martedì 10 aprile 2012

RECENSIONE: MICHAEL KIWANUKA ( Home Again)

MICHAEL KIWANUKA Home Again (Polydor, 2012)

(S)Fortuna vuole che il primo ascolto di questo album avvenga nel primo giorno di sole dopo una settimana di pioggia intensa e quasi purificatrice prima della santissima Pasqua. Le canzoni del giovanissimo Michael Kiwanuka si sarebbero trovate a proprio agio dentro ad abitacoli con tergicristalli in azione, ombrelli aperti in lontanza e mansarde pronte ad accogliere l'imbrunire con la pioggia incessante a bussare per tutta la notte. Michael Kiwanuka è l'ossimoro perfetto di questi anni duemila. Un "vecchio" ventiquatrenne che grazie ai potenti mezzi mass-mediatici (no, qui i talent show non centrano nulla) diventa fenomeno di massa, almeno in Gran Bretagna, dove la BBC lo ha già insignito del prestigioso BBC Sound, che negli ultimi anni non ha sbagliato un colpo. "Volevo avere il lussureggiante suono e la strumentazione che si sentono nei vecchi dischi: suoni caldi e tranquilli . Tanto da far calare l'ascoltatore in questo piccolo mondo, che è ricco di vibrazioni, suoni e colori." Kiwanuka ci riesce perfettamente. Quando parte Tell Me A Tale, con con quei fiati jazzati, difficile immaginare che sul cd (la deluxe edition contiene 2 cd, sul secondo , altre cinque canzoni "Ethan Johns Session") ci sia impressa la data 2012, tanto i suoni, la voce riportano ai tempi "verdi" di Otis Redding, Bill Withers, Marvin Gaye, ma anche il Van Morrison di Astral Weeks e perchè no, il sempre dimenticato John Martin. Kiwanuka, lo si capisce vedendelo e ascoltandolo, è un personaggio vero e genuino. Come vera sembra essere la parabola che lo ha portato alla musica: genitori nativi dell'Uganda, lui nato e cresciuto nel quartiere di Muswell Hill a Londra, dove mamma e papà si sono trasferiti per sfuggire al violento e sanguinario regime imposto da Amin Dada. Lì dove gli si è aperto un mondo, dopo il folgorante ascolto di Bob Dylan, Jimy Hendrix e poi Otis Redding. Scoperte in musica che nella sua adolescenza è stata totalmente assente per un lungo periodo. Poi lo studio della chitarra, i primi concerti accompagnando altri artisti fino a trovare se stesso e le sue confessioni di spirito, mature e sincere: 3 folgoranti EP e Home again, appunto. Home Again, è anche il singolo che ha conquistato mezzo mondo, un folk-soul, vicino anche a Ben Harper, che sa arrivare al primo ascolto e restarci. Registrato negli studi "vintage", ma assolutamente all'avanguardia di Paul Butler ( cantante e polistrumentista dei britannici The Bees), nell'isola di Wight, il disco è un caleidoscopio dove la voce sofferta e soul è protagonista assoluta di testi molto profondi e personali, soppererendo alla poca originalità d'insieme, nelle più essenziali e notturne I'm Getting Ready, nel lento incedere di Rest con la voce che scava in profondità e nel finale blues di Worry Walks Beside Me. La voce è più nascosta dentro alle fughe orchestali e quasi psichedeliche di I'll Get Along, alla swingante e spazzolata Bones, che comunue rimangono canzoni suonate in punta di piedi e mai eccessive e strabordanti a parte I Won't Lie con i suoi cori gospel e tutto il resto. Un equlibrio, a volte, fin troppo perfetto. Il secondo disco (presente nella Limited Edition) contiene cinque brani registrati da e con il produttore Ethan Johns: They say I'm Doing Just Fine, Now I'm Seeing, Ode to you e versioni alternative di I'll Get Along e I Won't Lie. Canzoni rielaborate in modo più essenziale e diretto, prive di troppi orpelli. Forse qui, il Kiwanuka perfetto? Quello live che si potrà ammirare nell'unica data italiana il 20 Aprile ai Magazzini Generali di Milano.(REPORT/LIVE). La retromania ha colpito nuovamente. Ma non vi è futuro senza un solido passato. Home Again è un debutto importante e sincero, ma che naturalmente cela qualche difetto, legato a quella "perfezione" di produzione, ad una pulizia forse eccessiva che rischia di imbrigliare il talento e mettere in secondo piano la voce del giovane Michael Kiwanuka. Una voce che ha bisogno di farsi sentire forte, rivendicando il raggiungimento della propria indipendenza e maturità. Un trampolino di lancio ed un hype da sfruttare al massimo, senza perdersi dentro ai devastanti meccanismi dello show-business. Dan Auerbach dei Black Keys-che sembra saperla lunga, non sbagliando un colpo ultimamente-, non ha perso tempo, tanto che i due hanno già registrato qualcosa insieme, Lasan, b-side che potrete trovare nel primo singolo estratto dall'album: I'm Gettin' Ready. Ora che ha ritrovato la sua "casa", uscire e correre incontro a qualche rischio potrebbe essere interessante. Guardate gli occhi di Kiwanuka e otterrete tutte le risposte sul suo futuro.
vedi anche RECENSIONE REPORT/live: MICHAEL KIWANUKA live@Magazzini Generali, Milano 21 Aprile 2012

venerdì 6 aprile 2012

RECENSIONE: VERONICA SBERGIA & MAX DE BERNARDI ( Old Stories For Modern Times )

VERONICA SBERGIA & MAX DE BERNARDI Old Stories For Modern Times ( Totally Unnecessary Records, 2012)

Le vecchie e belle storie non passano mai di moda, anche se riproposte a quasi un secolo di distanza. Queste storie diventano incredibilmente meravigliose se arrivano da molto lontano anche geograficamente, e se a raccontarcele sono due musicisti lombardi.
Questo disco possiede quel fascino che solo quei dischi impolverati e malandati custodiscono sotto ai fastidiosi fruscii e alla puntina che salta proprio lì, dove sai già che salterà. Rumori che conosci a memoria, mappa di righe su PVC, a cui ogni tanto se ne aggiunge qualcuna di nuova, ma che con i ripetuti ascolti diventano fedeli compagni e sinonimo di calore nostalgico. Ecco, questo è un disco da ascoltare in vinile, consumandolo, anche se l'intento nobile del duo è esattamente l'opposto: diffondere vecchie storie di musica popolare-rurale al mondo moderno, pazienza se verranno usati anche gli invisibili files per essere propagate (sconsigliato ,ovviamente).
Veronica Sbergia e Max De Bernardi avevano già fatto il botto con i loro Red Wine Serenaders (con all'attivo già tre lavori: Aint’ nothing in ramblin -2007 ,Veronica & the Red Wine Serenaders-2009 e D.O.C. -2011), questa volta però si superano mettendosi in coppia, compiendo un lavoro di ricerca certosino, divertente ed appagante: recuperare 15 vecchie storie americane, risalenti al periodo 1910-1939, antecedente alla seconda guerra mondiale (solamente Some Of These Days di Sophie Tucker è datata 1910), soffiarci via la polvere da sopra e riproporle con l'aiuto di strumenti originali ed antichi, registrazione rigorosamente analogica e mono (produzione ad opera del duo , insieme ad Alessandro Zoccarato) ed una schiera di "importanti amici " in aiuto.
Ne è uscito un disco divertente e frizzante. Veronica Sbergia con la sua voce emana sex appeal in canzoni come il blues Press my Button(ring my bell) di Lil Johnson, anno 1936, con i suoi doppi sensi civettuoli (...Where to put that thing...), e in Sweet Papa (mama's getting Mad) .
Non da meno quando a cantare è Max De Bernardi (gran chitarrista, alle prese anche con mandolino e ukulele) in Cigarettes Blues, con la chitarra slide resofonica dell'ospite "professor" Bob Brozman che trama nel blues (datato 1936) di Bo Carter sopra ai versi equivoci che strappano ancora un sorriso malizioso dopo quasi un secolo,"...my cigarette ain't too big...", oppure nel descrivere così bene le ragazze "facilotte" che popolano Beedle Um Bum, canzone dei The Hokum Boys del 1928, che rappresenta così bene un genere di canzoni (Hokum appunto) tanto in voga nel pre-war blues di quegli anni.
Bello anche il contrasto tra le due voci in Keep your Hands Off Her (di Big Bill Broonzy-1935), quella maschia, decisa e consumata di Max e il controcanto sensuale e leggero di Veronica e nel duetto di Gonna lay down my Oold guitar.
The Last Kind words di Geeshie Wiley, con il suo giro di chitarra ipnotico e la voce di Veronica ci catapultano in piena era Delta-blues, anno 1930. Una preghiera sulla crudeltà della guerra che riesce ancora ad emozionare e ad essere incredibilmente evocativa. La mia preferita.

Tutto è prezioso in questo disco, dalla strumentazione usata: la mitica armonica del sessantaduenne Sugar Blue, ospite in Viper Mad e nella conclusiva countryeggiante Charming Betsy, ai vari washboard, mandolini, kazoo, ukulele, contrabbasso; ai generi musicali toccati, "genitori" della musica odierna: ragtime, country, blues, folk, bluegrass, early jazz; alle storie che emanano i sapori, a volte amari, a volte gioiosi, di pezzi di vita vissuti dalle fasce più deboli e povere che cantavano queste canzoni in mezzo a campi di cotone, sulle paludose rive del Mississippi, che descrivono situazioni piccanti dentro a bordelli malfamati, che raccontano dei duri anni della grande depressione americana, che venivano portate in giro nei Medicine Shows o anche quando descrivono , solamente, l'amore più vero.
Un pò tutto come oggi: si balla, ci si dispera, si piange, si amoreggia e si mette sul piatto Old Stories for Modern Times, aspettando il salto della puntina.



vedi anche: WILLIAM ELLIOTH WHITMORE-Field Songs

giovedì 5 aprile 2012

RECENSIONE: MEAT LOAF (Hell in a Handbasket)

MEAT LOAF Hell In A Handbasket (Sony Music, 2012)

Se la carriera di Meat Loaf fosse terminata dopo l'uscita di Bat Out Of Hell , nessuno avrebbe recriminato nulla. In fondo, sia lui che noi siamo rimasti schiavi a vita di quel disco. I tentativi(alcuni ben riusciti, altri decisamente no) di riportare quel dannato pipistrello fuori dai cancelli dell'inferno non si contano più.
Carriera vissuta all'ombra del capolavoro (e dell'alter ego Jim Steinman) con due sequel fortemente voluti: il primo all'altezza , il secondo evitabile, qualche hit centrata (I'd do Anything for Love ) e un maldestro tentativo di tornare alla rock opera con l'ultimo Hang Cool Teddy Bear(2010) . Nulla che potesse avvicinarsi a quel disco e questo, ve lo anticipo subito, si accoda agli altri.
Mai così prolifico come in questi anni (già si parla di un prossimo disco natalizio), dopo un annunciato ritiro (subito smentito) e altri problemi di salute, il nuovo inferno di Meat Loaf è popolato da tanti teschi. Quelli della sua mente di fronte al mondo. Si è liberato di tutti i pesanti pesi che lo affondavano nella spasmodica creazione di un altro musical ingombrante e si è gettato sulla composizione di canzoni personali ("la registrazione più personale che io abbia mai fatto. E’ il primo disco scritto su cosa penso della vita che vivo e delle cose che stanno accadendo in questi giorni”) , dirette, fortemente influenzate dal soul e dal southern rock, donando al disco una propria impronta (pur con l'ausilio di tanti autori), e con qualche caduta di tono, evitabile.
Se All Of Me è una degna apertura che anticipa il pulsante e corale southern soul di The Giving Tree, con Live Or Die, Meat Loaf picchia giù duro con un hard southern rock moderno con il violino di Caitlin Evanson che si ritaglia i propri spazi, ripetendosi con l'urgenza inconsueta e destabilizzante del pesante rock'n'roll punk di Party Of One, che nella sua impetuosità nasconde un testo amaro di vita vissuta.
La band che suona nel disco (in Australia, uscito ad Ottobre 2011) e che lo accompagna in tour , si chiama The Neverland Express è guidata dal chitarrista e produttore Paul Crook e si fa ben apprezzare per compattezza, promettendo spettacolo sui palchi live.
Inevitabile l'amarcord quando compare la brava Patti Russo. I due duettano insieme in una bella versione di California Dreamin' dei Mamas and Papas, impreziosita dall'assolo di sax di David Luther e in Our love & Our Souls. Quasi a ricordare i duetti con Ellen Foley del primissimo disco o la fortunata Dead Ringer For Love insieme a Cher. Questo è il Meat Loaf perfetto, quasi sublime nell'interpretazione della ballad pianistica Forty Days, dove la drammaticità della sua voce esce prepotente nel crescendo della canzone e nelle finali Blue Sky e la radiofonica/pop Fall From Grace.
Quando Meat Loaf vuole strafare sembra combinare dei piccoli disastri, pur nel lodevole intento. Blue Sky/Mad Mad World/The Good God is a Woman and She Don't Like Ugly è una piccola suite in tre atti con una parte centrale hard e possente e il finale affidato al rap, fuori tempo massimo, di Chuck D (Public Enemy), stessa sorte per Stand in the Storm, un southern rock alla Lynyrd Skynyrd che i tre ospiti presenti, mettendoci del loro, finiscono per rovinare: il cantante country Trace Adkins, il rapper Lil Joh e Mark McGrath, cantante dei Sugar Ray. Un frullato con troppi ingredienti.
In fondo, il buon Meat Loaf potrà continuare a far dischi da qui all'eternità (inferno?), ma quando ripenso a lui, rivedo sempre il paffuto ragazzone sudato con il fazzoletto in bocca del 1977 e il mio primo compcat disc acquistato nel passare dai vinili al laser: erano i primi anni novanta ma il cd era sempre quel Bat Out of Hell del 1977.

lunedì 2 aprile 2012

RECENSIONE: RAY WYLIE HUBBARD ( The Grifter's Hymnal )

RAY WYLIE HUBBARD The Grifter's Hymnal (Bordello records, 2012)

Ray Wylie Hubbard è un poeta ubriaco-ma assolutamente lucido- che insegue ancora i propri sogni (citando la sua Drunken Poet's Dream del precedente disco, cantata e scritta anche dal suo più credibile erede Hayes Carll ). Hubbard ha mantenuto quell'aura da puro e reale che il tempo non è riuscito a cancellare ma ad amplificare ancora di più. Dopo il suo ritorno negli anni novanta, non ha più smesso di comporre musica e Grifter's Hymnal, seppur sia solo il quindicesimo disco in quarant'anni di carriera, è fresco e tagliente come sempre, proseguendo e rinforzando il già buono e precedente A.Enlighttenment.B.Endaerkenment (Hint:There is no C)(2010).
Le sue canzoni puzzano ancora di alcool e sabbia di deserto texano, evocano serpenti striscianti e tentatori intorno alle punte di stivali pitonati e bottigliette di medicinali abbandonate davanti a vecchie chiese battiste; corrono su quelle autostrade che portano diritte all'inferno dove il blues incrocia il country da fuorilegge e la sua voce roca e consumata legge il sermone in modo credibile e affabulatore proprio come i truffatori di cui ci racconta: gente che si guadagna da vivere sfruttando le nostre debolezze. Lì in mezzo, tra il bene e il male, c'è Hubbard che ci indica quale strada prendere e non sempre è quella che ti aspetti.
Nessun pelo sulla lingua in New Year's Eve At the Gates of Hell un talkin' blues con tante citazioni eccellenti(anche Neil Young con i suoi Crazy Horse), nella biografica e cinematografica Mother Blues, tra bordelli di quart'ordine e spogliarelliste, dove con fare da consumato Johnny Cash ci racconta anche della sua famiglia. Famiglia ben presente nella sua vita artistica: la moglie Judy fa da manager ed il giovane figlio Lucas con la sua chitarra si ritaglia sempre più spazio nella musica di papà.
Hubbard marchia le canzoni con i suoi ululati in honky tonky trascinanti e chitarristici come South of The river con il piano suonato da Ian McLagan, rievocando gli stones più maledetti, blues scollacciati (Train Yard), si schiarisce la voce e da vecchio saggio ci parla del suo modo di prendere la vita nella spassosa Coochy Coochy in compagnia di Ringo Starr (autore della canzone , b-side nel suo vecchio Beaucoups Of Blues-1970) ai controcori e percussioni (sostiuendo per una canzone il batterista titolare Rick Richards), replicata da
Henhouse, spavalda danza honky tonky con il diavolo sottobraccio e dal tambureggiante inizio di disco affidato alla breve Coricidin Bottle.
Efficace, pungente ed ironico in Lazarus, tra slide ubriache e clap-hands, profondo e cinico in Red Badge Of Courage. Visioni e punti di vista puri e personali della sua America e dei suoi abitanti, gli stessi in cerca di redenzione che Hubbard,vestito da sceriffo/predicatore operante in ghost town da antico west, ricerca in Moss and Flowers e Count My Blessings, conscio che tanto alla fine bisogna rendere conto di tutto a Dio (Ask God).


vedi anche: DAVE ARCARI-Nobody's Fool





vedi anche: SHOOTER JENNINGS-Family Man




vedi anche: LUCERO-Women & Work

venerdì 30 marzo 2012

RECENSIONE: DAVE ARCARI (Nobody's Fool)

DAVE ARCARI Nobody's Fool ( DIXIEFROG Records-licensed from BUZZ, 2012)

A garantire per lui ci pensa Seasick Steve: "Dave suona come se avesse la pelle sottosopra e quando lo ascolto anche la mia pelle fa lo stesso. Quel ragazzo sanguina per voi. E' un musicista profondo ed un vero soul man".
Dave Arcari ringrazia, facendosi crescere una lunga barba somigliante a quella del buon vecchio Steve e attirandosi le classiche simpatie da "primo sguardo".
Nobody's Fool è il quarto album solista (Come With Me-2007, Got Me Electric-2009, Devil’s Left Hand-2010) del bluesman scozzese, già nei Radiotones e si appresta a diventare l'album del riconoscimento internazionale anche per via di alcune importanti collaborazioni e per il metodo con cui è stato compilato, quasi fosse un greatest hits della sua carriera.
Registrato tra Glasgow in Scozia e Helsinki in Finlandia ma assolutamente radicato negli States, tanto il blues del chitarrista è semplice, viscerale, reale e legato alla tradizione del Delta, anche se il folk della sua terra natia è spesso presente e fa qualche incursione come nella triste McPherson's Lament, folk traditional scozzese , ripreso e riarrangiato per sola voce, chitarra e violino (suonato dallo scozzese Jamie Wilson), oppure nell'altro traditional folk Loch Lomond.
Nobody's Fool si compone di cinque canzoni nuove e otto riprese dai suoi precedenti dischi, tra autografe e covers, e riregistrate per l'occasione anche in presenza di una full-band tutta scandinava e sotto la produzione del connazionale Paul Savage, batterista dei The Delgados, che partecipa anche, suonando il proprio strumento nella finale, percussiva, aggressiva e straniante Dragonfly, con Arcari impegnato con la singolare Diddley Bow.
Un personaggio istintivo e passionale,impossibile rimanere impassibili davanti al suo capellaccio calato sugli occhi, alla slide impazzita, alla voce cavernosa e graffiante e alla sua carica fieramente indipendente che trova nei live show pieno sfogo. Provate ad ascoltare il classico di Robert Johnson, Walkin' Blues suonato full-band con Jauso Haapasalo al basso e Honey Aaltonen alla batteria, è trascinante quanto e come lo è Hot Muscle Jazz prepotente blues per sola voce luciferina e chitarra, come un Tom waits "ghignante" affogato nel mare della slide dobro.

Per Dave Arcari fa poca differenza, passare dal suo blues cattivo, incisivo ed in crescendo di Troubled Mind, suonato con la band e l'armonica di Jim Harcus, ad un traditional folk come Baby, Let Me Follow, suonata in solitaria come fosse il primo Dylan al Greenwich Village; o passare da un altro traditional come See That My Grave per sola voce e banjo a Nobody's Fool e Blue Train intrise nel Rockabilly/Country come l'iniziale Devil's Left Hand è intrisa nel blues con il cartello "anima venduta al diavolo" inchiodato con chiodi arruginiti e maledetti.
Arcari rientra in quella ristretta schiera di personaggi anticonvenzionali e dinamici a cui basta una grande personalità, una chitarra ed una voce graffiante per conquistare. Proprio come Seasick Steve: pochi orpelli e la filosofia della semplicità. Lasciatelo sanguinare.

INTERVISTA A DAVE ARCARI

vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI and the HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)




vedi anche:SEASICK STEVE-You can't teach an old dog new tricks




mercoledì 28 marzo 2012

RECENSIONE: PAUL WELLER (Sonik Kicks)

PAUL WELLER Sonik Kicks ( Island, 2012)

La classe (non) è acqua. Difficile contenere ondate alte, cariche e tempestose. Acqua che si propaga impetuosa, quasi avesse la voglia di esplorare ogni anfratto asciutto sulla sua strada. Paul Weller è uno tsunami di "classe", di idee e di quella voglia di non fermarsi mai davanti a nulla e nessun ostacolo.
Dopo 22 Dreams(2008) e Wake Up The Nation(2010), continua a dar libero sfogo alla sua creatività senza imbrigliarla dentro schemi, suoni o generi. Sonik Kicks continua l'opera dei due precedenti dischi e ancora una volta sorprende, alzando ancora di più il tiro della sperimentazione. Uno come lui, insignito dell'onore/onere di padre di tante famiglie (Mod Revival e Brit Pop), potrebbe starsene tranquillo con il suo più che abbondante repertorio di successi, ed osservare i propri figli crescere e litigare (in questo disco ci sono proprio tutti: da quelli di sangue-ho perso il conto dei suoi figli- a quelli putativi in ambito "artistico") ma Paul Weller è acqua, incontenibile e pure fresca. Fresco come suonava il suo post-punk elegante con The Jam, prima di porre loro fine all'apice del successo, fresco come il soul/jazz pop di classe dei primissimi Style Council prima che cadessero vittima di loro stessi e come lo è ora a 53 anni, con la zazzera bianca e impeccabile doppiopetto di ordinaza.
Sempre deciso nelle sue sorprendenti scelte artistiche, Weller sembra divertirsi ancora una volta.
Riprende il discorso da Whatever Next e Up The Dosage del precedente disco: l'apertura Green è un rumoroso battito psichedelico che si nutre di Kraut Rock, loop e synth. Un caos ordinato quasi stordente se vi immaginate dentro ad una discoteca di Berlino in pieni anni settanta con le luci simili a quelle che lo ritraggono in copertina che vi scaldano ed accecano, in coppia con il volume altissimo che vi rende sordi. Il tutto è ripreso anche nelle chitarre mimetizzate che compaiono qua e là in Around the Lake e Kling I Klang, marcia impetuosa tra Clash, il Bowie berlinese e uno spettacolo circense a cui la strumentale Sleep of the Serene, tra archi e rumori, fa da chiusura e da introduzione per By the Waters, dove ancora gli archi di Sean O'Hagan diventano protagonisti di una dolce ballata pop che cattura e conquista.
Anche Sonik Kicks è un concentrato di canzoni che non seguono una logica, disomogeneo a ben ascoltare, nel passare da un umore ad un altro. A tratti difficile da seguire come lo erano stati i due precedenti, ma con almeno un poker di canzoni di alto livello e con una vena sperimentale che riesce ad unire il tutto, facendomelo preferire ai due ultimi dischi. Capita così di passare da il Dub jazzato ed ipnotico della particolare,lunga ed inusuale Study in Blue cantata con la giovane moglie Hannah Andrews, ai venti secondi di noise di Twilight che introducono Drifters un meltin pot musicale ipnotico e circolare che include, tra le tante cose, anche una chitarra flamencata; la psichedelia di When your Garden's Overgrown e Paperchase con le sue melodie mediorientali e la disamina sui lati più oscuri che si celano nel successo, fino ai bilanci sull'età che avanza in That Dangerous Age con quel mood che ricorda vagamente i Doors di Hello,I Love You.

Si parlava di figli, eccoli: quelli di sangue nei cameo della finale e soul Be Happy Children, con piccole parti per la figlia Leah ed il piccolissimio Mac; e poi i figli "musicali" nel brit pop di The attic con Noel Gallagher(Oasis) all'inusuale basso e in Dragonfly con Graham Coxon(Blur) al piano hammond a rinverdire il passaggio di consegne che avvenne con l'album "capolavoro"Stanley Road nel 1995 .
Paul Weller conferma l'unicità della sua scrittura. Chi potrebbe passare dalle acque tempestose dall'elettronica postmoderna e della psichedelia, alle acque calme e confidenziali del soul fino ad inserire le voci di moglie e figli in contesti easy listening"zuccherosi", risultando credibile e mai pacchiano? L'impressione è quella di un disco in cui Weller mette alla prova (ancora una volta) la sua scrittura. Il suo lato di esplorazione sembra non conoscere confini, cadendo in alcuni casi in una certa aureferenzialità che potrebbe risultare indigesta e poco appetibile ad un ascolto sommariamente distratto, per poi conquistare nel volgere degli ascolti.
Uno dei dischi più appariscenti della sua ultratrentennale carriera. Una volta si diceva: Only for fans. Se non lo siete ancora, diventatelo ora, Sonik Kicks diventerà anche vostro.
Appuntamento live a Vigevano il 12 Luglio 2012.

vedi anche RECENSIONE: DEPECHE MODE-Delta Machine (2013)



lunedì 26 marzo 2012

RECENSIONE: MIAMI & THE GROOVERS ( Good Things )

MIAMI & THE GROOVERS Good Things ( Autoprod., 2012)

Che differenza passa tra i pensieri di un turista italiano seduto al tavolo dell'Amy Omlette House sulla Ocean Blv nel New Jersey in pieno inverno davanti alle onde dell'oceano atlantico ed una ruota panoramica ferma e stanca che riposa sullo sfondo, ed un turista americano seduto nel bar deserto di una Rimini invernale davanti ad un cappuccino italiano fumante ed un'insegna "bagnino" incollata dietro ad uno sdraio a riposo forzato fino al mese di Giugno? Ascoltando il terzo lavoro dei riminesi Miami & The Groovers (dopo Dirty Roads-2005 e Merry go round-2008), guidati da Lorenzo Semprini (voce e chitarra), quei pensieri diventano globali e metaforicamente tolgono un po' di chilometri alla distanza che separa i due luoghi fisici. Di differenze non ce ne sono proprio. La dura pioggia scende giù per tutti, americani e romagnoli.
Undici canzoni (più due brevi intro) che raccontano i sogni di chi non ha smesso di guardare lontano. Oltre mare ed oceani c'è ancora la luce della speranza, nonostante i tempi bui sembrano raccontarci ed imporre il contrario.
Good Things parla di quelle cose buone che ci fanno ancora battere il cuore: sia che escano da rock'n'roll trascinanti come Burning Ground, con i suoi riff garage, proto-punk delle chitarre di Beppe Ardito ed un testo dove il viaggio diventa fuga e droga salvifica, On A Night Train (che musicalmente ricorda tanto i '70 di Lou Reed quanto l'America pruriginosa che piaceva alla prima Gianna Nannini), The Last R'n'R Band, inno alla vita on the road dei musicisti, in bilico tra il vecchio Bob Seger "da arena rock" ed il nuovo rock del New Jersey dei Gaslight Anthem, o l'iniziale singolo Good Things, personale e punto su cui partire per scrivere il futuro.
Oppure ci sono i cuori che battono ancora per un amore nella ballad Before your Eyes, nell'amore per la propria terra e i suoi abitanti in Audrey Hepburn's Smile e nella romantica lettera di Postcards, suggestiva ballad pianistica introdotta da Israel Nash Gripka che recita i versi di "You can't go back home.
La bella Walkin' All Alone, con l'ospite Riccardo Maffoni alla voce, come se i migliori REM fossero ancora tra di noi e aggiungessero un violino (suonato da Heather Horton), il trascinante beat-blues alla Bo Diddley di Under Control che diventa la loro personale She's the One, le immagini western e da viaggio su highways di Cold in my Bones. Nella finale We're Still Alive c'è anche il tempo di urlare e lasciare un segno di vita, sulle allegre note di un irish -combat folk in stile Flogging Molly.

I Miami & The Groovers rilasciano un disco vario e fresco che su una strada tributa ed omaggia i propri miti musicali (tutti quelli citati e molti altri), ma su un'altra immediatamente parallela sa creare un proprio percorso personale, schietto e sincero, da seguire come esempio per tutte quelle bands che non vogliono continuare a passare la loro vita a coverizzare i grandi dentro i pubs di provincia ma sognano di calcare quei palchi oltreoceano che i Miami & the Grovvers sono già riusciti a calpestare, suonando fianco a fianco ai loro (nostri) idoli. Non solo premio di tanti sacrifici ma vero punto di partenza per il domani.
Ecco che quelle due strade parallele diventano una strada sola, il mare adriatico e l'oceano atlantico diventano un'unica distesa d'acqua. La musica unisce tutto. Mica poco.


vedi anche: CESARE CARUGI-Here's to the Road




vedi anche: CIRCO FANTASMA-Playing with the Ghosts




vedi anche: VOLCANO HEAT-Vive le Rock!



venerdì 23 marzo 2012

RECENSIONE: VOLCANO HEAT ( Vive le Rock! )

VOLCANO HEAT Vive le Rock! ( Go Down Records, 2011)

In mezzo a tanti gufi e mammasantissima a cui piace celebrare la morte del rock con funerali inventati e creati ad hoc per far nascere discussioni, utili come la neve in città con l'arrivo della primavera, finalmente qualcuno che fieramente si lascia scappare un grido universale: Vive le Rock!, senza la paura di apparire vetusto o retorico.
La copertina filosovietica, le scritte in stile locandina e lo stesso titolo lasciano poco trasparire sulla provenienza geografica di quel grido.
The Volcano Heat sono italiani e con il loro primo lavoro, dopo due ep di rodaggio (And the Light Goes Out-2008, Surrender/Live at the Blocco A-2009), hanno tutto il diritto di gridare forte e chiaro il genere che suonano. Sì, perchè trovare etichette è veramente difficile. Tante sono le fonti a cui i veneziani si ispirano per comporre le undici tracce di Vive le Rock!. Un disco che riesce a scorrere piacevole e veloce senza cedimenti nei suoi soli 35 minuti di durata, omaggiando in maniera viscerale il rock più sanguigno e diretto.
Pur uscendo per La GoDown Recods, etichetta a "tutto Stoner rock", in Vive le Rock! convivono in pefretta sintonia: il dark/street rock di Shake your head che potrebbe ricordare i vecchi The Cult o i migliori D.A.D., mentre Restless omaggia uno dei gruppi preferiti dal trio veneto, i mai troppo lodati Warrior Soul di Kory Clarke; il punk contaminato di rock'n'roll dei Clash in Today, che riesuma anche le vecchie strade battute dai marchigiani Gang negli anni ottanta, ma anche la ricca e florida scena rock'n'roll scandinava degli anni novanta; l'urgenza rock'n'roll/stoner di These Days un crocevia perfetto tra Danko Jones e i Queens of the Stone Age.
White Rays White Heat che omaggia nel titolo i Velvet Underground e la cover "appesantita" di Come Togheter (Beatles) possiedono il dono di far battere il piede e agitare la testa, rimandando alla più florida ed ispirata stagione del rock.
Ci sono le chitarre garage di Luca Picchetti che non disdegnano di ripercorrere le strade del vecchio hard/blues degli anni settanta, quanto il proto-punk della scena di Detroit (Sky e Secrets), con l'apporto di Gene al basso e
Andrea Vianello alla batteria, sulla scia dei migliori power trio dell'epoca con quella vena melodica sempre presente a far da collante.
I Remember, suona come suonerebbero i Doors senza l'hammond nell'anno 2012 e la finale e breve Everything is Right suona come suonerebbero i Doors con l'hammond nel 1968.
Canzoni che sopra ad un palco, libere da alcune pulizie di produzione, potrebbero( con il condizionale perchè non li ho mai visti live, ma sono sicuro che è così) far riesumare vecchi e antichi fantasmi. Quelli che non fanno più paura, che conosci, che magari hai già sentito mille volte, a cui sei affezionato ma che ti fanno gridare ancora: viva il rock! Perchè in fondo cosa pretendiamo ancora da quella parola di quattro lettere? Possiamo solo ineggiarne e benedirne l'esistenza.


vedi anche: The PEAWEES-Leave it Behind

mercoledì 21 marzo 2012

RECENSIONE/LIVE Report: RICHIE KOTZEN+Porn Queen Live@Rock'n'Roll Arena ,Romagnano Sesia(NO) 20 Marzo 2012


Si può uscire dal concerto di uno de più grandi chitarristi viventi ed essere stati impressionati oltre che dalle sue mani sulla Fender,anche dalla sua voce? Con Richie Kotzen sì.
Lontanissimi i tempi delle grandi arene e dei fans giapponesi urlanti(nonostante mantenga un seguito da culto in Asia e SudAmerica), Richie Kotzen ha compiuto una scelta artistica e di vita degna di rispetto e di grande coraggio. Astro nascente della chitarra a soli ventitre anni, dopo già tre dischi solisti incisi, entra nei glam-streeter Poison, imponendo la sua personalità e rivestendo di blues un gran bel disco come Native Tongue (1993)(vi ricordate del singolo Stand?), facendo compiere alla band dellla Pennsylvania un notevole passo artistico e di qualità. Purtroppo per motivi di gossip e malelingue ( per informazioni,chiedere al batterista Rikky Rockett) il sodalizio dura pochissimo.
Nemmeno il tempo di prendersi i meritati elogi che Kotzen si ributta nella carriera solista, salvo essere ripescato dai "milionari" Mr.Big, orfani momentanei di Paul Gilbert che approfitteranno della sua chitarra. Con loro incide due album (Get Over It-1999 e Actual Size-2001) per poi decidere di continuare a coltivare con cura il proprio orticello; liberandosi di certi stereotipi legati ai guitar heroes per diventare un musicista/cantautore a tutto tondo, che lo ha visto poliedricamente impegnato in svariati stili musicali: dal jazz(collaborando con Stanley Clarke e Lenny White), alla fusion(in collaborazione con Greg Howe), dall'hard rock al pop fino ad abbracciare in toto il calore del blues venato di soul/funk, arricchito dalle molteplici sfumature della sua vocalità straordinaria. Proprio la voce fa la differenza tra un qualsiasi guitar-hero e Richie Kotzen (anche buon batterista e pianista).
Al Rock'n'Roll Arena di Romagnano Sesia(NO) presenta il suo nuovo album 24 Hours, uscito nell'autunno del 2011, ultimo di una sterminata discografia (senza contare le collaborazioni).
Ad aprire la serata ci pensano i lussemburghesi Porn Queen, gruppo dalla cosmopolita line up, composta da due lussemburghesi e due brasiliani, che sta seguendo Kotzen in giro per l'Europa. All'attivo hanno il solo ep Devil's way uscito nel 2011. Il loro è un hard rock potente, tanto legato ai settanta, quanto al lato più pesante del grunge. Addicted, la finale Pick Pocket e la cover "appesantita" di Paperback Writer dei Beatles conquistano e convincono nella loro semplicità.

In questa ultima data del suo tour europeo (la sera prima era a Trieste) Richie Kotzen si presenta sul palco accompagnato dal solido e bravo bassista Dylan Wilson e dal'essenziale batterista Mike Bennett, catalizzando subito gli sguardi grazie al look da "bello e maledetto" ed una presenza scenica perfetta (per gli occhi rapiti delle donne presenti).
La scaletta è incentrata sull'ultima produzione, quella più legata al suo personale amalgama di blues/funk e soul. Il suo best-seller Into the Black del 2006, insieme all'ultimo disco 24 Hours sono i più saccheggiati.
Quello che stupisce maggiormente è l'estrema concentrazione di Kotzen (cantare e suonare in modo eccelso non è assolutamente facile), che a volte va a discapito del puro contatto con il pubblico che comunque rimane entusiasta, apprezzando oltre l'indubbia tecnica chitarristica , che con il tempo ha acquistato quel feeling blues (senza dimenticare lo shredding di inizio carriera) che lo distanzia dalla vetrina di mera dimostrazione di bravura che non gli appartiene, lasciando ad altri pose e atteggiamenti da rockstar. Kotzen si fa trasportare emotivamente, sinonimo di quanto creda alle strade musicali su cui sta viaggiando.
Le sue mani corrono veloci sulle sue Fender dall'iniziale Bad Situation fino alla finale Go Faster, unico ma aprezzatissimo encore, pescata insieme a Fooled Again dal quel straordinario album che fu Return Of The Mother Head's Family reunion(2007), uno dei miei preferiti della sua discografia.
In mezzo c'è tutto il suo repertorio fatto di velocità (24 Hours), funk (Help Me), ballads incantatrici ( My Angel e Livin' in Bliss) e la straordinaria vocalità calda e soul dimostrata in Love is Blind. Inutile dire che tutte le canzoni acquistano vigore rispetto alle versioni su disco.

E poi l'hard/blues di You can't save me, nella jam finale di Fooled Again(qui il pubblico è finalmente protagonista) e del pezzo strumentale dove a mettersi in mostra è la sua band, fino ad arrivare al gran finale con la tiratissima Go Faster, preceduta da un bel intro.
All'uscita di scena, il pubblico non numerosissimo ma rumoroso (qualcuno ha anche affrontato un lungo viaggio da Bari pur di vedere il proprio idolo) cerca di rassegnarsi alla fine ed abituarsi nello distogliere lo sguardo, fisso per un'ora e mezza, da quel catalizzatore di nome Richie Kotzen. Soddisfatto chi cercava la tecnica, chi il calore e chi, semplicemente,una serata di buona musica. Gran personaggio, come pochi, e gran concerto.


martedì 20 marzo 2012

RECENSIONE: SHOOTER JENNINGS ( Family Man)

SHOOTER JENNINGS Family Man (ent.ONE, 2012)

Dopo le sbornie da rock opera del prolisso e futuristico Black Ribbons(2010), Shooter Shennings abbandona le manie di grandezza e realizza l'album più personale ed introspettivo della sua carriera. Quello che anche papà Waylon avrebbe potuto apprezzare con fierezza. Registrato e prodotto da lui stesso a New York con una band nuova di zecca, Family Man è solo la prima parte di un progetto musicale più ampio, con il secondo tempo che dovrebbe uscire il prossimo settembre.Un album essenzialmente country ed intimista che sembra riportare ordine nella carriera di Shooter e confermare quanto il titolo dell'album esprime:la maturità artistica e personale di un uomo, papà di due bimbi, sposato con l'attrice Drea De Matteo, che superati i trent'anni sente il bisogno di bilanci e profonde riflessioni lasciando da parte (temporaneamente?) la spavalderia un po' sopra le righe da southern rocker che lo ha sempre contraddistinto. L'ascolto del country crepuscolare di Daddy's Hands, speciale dedicata al padre malato della compagna che ha riacceso in lui vecchi fantasmi, dedica estendibile a tutte le figure paterne che ci hanno lasciato prematuramente(papà Waylon compreso), la solitaria e nera Black Dog, sulla scia dell'ultimo Johnny Cash e la finale Born Again con il violino dell'ospite Eleanor Whitmore sono un biglietto da visita più che credibile. Insieme al country più tradizionale che esce dalla dedica d'amore di The Deed and the Dollar e da Summer Dreams(Al'Song), si fanno notare il blues acustico di The family tree e la più radiofonica del lotto The Long Road Ahead con la chitarra di Tom Morello, ormai richiesto come il prezzemolo in cucina, ma presenza quasi indecifrabile come nel disco di Springsteen, se non per un brevissimo assolo. Più consistente, nello stesso brano, la presenza del violino ed il controcanto di Eleanor Whitmore.
Per chi invece ha sempre preferito la sua vena da rocker rimangono l'iniziale confessione honky tonk The Real Me e le chitarre elettriche di Manifesto N.4 e della più pesante e polverosa Southern Family Anthem, dove a mettersi in mostra è la nuova band che lo accompagna, The Triple Crown.
Shooter Jennings continua il suo personale viaggio nella musica, iniziato in tenera età sopra i tour bus insieme a papà Waylon e mamma Jessi Colter. Un viaggio a volte confuso, altre volte più delimitato e messo a fuoco come in questo Family Man. Un figlio d'arte paragonabile solamente ad un altro figlio/nipote d'arte: Hank III.


vedi anche: LUCERO-Women & Work




vedi anche: NORDGARDEN-You Gotta Get Ready




vedi anche: The KENNETH BRIAN BAND- Welcome to Alabama



vedi anche: SHOOTER JENNINGS-The Other Life (2013)



domenica 18 marzo 2012

RECENSIONE: PONTIAK (Echo Ono)

PONTIAK Echo Ono ( Thrill Jockey, 2012)

Appena passati in tour in Italia (purtroppo me li sono persi e a quanto pare...ho sbagliato), i Pontiak sono uno gruppo da maneggiare con grande cura. Al terzo ascolto, però, se amate il post-stoner psichedelico senza barriere e steccati, sarete già conquistati dal trio , formato da tre fratelli (abbandonate subito l'idea di paragonarli ai fratelli Followill dei Kings Of Leon, qui siamo su altri territori, fortunatamente).
Echo Ono è il loro nono disco in soli sette anni e promette di saggiare la maturità dei fratelli Carney -che leggenda vuole domiciliati con rispettive famiglie sotto lo stesso tetto di una fattoria nelle Blue Ridge Mountains nel cuore della Virginia-, elevandoli a gruppo tra i più interessanti in circolazione, grazie a canzoni più dirette ed immediate rispetto al recente passato ma soprattutto grazie alla grande capacità di riunire sotto lo stesso tetto hard, psichedelia, stoner (poco questa volta) ed una vena folk molto più marcata e sorprendentemente efficace soprattutto nella parte centrale del disco. Le belle armonie vocali di Vain Carney nella straniante Silver Shadow, The EXpanding Sky e Stay Out What a sight sono un saggio di bravura e di coesione che richiama il forte legame sia di sangue che con il territorio e la natura che li circonda, non allontanandosi troppo dalla prima psichedelia pinkfloydiana e la libertà hippy e rurale da west coast, ma prendendo invece le distanze dagli agi della società moderna, guadagnandone in ispirazione, colori e simpatia. Quasi dei Fleet Foxes elettrici.
Prima di arrivare qui, dovrete passare per l'iniziale hard/grunge di Lions Of Least dove il basso pulsante di Jennings non è mai in ombra ma gioca parti importanti quanto i duri riff chitarristici di una canzone tanto breve quanto efficace, puntellata dall'organo e non così lontana da quanto proposto dai Black Mountain, così come in Across The Steppe che richiama i cari ed amati Kyuss. La produzione di tutto l'album è voltumante scarna e live, strumentazione assolutamente vintage con poche concessioni a qualche organo e mellotron di abbellimento. Strumenti analogici e minimalismo allo stato puro per far risaltare il tutto, così su disco e ancor di più live. A beneficiarne sono le improvvise scariche elettriche di The North Coast e i grossi riff di Left with Lights, vero punto d'incontro tra il passato hard/blues dei '70 e l'alt rock '90.
A concludere, quasi a seguire la scaletta di un ipotetico concerto, due canzoni che fanno completamente perdere la cognizione temporale: Royal Colors parte psichedelica e soffusa per concludersi in modo colossale, immediatamente ripresa dalla conclusiva Panoptica, sei minuti strumentali di pura cacofonia psichedelica con la batteria di Lain libera di sfogarsi e feedback chitarristici disturbanti a disegnare l'ultima delle tante sfumature musicali che i Pontiak sono riusciti a dipingere in poco più di mezz'ora in uno dei dischi da playlist di fine anno.

venerdì 16 marzo 2012

RECENSIONE: LUCERO (Women & Work)

LUCERO Women & Work ( ATO Records, 2012)

Avete presente la straniante sensazione da post serata alcolica e bagordi che si prova al risveglio in una domenica mattina come tante altre, resa diversa solamente dalle cronache spinte provenienti dai ricordi del sabato appena trascorso? La stessa provata dal gruppo di amici protagonisti del film Una notte da Leoni dopo aver slacciato i sensi inibitori a Las Vegas? Il film del regista Todd Phillips non è un esempio altissimo ma rende pienamente l'idea di quell'humor tra il divertito ed il melanconico che ti assale al risveglio. Quella è la sensazione che il nuovo album dei Lucero, il settimo della loro carriera, mi ha lasciato. Women & Work non ripete vecchie e calpestate formule, per cui se non volete rimanere delusi: allargate e aprite bene le vostre menti. Se in testa avete ancora i loro vecchi, rozzi e diretti dischi con le liriche intrise di incazzoso pessimismo, lasciate, oppure rilanciate(consigliato). Women & Work dividerà. A me è piaciuto. Molto.
Questa volta i fiati, che sono apparsi per la prima volta nella loro musica nel precedente 1372 Overton Park , si impossessano completamente della scena ed il Menphis sound, almeno nella prima parte del disco, è presente e dominante. Ben Nichols perde qui la sua peculiare e riconoscibile voce e si adatta maggiormente a canzoni più stratificate e soul, dalla produzione(affidata a Ted Hutt) certo più pulita, ma pienamente trascinanti e dirette. Come rimanere impassibili di fronte ad un honk-tonk intriso di soul come la title track Women & Work, con i fiati di Jim Spake e Scott Thompson ad imperversare come fossimo dentro ad uno dei più chiassosi bar con tante bevute al bancone che ti aspettano durante la nottata. Il bar Buccaneer non appare così tante volte in modo casuale durante l'ascolto del disco, tanto da rendere Juniper un Southern boogie ad alta gradazione alcolica.
La ricetta è semplice, almeno in questa prima parte di canzoni: il duro lavoro di una settimana, per un semplice uomo del sud, merita una giusta rincompensa nel fine settimana: donne e alcol, per quanto il tutto possa apparire semplicistico e retorico, rappresentano il vero diversivo per milioni di americani(per la gioia delle femministe)."Si lavora tutta la settimana, pensando alle donne e al weekend", dice Nichols." 'Downtown'(la canzone in apertura) è Venerdì sera, 'Go Easy'(la canzone posta in chiusura) è Domenica mattina. Il resto del disco è la parte in mezzo".
Bramare l'appuntamento con una ragazza il sabato sera e progettare la fuga in sua compagnia nelle ballads intrise di soul It May be Too Late e Who You waiting On? è l'unico sogno romantico concesso.
Invitare a lasciarsi andare e divertirsi con l'arrivo del fine settimana, e poi farsi scappare la promessa "tanto sarò buono stanotte" nell'iniziale On My Way Downtown (e la sua breve intro, non lontana dal Jersey Sound di Southside Johnny) è beffardo e poco rassicurante: a cosa dobbiamo credere? All'onestà, visto come prosegue il disco.
La seconda parte del lavoro è un piccolo bilancio di vita dopo le follie delle ore piccole: la solitudine e le laceranti relazioni amorose (I Can't stand to leave You), rimpianti e profonde riflessioni di vita (la bella When I was Young), i silenzi dei luoghi (Sometimes), musicati su cullanti, desertiche e riflessivie country/rock songs che faranno storcere il naso a chi ricorda i primi e grezzi passi della band.
L'unica concessione al passato sembra arrivare dai pruriti rock'n'roll di Like Lightning, dove la voce di Ben Nichols torna roca nel raccontare di donne, labbra e baci tuonanti.
Sicuramente la canzone simbolo del disco, nel rappresentare così bene le varie sfumature del nuovo suono dei Lucero.
Il disco si conclude con il migliore degli auspici: "vai felice". Go Easy è una gospel-song corale e contagiosa che non ti aspetti ma che accogli con il sorriso, accompagnata dalle voci femminili delle "the Ho-Moams" e di Amy Lavere.
In un momento in cui tutti guardano al passato e alle radici della musica (come i compagni di tour Social Distortion), anche i Lucero si guardano indietro e ritrovano la loro città: Memphis vuol dire Stax, Sun e Elvis.
"Quando abbiamo iniziato, stavamo costruendo su fondamenta che non conoscevamo ancora", afferma il chitarrista Brian Venable."Ascoltando di nuovo le nostre cose passate, ci sono molti riferimenti ai vecchi Sun Records. Allora, non l'abbiamo percepito ma riusciamo a farlo solamente ora"
La stella luminosa per qualcuno avrà la sua luce affievolita, io continuo a vederla ben luminosa. Il loro sound e la line up si stanno arricchendo(pianoforti, lap steel, fiati) con il passare degli anni, non venendo mai meno alla loro attitudine e raccontando una parte di States meglio di chiunque altro. E poi, come imbrigliare musicalmente una band nata camminando lungo Beale Street a Memphis?
I nostri che rimangono ai lavori forzati all'interno di un tipico diner americano (nelle foto del booklet) la dicono lunga su come sia andata la sera prima. Dopo il weekend c'è sempre un lunedi.


vedi anche: SOUTHSIDE JOHHNY and The ASBURY JUKES-Pills and Ammo



vedi anche: GASLIGHT ANTHEM-American Slang