giovedì 5 aprile 2012

RECENSIONE: MEAT LOAF (Hell in a Handbasket)

MEAT LOAF Hell In A Handbasket (Sony Music, 2012)

Se la carriera di Meat Loaf fosse terminata dopo l'uscita di Bat Out Of Hell , nessuno avrebbe recriminato nulla. In fondo, sia lui che noi siamo rimasti schiavi a vita di quel disco. I tentativi(alcuni ben riusciti, altri decisamente no) di riportare quel dannato pipistrello fuori dai cancelli dell'inferno non si contano più.
Carriera vissuta all'ombra del capolavoro (e dell'alter ego Jim Steinman) con due sequel fortemente voluti: il primo all'altezza , il secondo evitabile, qualche hit centrata (I'd do Anything for Love ) e un maldestro tentativo di tornare alla rock opera con l'ultimo Hang Cool Teddy Bear(2010) . Nulla che potesse avvicinarsi a quel disco e questo, ve lo anticipo subito, si accoda agli altri.
Mai così prolifico come in questi anni (già si parla di un prossimo disco natalizio), dopo un annunciato ritiro (subito smentito) e altri problemi di salute, il nuovo inferno di Meat Loaf è popolato da tanti teschi. Quelli della sua mente di fronte al mondo. Si è liberato di tutti i pesanti pesi che lo affondavano nella spasmodica creazione di un altro musical ingombrante e si è gettato sulla composizione di canzoni personali ("la registrazione più personale che io abbia mai fatto. E’ il primo disco scritto su cosa penso della vita che vivo e delle cose che stanno accadendo in questi giorni”) , dirette, fortemente influenzate dal soul e dal southern rock, donando al disco una propria impronta (pur con l'ausilio di tanti autori), e con qualche caduta di tono, evitabile.
Se All Of Me è una degna apertura che anticipa il pulsante e corale southern soul di The Giving Tree, con Live Or Die, Meat Loaf picchia giù duro con un hard southern rock moderno con il violino di Caitlin Evanson che si ritaglia i propri spazi, ripetendosi con l'urgenza inconsueta e destabilizzante del pesante rock'n'roll punk di Party Of One, che nella sua impetuosità nasconde un testo amaro di vita vissuta.
La band che suona nel disco (in Australia, uscito ad Ottobre 2011) e che lo accompagna in tour , si chiama The Neverland Express è guidata dal chitarrista e produttore Paul Crook e si fa ben apprezzare per compattezza, promettendo spettacolo sui palchi live.
Inevitabile l'amarcord quando compare la brava Patti Russo. I due duettano insieme in una bella versione di California Dreamin' dei Mamas and Papas, impreziosita dall'assolo di sax di David Luther e in Our love & Our Souls. Quasi a ricordare i duetti con Ellen Foley del primissimo disco o la fortunata Dead Ringer For Love insieme a Cher. Questo è il Meat Loaf perfetto, quasi sublime nell'interpretazione della ballad pianistica Forty Days, dove la drammaticità della sua voce esce prepotente nel crescendo della canzone e nelle finali Blue Sky e la radiofonica/pop Fall From Grace.
Quando Meat Loaf vuole strafare sembra combinare dei piccoli disastri, pur nel lodevole intento. Blue Sky/Mad Mad World/The Good God is a Woman and She Don't Like Ugly è una piccola suite in tre atti con una parte centrale hard e possente e il finale affidato al rap, fuori tempo massimo, di Chuck D (Public Enemy), stessa sorte per Stand in the Storm, un southern rock alla Lynyrd Skynyrd che i tre ospiti presenti, mettendoci del loro, finiscono per rovinare: il cantante country Trace Adkins, il rapper Lil Joh e Mark McGrath, cantante dei Sugar Ray. Un frullato con troppi ingredienti.
In fondo, il buon Meat Loaf potrà continuare a far dischi da qui all'eternità (inferno?), ma quando ripenso a lui, rivedo sempre il paffuto ragazzone sudato con il fazzoletto in bocca del 1977 e il mio primo compcat disc acquistato nel passare dai vinili al laser: erano i primi anni novanta ma il cd era sempre quel Bat Out of Hell del 1977.

Nessun commento:

Posta un commento