Ci fu un tempo (e qui, la voglia di scrivere" nemmeno troppo lontano" è tanta) in cui l'arte visiva, che fosse pittura o fotografia, viveva a stretto contatto con la musica. Anni in cui i più grandi artisti del pennello e della macchina fotografica prestavano la loro arte al Rock, per rendere uniche altre opere d'arte come i vinili.
Anni in cui non era difficile giudicare il prodotto attraverso la sua copertina e il suo arwork prima ancora di appoggiare la puntina del giradischi sulla plastica nera. Lavori firmati da Warhol erano già di per sè un importante veicolo di .
pubblicità. Va da sè che con l'avvento del cd, sul finire degli anni ottanta, lo spazio su cui un artista poteva imprimere il proprio talento diminuiva a dismisura fino a scomparire del tutto con l'arrivo della musica digitale. Mp3 e Computer hanno annullato, quasi del tutto, il fascinoso giochetto del riconoscere un artista dalla copertina.
Insomma, l'artwork dei dischi sembra un discorso da nostalgici.
Nostalgico è certamente l'artista spagnolo Antonio De Felipe, classe 1965, nato a Valencia, che dopo aver rappresentato e rivisitato il mondo del cinema e dello sport, ora si butta sulla musica con una mostra intitolata LPOP in questi giorni a Madrid ( dal 29 Maggio al Centro Cultural Casa De Vacas), sperando possa passare presto in Italia.
Quello che De Felipe fa, non è altro che riprendere le più grandi copertine del rock/pop e rivisitarle alla sua maniera, a volte in modo veramente geniale, anche se l'idea non è certamente qualcosa di nuovo. Quanti di voi non hanno mai provato a immedesimarsi all'interno di una foto e con la fantasia aggiungere e togliere elementi? Lui ci ha provato ed i risultati sono ad effetto.
Un Artista che coverizza altri artisti, aggiungendoci del suo. Come in musica i grandi musicisti si cimentano nel riprendere canzoni di altri autori per piegarle al proprio stile e genere (paradossale pensare a Dylan che riesce a coverizzare se stesso tutte le sere, stravolgendo le sue canzoni), così De Felipe prende le copertine e imprime loro la sua neo-pop art. Cartoni animati, colori, ironia e sdrammatizzazione, i segreti delle sue opere. Dal metal degli Iron Maiden
al pop di Madonna, nessun genere ed artista viena risparmiato. Vediamo così, Eddie, la celebre mascotte degli Iron Maiden, camminare nella via periferica e notturna che si trasforma nel set del famosissimo video Thriller in compagnia di Michael Jackson e suoi zombies. Da qui Killers (titolo del secondo album della band inglese) diventa Thriller e siamo sicuri che Eddie avrebbe fatto la sua figura come comparsa. Oppure la popstar Madonna con un vistoso morso di Dracula sul collo nella copertina del disco True Blue che inevitabilmente diventa "True Bloody". Ancora Born in The USA di Springsteen, che all'epoca venne frainteso dall'allora
presidente degli States, Ronald Reagan, che ne fece l'inno del paese, senza aver evidentemente ascoltato le parole della canzone, fortemente critica verso la politica militare degli Stati Uniti, soffermandosi, forse, al solo ritornello. De Felipe accentua l'americanità dello scatto di copertina aggiungendoci tre simboli universali del consumismo degli States nel mondo:il marchio Coca-Cola, Mickey Mouse e un Hot-Dog.
Il consumismo denunciato, invece, nella ormai storica copertina di Nevermind dei Nirvana diventa un fondale marino del cartoon Nemo colorandosi e stemperando la negatività espressa da Cobain e soci nei loro testi.
Le due più celebri copertine di Andy Warhol ( Sticky Fingers dei Rolling Stones e Velvet Underground) vengono unite insieme con un risultato finale che sicuramente sarebbe incorso nella censura (cerniera lampo giù, più banana).
Bad di Michael Jackson, diventa "Bart", con il celebre rampollo di casa Simpson in posa, vestito di pelle nera a fianco del re del pop.
Una Alice in libera uscita dal suo paesello delle meraviglie si ritrova a braccetto di tre Kiss nel celebre album Destroyer prendendo per un attimo il posto del
chitarrista Ace Frehley, incamminandosi con i tre chissà dove?
E poi ancora: Bowie, the Beatles, Cure, Blondie, Van Halen, Pink Floyd e tanti altri, tutti acrilici su tela. Da vedere assolutamente.
Questo il link del sito di Antonio De Felipe, nella sezione Lpop(woks) troverete le altre copertine(opere):
http://www.antoniodefelipe.es/
martedì 7 giugno 2011
venerdì 3 giugno 2011
REPORTAGE recensione:SYSTEM OF A DOWN Live@Arena fiera Rho(MI), 2 Giugno 2011
Che fosse uno degli eventi più attesi di questo inizio estate, lo si era già capito dalle prevendite, già sold-out da parecchie settimane e dai numeri che parlavano di 40.000 biglietti staccati. Biglietti cari e salati per la filosofia di un gruppo come i System of a Down(queste le critiche espresse), ma che comunque a fine evento si riveleranno adeguati, vista la proporzione che ha assunto il concerto, divenuto un vero e proprio mini festival.
Il posto. La Fiera di Milano, ubicata a Rho, quest'anno è la grande protagonista dei maggiori eventi musicali che si svolgeranno a Milano. I prossimi appuntamenti saranno Il Rock in Idrho(Foo Fighters, Iggy Pop and the Stooges, Social Distorsion e Flogging Molly e altri) e l'atteso arrivo in Italia dei Big4 del Thrash metal americano(Metallica, Slayer, Megadeth e Anthrax).
Purtroppo, come sempre più spesso avviene in Italia, risulterà inadeguata per ospitare festival musicali dalla durata giornaliera. Se all'estero il verde ed il fresco regnano sovrani, qui da noi continua la politica del cemento e se oggi il tempo metereologico è stato d'aiuto e ha dato una mano ai 40.000 presenti, conducendoli a fine concerto in condizioni umane, non oso immaginare se dalle nuvole, che oggi hanno dominato, fosse spuntato il sole. Se da un lato bisogna segnalare la discreta funzionalità degli stand gastronomici, non si può dire altrettanto per i i prezzi di bevande e cibo( e qui parlo anche della birra) e delle t-shirt ufficiali dei gruppi vendute tutte a 30 Euro. Senza dimenticare i 15 euro per i parcheggi. A conti fatti si può leggere cosa ruota intorno a eventi di questo genere e riflettere su quanto, a volte, si sfrutti la passione e la voglia di musica delle persone per arricchirsi, con poco rispetto verso il portafoglio dei fans, giocando sulla psicologia del "tanto son disposti a tutto per...".
L'arena è capiente, il palco imponente, ma sviluppandosi in lunghezza, penalizza la buona visione per chi ha deciso di rimanere nelle retrovie e dubito che i due megaschermi abbiano aiutato la visione.
Il pubblico. Comunque la si guardi, il concerto è stato un evento. Radunare 40.000 persone in Italia per un concerto di questo genere è di per sè una buona notizia per lo stato di salute della "buona "musica lontana dalle luci dei mass media. Tanti giovanissimi accorsi a vedere i propri idoli, assenti dal mondo discografico da sei anni ma che con questa reunion hanno certamente raccolto i frutti del buon lavoro che hanno fatto nei loro soli 7 anni di attività.
Un seguito che stupisce, calcolando anche la fama di non essere mai stata una band da concerti memorabili, facendosi sempre più apprezzare su disco che dal vivo.
La giovane età del pubblico e l'unidirezionalità della loro preferenza musicale non hanno impedito alle bands di supporto di ricevere le loro meritate e giuste acclamazioni, a parte lo spiacevole episodio che ha toccato Glenn Danzig.
Le Band.Sempre difficile aprire concerti, quando la stragrande maggioranza del pubblico, se non tutta, è lì ad aspettare gli headliner. Gli Anti-Flag ci provano e ci riescono catturando l'attenzione con espedienti da navigati performers.
Attivi ormai da più di vent'anni, la band punk della Pennsylvania cerca di coinvolgere il pubblico da subito, invitandolo a circle pit e coinvolgendolo nei cori delle loro canzoni altamente anti-americane. Tra uno sfottò a Berlusconi e la eccessiva mossa finale del batterista che si cala tra il pubblico e suona quel che è riuscito a portarsi dietro della sua batteria, gli Anti-Flag conquistano tutti giocando facile, con la cover di Should i stay o should i go dei padri Clash. voto 6,5
Volbeat. Io aspettavo loro e a fine serata, devo dire che ne sono usciti vincitori tra i gruppi di apertura.
Per la prima volta in Italia, come sottolineato dal cantante e chitarrista Michael Poulsen, i danesi si stanno imponendo con la loro originale mistura di Thrash metal/punk e country. Pochi fronzoli e tanta musica sparata in faccia , poche concessioni a parole e spazio alla musica. Guitar gangsters and Cadillac blood, The mirror and the ripper, Only want to be with you(di Dusty Springfield) e Sad man tongue(dedicata a Johnny Cash) per finire sulle note di Raining blood degli Slayer. Ovazione e completa soddisfazione dei Volbeat. Ora che hanno conquistato anche l'Italia hanno l'obbligo di ripassare da Headliner con il prossimo loro tour. Voto 8,5
Il posto. La Fiera di Milano, ubicata a Rho, quest'anno è la grande protagonista dei maggiori eventi musicali che si svolgeranno a Milano. I prossimi appuntamenti saranno Il Rock in Idrho(Foo Fighters, Iggy Pop and the Stooges, Social Distorsion e Flogging Molly e altri) e l'atteso arrivo in Italia dei Big4 del Thrash metal americano(Metallica, Slayer, Megadeth e Anthrax).
Purtroppo, come sempre più spesso avviene in Italia, risulterà inadeguata per ospitare festival musicali dalla durata giornaliera. Se all'estero il verde ed il fresco regnano sovrani, qui da noi continua la politica del cemento e se oggi il tempo metereologico è stato d'aiuto e ha dato una mano ai 40.000 presenti, conducendoli a fine concerto in condizioni umane, non oso immaginare se dalle nuvole, che oggi hanno dominato, fosse spuntato il sole. Se da un lato bisogna segnalare la discreta funzionalità degli stand gastronomici, non si può dire altrettanto per i i prezzi di bevande e cibo( e qui parlo anche della birra) e delle t-shirt ufficiali dei gruppi vendute tutte a 30 Euro. Senza dimenticare i 15 euro per i parcheggi. A conti fatti si può leggere cosa ruota intorno a eventi di questo genere e riflettere su quanto, a volte, si sfrutti la passione e la voglia di musica delle persone per arricchirsi, con poco rispetto verso il portafoglio dei fans, giocando sulla psicologia del "tanto son disposti a tutto per...".
L'arena è capiente, il palco imponente, ma sviluppandosi in lunghezza, penalizza la buona visione per chi ha deciso di rimanere nelle retrovie e dubito che i due megaschermi abbiano aiutato la visione.
Il pubblico. Comunque la si guardi, il concerto è stato un evento. Radunare 40.000 persone in Italia per un concerto di questo genere è di per sè una buona notizia per lo stato di salute della "buona "musica lontana dalle luci dei mass media. Tanti giovanissimi accorsi a vedere i propri idoli, assenti dal mondo discografico da sei anni ma che con questa reunion hanno certamente raccolto i frutti del buon lavoro che hanno fatto nei loro soli 7 anni di attività.
Un seguito che stupisce, calcolando anche la fama di non essere mai stata una band da concerti memorabili, facendosi sempre più apprezzare su disco che dal vivo.
La giovane età del pubblico e l'unidirezionalità della loro preferenza musicale non hanno impedito alle bands di supporto di ricevere le loro meritate e giuste acclamazioni, a parte lo spiacevole episodio che ha toccato Glenn Danzig.
Le Band.Sempre difficile aprire concerti, quando la stragrande maggioranza del pubblico, se non tutta, è lì ad aspettare gli headliner. Gli Anti-Flag ci provano e ci riescono catturando l'attenzione con espedienti da navigati performers.
Attivi ormai da più di vent'anni, la band punk della Pennsylvania cerca di coinvolgere il pubblico da subito, invitandolo a circle pit e coinvolgendolo nei cori delle loro canzoni altamente anti-americane. Tra uno sfottò a Berlusconi e la eccessiva mossa finale del batterista che si cala tra il pubblico e suona quel che è riuscito a portarsi dietro della sua batteria, gli Anti-Flag conquistano tutti giocando facile, con la cover di Should i stay o should i go dei padri Clash. voto 6,5
Volbeat. Io aspettavo loro e a fine serata, devo dire che ne sono usciti vincitori tra i gruppi di apertura.
Per la prima volta in Italia, come sottolineato dal cantante e chitarrista Michael Poulsen, i danesi si stanno imponendo con la loro originale mistura di Thrash metal/punk e country. Pochi fronzoli e tanta musica sparata in faccia , poche concessioni a parole e spazio alla musica. Guitar gangsters and Cadillac blood, The mirror and the ripper, Only want to be with you(di Dusty Springfield) e Sad man tongue(dedicata a Johnny Cash) per finire sulle note di Raining blood degli Slayer. Ovazione e completa soddisfazione dei Volbeat. Ora che hanno conquistato anche l'Italia hanno l'obbligo di ripassare da Headliner con il prossimo loro tour. Voto 8,5
Sick of it all.I più estremi del lotto. Il loro New York hardcore "old School", come ribadito a più riprese dal cantante Lou Keller è certamente una novità per la maggior parte dei giovani presenti, nonostante la quasi trentennale presenza nel panorama musicale e il nome iscritto tra le leggende del punk/hardcore mondiale.
Il loro show è a carburazione lenta ma alla fine riescono a smuovere il pubblico grazie ai loro inni da pogo sfrenato. Lou Keller non ha perso una virgola della sua voce urlata e la sua continua chiamata alle armi avrà effetto con molto fatica in Scratch the Surface. Voto 7
Danzig.Glenn Danzig, nella giornata di oggi è purtroppo un pesce fuor d'acqua, nonostante alcuni primati che si porta a casa. Il primo è certamente quello dell'età e dell'esperienza. Dai Misfits ai Danzig, la sua carriera non ha bisogno di spiegazioni, anche se molti giovanissimi, al calar del tiepido sole, si siano chiesti chi era quel "brutto e vecchio" signore di nero vestito.
Il secondo è certamente quello di avere dalla sua parte la miglior formazione della giornata con calibri da novanta come Tommy Victor(Prong) alla chitarra e Johnny Kelly(Type O Negative) alla batteria. Il suo oscuro Metal/blues fatica a conquistare la giovane audience e qualche lancio di bottiglia di troppo(ormai in Italia è cattiva abitudine, difficile da estinguersi) non aiutano un navigato rocker come Danzig, di suo già incazzato per il pessimo audio(in verità presente durante tutti i concerti) e qualche problema tecnico. Passano così inosservate canzoni come How the Gods kill, Hammer of the gods, Thirteen(dedicata anch'essa a Johnny Cash che la coverizzò su uno dei suoi "American recordings") e la finale Mother, facendo scappare Danzig anche prima del dovuto. Voto 6,5
System of a Down. Un trionfo che è andato al di là dei meriti e demeriti della band. Nei primi venti minuti di concerto sembrava di assistere ad un karaoke totale, con la band sul palco a mimare di suonare e i presenti a cantare, con gli strumenti e la voce persi chissà dove. Poi , fortunatamente tutto si mette a posto ma il volume rimarrà comunque basso e a volte ovattato. I System of a Down si presentano con un NON look assoluto, Serj Tankian in camicia bianca e jeans da impiegato in libera uscita durante una pausa d'agosto, Daron Malakian , presenta un look alla Jack White, giacca viola, cappello, baffi e barba inclusi, il bassista Shavo Odadjian, visibilmente appesantito da come lo ricordavo, in bermuda mimetiche e calzettoni da basket anni '70 che fanno molto Mike Muir(Suicidal Tendencies) e il batterista John Dolmayan non pervenuto.
Il loro è stato un greatest hits di quasi trenta esecuzioni concentrato in un 'ora e mezza di concerto dove le canzoni sono le vere protagoniste, più delle effettive capacità dei singoli. Il loro repertorio è un sapiente miscuglio di inni cantabili che fanno passare molto spesso in secondo piano le loro pecche. Prison song, Chop Suey!, Toxicity, Suite-pee, Lost in Hollywood, Cigaro, Psycho,Aerials e Sugar non hanno bisogno di troppi contorni. A parte l'istrionico Malakian, il resto della band svolge il proprio compito in modo compunto e sono sempre dell'idea che Tankian, sia sempre un pò troppo rigido e a volte dovrebbe lasciarsi andare e trasportare un pò di più. Da qualunque parti la si guardi i System of A down ,un pezzettino di storia della musica sono riusciti a scriverla quando nel 1998 uscirono con un album originale e sotto molti punti di vista spiazzante.
Unici e poco imitabili, in soli sette anni hanno scritto la loro carriera, divenendo già un gruppo di culto. La massiccia affluenza di questa serata lo dimostra, come dimostra anche, purtroppo, che i System of Down si siano giocati le loro carte troppo in fretta e per un gruppo relativamente giovane come loro, mi ha ricordato la "reunion" di un gruppo in scena da quarant'anni. Voto 8 alla carriera.
Il loro show è a carburazione lenta ma alla fine riescono a smuovere il pubblico grazie ai loro inni da pogo sfrenato. Lou Keller non ha perso una virgola della sua voce urlata e la sua continua chiamata alle armi avrà effetto con molto fatica in Scratch the Surface. Voto 7
Danzig.Glenn Danzig, nella giornata di oggi è purtroppo un pesce fuor d'acqua, nonostante alcuni primati che si porta a casa. Il primo è certamente quello dell'età e dell'esperienza. Dai Misfits ai Danzig, la sua carriera non ha bisogno di spiegazioni, anche se molti giovanissimi, al calar del tiepido sole, si siano chiesti chi era quel "brutto e vecchio" signore di nero vestito.
Il secondo è certamente quello di avere dalla sua parte la miglior formazione della giornata con calibri da novanta come Tommy Victor(Prong) alla chitarra e Johnny Kelly(Type O Negative) alla batteria. Il suo oscuro Metal/blues fatica a conquistare la giovane audience e qualche lancio di bottiglia di troppo(ormai in Italia è cattiva abitudine, difficile da estinguersi) non aiutano un navigato rocker come Danzig, di suo già incazzato per il pessimo audio(in verità presente durante tutti i concerti) e qualche problema tecnico. Passano così inosservate canzoni come How the Gods kill, Hammer of the gods, Thirteen(dedicata anch'essa a Johnny Cash che la coverizzò su uno dei suoi "American recordings") e la finale Mother, facendo scappare Danzig anche prima del dovuto. Voto 6,5
System of a Down. Un trionfo che è andato al di là dei meriti e demeriti della band. Nei primi venti minuti di concerto sembrava di assistere ad un karaoke totale, con la band sul palco a mimare di suonare e i presenti a cantare, con gli strumenti e la voce persi chissà dove. Poi , fortunatamente tutto si mette a posto ma il volume rimarrà comunque basso e a volte ovattato. I System of a Down si presentano con un NON look assoluto, Serj Tankian in camicia bianca e jeans da impiegato in libera uscita durante una pausa d'agosto, Daron Malakian , presenta un look alla Jack White, giacca viola, cappello, baffi e barba inclusi, il bassista Shavo Odadjian, visibilmente appesantito da come lo ricordavo, in bermuda mimetiche e calzettoni da basket anni '70 che fanno molto Mike Muir(Suicidal Tendencies) e il batterista John Dolmayan non pervenuto.
Il loro è stato un greatest hits di quasi trenta esecuzioni concentrato in un 'ora e mezza di concerto dove le canzoni sono le vere protagoniste, più delle effettive capacità dei singoli. Il loro repertorio è un sapiente miscuglio di inni cantabili che fanno passare molto spesso in secondo piano le loro pecche. Prison song, Chop Suey!, Toxicity, Suite-pee, Lost in Hollywood, Cigaro, Psycho,Aerials e Sugar non hanno bisogno di troppi contorni. A parte l'istrionico Malakian, il resto della band svolge il proprio compito in modo compunto e sono sempre dell'idea che Tankian, sia sempre un pò troppo rigido e a volte dovrebbe lasciarsi andare e trasportare un pò di più. Da qualunque parti la si guardi i System of A down ,un pezzettino di storia della musica sono riusciti a scriverla quando nel 1998 uscirono con un album originale e sotto molti punti di vista spiazzante.
Unici e poco imitabili, in soli sette anni hanno scritto la loro carriera, divenendo già un gruppo di culto. La massiccia affluenza di questa serata lo dimostra, come dimostra anche, purtroppo, che i System of Down si siano giocati le loro carte troppo in fretta e per un gruppo relativamente giovane come loro, mi ha ricordato la "reunion" di un gruppo in scena da quarant'anni. Voto 8 alla carriera.
lunedì 30 maggio 2011
RECENSIONE: STEVE EARLE ( I'll Never Get Out Of This World Alive)
STEVE EARLE I'll Never Get Out Of This World Alive ( New West, 2011)
Steve Earle è sempre stato un ribelle e alla lunga ha pagato questa sua poca accomodante visione della vita in termini di popolarità e successo ma non certamente in qualità musicale. Le sue scorribande con la legge e una vita sentimentale a dir poco tormentata e burrascosa sono difficili da affiancare al modello di vita di un suo quasi coetaneo, preso a caso, come Springsteen, attento calcolatore di ogni mossa artistica e privata. Un personaggio contro che a volte ha pagato più del dovuto.
Lontano dalla rivoluzione in rock di un disco come Copperhead Road, suo lovoro manifesto della prima parte di carriera, uscito nel 1988, I'll Never Get Out This World Alive, nasconde due grandi dediche: una ad Hank Williams, a cui ruba letteralmente il titolo della sua ultima composizione, ponendolo come titolo del proprio album, l'altra molto più importante e personale, al padre scomparso nel 2007.
Intorno a queste due figure è costruito il disco di impianto Country-Folk con temi che guardano al mistero della morte, come lo stesso Earle spiega nelle note introduttive del disco.
Earle impiega tre anni a scrivere le undici canzoni, tre anni in cui si pone letteralmente davanti al dolore della morte e da esso sa coglierne ispirazione e speranza, cercando nuova linfa di vita. Perchè l'ultimo viaggio non fruga nelle tasche delle persone in cerca dei poveri o dei ricchi ma si pone democraticamente davanti loro, compiendo scelte che a volte sono ingiustificabili ma da accettare.
Poco importa se le vite umane che ci lasciano per compiere chissà quale nuovo viaggio, siano legate dall'indissolubile parentela o sconosciute, come quelle che hanno perso la vita a New Orleans travolte dagli scherzi della natura a cui la finale This City è dedicata.
Allora nascono anche delle domande e dei dubbi, come in God is God (canzone che Earle rifà sua dopo averla regalata a Joan Baez) dove il cantautore ammette di credere in Dio, ma Dio certamente non crede in noi. Ammissione quanto mai vicina ad una negazione.
Chi rimane si aggrappa all'amore e Every part of me è sicuramente una dedica all'attuale compagna Allison Moorer(fresca di gravidanza), presente nei cori dell'intero disco e nel duetto di Heaven Or Hell.
Piace la produzione affidata a T-Bone Burnett, molto vicina agli ultimi lavori fatti con Mellencamp e che fanno risaltare canzoni come l'iniziale e piacevole country-billy Waitin' on the sky, l'oscuro blues Meet me in The Alleyway( che ricorda tanto Tom Waits) o The Gulf Of Mexico, border ballad tra folk e Irish music. L'Irlanda torna prepotente come ai tempi della collaborazione con i Pogues nel lontano 1988(Johnny Come Lately, contenuta in "Copperhead Road"), anche nella trascinante Molly-O.
Con questo disco Steve Earle conferma il buon periodo della sua vita, forse arrivata ad un punto di totale stallo e rilassatezza ma con il fuoco dell'ispirazione che arde ancora anche se, per una volta , non è alimentato da brutte storie di droga e amori finiti ma dall'amore verso una vita ancora tutta da vivere e godere meglio se da "vero sopravvissuto".
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES(& DUCHESSES)-The Low Highway (2013)
Steve Earle è sempre stato un ribelle e alla lunga ha pagato questa sua poca accomodante visione della vita in termini di popolarità e successo ma non certamente in qualità musicale. Le sue scorribande con la legge e una vita sentimentale a dir poco tormentata e burrascosa sono difficili da affiancare al modello di vita di un suo quasi coetaneo, preso a caso, come Springsteen, attento calcolatore di ogni mossa artistica e privata. Un personaggio contro che a volte ha pagato più del dovuto.
Lontano dalla rivoluzione in rock di un disco come Copperhead Road, suo lovoro manifesto della prima parte di carriera, uscito nel 1988, I'll Never Get Out This World Alive, nasconde due grandi dediche: una ad Hank Williams, a cui ruba letteralmente il titolo della sua ultima composizione, ponendolo come titolo del proprio album, l'altra molto più importante e personale, al padre scomparso nel 2007.
Intorno a queste due figure è costruito il disco di impianto Country-Folk con temi che guardano al mistero della morte, come lo stesso Earle spiega nelle note introduttive del disco.
Earle impiega tre anni a scrivere le undici canzoni, tre anni in cui si pone letteralmente davanti al dolore della morte e da esso sa coglierne ispirazione e speranza, cercando nuova linfa di vita. Perchè l'ultimo viaggio non fruga nelle tasche delle persone in cerca dei poveri o dei ricchi ma si pone democraticamente davanti loro, compiendo scelte che a volte sono ingiustificabili ma da accettare.
Poco importa se le vite umane che ci lasciano per compiere chissà quale nuovo viaggio, siano legate dall'indissolubile parentela o sconosciute, come quelle che hanno perso la vita a New Orleans travolte dagli scherzi della natura a cui la finale This City è dedicata.
Allora nascono anche delle domande e dei dubbi, come in God is God (canzone che Earle rifà sua dopo averla regalata a Joan Baez) dove il cantautore ammette di credere in Dio, ma Dio certamente non crede in noi. Ammissione quanto mai vicina ad una negazione.
Chi rimane si aggrappa all'amore e Every part of me è sicuramente una dedica all'attuale compagna Allison Moorer(fresca di gravidanza), presente nei cori dell'intero disco e nel duetto di Heaven Or Hell.
Piace la produzione affidata a T-Bone Burnett, molto vicina agli ultimi lavori fatti con Mellencamp e che fanno risaltare canzoni come l'iniziale e piacevole country-billy Waitin' on the sky, l'oscuro blues Meet me in The Alleyway( che ricorda tanto Tom Waits) o The Gulf Of Mexico, border ballad tra folk e Irish music. L'Irlanda torna prepotente come ai tempi della collaborazione con i Pogues nel lontano 1988(Johnny Come Lately, contenuta in "Copperhead Road"), anche nella trascinante Molly-O.
Con questo disco Steve Earle conferma il buon periodo della sua vita, forse arrivata ad un punto di totale stallo e rilassatezza ma con il fuoco dell'ispirazione che arde ancora anche se, per una volta , non è alimentato da brutte storie di droga e amori finiti ma dall'amore verso una vita ancora tutta da vivere e godere meglio se da "vero sopravvissuto".
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES(& DUCHESSES)-The Low Highway (2013)
sabato 28 maggio 2011
RECENSIONE: THE FEELIES (Here Before)
THE FEELIES Here Before ( Bar None , 2011)
Anche se non sono mai stati riconosciuti loro, i meriti, in termini di popolarità, i Feelies occupano un posto di prestigio per capire la nascita di una certa New vawe . Il loro " Crazy Rhytms" si può certamente considerare tra i punti più alti toccati da una band al proprio esordio. Uscito nel 1980 conteneva un esplosiva miscela tra il rock più colto e decadente del decennio precedente( Velvet Underground, Television, Talking Heads) e le tipiche derivazioni folk rock americane. Un lavoro fresco ed urgente , suonato da una band giovane, smaniosa di mettersi in gioco, a tratti ingenua ma vera e diretta. Il minimalismo delle chitarre schizzate e la nervosa batteria, i loro testi e il look da "eterni nerds" fecero scuola a tanti adepti del successivo indie/rock. Ora a trent'anni da quel disco e 19 dalla loro ultima prova di studio, ritornano.
Here Before è un lavoro a tratti solare ed intelligente, non farà la storia, ma ci riconsegna la band del New Jersey, certamente lontana dal grezzo, glaciale ma superlativo esordio del 1980, ma con un carico di melodie da far invidia a ben più blasonate band. Insomma, non troverete le nuove Fa cè-la, Loveless Love e Moscow Nights anche se piccole schegge del passato rimangono in canzoni come When you know e Time is Right, dove l'urgenza e l'alternarsi acustico -elettrico rimane prerogativa basilare e ricorda i primi anni.
Piace il pop, che tocca il beat di Should be gone, il folk che fuoriesce da Bluer Skyes e Again today con lo spirito di Lou Reed ancora ben presente a fare da guida, le atmosfere sussurrate e soffuse di Morning Comes , la batteria metronomo che scandisce Later On o la solare circolarità dell'iniziale Nobody Knows.
Un disco che mantiene, per una volta, le promesse fatte. In anni di finte reunion, quella rimessa in piedi da Bill Million e Glenn Mercer è ispirata, senza puzzare di vecchio, pur sembrando il giusto seguito alla rottura avvenuta anni fa. Ora che l'anello mancante e di congiunzione tra passato e presente è stato aggiunto, il futuro è ancora tutto da scrivere. Speriamo.
Anche se non sono mai stati riconosciuti loro, i meriti, in termini di popolarità, i Feelies occupano un posto di prestigio per capire la nascita di una certa New vawe . Il loro " Crazy Rhytms" si può certamente considerare tra i punti più alti toccati da una band al proprio esordio. Uscito nel 1980 conteneva un esplosiva miscela tra il rock più colto e decadente del decennio precedente( Velvet Underground, Television, Talking Heads) e le tipiche derivazioni folk rock americane. Un lavoro fresco ed urgente , suonato da una band giovane, smaniosa di mettersi in gioco, a tratti ingenua ma vera e diretta. Il minimalismo delle chitarre schizzate e la nervosa batteria, i loro testi e il look da "eterni nerds" fecero scuola a tanti adepti del successivo indie/rock. Ora a trent'anni da quel disco e 19 dalla loro ultima prova di studio, ritornano.
Here Before è un lavoro a tratti solare ed intelligente, non farà la storia, ma ci riconsegna la band del New Jersey, certamente lontana dal grezzo, glaciale ma superlativo esordio del 1980, ma con un carico di melodie da far invidia a ben più blasonate band. Insomma, non troverete le nuove Fa cè-la, Loveless Love e Moscow Nights anche se piccole schegge del passato rimangono in canzoni come When you know e Time is Right, dove l'urgenza e l'alternarsi acustico -elettrico rimane prerogativa basilare e ricorda i primi anni.
Piace il pop, che tocca il beat di Should be gone, il folk che fuoriesce da Bluer Skyes e Again today con lo spirito di Lou Reed ancora ben presente a fare da guida, le atmosfere sussurrate e soffuse di Morning Comes , la batteria metronomo che scandisce Later On o la solare circolarità dell'iniziale Nobody Knows.
Un disco che mantiene, per una volta, le promesse fatte. In anni di finte reunion, quella rimessa in piedi da Bill Million e Glenn Mercer è ispirata, senza puzzare di vecchio, pur sembrando il giusto seguito alla rottura avvenuta anni fa. Ora che l'anello mancante e di congiunzione tra passato e presente è stato aggiunto, il futuro è ancora tutto da scrivere. Speriamo.
mercoledì 25 maggio 2011
RECENSIONE: FLOGGING MOLLY (Speed Of Darkness)
FLOGGING MOLLY Speed Of Darkness ( Borstal Beat Records, 2011)
Sì, si sente, l'oscurità presente nel titolo del quinto album della band di Los Angeles è presente ed avvolge il loro lavoro più intransigente, vario ma allo stesso tempo con molti punti accessibili, della loro carriera. Il singolo Don't Shut 'em Down è quanto di più mainstream rock e moderno uscito dai loro strumenti mentre la "finta" ballata The Heart of The Sea potrebbere mietere molte vittime.
Un' oscurità in cui si è risvegliata la società americana e mondiale, schiava dei sistemi capitalistici che stanno facendo sprofondare sottoterra quello che ci avevano promesso come un radioso futuro. I Flogging Molly prendono spunto da qui per creare una sorta di concept, in cui i valori positivi in cui credere prendano il sopravvento alla falsa pubblicità ingannatrice del mondo moderno.
Registrato , non a caso, a Detroit, la città dell'auto che sta vivendo una forte stagione di crisi economica e che ha fornito l'ispirazione per far nascere queste dodici canzoni, senza dimenticare che Detroit è anche la città che, negli anni settanta, dettava legge in fatto di rock, la casa degli Mc5 e degli Stooges, tanto per intenderci.
Dave King e soci , durante gli anni, sono cambiati, il loro irish/punk rock si è affinato, inglobando più influenze musicali che vedono la loro summa in questo Speed Of Darkness. Stupisce, quindi, una canzone come The Power's Out, una potente marcia blues di denuncia con la città di Detroit protagonista tra chitarre elettriche,slide, farfisa e percussioni con la voce di King che si ricorda d'essere stata alla guida, negli anni ottanta, dell 'hard rock di gruppi come Fastway e Katmandu. Uno dei migliori momenti del disco.
Il Country/folk della ballad This Present State of Grace con il violino Bridget Regan a guidare le danze tra Irlanda e America, odora di antico.
Saint & Sinners è una fast Irish/punk song, guidata dal violino, con un break centrale, quasi western che ricorda il Johnny Cash "cowboy".
Osano in The Cradle of Humankind, ballata pianistica toccante e piena di positiva speranza per chi sceglie di scappare verso un futuro più radioso e la "terra promessa". Una canzone che cresce , fino alla coralità finale. Sullo stesso piano metterei le brevi ed acustiche preghiere So Sail On e A prayer for me in silence, dove la violinista (e compagna di King) Bridget Regan si cimenta alla voce.
I momenti più rock del disco rimangono l'iniziale Speed Of Darkness, la chiamata alla rivolta di Revolution( con l'irruzione anomala di una tromba) e la presa di posizione contro la politica guerrafondaia di Oliver Boy(All of Our Boys). Canzoni che creano il ponte con il passato della band.
Perchè ormai è assodato che i Pogues sembrano aver trovato i loro successori più in America che in patria e i Flogging Molly si contendono il trono con gli amici Dropkick Murphys, anche loro freschi d'uscita in questo 2011. La maturità artistica che il precedente "Float"( 2007) prometteva si è fatta realtà.
vedi anche: recensione/reportage FLOGGING MOLLY live@Carroponte, Sesto San Giovanni(MI)17 Agosto 2011
Sì, si sente, l'oscurità presente nel titolo del quinto album della band di Los Angeles è presente ed avvolge il loro lavoro più intransigente, vario ma allo stesso tempo con molti punti accessibili, della loro carriera. Il singolo Don't Shut 'em Down è quanto di più mainstream rock e moderno uscito dai loro strumenti mentre la "finta" ballata The Heart of The Sea potrebbere mietere molte vittime.
Un' oscurità in cui si è risvegliata la società americana e mondiale, schiava dei sistemi capitalistici che stanno facendo sprofondare sottoterra quello che ci avevano promesso come un radioso futuro. I Flogging Molly prendono spunto da qui per creare una sorta di concept, in cui i valori positivi in cui credere prendano il sopravvento alla falsa pubblicità ingannatrice del mondo moderno.
Registrato , non a caso, a Detroit, la città dell'auto che sta vivendo una forte stagione di crisi economica e che ha fornito l'ispirazione per far nascere queste dodici canzoni, senza dimenticare che Detroit è anche la città che, negli anni settanta, dettava legge in fatto di rock, la casa degli Mc5 e degli Stooges, tanto per intenderci.
Dave King e soci , durante gli anni, sono cambiati, il loro irish/punk rock si è affinato, inglobando più influenze musicali che vedono la loro summa in questo Speed Of Darkness. Stupisce, quindi, una canzone come The Power's Out, una potente marcia blues di denuncia con la città di Detroit protagonista tra chitarre elettriche,slide, farfisa e percussioni con la voce di King che si ricorda d'essere stata alla guida, negli anni ottanta, dell 'hard rock di gruppi come Fastway e Katmandu. Uno dei migliori momenti del disco.
Il Country/folk della ballad This Present State of Grace con il violino Bridget Regan a guidare le danze tra Irlanda e America, odora di antico.
Saint & Sinners è una fast Irish/punk song, guidata dal violino, con un break centrale, quasi western che ricorda il Johnny Cash "cowboy".
Osano in The Cradle of Humankind, ballata pianistica toccante e piena di positiva speranza per chi sceglie di scappare verso un futuro più radioso e la "terra promessa". Una canzone che cresce , fino alla coralità finale. Sullo stesso piano metterei le brevi ed acustiche preghiere So Sail On e A prayer for me in silence, dove la violinista (e compagna di King) Bridget Regan si cimenta alla voce.
I momenti più rock del disco rimangono l'iniziale Speed Of Darkness, la chiamata alla rivolta di Revolution( con l'irruzione anomala di una tromba) e la presa di posizione contro la politica guerrafondaia di Oliver Boy(All of Our Boys). Canzoni che creano il ponte con il passato della band.
Perchè ormai è assodato che i Pogues sembrano aver trovato i loro successori più in America che in patria e i Flogging Molly si contendono il trono con gli amici Dropkick Murphys, anche loro freschi d'uscita in questo 2011. La maturità artistica che il precedente "Float"( 2007) prometteva si è fatta realtà.
vedi anche: recensione/reportage FLOGGING MOLLY live@Carroponte, Sesto San Giovanni(MI)17 Agosto 2011
domenica 22 maggio 2011
RECENSIONE: WAINES (Sto)
WAINES Sto (2011)
Un bel muro di suono hard rock blues, questo quello che dal vivo riesce ad alzare il trio palermitano , visto recentemente sopra alle assi di un palco. Due chitarre e una batteria capaci di annichilire, senza compromessi, quasi come i primi Motorhead, stordenti ed impenetrabili.
Uscito da poco il loro secondo full lenght album, un disco che potrebbe dare quelle soddisfazioni che la band, con sacrificio e tanto lavoro merita, facendo attraversare il loro rock "fumoso" aldilà del mare che circonda la loro Sicilia. All'estero già si sono accorti di loro e il mixaggio affidato a Mario J McNulty( al lavoro con Bowie, NIN e mille altri) la masterizzazione affidata ad un calibro da novanta come JJ Golden e i suoi studi californiani, già al lavoro con una lista interminabile di grandi nomi dai Calexico, ai Primus, dai Sonic Youth fino ai Neurosis, tanto per tracciare dei paletti.
Nonostante questo, Sto è un album immediato e in your face, quasi da "buona alla prima" con giusto alcune aggiunte elettroniche che arricchiscono, senza snaturare alcune canzoni, come l'apertura Turn it on. Vi ricordate gli ZZ Top dei primi anni ottanta, quelli che diedero una svolta( molti storsero il naso) al loro Blues, flirtando con i synth? I Waines riprendono quella lezione appesantendola e modernizzandola, venendone fuori con un brano che difficilmente lascia i piedi inchiodati al terreno. Ma questa non è che una delle tante direzioni che Fabio Rizzo (chitarra e voce), Roberto Cammarata(chitarra) e Ferdinando Piccoli(batteria) , riescono a dare alla loro musica.
La polvere desertica che si alza sui giri stoner di Time Machine e nella strumentale Inner View, quei riff che Josh Homme ha quasi dimenticato e che riemergono nella acque del Tirreno, cose da non crederci. Il Blues pesante di The Pot e Birds, quando il delta del Mississippi attacca il jack agli amplificatori e fuoriesce un bastardo incrocio rock'n'roll/sudista che riprende la lezione degli Stones con la slide che imperversa prepotente.
Afrix è un blues percussivo ed ossessionante scritto dal cantautore Fabrizio Cammarata(The second grace), così come Harsh Days gioca sul groove e Mornig Comes, abbandona l'elettricità per un a boccata di melodia e coralità acustica.
Piacciono le due chitarre in continua simbiosi, gli assoli, così come le melodie vocali, i testi e la pronuncia, i Waines sono un gruppo "orgoglioso" della propria sicilianità che in America viaggerebbe sulla stessa autostrada di White Stripes e The Black Keys con una scorta di carburante in più che in sede live mi ricorda l'attitudine Hard Rock/Metal diretta e senza compromessi di certe grandi bands inglesi come Motorhead, Raven e Tank ... la corsia di sorpasso sembra essere libera. Buon viaggio.
Un bel muro di suono hard rock blues, questo quello che dal vivo riesce ad alzare il trio palermitano , visto recentemente sopra alle assi di un palco. Due chitarre e una batteria capaci di annichilire, senza compromessi, quasi come i primi Motorhead, stordenti ed impenetrabili.
Uscito da poco il loro secondo full lenght album, un disco che potrebbe dare quelle soddisfazioni che la band, con sacrificio e tanto lavoro merita, facendo attraversare il loro rock "fumoso" aldilà del mare che circonda la loro Sicilia. All'estero già si sono accorti di loro e il mixaggio affidato a Mario J McNulty( al lavoro con Bowie, NIN e mille altri) la masterizzazione affidata ad un calibro da novanta come JJ Golden e i suoi studi californiani, già al lavoro con una lista interminabile di grandi nomi dai Calexico, ai Primus, dai Sonic Youth fino ai Neurosis, tanto per tracciare dei paletti.
Nonostante questo, Sto è un album immediato e in your face, quasi da "buona alla prima" con giusto alcune aggiunte elettroniche che arricchiscono, senza snaturare alcune canzoni, come l'apertura Turn it on. Vi ricordate gli ZZ Top dei primi anni ottanta, quelli che diedero una svolta( molti storsero il naso) al loro Blues, flirtando con i synth? I Waines riprendono quella lezione appesantendola e modernizzandola, venendone fuori con un brano che difficilmente lascia i piedi inchiodati al terreno. Ma questa non è che una delle tante direzioni che Fabio Rizzo (chitarra e voce), Roberto Cammarata(chitarra) e Ferdinando Piccoli(batteria) , riescono a dare alla loro musica.
La polvere desertica che si alza sui giri stoner di Time Machine e nella strumentale Inner View, quei riff che Josh Homme ha quasi dimenticato e che riemergono nella acque del Tirreno, cose da non crederci. Il Blues pesante di The Pot e Birds, quando il delta del Mississippi attacca il jack agli amplificatori e fuoriesce un bastardo incrocio rock'n'roll/sudista che riprende la lezione degli Stones con la slide che imperversa prepotente.
Afrix è un blues percussivo ed ossessionante scritto dal cantautore Fabrizio Cammarata(The second grace), così come Harsh Days gioca sul groove e Mornig Comes, abbandona l'elettricità per un a boccata di melodia e coralità acustica.
Piacciono le due chitarre in continua simbiosi, gli assoli, così come le melodie vocali, i testi e la pronuncia, i Waines sono un gruppo "orgoglioso" della propria sicilianità che in America viaggerebbe sulla stessa autostrada di White Stripes e The Black Keys con una scorta di carburante in più che in sede live mi ricorda l'attitudine Hard Rock/Metal diretta e senza compromessi di certe grandi bands inglesi come Motorhead, Raven e Tank ... la corsia di sorpasso sembra essere libera. Buon viaggio.
lunedì 16 maggio 2011
RECENSIONE: WOLF PEOPLE live@SPAZIO 211, Torino, 14 Maggio 2011
Spero vivamente che tra qualche anno i pochi che hanno assistito a questa prima calata italica dei britannici Wolf People allo Spazio 211 di Torino, potranno dire" io c'ero" e chi ha strappato un autografo a fine concerto possa custodirlo con gelosia. I giovani componenti hanno tutte le carte in regola per fare una buona carriera, nonostante per ora, il loro suono risulti essere derivativo verso l'epoca d'oro del rock, si legge nelle loro facce e nell'impegno profuso , la voglia di arrivare, la professionalità, la cura dei particolari e soprattutto delle grandi capacità compostive. Al loro attivo un solo album, Steeple, uscito nel 2010 e che ha già fatto proseliti tra la stampa di settore inglese. Stasera è stato sviscerato per intero in una setlist intensa che ha catapultato i presenti indietro di almeno quarant'anni.
I Wolf People, in giro per l'europa a bordo del loro pulmino bianco, sembrano affrontare l'audience con la giusta umiltà, senza eccessi ma con concentrazione e dedizione, veramente d'altri tempi. Il loro rock ha quel lontano sapore rurale derivante dal folk progressive britannico dei seventies( Fairport Convention, Traffic, Amazing Blondel, Jethro Tull) che si mischia ad un hard rock dal carattere zeppeliniano e pesanti riff di scuola Black Sabbath ricordando a più riprese un gruppo mai troppo elogiato come i Wishbone Ash del capolavoro "Argus". La forza delle loro canzoni risiede nella melodia e nella capacità compositiva di creare canzoni infarcite di rallentamenti e ripartenze con la voce di Jack Sharp, che pur non essendo particolarmente dotata, calza a pennello.
A volte sembra di essere lì,nei loro luoghi di nascita, dentro a sterminati boschi per trovarsi poi nella vecchia casa di campagna del diciasettesimo secolo in Galles, dove è stato registrato il loro album.
Forti di una canzone come Tiny Circle, che dal vivo perde il flauto che su disco fa tanto Jethro Tull, fino a quasi risultare uscita dai primi dischi di Ian Anderson e soci, acquistando in vigore blues grazie a l'incessante dialogo tra le due chitarre , con il solista Joe Hollick spesso protagonista.
L'armonia folk mediovaleggiante del "traditional" Bank of sweet Dundee, rivestito di hard, cattura al primo ascolto, facendo compiere viaggi pindarici ad elevate altezze sopra alle verdi campagne britanniche.
Piaciono il flavour sixties che avvolge il blues di Painted Cross, l'hard psichedelico di One by one from Dorney Reach, il lungo ed ipnotico crescendo di Castle Keep, con la batteria di Tom Watt il basso di Dan Davies protagonisti fino ad una canzone come Silbury Sands, quasi perfetta nelle sue cangianti armonie ed umori.
Tra le tante bands che in questi anni si rifanno al passato, i Wolf People hanno la buona capacità di far confluire più influenze nella loro musica, prendendo le distanze dai gruppi "clone". Ora l'importante verifica del secondo disco potrebbe essere decisiva per il loro futuro. Intanto la prova live è stata superata, un concerto piacevole e il fatto che una volta finito, c'era la voglia di sentirne ancora, pone a loro favore. Buona fortuna.
foto di Roberto Tambone
vedi anche RECENSIONE: WOLF PEOPLE-Fain (2013)
I Wolf People, in giro per l'europa a bordo del loro pulmino bianco, sembrano affrontare l'audience con la giusta umiltà, senza eccessi ma con concentrazione e dedizione, veramente d'altri tempi. Il loro rock ha quel lontano sapore rurale derivante dal folk progressive britannico dei seventies( Fairport Convention, Traffic, Amazing Blondel, Jethro Tull) che si mischia ad un hard rock dal carattere zeppeliniano e pesanti riff di scuola Black Sabbath ricordando a più riprese un gruppo mai troppo elogiato come i Wishbone Ash del capolavoro "Argus". La forza delle loro canzoni risiede nella melodia e nella capacità compositiva di creare canzoni infarcite di rallentamenti e ripartenze con la voce di Jack Sharp, che pur non essendo particolarmente dotata, calza a pennello.
A volte sembra di essere lì,nei loro luoghi di nascita, dentro a sterminati boschi per trovarsi poi nella vecchia casa di campagna del diciasettesimo secolo in Galles, dove è stato registrato il loro album.
Forti di una canzone come Tiny Circle, che dal vivo perde il flauto che su disco fa tanto Jethro Tull, fino a quasi risultare uscita dai primi dischi di Ian Anderson e soci, acquistando in vigore blues grazie a l'incessante dialogo tra le due chitarre , con il solista Joe Hollick spesso protagonista.
L'armonia folk mediovaleggiante del "traditional" Bank of sweet Dundee, rivestito di hard, cattura al primo ascolto, facendo compiere viaggi pindarici ad elevate altezze sopra alle verdi campagne britanniche.
Piaciono il flavour sixties che avvolge il blues di Painted Cross, l'hard psichedelico di One by one from Dorney Reach, il lungo ed ipnotico crescendo di Castle Keep, con la batteria di Tom Watt il basso di Dan Davies protagonisti fino ad una canzone come Silbury Sands, quasi perfetta nelle sue cangianti armonie ed umori.
Tra le tante bands che in questi anni si rifanno al passato, i Wolf People hanno la buona capacità di far confluire più influenze nella loro musica, prendendo le distanze dai gruppi "clone". Ora l'importante verifica del secondo disco potrebbe essere decisiva per il loro futuro. Intanto la prova live è stata superata, un concerto piacevole e il fatto che una volta finito, c'era la voglia di sentirne ancora, pone a loro favore. Buona fortuna.
foto di Roberto Tambone
vedi anche RECENSIONE: WOLF PEOPLE-Fain (2013)
sabato 14 maggio 2011
RECENSIONE: BILLY BRAGG live@SPAZIO 211 Torino, 12 Maggio 2011
Billy Bragg, rientra tra le mie più vecchie conoscenze musicali, ricordi di "Talkin with the taxman about poetry" (1986), quando tredicenne, ascoltavo questo cantautore inglese e la sua chitarra uscire dal vecchio mangiacassette. Certo, una eredità fraterna e tramandata che però ha fatto subito breccia su di me, ancora ignaro dei grandi significati che i suoi testi denunciavano ma che mi ha subito invogliato a stipulare un contratto di simpatia verso questo menestrello folk-punk.
Sono passati un bel pò di anni e finalmente quella voce imprigionata dentro a quella vecchia cassetta( chissà mai dove sarà) si è materializzata sul palco dello Spazio 211 di Torino e poco importa se i segni del tempo gridano vendetta sul mio e suo volto, la sua missione sembra sempre quella di allora. Un uomo, la sua arma a 6 corde e la verità questo quello che ho visto questa sera sul piccolo palco che sembrava, per una volta, immenso e circondare Billy e la sua ombra.
Bragg è forse uno dei pochi superstiti della canzone politica e di protesta , l'unico che in Inghilterra, negli anni ottanta sembrò controbattere lo strapotere della musica elettronica e del look a tutti i costi che in quegli anni imperavano, quando anche i Clash dell'amico Strummer si spegnevano con il loro dimenticato "Cut the Crap".
La staffetta lanciata da Guthrie e Dylan in america, sembrava aver trovato nuovamente una mano che impugnasse il testimone senza farlo cadere. Quel testimone a distanza di vent'anni è ancora saldo in quella mano e metaforicamente è una chitarra. Certo, la grezza attitudine di quegli anni si è modernizzata con il tempo e arricchita di nuovi suoni su disco ma la conferma di questa sera basta a rinsaldare il mio contratto con Billy Bragg, l'anello mancante tra il folk di Guthrie e il punk "intelligente"dei Clash.
Il suo ritorno a Torino dopo 24 anni è stato accolto da un pubblico numeroso e variegato di fedeli(magari presenti in quel 1987) ma anche curiosi venuti per ascoltare i suoi racconti in musica e parole, unici ingredienti fondamentali dei suoi show.
L'attacco è affidato a World Turned Upside Down e da lì in avanti sarà un susseguirsi di canzoni in grado di toccare tutte le corde dell'animo umano, solamente lui e le sue due chitarre, una elettrica ed una acustica, nulla di più, nulla di meno.Un uomo solo che per quasi due ore catalizza l'attenzione con la semplicità di racconti, gags e il forte impegno che ha caratterizato tutta la sua carriera con coerenza e grande spirito da combattente.
Come non rimanere impassibili davanti alle vecchie storie su un'Inghilterra in mano ai fascisti nella seconda guerra mondiale e un giovane Billy Bragg che cresceva a Barking, con un ben radicato odio, che caratterizzò il suo inizio carriera in compagnia degli amici Clash nella Londra di metà anni settanta. Partono allora The Battle of Barking (dal recente ep e spettacolo teatrale"Pressure Drop") e l'intramontabile All you fascists del maestro Woody Guthrie, da cui tirerà fuori anche Ingrid Bergman, inedito, musicato con i Wilco su disco a suo tempo e oggi riproposta con una divertente introduzione alla canzone giocata sullo humour dei doppi sensi e metafore.
Tra una esegesi sulla bontà e miracoli del thè caldo(e da un britannico non poteva essere diversamente) che il nostro sorseggia a più riprese, intervallandolo da
sorsate d'acqua gelata, tra un divertente siparietto sugli ossimori delle parole( guerra e intelligenza, football e Stati Uniti e "Bunga" insieme a "Bunga"), e una piacevole "disavventura" con l'insalata di mais avvenuta al ristorante dell'hotel, vanno in scena le sue canzoni To have to have not, Greetings to the new Brunette, Tomorrow's going to be a better day, NPWA, Sexuality., con la chitarra che diventa arma fendente ma anche dolce accompagnatrice di storie tra amore romantico e working class con I keep Faith, dall'ultimo album "Mr. Love & Justice" (2008) dedicata a tutti i presenti.
Fino a giungere all'apoteosi di canzoni, divenute veri e propri inni: The Milkman of Human Kindness, Levi Stubbs 'Tears e There is Power in a Union e il finale affidato a Tank Park Salute e alla tanto attesa New England, cantata all'unisono da tutto il pubblico e che lascia esterefatto un compiaciuto Bragg.
Serata da ricordare con un importante segnale, la chitarra di Bragg, stasera,ha dato dimostrazione di sparare ancora.
Sono passati un bel pò di anni e finalmente quella voce imprigionata dentro a quella vecchia cassetta( chissà mai dove sarà) si è materializzata sul palco dello Spazio 211 di Torino e poco importa se i segni del tempo gridano vendetta sul mio e suo volto, la sua missione sembra sempre quella di allora. Un uomo, la sua arma a 6 corde e la verità questo quello che ho visto questa sera sul piccolo palco che sembrava, per una volta, immenso e circondare Billy e la sua ombra.
Bragg è forse uno dei pochi superstiti della canzone politica e di protesta , l'unico che in Inghilterra, negli anni ottanta sembrò controbattere lo strapotere della musica elettronica e del look a tutti i costi che in quegli anni imperavano, quando anche i Clash dell'amico Strummer si spegnevano con il loro dimenticato "Cut the Crap".
La staffetta lanciata da Guthrie e Dylan in america, sembrava aver trovato nuovamente una mano che impugnasse il testimone senza farlo cadere. Quel testimone a distanza di vent'anni è ancora saldo in quella mano e metaforicamente è una chitarra. Certo, la grezza attitudine di quegli anni si è modernizzata con il tempo e arricchita di nuovi suoni su disco ma la conferma di questa sera basta a rinsaldare il mio contratto con Billy Bragg, l'anello mancante tra il folk di Guthrie e il punk "intelligente"dei Clash.
Il suo ritorno a Torino dopo 24 anni è stato accolto da un pubblico numeroso e variegato di fedeli(magari presenti in quel 1987) ma anche curiosi venuti per ascoltare i suoi racconti in musica e parole, unici ingredienti fondamentali dei suoi show.
L'attacco è affidato a World Turned Upside Down e da lì in avanti sarà un susseguirsi di canzoni in grado di toccare tutte le corde dell'animo umano, solamente lui e le sue due chitarre, una elettrica ed una acustica, nulla di più, nulla di meno.Un uomo solo che per quasi due ore catalizza l'attenzione con la semplicità di racconti, gags e il forte impegno che ha caratterizato tutta la sua carriera con coerenza e grande spirito da combattente.
Come non rimanere impassibili davanti alle vecchie storie su un'Inghilterra in mano ai fascisti nella seconda guerra mondiale e un giovane Billy Bragg che cresceva a Barking, con un ben radicato odio, che caratterizzò il suo inizio carriera in compagnia degli amici Clash nella Londra di metà anni settanta. Partono allora The Battle of Barking (dal recente ep e spettacolo teatrale"Pressure Drop") e l'intramontabile All you fascists del maestro Woody Guthrie, da cui tirerà fuori anche Ingrid Bergman, inedito, musicato con i Wilco su disco a suo tempo e oggi riproposta con una divertente introduzione alla canzone giocata sullo humour dei doppi sensi e metafore.
Tra una esegesi sulla bontà e miracoli del thè caldo(e da un britannico non poteva essere diversamente) che il nostro sorseggia a più riprese, intervallandolo da
sorsate d'acqua gelata, tra un divertente siparietto sugli ossimori delle parole( guerra e intelligenza, football e Stati Uniti e "Bunga" insieme a "Bunga"), e una piacevole "disavventura" con l'insalata di mais avvenuta al ristorante dell'hotel, vanno in scena le sue canzoni To have to have not, Greetings to the new Brunette, Tomorrow's going to be a better day, NPWA, Sexuality., con la chitarra che diventa arma fendente ma anche dolce accompagnatrice di storie tra amore romantico e working class con I keep Faith, dall'ultimo album "Mr. Love & Justice" (2008) dedicata a tutti i presenti.
Fino a giungere all'apoteosi di canzoni, divenute veri e propri inni: The Milkman of Human Kindness, Levi Stubbs 'Tears e There is Power in a Union e il finale affidato a Tank Park Salute e alla tanto attesa New England, cantata all'unisono da tutto il pubblico e che lascia esterefatto un compiaciuto Bragg.
Serata da ricordare con un importante segnale, la chitarra di Bragg, stasera,ha dato dimostrazione di sparare ancora.
mercoledì 11 maggio 2011
RECENSIONE: ORCHID ( Capricorn)
ORCHID Capricorn ( Church within Records,2011)
Dopo l'uscita di "Sabotage", ricco di nuovi spunti , i Black Sabbath in questo 1976 fanno uscire Capricorn che sembra riportarli sulla scia dei primi ed immortali dischi. No, non sono impazzito ma potrei fermarmi qui e chiunque capirebbe cosa suonano gli Orchid e dove va a parare il loro Capricorn. Ebbene sì, se aspettate la reunion della formazione originale di Birmingham lasciate per un attimo la fantasia o meglio convincetevi che tanto dai vecchi signori del doom difficilmente uscirà qualcosa che assomigli ai primi anni settanta. Meglio allora buttarsi, per una volta, su giovani adepti che in quegli anni nemmeno erano nati, ma che dai maestri sembrano aver eredidato tutto e di più.
Ogni decade ha avuto le sue band devote al "nero sabbath", gli anni ottanta sono stai gli anni di Candlemass e Trouble, gli anni novanta di Sleep e Cathedral , in questi avari anni zero si fanno avanti tra i tanti, gli Orchid da San Francisco. Dopo due Ep, arriva finalmente il full lenght e il salto indietro nel tempo è facile e indolore meglio della macchina dello scienziato "Doc" di Ritorno al futuro.
Quando si parla di band come gli Orchid è sempre facile cadere in una parola come plagio e sfortunatamente anche i titoli delle canzoni sembrano portare in un unica e sola direzione.
Ascoltando le canzoni, però, si intuisce di avere a che fare con un gruppo che sa il fatto suo: nove canzoni dalla durata media di sei minuti, dove i nostri riescono a costruire e mettere al loro interno rallentamenti ed accelerazioni, parti acustiche e progressive con un gusto della melodia che unisce il tutto e fa la differenza facendosi perdonare i tanti riferimenti ai Black Sabbath sparsi lungo tutta la durata del disco. Quello che fa la differenza tra gli Orchid e gli altri gruppi sono le canzoni, costruite con intelligenza e maestria con la voce del cantante Theo Mindell che pur rimanendo sui registri dell'Ozzy Osbourne anni '70 non ne scimmiotta la voce come già sentito in altre band, un basso pesante e presente fino a guidare la canzone, ascoltate la title-track Capricorn e capirete, e una chitarra in mano a Mark Thomas Baker che sforna riff come Toni Iommi non fa più da molto tempo.
L'iniziale Eyes behind the wall, non sarebbe la canzone che tutti i fans dei Black Sabbath vorrebbero sentire ancora dalla chitarra di Iommi? Cosmonaut of three, con tanto di video, potrebbe essere la doom-song perfetta. Black Funeral, omaggia fino ad essere la figlia perfetta di Hands of doom, He who walks alone rimanda ai conterranei Trouble, Electric Father è una sulfurea space/doom song, psichedelica e straniante come la chiusura affidata all'acustica, sognante e progressive Albatross, guidata dal moog, una specie di Planet Caravan pt.2.
Ci sarà sempre chi dirà: a questo punto continuo ad ascoltarmi gli originali primi cinque dischi dei Black Sabbath, ma attenzione perchè questi ragazzi hanno tutte le potenzialità per diventare importanti e il prossimo disco sarà una prova senza appelli. Ultima annotazione per l'artwork globale del cd, veramente cosa d'altri tempi, anche quello.
Dopo l'uscita di "Sabotage", ricco di nuovi spunti , i Black Sabbath in questo 1976 fanno uscire Capricorn che sembra riportarli sulla scia dei primi ed immortali dischi. No, non sono impazzito ma potrei fermarmi qui e chiunque capirebbe cosa suonano gli Orchid e dove va a parare il loro Capricorn. Ebbene sì, se aspettate la reunion della formazione originale di Birmingham lasciate per un attimo la fantasia o meglio convincetevi che tanto dai vecchi signori del doom difficilmente uscirà qualcosa che assomigli ai primi anni settanta. Meglio allora buttarsi, per una volta, su giovani adepti che in quegli anni nemmeno erano nati, ma che dai maestri sembrano aver eredidato tutto e di più.
Ogni decade ha avuto le sue band devote al "nero sabbath", gli anni ottanta sono stai gli anni di Candlemass e Trouble, gli anni novanta di Sleep e Cathedral , in questi avari anni zero si fanno avanti tra i tanti, gli Orchid da San Francisco. Dopo due Ep, arriva finalmente il full lenght e il salto indietro nel tempo è facile e indolore meglio della macchina dello scienziato "Doc" di Ritorno al futuro.
Quando si parla di band come gli Orchid è sempre facile cadere in una parola come plagio e sfortunatamente anche i titoli delle canzoni sembrano portare in un unica e sola direzione.
Ascoltando le canzoni, però, si intuisce di avere a che fare con un gruppo che sa il fatto suo: nove canzoni dalla durata media di sei minuti, dove i nostri riescono a costruire e mettere al loro interno rallentamenti ed accelerazioni, parti acustiche e progressive con un gusto della melodia che unisce il tutto e fa la differenza facendosi perdonare i tanti riferimenti ai Black Sabbath sparsi lungo tutta la durata del disco. Quello che fa la differenza tra gli Orchid e gli altri gruppi sono le canzoni, costruite con intelligenza e maestria con la voce del cantante Theo Mindell che pur rimanendo sui registri dell'Ozzy Osbourne anni '70 non ne scimmiotta la voce come già sentito in altre band, un basso pesante e presente fino a guidare la canzone, ascoltate la title-track Capricorn e capirete, e una chitarra in mano a Mark Thomas Baker che sforna riff come Toni Iommi non fa più da molto tempo.
L'iniziale Eyes behind the wall, non sarebbe la canzone che tutti i fans dei Black Sabbath vorrebbero sentire ancora dalla chitarra di Iommi? Cosmonaut of three, con tanto di video, potrebbe essere la doom-song perfetta. Black Funeral, omaggia fino ad essere la figlia perfetta di Hands of doom, He who walks alone rimanda ai conterranei Trouble, Electric Father è una sulfurea space/doom song, psichedelica e straniante come la chiusura affidata all'acustica, sognante e progressive Albatross, guidata dal moog, una specie di Planet Caravan pt.2.
Ci sarà sempre chi dirà: a questo punto continuo ad ascoltarmi gli originali primi cinque dischi dei Black Sabbath, ma attenzione perchè questi ragazzi hanno tutte le potenzialità per diventare importanti e il prossimo disco sarà una prova senza appelli. Ultima annotazione per l'artwork globale del cd, veramente cosa d'altri tempi, anche quello.
lunedì 9 maggio 2011
RECENSIONE: VOIVOD live (7 Maggio 2011,Rock'n'roll Arena, Romagnano Sesia-NO)
Il "Voivod" è ancora in piedi, un guerriero duro a morire, spopravvissuto a mille battaglie, hanno provato ad abbatterlo in tutti i modi, ma lui, esattamente a trent'anni dalla sua nascita è ancora fiero e combattivo e si appresta a voltare nuovamente pagina per rinascere come una fenice.
Mancava solo Denis "Piggy" D'Amour, stasera e la festa poteva essere completa. Il chitarrista scomparso nel 2005 è stato comunque presente grazie al ricordo del numeroso pubblico che a più riprese, durante la serata, ha scandito il suo nome e dallo stesso gruppo che nel finale ha dedicato lui , Astronomy Domine cover dei primi Pink Floyd ormai degna conclusione di ogni loro concerto e all'epoca fortemente voluta da Piggy stesso. Bisogna comunque dire che il sostituto Daniel Mongrain in arte Chewy, si è confermato più che degno, non che affiatatissimo con il resto del gruppo e pronto a dare inizio ad una nuova era che inizierà presto con la pubblicazione di un nuovo live ed un nuovo lavoro di studio.
I Voivod hanno sempre avuto uno strano destino, quasi maledetto, che però è sempre stato combattuto, avendone in cambio l'assoluta certezza di essere uno dei gruppi più inimitabili della scena rock. I Voivod hanno avuto il merito artistico di elevare il metal, portarlo in un altra dimensione, a volte troppo avanti ed "intelligenti"per essere capiti ma alla fine dei conti irrangiungibili ed inimitabili.
Il tour che ha toccato l'Italia vuole essere l'anticipo dell'imminente disco live " Warriors of Ice" che uscirà il 21 Giugno e la scaletta del concerto ne ricalca la trackslist quasi fedelmente.
Ad aprire "l'old school" thrash dei milanesi Hellstorm, gruppo con un repertorio che scava negli eighties, il primo ed originale black metal di Venom e Bathory incrocia il thrash metal teutonico e il primo death americano in una proposta molto vintage ma estremamente convincente.
The Unknown Knows da "Nothingface"(1989), alla fine l'album più saccheggiato durante la serata, apre un concerto che ripercorre tutte le tappe dell'evoluzione sonora dei canadesi, altalenandosi tra i vari periodi che hanno scandito la loro impeccabile carriera, dagli inizi e il loro "terroristico" thrash, in canzoni micidiali come Voivod e Nuclear War, piazzate come bis, a The Prow da Angel Rat(1991) , disco visionario e psichedelico, poco capito all'epoca ma uno dei loro picchi discografici.
L'istrionico Denis Belanger (Snake) sa come tenere il palco e a più riprese apre simpatici siparietti come nella presentazione ed esecuzione di Forlorn, tratta da "Phobos"(1998), unica canzone del periodo "Forrest" presente in scaletta.
Positivo anche il ritorno di Jean-Yves "Blacky" Thèriault al basso. Scanzonato e in vena di scherzi e battute lo storico bassista è sembrato in piena forma così come la sempre professionale prestazione di un impeccabile Away alla batteria, vero artista a tempo pieno e figura portante del progetto "Voivod" in tutte le sue forme.
Tra le storiche Ripping Headaches, Revenous Medicine, Tribal Convinctions, Nothingface, Missing Sequences e una terremotante Tornado, c' è il tempo per la più recente Global Warning dall'ultimo "Infini", album, come il predecessore "Katorz", costruito dopo la morte di Piggy, usando l'infinità di riff chitarristici lasciati in eredità e per una nuova composizione Kaleidos, che con tutta probabilità farà parte del nuovo disco in cantiere.
La buona affluenza di pubblico all'interno del Rockn'roll Arena e l'affetto dimostrato sprona i Voivod a rientrare in scena per un ultimo saluto, confermando l'assoluta grandezza di un gruppo che ha saputo cavalcare e anticipare sempre i tempi. Perchè nelle discografie che contano, spazio per qualche loro disco ci sarà sempre e stasera lo hanno ribadito senza eccessi di protagonismo, come loro consuetudine, ma facendo della professionalità e onestà il loro punto forte. Lunga vita al "VOIVOD".
venerdì 6 maggio 2011
martedì 3 maggio 2011
RECENSIONE: NAZARETH (Big Dogz)
NAZARETH Big Dogz ( Ear music, 2011)
I Nazareth ci riprovano. Dopo il buon "The Newz" uscito nel 2008, gli scozzesi sembrano vivere una seconda giovinezza , anche grazie alla freschezza compositiva portata dai due nuovi membri, il batterista figliol prodigo Lee Agnew e il chitarrista Jimmy Murrison, ormai ben inseriti nelle trame hard-blues della band.
I Nazareth del nuovo millennio sono ancora un gruppo con un loro perchè. Ascoltate la voce di Dan McCafferty, non è il cantante che farebbe comodo ai miliardari Ac/Dc? La sua voce non ha perso nulla, catrame e melodia come fosse il 1974. Da sempre una delle voci più particolari dell'intero circuito rock e oggi superati i sessantacinquei anni, un vero valore aggiunto. Eppure i Nazareth hanno sempre dovuto combattere per rimanere a galla, i loro tre capolavori degli anni settanta Razamanaz (1973), Loud'n'Proud (1974) e Hair of the dog (1975) vanno annoverati tra le cose più semplici, genuine e dirette uscite in quegli anni, saccheggiati in futuro da molte bands.
Proprio quella semplicità di esecuzione, hanno ricercato i Nazareth targati 2011. Registrato a Praga, praticamente in presa diretta, in poche settimane, per raccogliere tutta la spontaneità e il l'immediatezza che il loro rock richiede, un mix tra l'antico hard rock/blues caro ai due superstiti originali McCafferty e il bassista Pete Agnew e la nuova pesantezza sonora portata degli altri due più giovani componenti.
Big Dog's gonna howl, Claimed e Lifeboat sono pesanti mid-tempo dal tiro hard rock con la voce strepitosa di McCafferty che si erge subito protagonista per diventare ineguagliabile in No Mean Monster. Tra i richiami al passato in When Jesus comes to save the world again, un lento ed ammagliante blues che, come ricordano gli stessi autori, potrebbe essere la continuazione della loro storica Vigilante man( cover di Woody Guthrie), scanzonati rock'n'roll boogie come The toast e canonici ma pesanti episodi blues come Watch your back, c'è il tempo per una radio friendly, è proprio il caso di dirlo, Radio, un omaggio alle vecchie stazioni radio di una volta avvolta in una melodia facile ed orecchiabile.
C'è ancora tempo per la ballata guidata dal piano, Butterfly, segno che i vecchi rockers di una volta , quando vogliono sfiorarti il cuore, riescono anche a penetrarlo e per la finale Sleeptalker, partenza rock'n'roll e finale con il chitarrista Murrison protagonista.
Un disco piacevole dall'inizio alla fine e per un gruppo con 40 anni di storia sul gruppone è già un risultato straordinario. Gli scozzesi, hanno sempre lavorato duro e con umiltà in campo rock, raccogliendo, purtroppo, solo tanta stima dagli addetti ai lavori e a chi parla ora di loro, definendoli dei dinosauri del rock, rispondo: a me i dinosauri sono sempre piaciuti.
I Nazareth ci riprovano. Dopo il buon "The Newz" uscito nel 2008, gli scozzesi sembrano vivere una seconda giovinezza , anche grazie alla freschezza compositiva portata dai due nuovi membri, il batterista figliol prodigo Lee Agnew e il chitarrista Jimmy Murrison, ormai ben inseriti nelle trame hard-blues della band.
I Nazareth del nuovo millennio sono ancora un gruppo con un loro perchè. Ascoltate la voce di Dan McCafferty, non è il cantante che farebbe comodo ai miliardari Ac/Dc? La sua voce non ha perso nulla, catrame e melodia come fosse il 1974. Da sempre una delle voci più particolari dell'intero circuito rock e oggi superati i sessantacinquei anni, un vero valore aggiunto. Eppure i Nazareth hanno sempre dovuto combattere per rimanere a galla, i loro tre capolavori degli anni settanta Razamanaz (1973), Loud'n'Proud (1974) e Hair of the dog (1975) vanno annoverati tra le cose più semplici, genuine e dirette uscite in quegli anni, saccheggiati in futuro da molte bands.
Proprio quella semplicità di esecuzione, hanno ricercato i Nazareth targati 2011. Registrato a Praga, praticamente in presa diretta, in poche settimane, per raccogliere tutta la spontaneità e il l'immediatezza che il loro rock richiede, un mix tra l'antico hard rock/blues caro ai due superstiti originali McCafferty e il bassista Pete Agnew e la nuova pesantezza sonora portata degli altri due più giovani componenti.
Big Dog's gonna howl, Claimed e Lifeboat sono pesanti mid-tempo dal tiro hard rock con la voce strepitosa di McCafferty che si erge subito protagonista per diventare ineguagliabile in No Mean Monster. Tra i richiami al passato in When Jesus comes to save the world again, un lento ed ammagliante blues che, come ricordano gli stessi autori, potrebbe essere la continuazione della loro storica Vigilante man( cover di Woody Guthrie), scanzonati rock'n'roll boogie come The toast e canonici ma pesanti episodi blues come Watch your back, c'è il tempo per una radio friendly, è proprio il caso di dirlo, Radio, un omaggio alle vecchie stazioni radio di una volta avvolta in una melodia facile ed orecchiabile.
C'è ancora tempo per la ballata guidata dal piano, Butterfly, segno che i vecchi rockers di una volta , quando vogliono sfiorarti il cuore, riescono anche a penetrarlo e per la finale Sleeptalker, partenza rock'n'roll e finale con il chitarrista Murrison protagonista.
Un disco piacevole dall'inizio alla fine e per un gruppo con 40 anni di storia sul gruppone è già un risultato straordinario. Gli scozzesi, hanno sempre lavorato duro e con umiltà in campo rock, raccogliendo, purtroppo, solo tanta stima dagli addetti ai lavori e a chi parla ora di loro, definendoli dei dinosauri del rock, rispondo: a me i dinosauri sono sempre piaciuti.
venerdì 29 aprile 2011
RECENSIONE: VINICIO CAPOSSELA ( Marinai, profeti e balene)
VINICIO CAPOSSELA Marinai, Profeti e Balene (La Cùpa, 2011)
Sempre uguale a se stesso, nei secoli dei secoli, il mare non è mai mutato, i suoi rumori e i suoi dolci e spettrali silenzi, il sali/scendi delle onde, i suoi odori di vita e di morte sembrano materializzarsi in un disco enciclopedico che ci racconta leggende, miti e altre storie appoggiandosi spesso e volentieri su testi "alti" della grande letteratura che hanno l'acqua salata come protagonista. Se gli ultimi bollettini ci parlano di un mare rivoltoso ed assassino (Tsunami) o di un mare "autostrada" e ugualmente assassino per disperati alla ricerca di lidi felici, il mare di Vinicio è tutto questo e molto di più. Le sue acque diventano anche la nostra vita compiendo un gioco di parallelismi e metafore.
Capossela ha compiuto un impresa d'altri tempi, riuscendo a riunire 19 canzoni monotematiche in due dischi che suonano d' antico e hanno il colore mutevole dell'acqua e le sue tante sfumature, dal verde melmoso all'azzurro più limpido.
Un primo segnale lo aveva lanciato nel 2008 quando in fondo a Carried to dust, disco degli americani Calexico, vi era come bonus track la canzone Polpo, suonata in compagnia del gruppo di Tucson. Quella canzone è diventata Polpo d'amor. Vi è poi stato il tour sempre del 2008 in cui interpretò in mezzo al mare sopra ad una imbarcazione canzoni a tema marinaresco e infine la geniale intuizione che il mare nella sua oceanica vastità poteva diventare ispiratore di mille storie da appiccicare sopra alla vita di ognuno di noi. Registrato in più luoghi, prevalentemente sul mare, prodotto insieme a Taketo Gohara.
Tutto sembra grande in questo disco a partire dall'autore, passando per la innumerevole quantità di strumenti usati, anche quelli improvvisati, gli ospiti, i cori, gli stili. Capossela si veste da bucaniere e ci indirizza verso un mondo pieno di misteri che solo quando toccano terra sembrano diventare realtà. Due dischi come due parti di un solo racconto, con un solo protagonista, ma ben distinti l'uno dall'altro. La prima parte biblica e letteraria, la seconda più Omerica e terrena .
Può sembrare estremamente difficile entrare dentro al disco, come districarsi ed uscire vivi dalla stiva di una grossa nave piratesca, piena di cunicoli, botole e nascondigli. Si può partire dall'inizio e prendersi un'ora e mezza di tempo seguendolo cronologicamente così come è stato concepito oppure andare a zonzo cercando tra i bizzarri titoli delle canzoni, quelle che più ci attraggono alla prima lettura. Il consiglio è di fare l'una e l'altra cosa.
Si parte dal romanzo "Moby Dick" di Melville, quello con le traduzioni fatte da Pavese, nelle iniziali Il grande Leviatano e L'oceano Oilalà, la prima, una inquiteante e abissale overture tra romanzo e citazioni bibliche, la seconda un mix tra ballata medioevale e canto piratesco che si chiude con il più classico coro dei marinai" Date un bicchiere di rum. Noi vogliamo del rum". Il romanzo di Melville è gran protagonista nella prima parte del disco, da cui traggono ispirazione anche La bianchezza della balena, la talkin' opera Fuochi fatui e la piratesca e corale Billy Budd, un blues contagioso e guidato dall'ospite Marc Ribot (fida chitarra del maestro Waits).
La spettacolare Job, ballata con l'esplosione finale in bilico tra Dio e satana, tratta dal "Libro di Job", lo xilofono guida Lord Jim che prendendo spunto dal romanzo di Joseph Conrad, narra le gesta del marinaio inglese complessato dal suo passato (Nessuno è mai protetto dalla sua debolezza...).
In Polpo d'amor, Capossela immagina l'amore sotto le vesti di un polipo con molte braccia per "amare meglio", magari la bella sirenetta Pryntyl protagonista del primo singolo che sembra uscire direttamente da un grammofono dei primi '900, con le Sorelle Marinetti ospiti.
Con il secondo disco sembra quasi di mettere per un attimo i piedi sulla terra ferma. L'uomo ora cerca risposte e se il mare era poco rassicurante e pieno di incognite, la vita lo è nella stessa misura.
Chi smanioso di risposte, si affida agli indovini, Dimmi Tiresia (...ma è meglio sapere o non sapere...a che mi servirà sapere, saper il mio destino come già deve compiersi...), chi si butta sui nettari capaci di alterare la percezione,Vinocolo è un blues elettrico, rumorista e non sense ode al vino tra i miti dell'Odissea, dal carattere waitsiano. Non poteva mancare la citazione alle mappe dei marinai, ossia il cielo e le sue stelle, Le Pleiadi è una ballata pianistica delicata e armoniosa così come Aedo guidata dalla lyra suonata da Psarantonis, uno dei tanti picchi del disco.
La mitologia greca in Calipso si fonde con la musica caraibica, La madonna delle conchiglie, una filastrocca dedicata alla protettrice dei marinai.
Le sirene che cantano il "tempo andato e futuro" chiudono un disco senza punti deboli, dove ogni nota e ogni parola riempiono e saziano la fame di musica.
Ultimo avviso ai naviganti: il prolungato ascolto del disco produrrà dipendenza. Un 'opera che rimarrà negli annali in compagnia delle migliori opere musicali italiane e un artista che conferma la sua voglia di sperimentare con la fantasia.
Sempre uguale a se stesso, nei secoli dei secoli, il mare non è mai mutato, i suoi rumori e i suoi dolci e spettrali silenzi, il sali/scendi delle onde, i suoi odori di vita e di morte sembrano materializzarsi in un disco enciclopedico che ci racconta leggende, miti e altre storie appoggiandosi spesso e volentieri su testi "alti" della grande letteratura che hanno l'acqua salata come protagonista. Se gli ultimi bollettini ci parlano di un mare rivoltoso ed assassino (Tsunami) o di un mare "autostrada" e ugualmente assassino per disperati alla ricerca di lidi felici, il mare di Vinicio è tutto questo e molto di più. Le sue acque diventano anche la nostra vita compiendo un gioco di parallelismi e metafore.
Capossela ha compiuto un impresa d'altri tempi, riuscendo a riunire 19 canzoni monotematiche in due dischi che suonano d' antico e hanno il colore mutevole dell'acqua e le sue tante sfumature, dal verde melmoso all'azzurro più limpido.
Un primo segnale lo aveva lanciato nel 2008 quando in fondo a Carried to dust, disco degli americani Calexico, vi era come bonus track la canzone Polpo, suonata in compagnia del gruppo di Tucson. Quella canzone è diventata Polpo d'amor. Vi è poi stato il tour sempre del 2008 in cui interpretò in mezzo al mare sopra ad una imbarcazione canzoni a tema marinaresco e infine la geniale intuizione che il mare nella sua oceanica vastità poteva diventare ispiratore di mille storie da appiccicare sopra alla vita di ognuno di noi. Registrato in più luoghi, prevalentemente sul mare, prodotto insieme a Taketo Gohara.
Tutto sembra grande in questo disco a partire dall'autore, passando per la innumerevole quantità di strumenti usati, anche quelli improvvisati, gli ospiti, i cori, gli stili. Capossela si veste da bucaniere e ci indirizza verso un mondo pieno di misteri che solo quando toccano terra sembrano diventare realtà. Due dischi come due parti di un solo racconto, con un solo protagonista, ma ben distinti l'uno dall'altro. La prima parte biblica e letteraria, la seconda più Omerica e terrena .
Può sembrare estremamente difficile entrare dentro al disco, come districarsi ed uscire vivi dalla stiva di una grossa nave piratesca, piena di cunicoli, botole e nascondigli. Si può partire dall'inizio e prendersi un'ora e mezza di tempo seguendolo cronologicamente così come è stato concepito oppure andare a zonzo cercando tra i bizzarri titoli delle canzoni, quelle che più ci attraggono alla prima lettura. Il consiglio è di fare l'una e l'altra cosa.
Si parte dal romanzo "Moby Dick" di Melville, quello con le traduzioni fatte da Pavese, nelle iniziali Il grande Leviatano e L'oceano Oilalà, la prima, una inquiteante e abissale overture tra romanzo e citazioni bibliche, la seconda un mix tra ballata medioevale e canto piratesco che si chiude con il più classico coro dei marinai" Date un bicchiere di rum. Noi vogliamo del rum". Il romanzo di Melville è gran protagonista nella prima parte del disco, da cui traggono ispirazione anche La bianchezza della balena, la talkin' opera Fuochi fatui e la piratesca e corale Billy Budd, un blues contagioso e guidato dall'ospite Marc Ribot (fida chitarra del maestro Waits).
La spettacolare Job, ballata con l'esplosione finale in bilico tra Dio e satana, tratta dal "Libro di Job", lo xilofono guida Lord Jim che prendendo spunto dal romanzo di Joseph Conrad, narra le gesta del marinaio inglese complessato dal suo passato (Nessuno è mai protetto dalla sua debolezza...).
In Polpo d'amor, Capossela immagina l'amore sotto le vesti di un polipo con molte braccia per "amare meglio", magari la bella sirenetta Pryntyl protagonista del primo singolo che sembra uscire direttamente da un grammofono dei primi '900, con le Sorelle Marinetti ospiti.
Con il secondo disco sembra quasi di mettere per un attimo i piedi sulla terra ferma. L'uomo ora cerca risposte e se il mare era poco rassicurante e pieno di incognite, la vita lo è nella stessa misura.
Chi smanioso di risposte, si affida agli indovini, Dimmi Tiresia (...ma è meglio sapere o non sapere...a che mi servirà sapere, saper il mio destino come già deve compiersi...), chi si butta sui nettari capaci di alterare la percezione,Vinocolo è un blues elettrico, rumorista e non sense ode al vino tra i miti dell'Odissea, dal carattere waitsiano. Non poteva mancare la citazione alle mappe dei marinai, ossia il cielo e le sue stelle, Le Pleiadi è una ballata pianistica delicata e armoniosa così come Aedo guidata dalla lyra suonata da Psarantonis, uno dei tanti picchi del disco.
La mitologia greca in Calipso si fonde con la musica caraibica, La madonna delle conchiglie, una filastrocca dedicata alla protettrice dei marinai.
Le sirene che cantano il "tempo andato e futuro" chiudono un disco senza punti deboli, dove ogni nota e ogni parola riempiono e saziano la fame di musica.
Ultimo avviso ai naviganti: il prolungato ascolto del disco produrrà dipendenza. Un 'opera che rimarrà negli annali in compagnia delle migliori opere musicali italiane e un artista che conferma la sua voglia di sperimentare con la fantasia.
martedì 26 aprile 2011
RECENSIONE: PENTAGRAM ( Last Rites)
PENTAGRAM Last Rites (Metal Blade ,2011)
Gli angeli ribelli sono duri da scacciare quando sono stati fedeli alleati di vita e di una carriera vissuta correndo( a passo molto lento) sul filo dello strapiombo . Ma c'è un tempo per tutto e Bobby Liebling era arrivato al punto in cui quei compagni iniziavano a diventare ingombranti seppur sempre in linea con la sua band e la sua vita artistica in generale. Può considerarsi un sopravvissuto del rock che a sessant'anni si è rimesso a camminare a centro strada, costruendosi una famiglia e guardando al cielo con una motivata speranza( anche questa conversione è successa) senza perdere il carisma e il carattere istrionico della sua figura, certamente un personaggio a tutto tondo.
I Pentagram sono in giro da quarant'anni, pochi quelli che se ne sono accorti, molti quelli che riconoscono in loro l'importanza e l'influenza esercitata verso un modo di suonare rock. Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
La storia dei Pentagram si è sempre appoggiata agli anni settanta, anni in cui i nostri non sfornarono nessuno disco ma riempirono il pentagramma musicale di innumerevoli canzoni che ancora oggi sono un profondo pozzo da cui attingere per costruire nuovi album. Non fa difetto Last Rites in bilico tra passato e presente. Veri e propri traghettatori del doom Sabbathiano dagli anni settanta agli anni ottanta , hanno contribuito in maniera sostanziale a far nascere generi come l'Heavy Doom e certo Sludge/Stoner generando centinaia di discepoli. La sapiente e intrigante mescolanza tra la pesantezza dei riff e l'acido blues in stile Blue Cheer è stata assorbita e metabolizzata da schiere di bands che in fila all'anagrafe chiedono la paternità a Liebling e soci.
In Last Rites la chitarra di Griffin è protagonista assoluta tra passeggiate nei più oscuri e sulfurei abissi fino a più rassicuranti melodie(in American dream regna sovrano), i suoi riff e i suoi assoli (che hanno fatto scuola, tanto da essere l'unico vero erede di Tony Iommi) popolano le canzoni, mai così varie e ben costruite. Un disco che gioca sulla varietà degli umori e la voce di Liebling "camaleontica" a dominare sia quando deve essere melodica ed evocativa come nella spiazzante e riuscita ballad Windmills and Chimes, che apre sconfinati spazi tra brezze di vento e campane, sia quando deve seguire la veloce, moderna e quasi stoner opener Treat me right, sfoderando cattiveria e grinta.
Rallentamenti e riff vecchia scuola in Death in 1st person, Walk in blue light, Into the ground , fumosi doom che riconciliano con il passato e consolidano il presente. Menzione per Call the man, ipnotica, cadenzata ed epica marcia con uno strepitoso Griffin che sfodera tutti i suoi effetti da metà canzone in poi e per la psichedelica e trasognante Everything's turning to night.
Dopo un disco così, che potrebbe riaprire porte e consegnare nuovi adepti alla band, si spera che la stabilità si impossessi, finalmente, del futuro consegnando ai virginiani Pentagram l'importanza che meritano al fianco dei grandi nomi del panorama Hard/Heavy mondiale. Perchè se l'Europa ha avuto i Black Sabbath, l'America ha risposto con i Pentagram.
Gli angeli ribelli sono duri da scacciare quando sono stati fedeli alleati di vita e di una carriera vissuta correndo( a passo molto lento) sul filo dello strapiombo . Ma c'è un tempo per tutto e Bobby Liebling era arrivato al punto in cui quei compagni iniziavano a diventare ingombranti seppur sempre in linea con la sua band e la sua vita artistica in generale. Può considerarsi un sopravvissuto del rock che a sessant'anni si è rimesso a camminare a centro strada, costruendosi una famiglia e guardando al cielo con una motivata speranza( anche questa conversione è successa) senza perdere il carisma e il carattere istrionico della sua figura, certamente un personaggio a tutto tondo.
I Pentagram sono in giro da quarant'anni, pochi quelli che se ne sono accorti, molti quelli che riconoscono in loro l'importanza e l'influenza esercitata verso un modo di suonare rock. Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
La storia dei Pentagram si è sempre appoggiata agli anni settanta, anni in cui i nostri non sfornarono nessuno disco ma riempirono il pentagramma musicale di innumerevoli canzoni che ancora oggi sono un profondo pozzo da cui attingere per costruire nuovi album. Non fa difetto Last Rites in bilico tra passato e presente. Veri e propri traghettatori del doom Sabbathiano dagli anni settanta agli anni ottanta , hanno contribuito in maniera sostanziale a far nascere generi come l'Heavy Doom e certo Sludge/Stoner generando centinaia di discepoli. La sapiente e intrigante mescolanza tra la pesantezza dei riff e l'acido blues in stile Blue Cheer è stata assorbita e metabolizzata da schiere di bands che in fila all'anagrafe chiedono la paternità a Liebling e soci.
In Last Rites la chitarra di Griffin è protagonista assoluta tra passeggiate nei più oscuri e sulfurei abissi fino a più rassicuranti melodie(in American dream regna sovrano), i suoi riff e i suoi assoli (che hanno fatto scuola, tanto da essere l'unico vero erede di Tony Iommi) popolano le canzoni, mai così varie e ben costruite. Un disco che gioca sulla varietà degli umori e la voce di Liebling "camaleontica" a dominare sia quando deve essere melodica ed evocativa come nella spiazzante e riuscita ballad Windmills and Chimes, che apre sconfinati spazi tra brezze di vento e campane, sia quando deve seguire la veloce, moderna e quasi stoner opener Treat me right, sfoderando cattiveria e grinta.
Rallentamenti e riff vecchia scuola in Death in 1st person, Walk in blue light, Into the ground , fumosi doom che riconciliano con il passato e consolidano il presente. Menzione per Call the man, ipnotica, cadenzata ed epica marcia con uno strepitoso Griffin che sfodera tutti i suoi effetti da metà canzone in poi e per la psichedelica e trasognante Everything's turning to night.
Dopo un disco così, che potrebbe riaprire porte e consegnare nuovi adepti alla band, si spera che la stabilità si impossessi, finalmente, del futuro consegnando ai virginiani Pentagram l'importanza che meritano al fianco dei grandi nomi del panorama Hard/Heavy mondiale. Perchè se l'Europa ha avuto i Black Sabbath, l'America ha risposto con i Pentagram.
venerdì 22 aprile 2011
COVER ART #1: BILLY JOEL (GLASS HOUSES, 1980)
artista: BILLY JOEL
album: GLASS HOUSES
anno: 1980
fotografo: JIM HOUGHTON
canzoni da ricordare: All for Leyna, It's still rock and roll to me, Sometimes a fantasy, You may be right
Anno 1980, il punk aveva già spazzato via tutto. Occorrevano grandi cambiamenti e molti artisti non rimasero a guardare, chi si buttò sulla discomusic imperante, chi sulla new wave e chi optò per una svolta rock.
Billy Joel esce dagli anni settanta con l'etichetta appiccicata addosso da crooner confidenziale, un "piano man" sulla scia dell'amico Elton John con almeno due hits mondiali come Just the way you are e Honesty che gli garantiranno diritti a vita ed un futuro radioso ed economicamente coperto.
Glass Houses è il disco delle rivincite. La sua personale mossa "punk" scagliata contro chi gli voleva male, critici in primis. Nulla cambia nel successo, confermando Joel come uno dei più straordinari hit maker americani di sempre. Glass Houses diventa presto un altro album di platino da aggiungere in bacheca grazie ai nuovi successi di You May Be Right, Sometimes A Fantasy, All For Leyna, It's Still Rock And Roll To Me, Don't Ask Me Why. Naturalmente la critica rema nuovamente contro, vedendo in questa nuova trasformazione di Joel il tentativo di cavalcare "l'onda" della nascente New Wave.
“Penso che ci sia stata la
percezione che stavo tentando di atteggiarmi come un ragazzo uscito dalla New
Wave, ma non era in alcun modo la mia intenzione. La mia intenzione era
scrivere roba più adatta da suonare nelle grandi arene”.
Joel, tutto sommato è un combattivo e la sua giovinezza passata a boxare lo sprona a far uscire un disco di rottura, diverso da quanto prodotto fino ad allora.Ecco che la copertina assume un significato particolare , svelando subito i suoi contenuti rock'n'roll.
Vestito di giubbotto e guanti di pelle nera, jeans sdruciti e stivaletti, impugna una pietra. I caratteri delle scritte, il nome e il titolo dell'album in rosso, fanno tanto "New York Dolls". Il fotografo Jim Houghton, già autore dello scatto del precedente disco di Joel 52 nd Street(1978) e di Powerage e Highway To Hell degli AC-DC, lo ritrae un attimo prima che la pietra tenuta in mano vada ad infrangersi sull'enorme vetrata davanti a lui. Un gesto che assume il significato di rottura con il passato o un atto da teppistello del Bronx, visto anche l'abbigliamento di Joel?
Sul retro copertina viene svelato l'arcano e tutto sembra tornare normale, il primo piano vede il musicista Newyorchese in giacca e cravatta però davanti ad un vetro in frantumi. La pietra , non ci sono più dubbi, è stata lanciata e gli anni ottanta, lo vedranno ancora protagonista.
giovedì 21 aprile 2011
retroRECENSIONE: KRIS KRISTOFFERSON (Closer to the bone)
KRIS KRISTOFFERSON Closer to the bone (NEW WEST Records,2009)
Il vento sbatte la porta socchiusa della veranda, un vecchio uomo texano dalla barba bianca armato di chitarra e armonica è intento ad accompagnare l'arrivo della sera seduto su una vecchia sedia cigolante. La sua voce calda ed avvolgente racconta storie di libertà, dolore e lo fa in solitudine come un vecchio zio che racconta ai suoi giovani nipoti cos'è la vita e come deve essere affrontata. Si mormora che questo uomo fu anche un attore bello e dannato che faceva cadere ai suoi piedi le donne e che scrisse quella canzone che tanto successo portò alla giovane e anch'essa dannata Janis Joplin, sì quella "Me and Bobby McGee" l'ha scritta proprio quel vecchio uomo.
Alla soglia dei settantatrè anni, Kris Kristofferson fa uscire un disco stupendo, che potrebbe essere benissimo il sesto capitolo mancante delle "American recordings" del compianto amico Johhny Cash. Proprio alle ultime registrazioni di Cash si è ispirato il produttore Don Was per far rinascere la carriera artistica di Kristofferson. Seguendo la strada di Rubin, Was con un operazione di taglio arrichisce la vena malinconica di queste undici composizioni scritte tutte dall'artista texano. Pochi strumenti e band (tra cui il recentemente somparso chitarrista Stephen Bruton e il batterista Jim Keltner) ridotta all'osso rendono le canzoni penetranti e ricche di quel feeling malinconico e struggente che l'ultimo Cash aveva creato. Proprio a Cash è dedicata una delle composizioni più solari del disco, "Good Morning John". Questa canzone è una dedica e un ricordo dell'amico scomparso, che già negli anni sessanta incoraggiò il giovane Kristofferson alla musica. E' inutile negarlo o nasconderlo, lo spettro di Cash esce un pò da tutti i solchi di questo lavoro come nelle crepuscolari "From Here To Forever" e "Holy Woman".
L'iniziale titletrack, già conosciuta ai tempi del supergruppo Highwaymen e sorretta dall'armonica di Kristofferson, protagonista in più tracce e che spesso portano alla mente le prime splendide ballate del giovane Dylan. Closer to the bone è un disco folk dall'anima country, pieno zeppo di dediche, oltre a quella per Cash, troviamo "Sister Sinead", dedicata alla O'Connor e infine la dedica finale al compagno di mille avventure Stephen Bruton, chitarrista della sua band e scomparso poco dopo le registrazioni.
Un disco d'altri tempi che ben si adatta all'arrivo di un altro inverno, in grado di scaldare anima e cuore, cullati dalla voce roca e saggia di Kristofferson che ci regala anche una traccia nascosta che non fa che confermare la bontà di questo lavoro e la nuova strada intrapresa da questo artista intento a vivere da protagonista anche questa sua fase di fine carriera. Il disco è uscito per la New West records e nella edizione limitata presenta un bonus disc con un live registrato a Dublino nel 2008 tra cui si possono ascoltare alcuni suoi vecchi successi come "Sunday Mornin' Comin' Down".
In origine compare su: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_29489/Kris_Kristofferson_Closer_To_The_Bone.htm
Il vento sbatte la porta socchiusa della veranda, un vecchio uomo texano dalla barba bianca armato di chitarra e armonica è intento ad accompagnare l'arrivo della sera seduto su una vecchia sedia cigolante. La sua voce calda ed avvolgente racconta storie di libertà, dolore e lo fa in solitudine come un vecchio zio che racconta ai suoi giovani nipoti cos'è la vita e come deve essere affrontata. Si mormora che questo uomo fu anche un attore bello e dannato che faceva cadere ai suoi piedi le donne e che scrisse quella canzone che tanto successo portò alla giovane e anch'essa dannata Janis Joplin, sì quella "Me and Bobby McGee" l'ha scritta proprio quel vecchio uomo.
Alla soglia dei settantatrè anni, Kris Kristofferson fa uscire un disco stupendo, che potrebbe essere benissimo il sesto capitolo mancante delle "American recordings" del compianto amico Johhny Cash. Proprio alle ultime registrazioni di Cash si è ispirato il produttore Don Was per far rinascere la carriera artistica di Kristofferson. Seguendo la strada di Rubin, Was con un operazione di taglio arrichisce la vena malinconica di queste undici composizioni scritte tutte dall'artista texano. Pochi strumenti e band (tra cui il recentemente somparso chitarrista Stephen Bruton e il batterista Jim Keltner) ridotta all'osso rendono le canzoni penetranti e ricche di quel feeling malinconico e struggente che l'ultimo Cash aveva creato. Proprio a Cash è dedicata una delle composizioni più solari del disco, "Good Morning John". Questa canzone è una dedica e un ricordo dell'amico scomparso, che già negli anni sessanta incoraggiò il giovane Kristofferson alla musica. E' inutile negarlo o nasconderlo, lo spettro di Cash esce un pò da tutti i solchi di questo lavoro come nelle crepuscolari "From Here To Forever" e "Holy Woman".
L'iniziale titletrack, già conosciuta ai tempi del supergruppo Highwaymen e sorretta dall'armonica di Kristofferson, protagonista in più tracce e che spesso portano alla mente le prime splendide ballate del giovane Dylan. Closer to the bone è un disco folk dall'anima country, pieno zeppo di dediche, oltre a quella per Cash, troviamo "Sister Sinead", dedicata alla O'Connor e infine la dedica finale al compagno di mille avventure Stephen Bruton, chitarrista della sua band e scomparso poco dopo le registrazioni.
Un disco d'altri tempi che ben si adatta all'arrivo di un altro inverno, in grado di scaldare anima e cuore, cullati dalla voce roca e saggia di Kristofferson che ci regala anche una traccia nascosta che non fa che confermare la bontà di questo lavoro e la nuova strada intrapresa da questo artista intento a vivere da protagonista anche questa sua fase di fine carriera. Il disco è uscito per la New West records e nella edizione limitata presenta un bonus disc con un live registrato a Dublino nel 2008 tra cui si possono ascoltare alcuni suoi vecchi successi come "Sunday Mornin' Comin' Down".
In origine compare su: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_29489/Kris_Kristofferson_Closer_To_The_Bone.htm
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