quella femminile di Morgane Stapletone (Cornmeal Waltz), graffiare con parole che descrivono l'amore, quel sentimento sconosciuto, maltrattato, a volte odiato così ben esposto tra le grevi note di un violoncello in Hell Bent On A Heartache, avvolgere con le parole scritte per la moglie Susanna in My Favorite Picture Of You, il toccante e personale saluto che diventa pubblico, canzone che prende forma proprio da quella foto degli anni settanta che nasconde un retroscena inaspettato e curioso: quel freddo giorno, Susanna, con le braccia conserte, era incazzata nera, aveva appena trovato-per l'ennesima volta-suo marito insieme a Townes Van Zandt- il compagno di mille avventure sia di vita che musicali-erano ubriachi e addormentati, e forse il suo limite di sopportazione arrivò al livello massimo. Eppure..." C'è il fuoco nei tuoi occhi/hai il cuore che esce dalla manica/la maledizione sulle labbra/ma tutto quello che vedo è splendido". Se non è amore questo? Quello scatto rubato dice tutto, e chissà cosa avrebbero combinato i due in questi ultimi vent'anni se Van Zandt non fosse scomparso così prematuramente nel 1997.
Clark che invece è ancora qui, solo, è sempre il cantante country "fuorilegge" capace di dipingere quegli intensi quadretti di vita americana del profondo sud abitati da perdenti in viaggio tra fughe e ritorni, gli stessi che popolavano le canzoni regalate ai tanti amici artisti incontrati lungo la strada o raccolte nei suoi migliori dischi degli anni settanta: il debutto inarrivabile Old No 1(1975), Texas Cookin'(1976) ma anche The South Coast Of Texas (1981), e ce lo dimostra raccontando l'America di frontiera che conosce come le tasche, ormai disegnata indelebilmente sopra alle sue pupille di uomo del sud, l'immigrazione clandestina ai confini con il Messico con i suoi contrabbandieri di manodopera (nella ispanica El Coyote), i reduci di guerra che diventano eroi (Heroes), i paesaggi evocativi durante il vagabondaggio nella splendida Rain In Durango.
La narrazione riflessiva, ironica (Good Advice), i ricordi, il tempo che passa inesorabile portandosi via sempre qualcosa ma lasciando in dono la saggezza (The High Price Of Inspiration), la stupenda autoriflessione della finale I'll Show Me raccontata in punta di strumenti grazie alla band che lo accompagna senza calcare mai la mano: Verlon Thompson e Shawn Camp alle chitarre, e Bryn Davies al basso.
"I kinda see myself as a Young Richard Burton/Readin' Dylan Thomas to some Welsh coquette/Drinkin' whiskey in a Swansea tavern/Me and trouble are a sure fire bet".
Oppure riprendendo la sua vecchia Sis Draper (dall'album Cold Dog Soup-1999), e scrivendone un seguito in The Death Of Sis Draper, scritta ancora insieme a Shawn Camp (anche co-produttore insieme allo stesso Clark e Chris Latham) e ancora fortemente influenzata dalla musica folk celtica.
My Favorite Picture Of You è l'intima pennellata di un songwriter dal passo lento, riflessivo, meticoloso che non ha mai sperperato le sue canzoni o registrato dischi inutili, nato per restare indelebile e far scuola, anche alle nuovissime generazioni di cantautori country/folk americani. Con gli acciacchi dell'età, qualche importante battaglia vinta sulla vita e la voce che si è fatta forse più stanca e segnata (gli spettri delle American Recordings cashiane ogni tanto fanno capolino) ma ancor meglio comunicatrice se incastrata dentro a undici canzoni che ho trovato perfette e già dei piccoli capolavori nella loro semplice, profonda, sofferta comunicatività e forza confessionale.
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL- Southeastern (2013)
vedi anche RECENSIONE:TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
vedi anche RECENSIONE:THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
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