"Mi accamperò all'aperto...e libererò la mia anima" così cantava Joni Mitchell nel 1969 in Woodstock. Poche parole capaci di descrivere ed evocare immagini ben precise senza aggiungere nulla di superfluo. Chris Robinson nell'anno del festival musicale che segnò una generazione e tutte quelle a venire, aveva solo due anni ma non è difficile immaginarselo sopra a quel palco, a piedi scalzi, con la lunga barba, gli occhi chiusi e le mani al cielo mentre canta d'amore e libera la sua anima, scuotendo il pubblico a fare ugualmente. Più che con i suoi Black Crowes, però, riesco ad immaginarlo con la sua nuova creatura Chris Robinson Brotherhood, nata nel 2011 ancor prima di mettere i Black Crowes in standby, con già alcuni tour sul groppone ma solamente ora pronta per l'importante uscita discografica che sarà bissata molto presto (a Settembre dovrebbe già uscire il secondo capitolo).
Big Moon Ritual si scosta completamente dagli ultimi episodi roots/country della band madre splendidamente ripresi nell'ultimo ispiratissimo Before the frost...Until the Freeze e nella originale raccolta acustica Croweology, avvicinandosi maggiormente-non musicalmente-al mood aperto, live, free e psichedelico di un disco come Amorica (1994), smussandone gli angoli più spigolosi e black, il più difficile da digerire ma che forse fotografava più di tutti l'immaginario musicale che fece crescere i due fratelli Robinson, mostrando su disco la crescita di una band che partì con il successo di Hard to Handle di Otis Redding, dovette dividere il palco e giocare per qualche tempo con Metallica, Pantera e compagnia heavy (per chi ricorda il Monsters of rock 1991), per poi compiere il volo sopra alla musica americana diventando la più completa ed importante band rock uscita dagli anni novanta.
Big Moon Ritual è un flusso dilatato di sessanta minuti, diviso in sette canzoni ma che potrebbe benissimo essere un ciclo continuo, senza interruzioni o titoli. Chris Robinson libera la sua parte vocale più soul, quella meno esasperata senza l'ausilio delle chitarre spara riff del fratello Rich ma supportato da un Neal Casal mai così libero ed ispirato nel volare sopra alle canzoni. Chitarre fluide, leggere, rilassate, incontenibili che insieme alle tastiere e al moog di Adam MacDougall (tastierista degli ultimi Black Crowes) sono grandi protagoniste e giocano ad incastrarsi fin dai dodici minuti dell'apertura Tulsa Yesterday, fino ad arrivare alla finale e bucolica One Hundred Days Of Rain.
Lunghe jam session, nate per essere suonate live. Aperte distese lungo i campi assolati della Florida o le strade di una San Francisco anni settanta, dove puoi incontrare gli Allman Brothers e i Grateful Dead della svolta dolce e country in Rosalee, le tastiere prog/space e i momenti jazzati di Tomorrow Blues, i cori soul di Reflections On A Broken Mirror, la dolcezza di Beware, Oh Take Care, forse più di tutte, specchio di questa svolta romantica di Chris Robinson, votata ad un volume che non viene mai alzato a sproposito.
La fame di musica di Chris Robinson trova, dopo la prima pausa dei Black Crowes nel 2002 sostituita dal piglio cantautorale di New Earth Mud (2003), una seconda via condotta nuovamente lontano dal grande business discografico, ma lavorando di squadra -e di psichedelia- (completano la formazione il bassista Adam Dutton, e il batterista George Sluppick).
Musica per chi ha voglia di chiudere gli occhi e farsi cullare per la durata di un giro di orologio. Un piccolo sogno datato 2012. Come per i Black Crowes, il disco registrato ai Sunset Sound di Los Angeles sotto la produzione di Thom Monaham, esce per la sua etichetta personale Silver Arrow, il che accentua maggiormente il carattere ruspante e vero di un personaggio nato troppo tardi per alzare le mani sul cielo di Woodstock ma che con il suo talento libero ed incontaminato continua a fare tanto comodo al mondo musicale di oggi.