mercoledì 4 luglio 2012

RECENSIONE: GLEN HANSARD (Rhythm and Repose)

GLEN HANSARD  Rhythm and Repose (ANTI records, 2012)

In principio, a tredici anni, c'era la musica di strada per le vie di Dublino (l'attività di busker continua ancora adesso che è famoso come forma di divertimento e autoanalisi), poi ci fu The Commitments, celebre film di Alan Parker, affresco illuminato di una Dublino dove i giovani cercavano nella musica il sollievo che la società non riusciva dare loro. Tra i tanti musicisti e attori non professionisti che contribuirono a rendere The Commitments un film di culto, molti si sono persi, ma tanti altri, proprio da quel 1991, hanno iniziato una nuova carriera. Tra questi ci fu il rosso Glen Hansard che nella pellicola interpretava il simpatico Outspan Foster, chitarrista della band soul protagonista del film di Parker.
Hansard che non ama parlare troppo di quel film, da allora ha continuato una carriera in crescendo: ha inciso sette dischi con il suo primo e principale gruppo rock The Frames e tre con il duo The Swell Season, insieme a Markèta Irglovà (che diventerà sua compagna) arrivando a vincere con questi ultimi nel 2008 un oscar per la miglior colonna sonora con Falling Slowly, canzone contenuta nella soundtrack del film indipendente-recentemente diventato un musical- Once che ha avuto un gran successo in America e che lo vede impegnato anche come attore protagonista insieme alla Irglovà. Poi, ancora tante soddisfazioni: come aprire i concerti  australiani di Bob Dylan-uno dei suoi idoli musicali di sempre insieme a Van Morrison-; le recenti collaborazioni con Eddie Vedder per Ukulele Songs-voce in Slepless Nights; aver conosciuto un giovanissimo Jeff Buckley che faceva il roadie per i suoi Frames.
Ora arriva il suo primo lavoro solista scritto nell'ultimo anno e mezzo a New York, città dove si è rifugiato per trovare ispirazione dopo la lontananza dalla compagna Markèta. Quello che ne è uscito è un disco dalle tinte acustiche, spoglio e solitario dove il carattere romantico dei testi è forza ma anche principale difetto se bisogna forzatamente indicarne uno. Un disco che prende le distanze dal rock dei Frames, continuando invece il lavoro fatto con i Swell Season, con una sapiente attività di sottrazione ad esaltare il carattere intimistico delle canzoni: chitarra acustica e pianoforte formano l'intelaiatura di canzoni appese al phatos come You will become, PhilanderThe Storm it's coming con i suoi archi in evidenza suonati da Nico Muhly e Rob Moose; il crescendo di  High Hope e Bird of Sorrow con la  forte vocalità dall'anima nera in primo piano (ricordate: "Gli Irlandesi sono i più negri d'Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino..."); Maybe Not tonight tra west coast e il soul tutto irlandese dell'amato Van Morrison che prevale anche nel soul orchestrale di Love don't leave me waiting; la delicatezza di What are we gonna do (con la presenza della Irglovà alla voce), e Races guidata dal banjo, vero punto centrale e tematico del lavoro; il folk finale di Song of Good Hope.  
Qualche guizzo diverso ce lo regala Talking with the Wolves sapientemente costruita su un tappeto elettronico mai invasivo-nonostante la presenza di chitarre elettriche- ma perfettamente inserito sulle trame leggere dell'intero disco. 
Prodotto da Thomas Bartlett e suonato con la partecipazione di  illustri gregari della musica americana: Brad Albetta al basso, Ray Rizzo alla batteria, da David Mansfield alla slide guitar, visto nel lontano 1975 nella Rolling Thunder Revue di Bob Dylan e session man per tantissimi altri artisti a Javier Mas chitarrista presente nella band live di Leonard Cohen fino a numerosi componenti della sezione fiati che Bruce Springsteen sta portando in giro per il mondo nel suo ultimo tour.
Rhytm and Repose è un disco d'altri tempi, dove l'uniformità romantica dei toni bassi prevale, finendo per scoperchiare e colare come glassa abbondante in un barattolo troppo piccolo e pieno. I golosi non si lamenteranno e ripuliranno il tutto. Ai diabetici, malati di chitarre, rimando ai suoi dischi con i Frames. Questo è un disco intenso, fortemente influenzato dalla solitaria situazione di un uomo messo di fronte alla realtà dei sentimenti. Hansard si espone denudandosi con esplicita sincerità ed intimità. Glen Hansard presenterà il nuovo album il 18 Luglio 2012 al Botanique Festival di Bologna, durante la sua unica data italiana.













martedì 3 luglio 2012

RECENSIONE: BLACK MOUNTAIN ( Year Zero-The Original Soundtrack)

BLACK MOUNTAIN  Year Zero-The Original Soundtrack  ( Jagjaguwar , 2012)

Tuffo in mare per i canadesi Black Mountain. Dalle accecanti visioni delle rosse terre desertiche alle alte onde dell'oceano.
Year Zero è un film di nicchia diretto da Joe G.che racconta le gesta di un manipolo di sopravvissuti ad una sorta di disastro apocalittico. Rifugiatosi in un isola delle meraviglie incastrata in mezzo ai detriti rimasti di quello che fu il mondo prima della catastrofe, il surf diventa lo sport che li riporta ad un contatto primordiale con la natura, dove la libertà diventa la parola d'ordine numero uno. Girato per il mondo con una telecamera con pellicola Super 16 mm, promette scene di altissimo spettacolo sportivo, riprese splendide e vivide, e l' interpretazionne da parte di alcuni dei migliori campioni di questo sport ( i fratelli Damien e C.J. Hobgood, Dion Agius, Nate Taylor...), incontrando subito l'approvazione della comunità dei surfisti.
Ai Black Mountain è stata affidata la colonna sonora. Il gruppo che sta godendo un momento di grande successo, confermato dall'ultimo Wilderness Heart(2010), ha pensato di raccogliere quattro vecchie canzoni già apparse sui precedenti tre dischi ed affiancare loro cinque nuove composizioni, scritte appositamente per la pellicola. Nulla di assolutamente nuovo, quindi, ma qualche interessante novità colora le nuove canzoni, indicando nuove possibili strade, confermando quanto la musica dei canadesi guidati da Stephen McBean, sia assolutamente aperta e senza confini. La natura del film aiuta e sposa la fervida fantasia del gruppo di Vancouver.
Gli scenari della pellicola, che alla fine cercano di porre lo sguardo e l'attenzione su temi ambientalistici, sono manna dal cielo per lo psych/rock dei Black Mountain che ci si tuffano-è il caso di dirlo- senza indugi. Ne escono 50 minuti di viaggio per mente e corpo che, per chi conosce già il gruppo, non costituiranno una grande novità.
La lunga ed ipnotica Bright Lights, qui accorciata di qualche minuto, contenuta in The Future(2008) , insieme ai cambi umorali della bella Tyrants, in bilico tra acustiche e stordenti parti di quiete ed esplosioni elettriche hard; Wilderness Heart, title track del loro ultimo album, pesante cavalcata in odor di Sabbath, puntellata dall'hammond e guidata dalla voce di  Amber Webber; e le improvvisazioni free in stile Frank Zappa/Captain  Beefheart di Modern Music, con il sax che impazza, provenienti dal primo album del gruppo, rappresentano il lato già conosciuto della colonna sonora.
Se il nuovo ed inedito singolo Mary Lou e la conclusiva e distorta Breathe sono la conferma di quanto fatto fino ad ora, le altre tre nuove composizioni  si immergono dentro alla silenziosità ovattata delle onde che travolgono: la liquidità dell'iniziale ed inquieta Phosphorescent Waves, avvolta dentro a fluide trame guidate dai Synth e Moog che riportano al kraut rock con la splendida prova vocale di Amber Webber che, invece, nella corta Embrace Euphoria-pura canzone di collegamento che troverà certamente il suo habitat naturale nella pellicola-, si fa recitativa, così come in Sequence, vera sorpresa del disco che viaggia alla riscoperta delle prime note elettroniche provenienti dai '70, immergendosi in visioni atmosferiche ed ambientali.
Sicuramente si poteva fare qualcosa in più per giustificare l'acquisto di un disco che presenta quattro canzoni già edite e conosciute. Questa rimane, comunque, una colonna sonora e come tale va presa e digerita. Rimane, invece, la concreta affermazione di un gruppo che pescando dal passato ha creato un proprio suono, sempre in movimento, personale ed imprevedibile.
Le tracce inedite creano gran contrasto con le vecchie composizioni, innescando curiosità su quanto potranno influire sulle prossime mosse del gruppo.







venerdì 29 giugno 2012

retroRECENSIONE: TOM PETTY & the HEARTBREAKERS ( The Live Anthology )

TOM PETTY & the HEARTBREAKERS  The Live Anthology ( Reprise Records, 2009)
da Debaser.it -24 Novembre 2009

Venerdì 29 Giugno 2012 a Lucca, il concerto più atteso dell'anno: Tom Petty and the Heartbreakers. Ripasso con il box live uscito tre anni fa.

Succede spesso che dietro a dei grandi artisti si nascondano delle grandi band. Solo restando in America non si può non citare The Band di Bob Dylan, i Crazy Horse di Neil Young o la E-Street Band di Springsteen. Band che spesso avrebbero meritato due parole in più, scindendo il loro valore a quello dei singoli artisti a cui fanno da accompagnamento, anche se a volte è difficile pensare l'uno senza l'altro. Forse proprio alla E-Street Band si può paragonare il cammino degli Heartbreakers di Tom Petty e proprio al live 1975-1985 di Springsteen si può associare questo The live Anthology di Tom Petty, soprattutto nella forma in cui è stato pensato e creato.

In sede live esce allo scoperto il valore di questa band, sicuramente una delle migliori macchine da rock'n'roll che gli States abbiano mai proposto. Tom Petty, stavolta, fa le cose in grande: a distanza di 24 anni dall'ultimo live degno di nota della sua carriera, "Pack up the plantation-Live!"(1985) fa uscire un box di 4 cd contenente 48 canzoni, tra cui alcune interessanti cover mai uscite prima.
Il metodo di raccolta e di assemblaggio del lavoro non ricalca nessun particolare ordine cronologico o temporale di tour, ma mischia sapientemente le canzoni, vecchie, nuove e covers. Canzoni scelte direttamente da Petty e dal fido amico e chitarrista Mike Campbell e confezionate all'interno di un box cartonato dalla grafica vintage affascinante creato da Shepard Fairey. Scorrendo il libretto incluso, non faraonico ma essenziale (qualche foto in più l'avrei messa) si può notare anche quanto gli Heartbreakers abbiano apportato pochissimi cambiamenti nella line up dal 1980, anno da cui vengono prese le canzoni più vecchie, al 2007. Le uniche degne di nota: il cambiamento del batterista storico Stan Lynch sostituito da Steve Ferrone e il cambiamento del bassista, avvenuto nel 1982, quando Howie Epstein sostituì Ron Blair. Ma si sa, il sodalizio di Petty con alcuni di questi musicisti va ricercato addirittura nella storica formazione dei Mudcrutch, che solamente due anni fa fece uscire l'album che sarebbe dovuto uscire nei lontani primi anni settanta.
Accanto ai più grandi successi di Petty, "Refugee", "American Girl", "Even the losers", "Learning to fly", "Mary Jane's last dance", tanto per citare qualche titolo, compaiono delle chicche che faranno dei vostri soldi, un buon investimento in buona musica, sottolineando anche il buon prezzo del tutto.Capita così di trovarsi di fronte ad una "Friend of the devil" dei Grateful Dead, registrata al Fillmore di San Francisco nel 1997 o ad una recente riproposizione di "Mystic Eyes" di Van Morrison del 2006, alla sempre divertente "Green onions" di Booker T, o ad una "Good good lovin'" di James Browne, ad "Oh Well" dei Fleetwood Mac targati Peter Green e tante altre ancora che, con sorpresa, usciranno fuori dalle vostre casse.
Un lavoro esauriente che certamente rende giustizia ad un autore e ad una band che in sede live hanno costruito la loro storia. Come dimenticare quando il signor Dylan li scelse per accompagnarlo in alcuni tour di metà anni ottanta. Come scrive Petty nell'introduzione all'opera, questo vuole anche essere un lavoro di memoria, per ricordare i bei tempi, i luoghi e le persone incontrate nei diversi anni di tour.
Per noi ascoltatori rimangono una cinquantina di canzoni da ascoltare ricordando un rocker che da anni lavora per entrare nella ristretta cerchia dei migliori autori americani degli ultimi 30 anni. Sicuramente un'operazione del genere sarà preludio, lo spero, per una nuova rinascita artistica di Petty e forse per portare live in tutto il mondo il suo repertorio, sperando tocchi finalmente anche l'Italia. Ultima annotazione per chi ha più soldi da spendere: a breve usciranno altre versione di questo box con cd, dvd e gadgets aggiuntivi ma credo proprio che il prezzo non sarà più tanto popolare... da avere assolutamente!!
pubblicata in origine su Debaser.it 24 Novembre 2009



mercoledì 27 giugno 2012

RECENSIONE: CORY CHISEL and the WANDERING SONS ( Old Believers )

CORY CHISEL and the WANDERING SONS  Old Believers ( ReadyMade Records , 2012)

Cory Chisel ha il tocco antico del vecchio cantautore artigiano. Di chi sente la necessità di comunicare attraverso le liriche delle sue canzoni, di trasmettere sensazioni, di dare speranza senza alzare troppo la voce e i volumi, ma giocando dentro le proiezioni delle ombre, ora scure ora più chiare, di una vita che sa dare e prendere, a volte avvisandoti, molte no.
Old Believers è un titolo che può rivelare tanto, così come la sua infanzia trascorsa al capezzale di un padre predicatore, una madre che suonava l'organo ed il pianoforte ed uno zio musicista che lo ha introdotto al blues. I passi successivi sono venuti di conseguenza.
"Non è stata dura saltare da John Lee Hooker a Joe Strummer, il passo successivo era Bob Dylan"
Lui e sua sorella non potevano che crescere con sani principi spirituali e cantando. Detta così potrebbe essere l'infanzia vissuta nell'immediato dopoguerra in qualche sperduto villaggio rurale di quell'America povera e contadina che ci piace ancora sognare. Invece Cory Chisel, sì è cresciuto tra le miniere di Babbitt nel Minnesota e le pianure rurali di Appleton  nel Wisconsin, ma di anni ne ha solo trenta, è nato negli anni ottanta quando i suoi idoli musicali avevano (quasi) tutti dato il loro meglio.
Questo è il secondo disco che esce a nome Cory Chisel and the Wandering, dopo il precedente  Death won't sent a Letter del 2009 che aveva colpito la critica. Ad oggi dietro a quel "...and the Wandering Sons" si nasconde la sola Adriel Denae che divide con Cory le parti vocali e suona le percussioni; a lei l'apertura del disco nella corta, spoglia e minimale This is How it Goes, il duetto in Seventeen e il compito di doppiarne la voce nelle restanti canzoni.
Prima era un gruppo vero e proprio, The Wandering Sons, con all'attivo già un paio di dischi e alcuni Ep.
La forte spiritualità e saggezza delle liriche, fortemente influenzate dal suo idolo Johnny Cash,-"Sono cresciuto senza sapere se Johnny Cash era un cantautore, uno dei miei nonni o un attore. A me lui appariva tutte queste cose insieme"- hanno trovato nell'incontro con Brendan Benson (anche nei The Racounteurs di Jack White), oltre che un grande amico, un musicista/produttore in grado di far risaltare la sua musica.
Come se non bastasse recentemente ha avuto modo di collaborare e scrivere una canzone con Rosanne Cash. Un po' il cerchio che si chiude.
Registrato in sole due settimane al Welcome 1979 di Nashville, con un manipolo nutrito di musicisti tra cui spiccano i due ex Cardinals di Ryan Adams (Brad Pemberton alla batteria, Jon Graboff alla chitarra e pedal steel), Brady Surface al basso, Ian Craft al banjo, violino, dobro e mandolino.
Con l'età  reale di un trentenne e la saggezza apparente di un anziano che sembra voltarsi indietro e rivedere i momenti in bianco e nero di una vita passata: dal rock/soul di Please Tell Me e I've Been Accused guidata dall'organo di Andrew Higley; i momenti di assoluta bellezza di Foxgloves, profonda e malinconica nel suo crescendo; il violino che invita al ballo sommesso e meditativo in Time Won't Change, dalle parti di The Lonesome Jubilee di Mellencamp; il folk/blues acustico con armonica e banjo di Over Jordan; la raffinatezza della conclusiva Wood Drake cantata con voce e trasporto soul.
Musicalmente, sa citare i grandi come Bob Dylan nel country/folk di Never Meant to Love You, Van Morrison in Old Love e Graham Nash nell'incedere di quel pianoforte che batte note di romanticismo in Laura e nostalgia in Seventeen.
Cory Chisel si denuda e trova nella musica i quadri dove poter imprimere le sue leggere pennellate folk, intrise di soul/gospel, blues e country.
A Chisel non piace troppo apparire, per questo il suo Old Believers potrebbe passare inosservato. Sarebbe un gran delitto, visto il background profondo e sincero di un artista che non vuole rivoluzioni ma solamente portare avanti tradizioni nel totale rispetto e riverenza verso i grandi e di chi ha voglia di scoprirlo.












lunedì 25 giugno 2012

COVER ART#4: NEIL YOUNG (ON THE BEACH, 1974)


artista: NEIL YOUNG
album: ON THE BEACH
anno: 1974
direzione artistica e disegno: GARY BURDEN
fotografia: BOB SEIDEMANN
canzoni da ricordare: Walk On, Revolution Blues,On the beach,Ambulance blues

E' stato, è e rimarrà uno dei suoi capolavori indiscussi, spesso superato in popolarità da titoli più noti, On the Beach è uno sguardo contemplativo di scuro disagio verso il mondo circostante. Il biennio 1974/75 fu per Neil Young un periodo di profonda sofferenza e crisi esistenziale che vide il suo sfogo/prolungamento nei due dischi On the beach appunto e Tonight's the night (scritto prima di On the beach ma uscito un anno dopo, nel 1975).
In copertina Young è visibile in lontananza, ritratto di spalle, scalzo con le grosse scarpe di fianco ed uno sdraio aperto lì vicino, mentre il suo sguardo è fisso su un orizzonte che si perde lontano nel mare. Un'onda sta per arrivare, cosa porterà? Cosa si prenderà ancora? Un segnale forte e chiaro della volontà di volersi lasciare alle spalle un periodo che lo aveva visto a diretto contatto con la morte e la perdita di cari amici come Bruce Berry ( roadie di CSN&Y trovato morto per overdose nell'appartamento dello stesso Young) e Danny Whitten (chitarrista dei Crazy Horse cacciato dallo stesso Young per i suoi problemi di droga), la nascita di un figlio, Zeke, con forti problemi di salute e un quadro generale della società americana non esaltante che faceva seguito alla grande utopia di fine anni sessanta.
C'è tutto il necessario per far sprofondare un uomo nella depressione.
Young si lascia alle spalle un ombrellone aperto su una spiaggia (Santa Monica Beach, California) dove il sole sembra essere scomparso già da qualche ora- sembra tiri anche il vento- un attaccapanni vuoto, un tavolino desolatamente imbandito con una lattina di birra Coors ed un bicchiere (di plastica?), un giornale che il vento ha fatto cadere (con il titolo " Senator Buckley calls for Nixon to Resign" riferito al Watergate che sconvolse gli Stati Uniti e il suo presidente Richard Nixon) ed un pezzo del retro di una Cadillac per metà sotterrato. Significativo il particolare del giornale, visto lo strano feeling tra Young ed il presidente Nixon, citato spesso nelle sue canzoni, da Ohio a Campaigner's fino alla splendida Ambulance Blues che chiude questo disco.
Un quadretto pensato dallo stesso Young insieme al fido artista Gary Burden e creato dal fotografo Bob Seidemann che nel suo intero, dominato dal colore giallo, da un senso di velata malinconia e desolazione, raccontando, ancor prima di far girare il disco, gli umori delle canzoni. Un voler cercare in lontananza quello che la presente realtà sembra affossare e forse proprio quel pezzo di Cadillac che ancora si scorge è un simbolico segno che non tutto è perduto. "Una delle mie copertine preferite è quella di On The Beach" racconta Neil Young nell' autobiografia Il Sogno Di Un Hippie "Ovviamente era il titolo di un film che ho rubato per l'album , ma che importa. L'idea per la copertina fu un fulmine a ciel sereno. Gary ed io andammo insieme a cercare i pezzi da mettere insieme. Andammo a un deposito rottami di Santa Ana per recuperare la deriva di coda e il parafango di una Cadillac del 1959 con tanto di luci posteriori. Restammo a guardare mentre li tagliavano da una Cadillac per darli a noi; poi andammo da un fornitore di arredi da esterno dove prendemmo l'ombrellone e il tavolino. In un pessimo negozio di abbigliamento per uomini trovammo la brutta giaccia di poliestere gialla  e i pantaloni bianchi..."
I caratteri grafici sono di Rick Griffin, il grafico più ricercato della San Francisco psichedelica degli anni sessanta e autore di tante copertine dei Grateful Dead. 
Nella busta interna, come una lettera persa dal vento in spiaggia, le note introduttive all'album, scritte dal musicista country Rusty Kershaw (sua la slide su Motion Pictures(For Carrie) ed il violino in Ambulance Blues) che si interroga sul perchè fu scelto per scrivere queste righe, ma che ci racconta anche di un Neil Young dall'umore a terra e la forte volontà di provare a cambiargli il morale con la  musica. Poi, alcune frasi criptiche e poco comprensibili, infine tesse le lodi all'album e vicino alla firma scrive:"perchè Ben (Keith) è mio amico". Rusty Kershaw, personaggio bizzarro, ebbe un grande peso sulla realizzazzione del disco e  riuscì a tenere alto il morale , oltre che con la musica, introducendo il largo uso di Marijuana (ormai leggendarie le sue "Honey slides"-frittelle di marijuana e miele).
Il retro, dove compare il nome dell'artista, in alto a sinistra, è il prolungamento verso sinistra della foto: il pezzo di spiaggia è libero e sgombro di oggetti, campeggia solamente un vaso in legno con una triste e giovane palma dal lungo e sottile tronco, sormontato da quattro corti rametti con foglie. Ora tutto è più chiaro: Neil Young è solo, unica presenza (umana) vivente in quella spiaggia.
Curiosa la versione alternativa della copertina, che divenne successivamente un poster pubblicitario. Questa volta Young è in primo piano, scalzo e sorridente.Il giornale è sopra il tavolo e Neil Young in mano tiene la copia di un altro quotidiano. Uno visione che avrebbe completamente rovesciato gli umori dello scatto originale, concentrando tutti gli sguardi sull'artista sorridente in primo piano, distogliendoli da tutto il resto. 
Young uscirà fuori da questo periodo scuro ma prima ci lascerà questi due dischi ( On the Beach e Tonight's the Night) "diversi" ma favolosi a testimonianza di uno dei periodi più neri della sua vita personale, inversamente proporzionale a quella artistica, mai stata così fervida ed ispirata.
E' uno dei dischi preferiti dallo stesso cantautore che ne ha sempre tessuto le lodi, scegliendo di non pubblicarlo su compact disc per molti anni, proprio per preservarne l'autenticità data dai solchi del vinile. E forse, questo lo aggiungo io, per preservare la bellezza di una copertina che il formato12x12 cm. di un cd sacrifica troppo.




giovedì 21 giugno 2012

RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD ( Big Moon Ritual )

CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD  Big Moon Ritual ( Silver Arrow, 2012)

"Mi accamperò all'aperto...e libererò la mia anima" così cantava Joni Mitchell nel 1969 in Woodstock. Poche parole capaci di descrivere ed evocare immagini ben precise senza aggiungere nulla di superfluo. Chris Robinson nell'anno del festival musicale che segnò una generazione e tutte quelle a venire, aveva solo due anni ma non è difficile immaginarselo sopra a quel palco, a piedi scalzi, con la lunga barba, gli occhi chiusi e le mani al cielo mentre canta d'amore e libera la sua anima, scuotendo il pubblico a fare ugualmente. Più che con i suoi Black Crowes, però, riesco ad immaginarlo con la sua nuova creatura Chris Robinson Brotherhood, nata nel 2011 ancor prima di mettere i Black Crowes in standby, con già alcuni tour sul groppone ma solamente ora pronta per l'importante uscita discografica che sarà bissata molto presto (a Settembre dovrebbe già uscire il secondo capitolo).
Big Moon Ritual si scosta completamente dagli ultimi episodi roots/country della band madre splendidamente ripresi nell'ultimo ispiratissimo Before the frost...Until the Freeze e nella originale raccolta acustica Croweology, avvicinandosi maggiormente-non musicalmente-al mood aperto, live, free e psichedelico di un disco come Amorica (1994), smussandone gli angoli più spigolosi e black, il più difficile da digerire ma che forse fotografava più di tutti l'immaginario musicale che fece crescere i due fratelli Robinson, mostrando su disco la crescita di una band che partì con il successo di Hard to Handle di Otis Redding, dovette dividere il palco e giocare per qualche tempo con Metallica, Pantera e compagnia heavy (per chi ricorda il Monsters of rock 1991), per poi compiere il volo sopra alla musica americana diventando la più completa ed importante band rock uscita dagli anni novanta.
Big Moon Ritual è un flusso dilatato di sessanta minuti, diviso in sette canzoni ma che potrebbe benissimo essere un ciclo continuo, senza interruzioni o titoli. Chris Robinson libera la sua parte vocale più soul, quella meno esasperata senza l'ausilio delle chitarre spara riff del fratello Rich ma supportato da un Neal Casal mai così libero ed ispirato nel volare sopra alle canzoni. Chitarre fluide, leggere, rilassate, incontenibili che insieme alle tastiere e al moog di Adam MacDougall (tastierista degli ultimi Black Crowes) sono grandi protagoniste e giocano ad incastrarsi fin dai dodici minuti dell'apertura Tulsa Yesterday, fino ad arrivare alla finale e bucolica One Hundred Days Of Rain.
Lunghe jam session, nate per essere suonate live. Aperte distese lungo i campi assolati della Florida o le strade di una San Francisco anni settanta, dove puoi incontrare gli Allman Brothers e i Grateful Dead della svolta dolce e country  in Rosalee, le tastiere prog/space e i momenti jazzati di Tomorrow Blues, i cori soul di Reflections On A Broken Mirror, la dolcezza di Beware, Oh Take Care, forse più di tutte, specchio di questa svolta romantica di Chris Robinson, votata ad un volume che non viene mai alzato a sproposito.
La fame di musica di Chris Robinson trova, dopo la prima pausa dei Black Crowes nel 2002 sostituita dal piglio cantautorale di New Earth Mud (2003), una seconda via condotta nuovamente lontano dal grande business discografico, ma lavorando di squadra -e di psichedelia- (completano la formazione il bassista Adam Dutton, e il batterista George Sluppick).
Musica per chi ha voglia di chiudere gli occhi e farsi cullare per la durata di un giro di orologio. Un piccolo sogno datato 2012. Come per i Black Crowes, il disco registrato ai Sunset Sound di Los Angeles sotto la produzione di Thom Monaham, esce per la sua etichetta personale Silver Arrow, il che accentua maggiormente il carattere ruspante e vero di un personaggio nato troppo tardi per alzare le mani sul cielo di Woodstock ma che con il suo talento libero ed incontaminato continua a fare tanto comodo al mondo musicale di oggi.







 

lunedì 18 giugno 2012

RECENSIONE: GRACE POTTER & THE NOCTURNALS (The Lion The Beast The Beat)

GRACE POTTER & THE NOCTURNALS  The Lion The Beast The Beat  ( Hollywood Records, 2012)

Il precedente disco omonimo aveva dato poche risposte su dove la bella e brava Grace Potter con i suoi Nocturnals volessero andare a parare con la loro musica. Tante influenze che convergevano sullla indiscutibile dote vocale e carismatica della bionda e sexy cantante. Nonostante tutto, senza che questo si trasformasse in merito o demerito, riuscì a catalizzare l'attenzione e conquistare nuovi fans, soprattutto in sede live dove la vera essenza da jam band del gruppo emerge in maniera più limpida e veritiera.
The Lion The Beast The Beat, quarto disco della band, sembra voler continuare sulla scia del precedente, mischiando se possibile ancor  più le carte, dando però una piccola sentenza: il suono dei Nocturnals abbandona (momentaneamente?) i vigori più roots/rock/blues, dando il benvenuto a velate influenze new vawe eighties che però non sempre riescono essere ficcanti ed efficaci, largo uso di orchestrazioni e ad incursioni soul sixties che invece convincono maggiormente; avvicinandosi globalmente a territori più pop che rock (strada già tentata in This Is Nowhere del 2007). Una band che ha voglia di sperimentare, divertendosi o di affermarsi commercialmente? Eterno dilemma che rimando nuovamente alla prossima mossa, perchè nonostante tutto il disco diverte.
Un disco dalla gestazione difficile. Le registrazioni, avvenute prevalentemente live in studio, hanno subito una lunga pausa dovuta ad una crisi che ha colpito la bionda cantante non soddisfatta del lavoro fin lì svolto. La soluzione fu un viaggio in solitaria in macchina, direzione nord States, percorrendo tutte quelle strade che sembrano portare verso il nulla ma sicuramente verso qualche nuova ispirazione.
"Ho scritto quattro nuove canzoni in Vermont (suo paese natale). Poi ho viaggiato di nuovo per un posto tranquillo in riva all'oceano, rintanata in una stanza d'albergo e finito alcune canzoni che avevo scritto più di un anno prima che avevano solo bisogno di una seconda possibilità". Un viaggio dell'anima che servì.
La band che nel frattempo ha perso per strada la bassista Chaterine Popper sostituita da Nico Abondolo, oltre alla polistrumentista Grace, si avvale del preziosissimo lavoro chitarristico di Scott Tournet e Benny Yurco, più Matt Burr alla batteria. Il disco è stato affidato alle sapienti mani del produttore Jim Scott (Revelator  di Tedeschi Trucks Band,Wilco e Tom petty tra i suoi lavori) e del "nuovo prezzemolo" Dan Auerbach dei Black Keys, co-autore e produttore in tre canzoni.
"Ho trovato il cuore del leone nel ventre della bestia e tenendolo in mano sentivo il battito". Si apre così l'album che ha una sua linea guida/testuale ben specifica.
"Gioca sulla dualità della natura umana. Il fatto che tutti noi abbiamo i nostri demoni e tutti abbiamo la capacità di essere buoni". Un'apertura elettro, tribale e tambureggiante, quella della title track, che si trasforma in una vigorosa rock song, con crescendo dettato da una nutrita sezione di violini così come Turntable, tra synth e echoplex, che gioca sapientemente sulle metafore sessuali. Tra i pochi momenti rock ed energici del disco.
Il singolo Never Go Back con la batteria Casio suonata da Auerbach, la danzereccia commistione tra soul e funk di Loneliest Soul e Runaway scritte insieme a Dan Auerbach riflettono le ultime influenze che animano tutti i lavori a cui ha messo mano ultimamente, dai suoi Black Keys al grande ritorno di Dr. John. Una mano che si fa sentire ma che rischia di uniformare ogni cosa che tocca.
Un disco che viaggia essenzialmente sui ritmi dell'anima, lasciando fuori gli impulsi rock. Troviamo così i sapori da West Coast californiana di Parachute Heart; la ballad soul Timekeeper; il ritmato pop/funk di Keepsake; la chitarra (finalmente) che si mischia alla sezione archi che guida One Heart Missing; la bella ballata per piano e chitarra acustica di Stars, dove la voce di Grace Potter ha possibilità di mettersi in grande evidenza.
Poi ti ritrovi l'avanzare teso, rock e zeppeliniano della conclusiva The divide (la miglior track del disco) e torni immediatamente alla domanda che l'ascolto di un disco di Grace Potter & The Nocturnals  mi porta sempre a fare: che strada vuole percorrere la bella Grace Potter, così distante da quella del suo debutto che aveva illuso chi vedeva in lei una nuova songwriter country/folk? Ora che la tavolozza è piena di tutti i colori, qualcosa in futuro si materializzerà più chiaramente.
Nella deluxe edition, c'è posto per altre quattro canzoni: Roulette, All Over You, la rilettura di Stars con l'ospitata del cantante country Kenny Chesney e soprattutto la countryeggiante Ragged Company con il buon vecchio Willie Nelson (fresco di uscita con il suo Heroes) alla voce e chitarra.






vedi anche RECENSIONE: GASLIGHT ANTHEM-Handwritten(2012)






venerdì 15 giugno 2012

RECENSIONE: XAVIER RUDD ( Spirit Bird )

XAVIER RUDD  Spirit Bird ( Side One Dummy, 2012)  )

Xavier Rudd vide il suo primo concerto a dieci anni d'età. Fu Paul Simon durante il tour del meraviglioso Graceland. Rimase folgorato. Non vi è dubbio che il piccolo cantautore di New York fu più che un faro guida per l'inizio della sua carriera. L'australiano ha però avuto un grande vantaggio/fortuna: quello di vivere la musica etnica e la natura incontaminata da un posto privilegiato rispetto a chi è costretto ad andare a cercare il tutto fuori da casa propria ( agli americani Jack Johnson e Ben Harper -grandi amici e appasionati di surf come lui- a cui spesso è associato, manca questo retroterra sociale/culturale). Cresciuto tra la sabbia delle spiaggie del Torquay (angolo suggestivo per tutti i surfisti), ma anche tra gli alberi delle foreste e a strettissimo contattto con le popolazione aborigene d'Australia di cui è estremo difensore (lui nato da padre aborigeno e mamma europea) che ne hanno segnato fortemente la scrittura, sviluppando oltre ad un fortissimo legame con la natura (salutista e vegetariano), anche un grande amore per i tantissimi ed inusuali strumenti tradizionali. Bellissimo vederlo all'opera da solo durante i suoi live-set circondato e sovrastato dagli strumenti.(Sarà in Italia a Luglio 2012, il 20 a Milano-RECENSIONE CARROPONTE-, 21 a Roma).
Spirit Bird è il settimo disco ed esce a due anni di distanza da Koonyum Sun. Se il precedente era un disco di "squadra" insieme alla spaventosa sezione ritmica sud africana degli Izintaba, questo esplora l'anima più intimistica, profonda del cantautore australiano che sembra prevalere in gran parte delle canzoni: Comfortable in My Skin (dove accenna all'intervento subito alla schiena e alla ritrovata normalità), Follow the Sun, Paper Thin, Mystery Angel e la finale Creating a Dream(con lo splendido falsetto) sono folk-song acustiche, spesso guidate dall'armonica, dalla chitarra e poco altro. Un passo verso il folk americano che mantiene però le gambe in terra australiana, grazie al largo uso di cori aborigeni e a tutti quei rumori e suoni di natura presenti lungo tutta la durata del disco, in particolar modo il canto degli uccelli.
Intorno ai dieci intensi minuti di Full Circle con i suoi numerosi cambi di ritmo e vasto campionario del range musicale di Rudd, ruotano il bel blues elettrico di Bow Down, il crescendo della title track Spirit Bird (con l'attacco ai governi, ladri di "sangue e terra"), la percussiva tribalità di Butterfly e tre momenti quasi esclusivamente strumentali ( Lioness Eye, Culture Bleeding e 3 Roads) in cui Xavier Rudd, sapientemente riesce ad unire suoni moderni con il suono del suo amato Yidakis (didgeridoos), cori della tradizione aborigena fino ad arrivare alla trascinante coda di 3 Roads, una sorta di trance da techno-rave aborigeno.
Cuore sempre aperto ( "Imagine if the heart could shed its skin" canta in Creating a Dream), verso la natura, i suoi abitanti meno fortunati, le tradizioni. Tutte cose innate in lui e non acquisite o ricercate. Xavier Rudd vive in simbiosi totale con il ciclo della natura e cerca di trasportare tutto nella sua musica.
La più semplice e fresca brezza di questa estate. Se proprio non potete calpestare le spiaggie di Torquay e cavalcare le onde dell'oceano indiano, questo disco, come tutti i precedenti, vi daranno una mano a sognare (e meditare).
vedi anche RECENSIONE/REPORTAGE live: XAVIER RUDD, Carroponte, Sesto San Giovanni(MI)20 Luglio 2012







giovedì 14 giugno 2012

RECENSIONE: CORY BRANAN ( Mutt )

CORY BRANAN  Mutt (Bloodshot Records, 2012)

Cory Branan è quasi coetano di Ryan Adams (uno classe 1975, l'altro 1974), tutti e due uscirono allo scoperto da solisti all'inizio del nuovo millennio, promettendo una ventata di aria fresca nel mondo cantautorale americano. Il suo debutto The Hell You Say uscì nel 2002 e sorprese non poco la critica, facendo incetta di riconoscimenti. A differenza di Adams però, la sua carriera si allarga ad un solo altro disco: 12 Songs  del 2006. Mentre Adams in questi anni ha continuato a far uscire dischi in modo compulsivo, con bassi e stupendi alti-tra cui l'ultimo Ashes & Fire-, Cory nativo della terra del Misssissippi, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine, fa il suo ritorno a ben sei anni dal precedente lavoro. In questo lasso di tempo si è fatto crescere barba e capelli ("I was fucked up as my haircut" canta in Freefall), si è trasferito da Memphis a Nashville, ma ha mantenuto inalterato il carattere della sua scrittura: disincantata e cinica lettura della vita con in primo piano i sentimenti compresi cuori spezzati, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero lo citarono in una loro vecchia canzone Tears don't Matter much contenuta in That Much Further West(2003). Cory, oggi, di rimando per non essere da meno, cita-anche musicalmente- Mellencamp in Yesterday(circa Summer 80 Somethin).
In Mutt sono raccolte tutte le sue innumerevoli influenze che convergono comunque in uno stile personale che sa guardare in tutte le direzioni del rock americano. Dall'iniziale folk esistenziale di Corner (bissata da Lily) in solitudine con la sola chitarra acustica e la voce doppiata, alle tirate Survivor Blues ( che ricompare in versione acustica nel finale del disco) e Bad Man, rock songs che incrociano i Replacments e lo Springsteen tagliente, spigoloso e diretto di Darkness, con una band (Dave Douglas-batteria, James Finch Jr.-basso, Russell James Miller-chitarre,tastiere) che recita la parte della E Street Band. Le accecanti liriche dentro alla buia e notturna Darknen My Door sulla strada di Ryan Adams; le country Freefall e Karen's Song con la slide ospite di Luther Dickinson; le lievi e romantiche orchestrazioni della notturna There There Little Heartbreaker condotta da crooner navigato; la sbilenca e ubriaca andatura di un clarinetto e le parole di una vendetta amorosa di Snowman che portano dritto e consapevolmente a Tom Waits, tanto che nella canzone compare anche Ralph Carney, collaboratore storico di Waits.
La bizzarra deviazione dello scatenato rock'n'roll di Jericho con il suo finale pieno di cori e fiati.
Un percorso avventuroso quello di Branan, con pochi o tanti punti di riferimento reali a seconda dei casi. Un cantautore randagio, cinico (uomo cattivo come canta in Bad Man) che riesce a piazzare la zampata vincente e riconoscibile giocando con la musica. Un disco che avanza in modo imperfetto, in bilico tra i chiaro-scuri, così come la sua voce rotta, profonda e camaleontica nel cavalcare gli umori delle canzoni. Ma è quella imperfezione che fa la differenza. Candidato alla mia top ten di fine anno.