giovedì 21 giugno 2012

RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD ( Big Moon Ritual )

CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD  Big Moon Ritual ( Silver Arrow, 2012)

"Mi accamperò all'aperto...e libererò la mia anima" così cantava Joni Mitchell nel 1969 in Woodstock. Poche parole capaci di descrivere ed evocare immagini ben precise senza aggiungere nulla di superfluo. Chris Robinson nell'anno del festival musicale che segnò una generazione e tutte quelle a venire, aveva solo due anni ma non è difficile immaginarselo sopra a quel palco, a piedi scalzi, con la lunga barba, gli occhi chiusi e le mani al cielo mentre canta d'amore e libera la sua anima, scuotendo il pubblico a fare ugualmente. Più che con i suoi Black Crowes, però, riesco ad immaginarlo con la sua nuova creatura Chris Robinson Brotherhood, nata nel 2011 ancor prima di mettere i Black Crowes in standby, con già alcuni tour sul groppone ma solamente ora pronta per l'importante uscita discografica che sarà bissata molto presto (a Settembre dovrebbe già uscire il secondo capitolo).
Big Moon Ritual si scosta completamente dagli ultimi episodi roots/country della band madre splendidamente ripresi nell'ultimo ispiratissimo Before the frost...Until the Freeze e nella originale raccolta acustica Croweology, avvicinandosi maggiormente-non musicalmente-al mood aperto, live, free e psichedelico di un disco come Amorica (1994), smussandone gli angoli più spigolosi e black, il più difficile da digerire ma che forse fotografava più di tutti l'immaginario musicale che fece crescere i due fratelli Robinson, mostrando su disco la crescita di una band che partì con il successo di Hard to Handle di Otis Redding, dovette dividere il palco e giocare per qualche tempo con Metallica, Pantera e compagnia heavy (per chi ricorda il Monsters of rock 1991), per poi compiere il volo sopra alla musica americana diventando la più completa ed importante band rock uscita dagli anni novanta.
Big Moon Ritual è un flusso dilatato di sessanta minuti, diviso in sette canzoni ma che potrebbe benissimo essere un ciclo continuo, senza interruzioni o titoli. Chris Robinson libera la sua parte vocale più soul, quella meno esasperata senza l'ausilio delle chitarre spara riff del fratello Rich ma supportato da un Neal Casal mai così libero ed ispirato nel volare sopra alle canzoni. Chitarre fluide, leggere, rilassate, incontenibili che insieme alle tastiere e al moog di Adam MacDougall (tastierista degli ultimi Black Crowes) sono grandi protagoniste e giocano ad incastrarsi fin dai dodici minuti dell'apertura Tulsa Yesterday, fino ad arrivare alla finale e bucolica One Hundred Days Of Rain.
Lunghe jam session, nate per essere suonate live. Aperte distese lungo i campi assolati della Florida o le strade di una San Francisco anni settanta, dove puoi incontrare gli Allman Brothers e i Grateful Dead della svolta dolce e country  in Rosalee, le tastiere prog/space e i momenti jazzati di Tomorrow Blues, i cori soul di Reflections On A Broken Mirror, la dolcezza di Beware, Oh Take Care, forse più di tutte, specchio di questa svolta romantica di Chris Robinson, votata ad un volume che non viene mai alzato a sproposito.
La fame di musica di Chris Robinson trova, dopo la prima pausa dei Black Crowes nel 2002 sostituita dal piglio cantautorale di New Earth Mud (2003), una seconda via condotta nuovamente lontano dal grande business discografico, ma lavorando di squadra -e di psichedelia- (completano la formazione il bassista Adam Dutton, e il batterista George Sluppick).
Musica per chi ha voglia di chiudere gli occhi e farsi cullare per la durata di un giro di orologio. Un piccolo sogno datato 2012. Come per i Black Crowes, il disco registrato ai Sunset Sound di Los Angeles sotto la produzione di Thom Monaham, esce per la sua etichetta personale Silver Arrow, il che accentua maggiormente il carattere ruspante e vero di un personaggio nato troppo tardi per alzare le mani sul cielo di Woodstock ma che con il suo talento libero ed incontaminato continua a fare tanto comodo al mondo musicale di oggi.







 

lunedì 18 giugno 2012

RECENSIONE: GRACE POTTER & THE NOCTURNALS (The Lion The Beast The Beat)

GRACE POTTER & THE NOCTURNALS  The Lion The Beast The Beat  ( Hollywood Records, 2012)

Il precedente disco omonimo aveva dato poche risposte su dove la bella e brava Grace Potter con i suoi Nocturnals volessero andare a parare con la loro musica. Tante influenze che convergevano sullla indiscutibile dote vocale e carismatica della bionda e sexy cantante. Nonostante tutto, senza che questo si trasformasse in merito o demerito, riuscì a catalizzare l'attenzione e conquistare nuovi fans, soprattutto in sede live dove la vera essenza da jam band del gruppo emerge in maniera più limpida e veritiera.
The Lion The Beast The Beat, quarto disco della band, sembra voler continuare sulla scia del precedente, mischiando se possibile ancor  più le carte, dando però una piccola sentenza: il suono dei Nocturnals abbandona (momentaneamente?) i vigori più roots/rock/blues, dando il benvenuto a velate influenze new vawe eighties che però non sempre riescono essere ficcanti ed efficaci, largo uso di orchestrazioni e ad incursioni soul sixties che invece convincono maggiormente; avvicinandosi globalmente a territori più pop che rock (strada già tentata in This Is Nowhere del 2007). Una band che ha voglia di sperimentare, divertendosi o di affermarsi commercialmente? Eterno dilemma che rimando nuovamente alla prossima mossa, perchè nonostante tutto il disco diverte.
Un disco dalla gestazione difficile. Le registrazioni, avvenute prevalentemente live in studio, hanno subito una lunga pausa dovuta ad una crisi che ha colpito la bionda cantante non soddisfatta del lavoro fin lì svolto. La soluzione fu un viaggio in solitaria in macchina, direzione nord States, percorrendo tutte quelle strade che sembrano portare verso il nulla ma sicuramente verso qualche nuova ispirazione.
"Ho scritto quattro nuove canzoni in Vermont (suo paese natale). Poi ho viaggiato di nuovo per un posto tranquillo in riva all'oceano, rintanata in una stanza d'albergo e finito alcune canzoni che avevo scritto più di un anno prima che avevano solo bisogno di una seconda possibilità". Un viaggio dell'anima che servì.
La band che nel frattempo ha perso per strada la bassista Chaterine Popper sostituita da Nico Abondolo, oltre alla polistrumentista Grace, si avvale del preziosissimo lavoro chitarristico di Scott Tournet e Benny Yurco, più Matt Burr alla batteria. Il disco è stato affidato alle sapienti mani del produttore Jim Scott (Revelator  di Tedeschi Trucks Band,Wilco e Tom petty tra i suoi lavori) e del "nuovo prezzemolo" Dan Auerbach dei Black Keys, co-autore e produttore in tre canzoni.
"Ho trovato il cuore del leone nel ventre della bestia e tenendolo in mano sentivo il battito". Si apre così l'album che ha una sua linea guida/testuale ben specifica.
"Gioca sulla dualità della natura umana. Il fatto che tutti noi abbiamo i nostri demoni e tutti abbiamo la capacità di essere buoni". Un'apertura elettro, tribale e tambureggiante, quella della title track, che si trasforma in una vigorosa rock song, con crescendo dettato da una nutrita sezione di violini così come Turntable, tra synth e echoplex, che gioca sapientemente sulle metafore sessuali. Tra i pochi momenti rock ed energici del disco.
Il singolo Never Go Back con la batteria Casio suonata da Auerbach, la danzereccia commistione tra soul e funk di Loneliest Soul e Runaway scritte insieme a Dan Auerbach riflettono le ultime influenze che animano tutti i lavori a cui ha messo mano ultimamente, dai suoi Black Keys al grande ritorno di Dr. John. Una mano che si fa sentire ma che rischia di uniformare ogni cosa che tocca.
Un disco che viaggia essenzialmente sui ritmi dell'anima, lasciando fuori gli impulsi rock. Troviamo così i sapori da West Coast californiana di Parachute Heart; la ballad soul Timekeeper; il ritmato pop/funk di Keepsake; la chitarra (finalmente) che si mischia alla sezione archi che guida One Heart Missing; la bella ballata per piano e chitarra acustica di Stars, dove la voce di Grace Potter ha possibilità di mettersi in grande evidenza.
Poi ti ritrovi l'avanzare teso, rock e zeppeliniano della conclusiva The divide (la miglior track del disco) e torni immediatamente alla domanda che l'ascolto di un disco di Grace Potter & The Nocturnals  mi porta sempre a fare: che strada vuole percorrere la bella Grace Potter, così distante da quella del suo debutto che aveva illuso chi vedeva in lei una nuova songwriter country/folk? Ora che la tavolozza è piena di tutti i colori, qualcosa in futuro si materializzerà più chiaramente.
Nella deluxe edition, c'è posto per altre quattro canzoni: Roulette, All Over You, la rilettura di Stars con l'ospitata del cantante country Kenny Chesney e soprattutto la countryeggiante Ragged Company con il buon vecchio Willie Nelson (fresco di uscita con il suo Heroes) alla voce e chitarra.






vedi anche RECENSIONE: GASLIGHT ANTHEM-Handwritten(2012)






venerdì 15 giugno 2012

RECENSIONE: XAVIER RUDD ( Spirit Bird )

XAVIER RUDD  Spirit Bird ( Side One Dummy, 2012)  )

Xavier Rudd vide il suo primo concerto a dieci anni d'età. Fu Paul Simon durante il tour del meraviglioso Graceland. Rimase folgorato. Non vi è dubbio che il piccolo cantautore di New York fu più che un faro guida per l'inizio della sua carriera. L'australiano ha però avuto un grande vantaggio/fortuna: quello di vivere la musica etnica e la natura incontaminata da un posto privilegiato rispetto a chi è costretto ad andare a cercare il tutto fuori da casa propria ( agli americani Jack Johnson e Ben Harper -grandi amici e appasionati di surf come lui- a cui spesso è associato, manca questo retroterra sociale/culturale). Cresciuto tra la sabbia delle spiaggie del Torquay (angolo suggestivo per tutti i surfisti), ma anche tra gli alberi delle foreste e a strettissimo contattto con le popolazione aborigene d'Australia di cui è estremo difensore (lui nato da padre aborigeno e mamma europea) che ne hanno segnato fortemente la scrittura, sviluppando oltre ad un fortissimo legame con la natura (salutista e vegetariano), anche un grande amore per i tantissimi ed inusuali strumenti tradizionali. Bellissimo vederlo all'opera da solo durante i suoi live-set circondato e sovrastato dagli strumenti.(Sarà in Italia a Luglio 2012, il 20 a Milano-RECENSIONE CARROPONTE-, 21 a Roma).
Spirit Bird è il settimo disco ed esce a due anni di distanza da Koonyum Sun. Se il precedente era un disco di "squadra" insieme alla spaventosa sezione ritmica sud africana degli Izintaba, questo esplora l'anima più intimistica, profonda del cantautore australiano che sembra prevalere in gran parte delle canzoni: Comfortable in My Skin (dove accenna all'intervento subito alla schiena e alla ritrovata normalità), Follow the Sun, Paper Thin, Mystery Angel e la finale Creating a Dream(con lo splendido falsetto) sono folk-song acustiche, spesso guidate dall'armonica, dalla chitarra e poco altro. Un passo verso il folk americano che mantiene però le gambe in terra australiana, grazie al largo uso di cori aborigeni e a tutti quei rumori e suoni di natura presenti lungo tutta la durata del disco, in particolar modo il canto degli uccelli.
Intorno ai dieci intensi minuti di Full Circle con i suoi numerosi cambi di ritmo e vasto campionario del range musicale di Rudd, ruotano il bel blues elettrico di Bow Down, il crescendo della title track Spirit Bird (con l'attacco ai governi, ladri di "sangue e terra"), la percussiva tribalità di Butterfly e tre momenti quasi esclusivamente strumentali ( Lioness Eye, Culture Bleeding e 3 Roads) in cui Xavier Rudd, sapientemente riesce ad unire suoni moderni con il suono del suo amato Yidakis (didgeridoos), cori della tradizione aborigena fino ad arrivare alla trascinante coda di 3 Roads, una sorta di trance da techno-rave aborigeno.
Cuore sempre aperto ( "Imagine if the heart could shed its skin" canta in Creating a Dream), verso la natura, i suoi abitanti meno fortunati, le tradizioni. Tutte cose innate in lui e non acquisite o ricercate. Xavier Rudd vive in simbiosi totale con il ciclo della natura e cerca di trasportare tutto nella sua musica.
La più semplice e fresca brezza di questa estate. Se proprio non potete calpestare le spiaggie di Torquay e cavalcare le onde dell'oceano indiano, questo disco, come tutti i precedenti, vi daranno una mano a sognare (e meditare).
vedi anche RECENSIONE/REPORTAGE live: XAVIER RUDD, Carroponte, Sesto San Giovanni(MI)20 Luglio 2012







giovedì 14 giugno 2012

RECENSIONE: CORY BRANAN ( Mutt )

CORY BRANAN  Mutt (Bloodshot Records, 2012)

Cory Branan è quasi coetano di Ryan Adams (uno classe 1975, l'altro 1974), tutti e due uscirono allo scoperto da solisti all'inizio del nuovo millennio, promettendo una ventata di aria fresca nel mondo cantautorale americano. Il suo debutto The Hell You Say uscì nel 2002 e sorprese non poco la critica, facendo incetta di riconoscimenti. A differenza di Adams però, la sua carriera si allarga ad un solo altro disco: 12 Songs  del 2006. Mentre Adams in questi anni ha continuato a far uscire dischi in modo compulsivo, con bassi e stupendi alti-tra cui l'ultimo Ashes & Fire-, Cory nativo della terra del Misssissippi, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine, fa il suo ritorno a ben sei anni dal precedente lavoro. In questo lasso di tempo si è fatto crescere barba e capelli ("I was fucked up as my haircut" canta in Freefall), si è trasferito da Memphis a Nashville, ma ha mantenuto inalterato il carattere della sua scrittura: disincantata e cinica lettura della vita con in primo piano i sentimenti compresi cuori spezzati, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero lo citarono in una loro vecchia canzone Tears don't Matter much contenuta in That Much Further West(2003). Cory, oggi, di rimando per non essere da meno, cita-anche musicalmente- Mellencamp in Yesterday(circa Summer 80 Somethin).
In Mutt sono raccolte tutte le sue innumerevoli influenze che convergono comunque in uno stile personale che sa guardare in tutte le direzioni del rock americano. Dall'iniziale folk esistenziale di Corner (bissata da Lily) in solitudine con la sola chitarra acustica e la voce doppiata, alle tirate Survivor Blues ( che ricompare in versione acustica nel finale del disco) e Bad Man, rock songs che incrociano i Replacments e lo Springsteen tagliente, spigoloso e diretto di Darkness, con una band (Dave Douglas-batteria, James Finch Jr.-basso, Russell James Miller-chitarre,tastiere) che recita la parte della E Street Band. Le accecanti liriche dentro alla buia e notturna Darknen My Door sulla strada di Ryan Adams; le country Freefall e Karen's Song con la slide ospite di Luther Dickinson; le lievi e romantiche orchestrazioni della notturna There There Little Heartbreaker condotta da crooner navigato; la sbilenca e ubriaca andatura di un clarinetto e le parole di una vendetta amorosa di Snowman che portano dritto e consapevolmente a Tom Waits, tanto che nella canzone compare anche Ralph Carney, collaboratore storico di Waits.
La bizzarra deviazione dello scatenato rock'n'roll di Jericho con il suo finale pieno di cori e fiati.
Un percorso avventuroso quello di Branan, con pochi o tanti punti di riferimento reali a seconda dei casi. Un cantautore randagio, cinico (uomo cattivo come canta in Bad Man) che riesce a piazzare la zampata vincente e riconoscibile giocando con la musica. Un disco che avanza in modo imperfetto, in bilico tra i chiaro-scuri, così come la sua voce rotta, profonda e camaleontica nel cavalcare gli umori delle canzoni. Ma è quella imperfezione che fa la differenza. Candidato alla mia top ten di fine anno.  




lunedì 11 giugno 2012

RECENSIONE: PATTI SMITH( Banga )

PATTI SMITH  Banga (Sony Music, 2012)

Solo pochi mesi fa, Patti Smith fu ospite sopra il palco di Sanremo insieme ai Marlene Kuntz. Il giorno dopo l'esibizione, in  uno di quei contenitori pomeridiani della tv nazionale (perchè fossi lì davanti non lo so...si dice sempre così...), il famoso critico musicale con il ciuffo e gli abiti sgargianti, interrogato sugli ospiti stranieri presenti la sera prima, minimizzò l'intervento di Patti Smith-per la cronaca è stato il momento più alto di quella competizione canora-asserendo che solo più in Italia riusciamo a scaldarci per lei, artista in declino nel resto del mondo. Secondo lui, Patti Smith lavorerebbe solo in Italia perchè in patria non è più considerata ed i suoi dischi passano inosservati. Come se lavorare in Italia fosse una colpa. Alla fine,  infierì con l'ultima uscita: "Because the Night di Springsteen avrebbe funzionato cantata da chiunque"-dimenticando che la cantante contribuì alla stesura del pezzo.
Sul mio volto un grande punto di domanda. Che Patti Smith ami l'Italia è cosa risaputa ed il nuovo disco, l'undicesimo della sua carriera  a sette anni dall'ultimo disco di cover Twelve(2007) e ben otto da Trampin'(2004), sembra dimostrarlo e confermarlo. Alcune canzoni hanno addirittura preso vita sopra alla Costa Concordia-sì proprio quella- durante un viaggio in mare insieme a Lenny Kaye, invitati dal regista Jan Luc Godard( vedi il carezzevole candore di Seneca e la titletrack Banga). Forse perchè è una dei pochi artisti internazionali a trovare ancora ispirazione dall'ARTE italiana, cosa che nemmeno noi italiani-ciechi in patria- riusciamo più a fare.
I dieci tesi e stridenti minuti di Costantine's Dream sono stati ispirati dal dipinto di Piero della Francesca conservato nella basilica di San Francesco, musicati insieme ai folker aretini Casa del Vento. Santi, imperatori, navigatori (viene citato anche Cristoforo Colombo) e Rinascimento. L'iniziale spoken song Amerigo ci immerge completamente nelle acque in compagnia dell'esploratore Vespucci, guidandoci verso la scoperta di nuove terre. Brava.
Capirete che i suoi dati di vendita negli States e nel resto del mondo poco interessano, in verità. Perchè Banga è il miglior disco di Patti Smith degli ultimi vent'anni. Diamo a Patti Smith anche la cittadinanza italiana, se necessario.
Un disco uscito solo dopo aver raccolto le storie, le emozioni, gli omaggi, le citazioni storiche e moderne necessarie a riempire più di sessanta minuti di musica. Patti Smith ha i suoi tempi. La musica è solo una parte della sua arte, e come tale deve condividere i preziosi minuti, le ore e i giorni con la poesia, la fotografia, la narrativa (Just kids), la sua vita (tutta). Attenta osservatrice e unica nel riversare in musica quello che i suoi occhi vedono. E dove non arrivano le pupille ci pensa la sua inseparabile macchina fotografica "vintage" a cogliere i momenti in giro per il mondo-non solo in Italia. Poetica visiva.
Tanti omaggi e ricordi legati all'attualità e alle persone: Fuji-San è un rock chitarristico ma carezzevole, omaggio al popolo giapponese vittima di disastri naturali (e non) negli ultimi anni, un popolo coraggioso da seguire come esempio, ogni tanto; This is the Girl è uno splendido ricordo di Amy Winehouse, che non conobbe mai, ma musicato in modo tale che sicuramente sarebbe piaciuto cantare anche alla scomparsa cantautrice londinese; la toccante ballata Maria per la sua amica Maria Schneider, attrice, pure lei scomparsa l'anno scorso. Diventò famosa grazie al film più censurato di sempre, Ultimo Tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Intensa e interrota dall'assolo chitarristico del figlio Jackson. Due vite e due talenti quelli di Amy e Maria finiti troppo presto.

Banga, la title track ha quel crescendo, sentito milioni di volte, ma dannazione, sembra sempre di vedere le danze attorno al fuoco e i cani ululare in lontananza  (è il figlio Jackson ad abbaiare, Johnny Depp l'ispiratore musicale).
Chi non ha mai sognato di avere come regalo di compleanno una canzone scritta appositamente per l'evento. Johnny Depp-ancora lui-, oltre a tante altre fortune, ha pure questa. Nine fu scritta da Patti Smith come regalo, in mancanza di qualche oggetto fisico, sicuramente meno indispensabile. La chitarra di Tom Verlaine fa il resto.
Il primo singolo uscito April Fool, mentiva riguardo la natura di questo album. La sua costruzione pop e la chitarra di Tom Verlaine non lasciano presagire la bellezza di questo disco e le innumerevoli citazioni letterarie che le altre canzoni contengono: ancora il sentimento d'amore che esce da  Mosaic, la narrativa Tarkovsky, sugli orrori di guerra. 
Registrato e pensato in giro per il mondo, anche negli storici studi Electric Lady di New York, insieme allo  storico Lenny Kaye, e ai fidati collaboratori dell'ultimo periodo: Tony Shanahan al basso, Jay Dee Daugherty alla batteria, Jack Petruzzelli alla chitarra e a tutti gli altri che ho già citato.   
After the Golrush di Neil Young, potrebbe essere uno scarto (...e che scarto) del precedente Twelve e chiude il disco con uno dei testi più psichedelici scritti dal canadese. Riletta in modo quasi fedele con l'aggiunta di un coro di bambini ad esaltare ed aggiornare "la fuga di madre natura", nel corso dei decenni.   
Se Patti Smith continua a lavorare solo in Italia, come dice qualcuno...impariamo a difendere questo patrimonio piovuto dal cielo, come dobbiamo imparare a difendere la nostra arte, capace ancora di ispirare  (solo) i grandi.


vedi anche RECENSIONE/REPORT live: PATTI SMITH ,Collisioni Festival, Barolo(CN) 14 Luglio 2012











 








 

venerdì 8 giugno 2012

RECENSIONE/REPORT live: BRUCE SPRINGSTEEN live@Stadio SAN SIRO, Milano 7 Giugno 2012



Con il sacro gioco del calcio ai minimi storici di credibilità, lo stadio San Siro ha ospitato, nel giro di una settimana, le due ultime icone di fede "apparentemente" credibili rimaste. Anche se, su una delle due ho sempre nutrito forti dubbi. Solo pochi giorni hanno separato il weekend milanese di Papa Ratzinger da Bruce Springsteen. Ma la differenza non la fanno solo i giorni. Ratzinger ha sfoggiato palchi avveniristici (quello all'aereoporto di Bresso-MI era quasi pinkfloydiano) ed impiegato tre giornate per conquistare i milanesi (credenti) e forse mai riuscirà a convertire nuove anime; a Bruce sono bastate 3 ore e 40 minuti (qualcosa da studiare scientificamante, altro che il sangue di Ozzy Osbourne) ed un palco spoglio come sempre, senza trucchi, maggiordomi corvi e personale che pensa a tutto, anche al conto delle lettere nei discorsi. A Springsteen bastano le canzoni, ma anche a tutto il resto sembra pensare lui. E' ancora lui a trascinare la forza di una festa più forte della punizione divina (la prima in Italia senza "big" Clarence), che non accenna a fermarsi o solo rallentare. Anzi, si gioca sempre al rilancio e la funzione del giorno prima non è mai uguale a quella del giorno dopo. Lui sì, i nuovi adepti sa conquistarseli. La vera famiglia era riunita qua, stasera.
E poi? E poi sapevo che mi sarei trovato qui, seduto, davanti a questo schermo, con il livello di adrenalina ancora abbondantemente sopra a quello di soglia, di poco inferiore a quello che ho raggiunto solo poche ore prima, quando San Siro è esploso, con i suoi livelli di suono finalmente modificati al rialzo-quelli sì finalmente giusti ed adeguati- sulle note di We Take Care Of Your Own. Brividi che stanno in standby tra un concerto e l'altro. Possono passare pochi mesi o molti anni, ma sono sempre lì, pronti ad uscire alla prima nota del primo brano dell'ultimo concerto. Succede solo con lui. Così come, solo per lui, calco questi spazi, che reputo sempre troppo grandi per godersi un buon concerto. Solo per lui. Mi spiace per tutti gli altri.
Sapevo che Wrecking Ball, un disco che continuo a non farmi piacere così come un vero fan non dovrebbe fare, sarebbe stato rivalutato-alle mie orecchie- incastrato dentro a quasi quattro ore di musica, celebrate nella prima chiesa italiana che lo accolse a braccia tese. Ci furono i giorni di gloria del 1985: il battesimo italiano con dieci anni di ritardo rispetto al mondo; il ritorno benedetto dal diluvio divino nel concerto eroico del 2003; la bella scaletta dei giorni magici nel  2008 e lo strascico di polemice per i fantomatici 22 minuti di sforamento. La quarta volta a San siro in questo Giugno 2012: unico artista internazionale a fare poker alla scala del calcio Giuseppe Meazza, chiamiamolo anche così, che poi i calciatori si arrabbiano.
Il solito e completo concentrato di quello che il rock di Springsteen è in grado di offrire. Tutto dentro al corpo/animo di un sessantatreenne che sopra al palco continua a non risparmiare nessuna goccia di sudore. Quel vecchio detto: "il mondo si divide in chi ha visto Springsteen ecc...ecc..." continua ad essere valido, senza scadenze. La sua messa non ti tradisce mai: quando entri sai cosa aspettarti, quando esci, hai ricevuto sempre quel qualcosa in più che non ti aspettavi, e saresti già pronto a riniziare tutto il giorno dopo. Anche le canzoni di Wrecking Ball, qui esplodono e raggiungono pienamente il loro obbiettivo e fanno da scheletro ad una scaletta che ogni sera sa stupire (33 canzoni!). Bella e sentita Jack of All Trades-con dedica a tutti quelli che stanno lottando in America come in Italia, We Are Alive sarebbe piaciuta tanto a Johnny Cash, Death to my Hometown trascina.
La pioggia prevista non ha osato disturbare (eppure qualcuno-sotto sotto- sperava di sentire Who'll stop the Rain come qualche giorno prima a San Sebastian in Spagna o come nel 2003 proprio qui a Milano) ed è rimasta chiusa fuori come le tante persone che erano alla disperata ricerca di un biglietto (settore prato sempre il più ambito...). Dentro al campo, la consueta girandola multigenerazionale di persone che seguono Springsteen. Bruce ha sempre pensato a tutti i suoi fans."Quando salgo sul palco ho sempre in mente di essere al concerto degli Who del 1965 nella Convention Hall di Asbury Park. Ci immagino sempre un ragazzo là...Forse c'è un ragazzo di quindici anni che sta pensando di suonare la chitarra. Forse ha delle idee. E stasera devo essere al meglio, devo andare meglio che mai perchè voglio ispirare quel ragazzo". Questa la sua filosofia.
L'anticipo del tour americano e le date europee lo davano in gran forma. Tutto mantenuto e diciamocelo: stasera a San Siro ha strafato, facendoci un grande regalo.
Tanta gente sopra al palco oltre alla E Street Band: c'è posto per la nutrita sezione fiati, compreso il nipote di Clarence Clemons, Jake che si sta ritagliando sempre più spazio, un percussionista, più i tre coristi a donare quel tocco soul/black che caratterizza l'ultimo album e questo tour. Max Weinberg è il solito martellatore, elegante e compassato. Little Steven la spalla ideale sempre buona per gli scherzi, gli altri (Roy Bittan, Garry TallentNils Lofgren, Suzie Tyrell, Charlie Giordano ) svolgono il loro compito alla grande ma con il passare degli anni sono letteralmente schiacciati dalla personalità del capo.
Bruce tiene in piedi la band. Non il contrario.
"Prendetevi cura di voi stessi" è il primo monito del concerto. Inizia a prenderci per mano così ,con We care take on our own e Wrecking Ball, quasi a voler raccogliere tutta la rabbia accumulata per poi lasciarsi andare, in discesa, per il resto della serata.
My city of Ruins è la canzone per presentare la band ma anche per ricordare chi è lontano in questo momento ("Patti è a casa con i figli e vi saluta") e chi purtroppo non c'è più.
L'accoppiata Spirit in the Night, The E street Shuffle riporta al Jersey Sound degli esordi, con la fantastica reprise della seconda che diventa jam, l'altra accoppiata Candy's Room, Darkness on the Edge of Town è pura, spigolosa energia rock. Radio Nowhere si poteva evitare. Johnny 99 parte solo chitarra e voce per poi trasformarsi nella versione "treno" che abbiamo già conosciuto negli ultimi tour.
Penso che a Bruce il concerto di Milano 1985 sia veramente rimasto nel cuore: No Surrender, Working on the Highway, Born in The Usa (che bello risentirla dopo tantissimo tempo, ma soprattutto dopo averla odiata), Bobby Jean, Dancing in the Dark, Glory Days, sei canzoni estrapolate da Born in the USA. Un tuffo indietro di ventisette anni. Bruce ama Milano("...this is a very special place"). Ora è chiarissimo!
Da pelle d'oca The River ma soprattutto la sorpresa The Promise, uno dei gioielli di Springsteen, fatta in solitaria  al pianoforte.
Bruce cerca sempre il contatto con il suo pubblico "La cosa più importante è il pubblico, la folla è l'unica cosa che conta in uno spettacolo". Un rispetto che non è mai venuto a mancare durante la sua carriera, anche nei momenti più difficili. Qualche altro artista in quarant'anni di carriera non l'ha mai capito. Ecco così, la fortunata ragazzina (che domani mattina potrà vantarsi a scuola) chiamata sopra al palco a cantare con il saggio nonno sulle note di Waitin' on a Sunny Day, ormai diventata la canzone dei siparietti così come lo era Dancing in the dark trent'anni fa, quando il nonno era ancora ragazzo e al posto della ragazzina c'era un'avvenente fanciulla cresciutella, che Bruce, poi, riesce a trovare anche stasera, peccato volesse ballare con Jake Clemons, come da cartello. Bruce è di cuore buono. Accontenta pure lei.
Bruce da il cinque a Claudio Trotta (il promoter amico), lì sotto il palco. Bruce bacia una ragazza. Bruce raccoglie tutto quello che può (bambole, salvagenti, bandiere e cartelli) e li trasforma in  spettacolo come un prestigiatore. Poco importa se tutto l'hai già visto milioni e milioni di volte.
Difficile trattenere la lacrima quando Tenth Avenue Freeze-Out si interrompe. Cala il silenzio. Sullo schermo le immagini di Clarence Clemons. Parte l'applauso. La E Street Band riparte. E' la vita.
Springsteen ha voglia di suonare, di divertirsi. Tira fuori dal cilindro Cadillac Ranch
L'encore normale non gli basta. C'è ancora tempo e voglia per Glory Days e una Twist and Shout che dopo tre ore e quaranta minuti, senza una pausa, decretano la fine. Se potesse, continuerebbe fino all'alba e noi con lui. Già finito?
Anche stavolta si è sforato di venti minuti. Bruce ha voluto fortissimamente riprendersi Milano dopo lo sgarro di quattro anni fa. Bruce da quarant'anni si  è preso anche il rock.
La prossima fumata bianca la voglio per lui.

SETLIST 
1.We Take Care Of Our Own/2.Wrecking Ball/3.Badlands/4.Death to My Hometown/ 5.My City of Ruins/
6.Spirit in the Night/ 7.The E Street Shuffle/ 8.Jack of All Trades/ 9.Candy's Room/ 10.Darkness on the Edge of Town/ 11.Johnny 99/ 12.Out in the Street/ 13.No Surrender/ 14.Working on the Highway/15.Shackled and Drawn/ 16.Waitin' on a Sunny Day/ 17.The Promised Land/18.The Promise/ 19.The River/ 20.The Rising/21.Radio Nowhere/ 22.We Are Alive/ 23.Land of Hope and Dreams/ 24.Rocky Ground/25.Born in the U.S.A./ 26.Born to Run/ 27.Cadillac Ranch/28.Hungry Heart/ 29.Bobby Jean/ 30.Dancing in the Dark/ 31.Tenth Avenue Freeze-Out/32.Glory Days/33.Twist and Shout (The Isley Brothers cover)

mercoledì 6 giugno 2012

RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO ( Big Station)

ALEJANDRO ESCOVEDO  Big Station ( Concord Music Group, 2012)

Big Station è il disco delle tappe. Quelle segnate con una bandierina sopra ad una carta geografica degli Stati Uniti del sud, ma anche quelle di una vita ripresa per i capelli e con volontà, ricondotta  verso l'eccellenza artistica, dopo un cammino di sofferenza che negli ultimi vent'anni ne ha segnato la vita (la morte della moglie a cui dedicò i primi album solisti Gravity-1992 e 13 Years-1994 e la vittoria sull'epatite C negli anni duemila). Soprattutto, è l'ultima e provvisoria tappa musicale di un artista che non osa fermarsi, a cui piace anche stupire.
Real Animal e Street Songs Of Love, gli ultimi due dischi hanno trovato in Tony Visconti, un produttore capace di canalizzare tutte le esperienze musicali di Escovedo verso un suono grintoso, fedele in egual misura al rock chitarristico degli esordi, quanto al folk delle radici della sua terra,senza disdegnare la scena glam britannica degli anni settanta, di cui Visconti fu gran protagonista, lavorando nelle retrovie e lasciando le paillettes alle primedonne. Due dischi che furono un ritorno per restare, sospinto anche dal grande amore/incoraggiamento dei musicisti "amici".
Alejandro Escovedo questa volta ha sentito la necessità di cambiare qualcosina senza snaturarsi troppo, sostenuto ancora una volta, in fase di scrittura, da Chuck Prophet. Uno sguardo verso le sue origini messicane e un altro verso altre tappe musicali che Visconti conosce alla perfezione. Non sorprendano quindi alcune reminescenze, già accennate nei due precedenti dischi, che qui trovano compimento e sembrano portare al David Bowie americano e quello berlinese-che anticipò la scena new vawe prossima a venire- dei seventies, il largo uso di cori femminili (Gina Lopez Holton e Karla Manzur), alcune venature pop più marcate del solito. 
Il racconto di frontiera di Sally Was a Cop, tra loop e tronbe, lo sfrontato e vincente connubio tra Bowie e Dylan di Headstrong Crazy Fools con il testo che sembra citare il sommo poeta di Duluth-sarà veramente lui?- ("You See Dylan dropped acid in the limelight..."), Common Mistake, Big Station (con le vocals di Kristeen Young), il pulsante basso di Can't Make Me Run che guida il punto massimo di questo disco, dove compare ancora la tromba suonata da Ephraim Owensn su un testo che sembra raccontare tutto:

"You can break the wheels of a Cadillac/You can break the bank in two/Smash the windows on a new guitar/If that's what you want to do.../You can't make me run/Make me run/Make me run"

Anche se l'inizio è puro rock/punk con la sua band The Sensitive Boys sugli scudi: Man of The World è un forte grido di esistenza e bilancio di vita suonato con la spavalderia dei Ramones, come faceva più di trent'anni fa con i suoi Nuns. Rimane l'unico episodio di puro rock chitarristico del disco insieme alla spassosa Party People che però batte già verso altre sfumature. Ci troviamo sempre dentro al CBGB di fine anni settanta, ma sembra di ascoltare una canzone uscita dalla penna schizofrenica di David Byrne.
Dall'alto dei i suoi sessant'anni, Escovedo può permettersi di sedersi e guardare-con velata nostalgia- i cambiamenti della sua Austin nel corso degli anni in Bottom Of The World, una ballata folk riflessiva come lo sonola texana  San Antonio Rain e la stupenda, malinconica Never Stood A Chance, fino ad arrivare alle troppe lacrime che bagnano un rapporto d'amore nell'incedere teso e primitivo di Too Many Tears. 
La finale Sabor A Mi, canzone di Alvaro Carillo, un classico messicano datato 1959, ed interpretato in lingua madre spagnola su un leggero tappeto elettronico è curiosa e anomala.
Un disco che vuole soddisfare le ambizioni artistiche del suo compositore. Allo spiazzante ascolto iniziale si sostituiscono tutte le sfumature che Escovedo riesce a dare alle sue canzoni, forte di una scrittura mai così attenta, piena, ricercata e avventurosa. Una tranquillità riconquistata e pienamente palpabile ascoltando il disco.La giusta chiusura alla trilogia iniziata con Real Animal.




 



 

lunedì 4 giugno 2012

RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO ( Once Upon A Time In the West )

THE WHITE BUFFALO  Once Upon A Time In The West ( Unison Music, 2012 )


 

Una delle sorprese più fresche ed accattivanti di quest'anno arriva da un personaggio che titola il suo secondo disco, poco originalmente: c'era una volta nel west.
Il suo aspetto fisico, un mix perfetto tra Warren Haynes e Jeff Bridges che recita la parte del grande Lebowski e quello nei panni di Bad Blake il cantante country di Crazy Heart, solo più giovane e prestante, può bastare a farsi un'idea della musica che Jake Smith, in arte The White Buffalo, suona. Quando poi arriva la voce, un pensiero corre subito all' Eddie Vedder solista e al "premio oscar" Ryan Bingham. Il quadro si completa mostrando anche l'animo da outsider e il paesaggio inquietantemente solitario in cui si muove, popolato da pochi di buono, poeti solitari, madri disperate, accecanti ritorni di memoria verso un' infanzia che "ha segnato", vecchi ex combattenti di un'America che da qualche parte sopravvive in questa antica e mitica  incarnazione. Voglia e ricerca di vera libertà.
Scusate se vi ho anticipato e tolto i piaceri dei paragoni. Ma non sono nemmeno gli unici.
Once Upon A Time In The West (omaggio a Sergio Leone?) è il secondo album dopo Hoghtide Revisited(2008) ed alcuni Ep. I White Buffallo, nome che oltre a rievocare il sacro bisonte dei nativi americani , ricorda vecchi western con Charles Bronson, comprendono oltre a Jake Smith, Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, e sono una vera e propria band proveniente dalla California.
La voce di Jake Smith è l'elemento catalizzante delle canzoni che, obiettivamente, non hanno nulla di veramente originale: americana che staziona in perfetto equilibrio tra le ombre crepuscolari di desolate ballate folk, oppure up-tempos trascinanti e sporcate sul polveroso ritmo di un country/rock viscerale che ripercorre i sentieri tracciati da vecchi fuorilegge come Waylon Jennings o lo Steve Earle di Copperhead Road, perdendone la parte più elettrica.
Ma un qualcosa di magico sembra sempre prevalere. Uno storytellers, quasi d'altri tempi, che affascina e seduce con il divino dono di una profonda voce da rocker che contrasta con il carattere intimo, nostalgico e doloroso delle sue liriche. Il contrasto è una delle armi di questo disco. 
I suoi testi raccontano di una vecchia America sonnolenta che sopravvive osservando il panorama di una piccola città di periferia accompagnati dal lento incedere di una carezzevole ninna nanna (Sleepy Little Town); la luce abbagliante di una luna che in poche ore lascia il posto a quella del sole senza modificare le pesanti e scure ombre di una lettera che non sarebbe mai dovuta arrivare (Ballad of a Dead Man); il crepuscolo di una notte in solitaria (One Lone Night) che diventa struggente (Wish It Was True) e grido d'indipendenza (I Am the Light).
Ma anche il treno in corsa che semina pistole e libertà nel country/rock veloce di How the West Was Won guidato da banjo (Cooper McBean), dobro e lap steel (Joey Malone); l'antico west in assetto da guerra-tra Cash e Morricone- (Good Ol' Day to Die); i sogni e le speranze che sembrano ricalcati su The Passenger di Iggy Pop (The pilot); malinconici ricordi d'infanzia (BB Guns and Dirt Bikes) e vecchie ferite dure da rimarginare (The Bowery). C'è perfino una divertente ma oscura filastrocca con tanto di fiati (The Witch) che sembra uscita da una festa gitana dentro a qualche sperduto campo nomade costruito nella Central Valley californiana.

sabato 2 giugno 2012

RECENSIONE: DANIELE TENCA ( Blues For The Working Class/Live For The Working Class)

DANIELE TENCA Blues For The Working Class ( Ultratempo, 2010 )

L'ennesimo suicidio. Oggi sul giornale, un altro quarto di pagina è dedicato a chi, strozzato da una crisi che solo pochi mesi fa ci dicevano essere passata, se non-addirittura-inesistente, si toglie la vita. Vittima di un lavoro che non c'è più. Notizie che passano quotidianamente (con la stampa non immune da colpe nel calcare la mano, diffondendo terrore più del dovuto), così veloci che sembrano diventate pericolosa routine, in una società che sembra non volersi fermare un solo secondo. Una pausa per riflettere è quello che ci vorrebbe in mezzo a continue discussioni su proposte di legge, cancellazione di articoli, violazione di diritti acquisiti negli anni con tanta fatica e salari fermi e stagnanti alla prima repubblica.
Uno stato che non ascolta, impegnato solamente a chiedere, e banche che guardano dall'alto di una piramide conquistata senza troppa fatica. Il lavoro è diventato campo di battaglia da difendere con i denti, ma anche luogo dove la velocità si è impadronita di tutto. Tagli di personale, imprenditori alle corde, leggi per la sicurezza dribblate per ottimizzare i costi, dignità operaia cancellata in favore della competizione più sfrenata, non ultimo: fabbriche che si accartocciano come castelli di carte sopra agli operai e sotto le infernali scosse del terremoto di questo Maggio 2012, da dimenticare.
Qualunquismo, retorica, populismo? Se chiamassimo il tutto con il suo vero nome? Realtà (scomoda)? Chi si nasconde ancora dietro a questi aggettivi non conosce i fatti. Non ha mai calpestato il campo, continua a guardare il tutto da una tribuna, lassù in alto, che l'onore non sa cosa sia. Non ha mai varcato i cancelli di una fabbrica alle 5 e 30 di mattina, con gli occhi stropicciati che ancora bruciano, aspettando il suono di una sirena che ora rimane solamente appesa ad un sottile filo elettrico; timbrato un cartellino e sporcato i suoi arti di olio e grasso, aspettando-e sperando- che quella sirena, a penzoloni, suoni una seconda volta.
Daniele Tenca, solo due anni fa, con grande coraggio e dedizione, alla classe operaia ha dedicato un intero disco, che in questi tempi di vuoto assoluto, dovrebbe e meriterebbe di riempire quei vuoti che la musica italiana ha su certi argomenti, relegati a sporadiche canzoni cantautoriali o sotto la sempre scomoda etichetta di canzoni di protesta, che vengono rispolverate quando fa comodo, nelle date delle solite ricorrenze, per venire immediatamente dimenticate il giorno dopo.
Concetti ribaditi e sottolineati l'anno scorso con un live, Live For The Working Class(2011), che attraverso la ruvidezza di un concerto dava una seconda vita ai suoi testi, amplificandone il significato.
Undici piccole storie dove Tenca trasporta le lezioni cantautorali del folk/rock dentro al suo blues: quelle americane di Guthrie, Seeger, Phil Ochs, Dylan e Springsteen; quelle del proletariato inglese di Billy Bragg e Joe Strummer, e quelle italiane degli anni settanta e di certi gruppi, come i Gang, mai elogiati a dovere (scomodi pure loro?).
Carriera ventennale segnata e legata prima alla tribute band di Springsteen, i Badlands, poi dal primo disco solista in italiano "Guarda Il Sole", ora dal passaggio all'inglese e questo album dedicato-interamente- ad un tema scottante e sempre d'attualità. Tenca si immerge completamente, armato di penna, chitarra e cuore, con cognizione di causa e conoscenza (quando non suona è impegnato nel campo della sicurezza sul lavoro ) in liriche che non hanno paura di affrontare argomenti  dimenticati negli impolverati e scomodi spartiti degli anni settanta, almeno qui in Italia. Un concept sulle condizioni lavorative che riesce a toccare il nervo scoperto: le difficoltà nel portare avanti una famiglia e l'amore in tempi di profonda crisi (Cold Comfort), gli infotuni sul lavoro (nel martellante e ripetitivo ritmo da fabbrica nel blues di The Plant), i pericoli di chi lavora nell'oscurità in mezzo ad una autostrada nel blues acustico di Spare Parts, il banjo che accompagna le storie di chi in fabbrica ha perso i propri cari e si trova solo davanti ad una vita ancora tutta da vivere (He's working). Ancora: le fabbriche che chiudono (The Mills are closing down), la gente che perde il proprio lavoro (My work no longer fits for you) e avvenimenti di cronaca recente da non dimenticare, raccontati nella tesa ed elettrica 49 People, ispirata dalla vicenda degli operai della INNSE di Lambrate.
Un campionario poco edificante, raccontato con vero trasporto e dovizia di particolari, riscontrabile nei curati testi a cui si aggiungono il traditional folk Eyes on the prize insieme agli ospiti Cesare Basile e Marino Severini dei Gang., già rifatta da tanti, tra cui mi piace ricordare la bella reinterpretazione di Mavis Staples insieme a Ry Cooder, contenuta in  We'll Never Turn Back(2007) e la rilettura in chiave blues dell'immancabile Factory di Springsteen.
Il finale scelto da Tenca è di speranza. Nel blues elettrico di This working day will be fine, con "l'armonica ospite" di Andy J. Forest e l'auspicio che un giorno, tutti possano ripetere questa frase a inizio turno: "Questa giornata di lavoro sarà fantastica" e uscire dai cancelli della propria fabbrica, a fine giornata con un sorriso che conferma quelle parole.


DANIELE TENCA  Live for the working class (Route61 music, 2011)

Live for the working Class è l'appendice ideale di Blues for the working class. Registrato al Amigdala Theatre di Trezzo sull'Adda (MI), completa e rinvigorisce il messaggio delle canzoni. La band che lo accompagna: Pablo Leoni alla batteria, Luca Tonani al basso, Heggy Vezzano alle chitarre, a cui si aggiunge la chitarra di Leo Ghiringhelli, irrobustisce il blues di Tenca. Le vibrazioni si fanno più tese, appesantendo le denunce che i testi vogliono portare a galla. Tutto è amplificato. Il Live riprende otto delle undici canzoni del disco in studio, dalla robusta e trascinante 49 People, alla sofferta Flowers at the gates, passando ai momenti acustici di Spare Parts, e aggiungendo le proprie riletture in chiave blues di Johhny 99, della più leggera Red Headed Woman sempre di Springsteen, scritta per la moglie Patti Scialfa e apparsa per la prima volta nel disco unplugged, Breach in the Levee di Andy J. Forest e il finale affidato al traditional John Henry. Da segnalare, infine, anche il buon lavoro fatto in coppia con Francsco Piu, sull'ultimo album del bluesman sardo.

vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)