NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS live@Parco Estivo PalaBrescia, 23 Giugno 2017
La manifestazione si chiama “dal Mississippi al Po”, anche se stasera
bagna Brescia, ma durante il lungo tragitto qualche volantino che
pubblicizzava l’evento dev'essere caduto in acqua senza arrivare a
destinazione. Peccato. La prossima volta occorre più pubblicità! Eravamo
in pochi nell’area esterna del PalaBrescia dove, a sorpresa, tirava
un’arietta fresca dopo l’insopportabile calura del giorno. Pochi
ma buoni come si dice. Così come pochi sopra al palco sono i North
Mississippi Allstars. Tre: la chitarra e voce, e che chitarra, di Luther
Dickinson e due batterie, tra cui quella dello straordinario e
simpatico fratello Cody, all’occorrenza alla seconda chitarra per un
paio di pezzi ('Deep Ellum'), voce e poi con una mano imprestata alle
tastiere e quant’altro quando necessario. “Abbiamo fatto il disco
on the road: abbiamo registrato un po’ di ore a Brooklyn, un po’ a New
Orleans, un po’ a St. Louis, una giornata al Royal Studios a Memphis”.
Così Luther Dickinson ha presentato le genesi del nuovo disco PRAYER FOR
PEACE, il primo su major, durante una recente intervista. Un disco
blues nato per le strade che non ha impiegato molto a intrufolarsi e
mimetizzarsi dentro a quello che ai fratelli Dickinson riesce meglio da
sempre: suonare live. Come potrebbe essere diversamente per due persone
cresciute a fianco di una leggenda della musica americana come il padre
Jim? Live dove ipnotica energia, e qui la geniale trovata delle due
batterie gioca un ruolo importante (imponetene il sempre sorridente
Brady Blade) rispetto per la tradizione (anche se non manca quel tocco
di innovazione che li ha sempre distinti- ecco ‘You Gotta Move’) hanno
accompagnato quella straordinaria gioia di suonare che traspare ad ogni
loro movimento. Un’intesa tra fratelli che va aldilà dei vent’anni di
carriera musicale, dei dischi fatti, della bastarda miscela tra cover e
pezzi propri, dell’importante e lungo curriculum accumulato, e che a
conti fatti vince su tutto. Straordinario il finale con il rompete le
righe (pubblico finalmente in piedi davanti al palco) e Luther Dickinson
alle prese con la piccola chitarra artigianale costruita con un
barattolo di pelati, due corde e un bastone. Il mio momento della
serata: la jam tra ‘Hear My Train A-Comin’ e ‘Mistery Train’.
La grande forza di creare l’atmosfera giusta. Un lungo viaggio strumentale in crescendo, quasi un blocco unico dall’inizio alla fine con la capacità di incollare davanti al palco e contemporaneamente trasportare lontano. Vibrazioni positive, circolari e dilatate. Ryley Walker, cantautore folk rock dell'Illinois ma di casa a Chicago (anche musicalmente) rilascia sul palco tutta la libertà compositiva tenuta a freno nei quattro dischi incisi fino ad ora, creando saliscendi vincenti tra continue scosse e rallentamenti. Accompagnato da tre strumentisti eccezionali che hanno nel sempre sorridente batterista il punto faro da seguire con gli sguardi. Così come è capitato al pubblico: vi ho visti! Ryley Walker conduce dando gli attacchi ma si confonde e mimetizza presto in mezzo alle sue psichedeliche visioni e a quella libertà che ha solo come punto di partenza il folk (un bilanciato mix tra America e terra d’Albione) ma presto sconfina nella jam di stampo jazz e nella psichedelia californiana galoppante tra i 60 e i 70. Il cantato rapito seguendo i maestri Van Morrison e David Crosby (ma per descrivere la sua musica sono stati tirati in ballo anche Tim Buckley, Nick Drake e John Martin) diventa così solo uno sporadico contorno. Una enorme nota di merito ai suoni e alla location sempre accogliente di Cigole: limpidi, bilanciati e curati i primi, estiva, distensiva e rilassante la seconda. Un piacere per le orecchie e gli occhi. Nutrivo una certa curiosità per vedere all'opera sul palco Ryley Walker: a fine serata sono uscito dal concerto e ne volevo ancora. Soddisfatto!
Sabato sera Alejandro Escovedo ha generosamente sciorinato nomi legati alla sua vita musicale che solo avendo avuto block-notes e penna con me riuscirei a ricordare perfettamente ora. Un elenco lungo ma in continua trasformazione. Ci provo: i Nuns, la sua prima formazione in pieno punk 77 che ebbe il pregio di aprire alcuni concerti dei Sex Pistols, i tanti cantautori texani che aprirono la strada e quelli rimasti oggi come compagni di viaggio, l'amico Bruce Springsteen (ricordate il duetto 'Always A Friend'?, stasera suonata), la sua grande famiglia con i tantissimi fratelli musicisti, la favola maledetta di Sid Vicious e Nancy Spungen, gli amici italiani con il compianto Carlo Carlini in testa, il primo a portarlo in Italia, Chuck Berry recentemente scomparso e poi chissà quanti altri che ora mi sfuggono. Una memoria vivente degli ultimi quarant’anni di rock'n'roll-da non confondere con il rock patinato da prima pagina-con in mezzo le tante sfighe della vita, con la vittoria sull'epatite C da sfoggiare con l'orgoglio del combattente che ce l'ha fatta. I messaggi delle canzoni di Escovedo sono usciti chiari e forti: grazie al carisma e la bontà del texano, alla bravura dei musicisti che lo hanno accompagnato in questa data e in tutte le altre in giro per l'Europa, non ultima, alla buonissima acustica del Teatro Toscanini di Chiari. Uno spazio ricavato all'intero di una struttura scolastica che finché non ci entri, ti siedi e ascolti, non ci credi. Da buoni alunni con l'esperienza in tasca, ad aprire la serata sono stati i bresciani The Scotch, guidati dalla chitarra di EnricoSauda: un rock blues tosto il loro, carico di groove e coinvolgente. Hanno giocato in casa e hanno portato casa la partita con disinvoltura. Bravi!
Il concerto di Escovedo, invece, è stato una lezione di songwriting rock, raccontata senza nessuna barriera. A porte aperte: nessuna frontiera tra Austin e Messico, Londra e New York, l’Italia e il mondo tutto, i pochi vincenti e i tanti vinti, il rock e il folk. Una nota di merito va sicuramente a Don Antonio (dietro c'è Antonio Gramentieri dei Sacri Cuori) e band ( Franz Valtieri, Matteo Monti e Denis Valentini) che hanno tramutato sangue, ruggine, polvere e petali di rose in musica, attraverso possenti e abrasive chitarre elettriche e dilatate ballate suonate come dio comanda. Nella mia personale lista delle migliori canzoni della serata metto: 'Sally Was A Cop’, 'Can't Make Me Run' e ' Down In The Bowery'. A proposito di Don Antonio: occhio al debutto in uscita ad Aprile, ricco di sapori mediterranei e già in heavy rotation nel mio stereo il giorno dopo il concerto. Era una domenica uggiosa, maledizione. Ma è stato un bel contrasto. Vincente.
Le stanze del Chelsea Hotel non sono più tutte prenotate, come quelle del 1978, la sua Austin gli è cambiata sotto quegli occhi veri e sinceri che ora la guardano con nostalgia, tanti amici sono emigrati per sempre in altri posti lontani e sconosciuti, ma finché ci saranno chitarre, cuori e anime romantiche io ci credo ancora. L'ultimo disco BURN SOMETHING BEAUTIFUL è la testimonianza più diretta e convincente, comunque l'ultimo di un poker di album (REAL ANIMAL, STREET SONGS OF LOVE e BIG STATION) che lo hanno riportato ai vertici del cantautorato rock americano di questi ultimi anni.
Non è un caso che tutto sia finito sotto un uragano. 'Like A Huricane' di Neil Young, con la chitarra ospite di Giovanni Ferrario, è stata l'ultima ondata di una serata di grande rock. E mentre l'ultimo feedback aleggiava ancora nell'aria, Escovedo era già dietro al banchetto a firmare autografi, vendere i suoi cd e posare per le foto fino a tarda serata. Un esempio.
Breve nota (polemica) a margine prima di iniziare: i primi
protagonisti, non attesi e fastidiosi, che si palesano davanti al Fabrique di
Milano mentre la gente è in coda
all'entrata, sono una manciata di venditori abusivi di biglietti (chiamiamoli
ancora bagarini) che senza ritegno inseguono
le persone con fare gradasso, invadono la strada trafficata di macchine al
grido di: "vendo, vendo biglietti, sottocosto". Dopo tutte le
polemiche di questi ultimi mesi sul secondary ticketing mi sembra che poco sia
cambiato. Veramente nessuno può intervenire fuori dal locale e fare qualcosa,
spezzando almeno l'ultimo anello della catena per risalire su, fino in cima? Fine
Fortunatamente all'interno del Fabrique l'atmosfera sembra
diversa e già riscaldata a dovere. Pubblico delle grandi occasioni e a giovarne
è il gruppo di spalla BITERS. Un quartetto di Atlanta poco
originale musicalmente, in verità (divertente cercare i rimandi: ad un certo punto sembra
spuntare 'You Ain't Seen Nothing Yet' dei BACHMAN TURNER-OVERDRIVE, invece no,
era una loro composizione) che pur avendo in scaletta una canzone dal titolo
'1975' sembra rifarsi alla scena street glam losangelina di metà anni ottanta e
a quella scandinava compresa tra gli Hanoi Rocks e gli Hardcore Superstar
piuttosto che a quella più rozza, malata e scollacciata dei settanta. Presenza, look e una buona dose di
divertimento e portano ugualmente a casa la loro serata.
Quando cala il telone, raffigurante la copertina dell'ultimo, ottimo album LIKE AN ARROW, sono le 22:00. Guardo l'orologio: gran
puntualità. Ci vorranno però almeno due canzoni (la sacrificate 'Fire In The
Hole' e 'Six Ways To Sunday') prima che la band di Atlanta, nuova stella del
southern rock americano, riesca a colpirmi. I suoni sono ovattati, il basso di Richard
Turner sembra coprire tutto e la voce di Charlie Starr arriva debole e lontana.
Fortunatamente tutto si sistema al meglio in gran velocità e già da 'Good One Comin' On' i
Blackberry Smoke iniziano quello che, a fine serata, risulterà un concerto
straordinario, intenso e vario, in grado di riportare le lancette del tempo
indietro fino alla migliore stagione del rock confederato compresa tra i fine anni
sessanta e il 1978, con una lacrimuccia che scende pensando ai più recenti
Black Crowes dei fratelli Robinson, gruppo al quale i Blackberry Smoke sembrano
guardare per cercare di occuparne il posto lasciato libero da un paio d’anni, senza
possederne però i tanti fuoriclasse.Sì peché la vera e unica star nei
Blackberry Smoke è proprio il cantante e chitarrista Charlie Starr: intorno a
lui (completano la formazione il barbuto batterista Brit Turner, il secondo
chitarrista Paul Jackson e il tastierista Brandon Still ) una schiera di
importanti gregari che fanno squadra, pestando duro di possente hard, giocando
con il divertente boogie ('Rock'N'Roll Again', 'Let It Burn') svolazzando su
canzoni ariose, melodiche e country come
'One Horse Town', e perdendosi in lunghe jam quando necessario, senza mancare
di omaggiare il passato, dai Led Zeppelin di 'Your Time Is Gonna Come', ai Little Feat di 'Fat Man In The Bathtub' al reggae di Bob Marley che compare a sorpresa nel lungo finale jammato.
"Too country for rock too rock for country" cita la scritta sul retro di una t-shirt in vendita al banchetto marchandise. In mezzo ci stanno comodamente i Blackberry Smoke. E come scrissi qualche anno fa dopo il disco della svolta WHIPPOORWILL: per avere il quadro clinico del southern rock odierno, è obbligatorio passare per le strade della Georgia calpestate dai Blackberry Smoke. Sui cartelli stradali leggerete: ancora in salute. Un concerto da ricordare.
Jake Smith e i suoi due compari, il simpaticissimo
Christopher Hoffee e il martellatore Matt Lynott (insieme: un trio basso,
batteria, chitarra/voce con pochi fronzoli e diretto come un treno senza
ostacoli sulle rotaie del vecchio west, a volte fin troppo pestone quando non
necessario, quasi a voler nascondere con la forza bruta un repertorio non
troppo vario, ma comunque su disco più ricercato e sfaccettato, che con questa
formula viene penalizzato ulteriormente) dopo aver seminato polvere come veri
bufali da prateria tra le strade blu che da Modigliana portano a Trieste,
entrano in Arena (Sonica) e domano anche il numerosissimo pubblico di Brescia.
Un pubblico eterogeneo come giusto sia in una manifestazione gratuita: c’erano
i vecchi fan di Americana, i curiosi e i biker di Sons Of Anarchy. Alla fine
tutti contenti e catturati. Dopo averci scalciato gli stinchi a destra e
sinistra con i piedi rigorosissimamente scalzi, accarezzato l’anima e percosso
la chitarra acustica con le grosse mani durante la prima parte di concerto,
nella seconda metà il bufalo bianco si è trasformato in lupo, ha iniziato ad
ululare, piazzando le migliori unghiate della serata, compresa una ‘Highwayman'
rubata ai padri putativi e cantata in solitaria. Una prima italiana che lascia dietro
di sé tante cose positive e pure qualche falla facilmente rimediabile vista la
bravura indiscutibile del personaggio.
Quale migliore occasione per riascoltare SUGO. Eugenio Finardi è in giro per l’Italia con un tour chiamato “40 anni di Musica Ribelle: 1976-2016”. Ieri sera sono stato colpito e affondato dalla classica nostalgia degli anni mai vissuti (anche se c’ero già), esattamente quando ha introdotto l’esecuzione per intero (“tranquilli, una volta i dischi duravano poco” ci avverte) del suo secondo album esattamente come fu registrato, grazie al ritrovamento di vecchi nastri dell’epoca che ha permesso ai suoi musicisti di approfondire lo studio sugli arrangiamenti originali. Finardi ha parlato dell’etichetta Cramps di Gianni Sassi, degli straordinari musicisti coinvolti nella registrazione di quel disco (Lucio Fabbri, Walter Calloni, Ares Tavolazzi, Lucio Bardi, Claudio Pascoli, Patrizio Fariselli, Alberto Camerini, Luca Francescani), della particolare atmosfera che si respirava in quegli anni, di come fu registrato: in due settimane, senza un piano stabilito, in assoluta libertà e con tanta voglia di jammare in studio.
Dal vivo l’ha eseguito al contrario, perché diversamente da un vinile, come ha spiegato, sopra ad un palco si deve iniziare piano (‘La Paura Del Domani’) e concludere con il botto (‘Musica Ribelle’). E così è stato. Anche se il bis dedicato al blues con l’esecuzione di ‘Hoochie Coochie Man’ ci dimostra quante carte potrebbe giocarsi in altri campi da gioco. “ Ora vi faccio un regalo io, perchè prima di essere un cantautore, sono un bluesman”. Pensare che ANIMA BLUES del 2005 è rimasto un progetto isolato non mi va giù. Vorrei una replica.
Se l'esordio NON GETTATE ALCUN OGGETTO DAL FINESTRINO destabilizzò il mondo musicale italiano, la seconda prova uscita solo un anno dopo, rafforza e consolida Finardi come una delle migliori promesse del rock italiano in grado di coniugare alla perfezione il cantautorato tradizionale con il rock anglosassone (per un italo americano è la perfezione!), e quel titolo, Sugo, fu proprio scelto per questa ragione: canzoni che abbracciavano più stili musicali, dal rock al country, il reggae, il rock progressivo, il jazz e pure qualcos’altro. “Il mio album Sugo e soprattutto Diesel su etichetta Cramps sono album di assoluta Fusion in cui lavoro con il mio gruppo e con parte degli Area” scrive nell’autobiografia Spostare L’Orrizonte. Ma è uno sguardo senza barriere davanti sulla forte confusione politica di quegli anni, sul terrore che serpeggiava nelle strade, sui cambiamenti sociali, sulla ribellione e le utopie che finirono per sfociare anche durante i concerti musicali. Il concerto al Parco Lambro fu uno spartiacque e si svolse proprio nel 1976.
Forte dell'esperienza live del 1975, aprendo i concerti di Fabrizio De Andrè che appariva per la prima volta in pubblico-l’anarchico e il comunista si diceva-, iniziano ad affiorare le prime canzoni che diverranno dei classici da portarsi dietro per tutta la carriera . Gli amici Area aiutano in fase di composizione e si sente: ascoltare ‘Quasar’ per capire.
‘La Musica Ribelle’, con un mandolino elettrico al posto della chitarra, apre il disco con un messaggio teso e pesante, che sfiora l’immaginario punk, ma che si nasconde dietro alla spensierata ricerca del proprio futuro in età adolescenziale: un invito ad usare la musica come un fucile e un successo che piomba del tutto inaspettato diventando un inno di contestazione giovanile : “anna ha 18 anni e si sente tanto sola, ha la faccia triste e non dice una parola, tanto è sicura che nessuno la capirebbe e anche se capisse di certo la tradirebbe “.
“Subito dopo aver fatto ‘Musica Ribelle’ io divento Eugenio Finardi” dirà.
Ancora musica protagonista: quella che usciva dalle radio libere di quegli anni. Nei primissimi anni settanta, Finardi fu tra i primi dj a trasmettere certe canzoni (il reggae di Bob Marley, ad esempio, che sarà la base su cui poggerà la stesura di ‘C.I.A. cantata con il suo perfetto inglese). Fu invitato a scrivere un piccolo jingle per Radio Popolare: scrisse ‘La Radio’. Una divertente western song che in breve tempo diventò la sigla ufficiale di tutte le radio libere e...un altro successo.
E poi ancora il consumismo trattato in ‘Soldi’ e la vita "on the road" del musicista raccontata in ‘Sulla Strada’. L’invito a inseguire i valori più semplici della vita che traspare da ‘Oggi Ho Imparato A Volare’(...sembra strano ma è vero, c'ho pensato e mi son sentito sollevare come da uno strano capogiro il cuore mi si è quasi fermato e ho avuto paura e sono caduto ma per fortuna mi sono rialzato e ho riprovato...). C’è la sognante ‘Voglio’ (“probabilmente la canzone più bella, quella che preferisco”). Il disco si chiude con ‘La paura Del Domani’, un invito ad unire le forze per cambiare il futuro.
Fondamentale.
Usciti dallo splendido Teatro Sociale di Como, la pioggia continua a scendere, è pure calata un po' di nebbia e sembra più autunno che Giugno, ci rifugiamo dentro a un piccolo e accogliente pub, uno dei più antichi dentro alle mura che circondano la città sul lago. Cerchiamo un tavolo e lo troviamo a fatica, è pieno di ragazzi ed è pur sempre venerdì sera, e il loro primo pensiero non è certamente il concerto di Graham Nash appena concluso. Una signora, lei sì più anziana di noi, è seduta ad un altro tavolo con il marito, era al concerto come noi, ma sembra aver gradito poco: "bravo Nash, ma quanta tristezza in quelle canzoni! Solo nel finale mi sono divertita!". Non rispondo, se non dentro di me: "Ma come? Sono uscito da quel teatro pieno di gioia di vivere! O quella signora non è stata veramente al concerto, o non ha percepito l'atmosfera magica che vi aleggiava. Ma c'è una terza ipotesi: potrei essere troppo ottimista io." No, fermi: l'ultima la scarto immediatamente.
Io ho visto solo gioia, entusiasmo e voglia di vivere e me le sto trascinando ancora dietro, a tre giorni dal concerto. Proprio ora mentre sto scrivendo.
Piacere iniziato fin da subito con l'entrata in scena di Graham Nash, a piedi scalzi sopra all'intimo angolo preparato a centro palco, fatto di soli tappeti e candele, e quell'apertura dedicata al suo passato più remoto: Bus Stop (il loro più grande successo) e King Midas In Reverse della sua prima band The Hollies, nata a Manchester negli anni sessanta inseguendo cìò che usciva dalle radio dell'epoca, Everly Brothers in primis. Passarono pure al Festival di Sanremo nel 1967 accompagnando Mino Reitano, ma pochi se ne accorsero.
Vivacità proseguita nel seguire il percorso tracciato con il suo ultimo disco THIS PATH TONIGHT (splendida la title track), uscito dopo quattordici anni di assenza discografica da solista, che guarda al passato (Golden Days) ma che sa affrontare bene il presente (Myself At Last) e il futuro, segnati fortemente dal matrimonio naufragato dopo 38 anni con Susan Sennett e dalla nuova relazione con Amy Grantham, una donna molto più giovane che sembra aver fatto bene anche al lato artistico di Nash.
Curiosità nel rivedere Shane Fontayne, anche lui inglese emigrato negli USA, chitarrista che avevo lasciato per l'ultima volta in quella Pasqua piovosa del 1993 allo stadio Bentegodi di Verona quando accompagnò in tour Bruce Springsteen, allora orfano della E Street Band. Lo lasciai con i capelli ricci, neri e lunghi, lo ritrovo con i capelli corti e brizzolati ma sempre bravissimo alla chitarra e ai cori. Una spalla (anche produttore dell'ultimo disco) ideale e affidabile come pochi. Stupore nell'ascoltare con quale classe Nash (voce ancora cristallina) riesce a dare una seconda vita anche ad un disco di CSN, inutile fin dalla brutta copertina, come LIVE IT UP uscito nel 1990. House Of Broken Dreams, che leggenda vuole ispirata dall'amico David Gilmour, arriva da lì e non sfigura affatto in mezzo a tanti successi. Comunque su quel disco c'erano almeno un altro paio di buone canzoni scritte dai compagni di sempre.
Estasiato nel sentire quanto Wasted On The Way, scritta nel 1980 ricordando tutto il tempo e le tante opportunità che CSN persero in favore di altri effimeri piaceri, sia la canzone che questa sera suona più west coast anni 70 di tutte.
Dolcezza nel sentire le dediche fatte a Levon Helm (la nuova Back Home) e soprattutto a Joni Mitchell (Simple Man, I Used To Be A King), donna, artista e amante fondamentale nella carriera di Nash. Senza di lei non ci sarebbe stato lo sbarco definitivo negli States, e forse nulla di quello che abbiamo ascoltato in questo concerto. "La sua bellezza era un dono quasi altrettanto grande quanto il suo talento e io ero stato risucchiato nella sua orbita, ammaliato fin dal primo istante" scrive Nash nell' autobiografia Wild Tales.
Beatitudine nel sentire Cathedral per l'ennesima volta, e ti sembra di volare sopra la cattedrale di Winchester e perderti tra le rocce di Stonehenge. Canzone composta sotto il pesante effetto di acidi e capolavoro assoluto e inarrivabile della sua carriera. Uscì nel 1977 insieme ad altre magnifiche canzoni (purtroppo assenti stasera) come Cold Rain, e Carried Away in quel disco targato CSN con barca in copertina, spesso dimenticato ma che per molti aspetti rappresenta il vero vertice compositivo del trio.
Piacere nel sentire due canzoni (Immigration Man e Wind On Water) estratte dai primi due dischi usciti a nome Crosby & Nash. Anche se l'amicizia così ben raccontata nell' autobiografia, oggi sembra vivere uno dei peggiori periodi di sempre. Mai più Crosby, Stills & Nash? Sembra sia proprio così.
Ho percepito il focoso brio in quello spirito battagliero da vecchio hippie che non si è ancora affievolito dopo tanti anni. L'esecuzione di Chicago al piano, protest song per eccellenza, è stata un buono spunto per metterci in guardia sull'imminente pericolo chiamato Donald Trump.
Insomma, potrei continuare con il finale che è tanto piaciuto alla signora seduta al pub ma credo che possa bastare tutto questo (ho perfino lasciato fuori, volutamente, le canzoni di CSN seduti nel divano e Deja Vu) per capire quanta vita si sia adagiata tra le poltroncine rosse del teatro in questa magica serata.
Gioia, vivacità, brio, curiosità, stupore, piacere, beatitudine non sono parole che associo alla tristezza.
Se ancora non siete convinti: ascoltate l'ispirato THIS PATH TONIGHT, il sentiero di un uomo che, a settantaquattro anni, sta ancora correndo, a piedi rigorosamente scalzi, verso nuove mete di vita.
Bus Stop / King Midas In Reverse / Marrakesh Express / I Used To Be A king / Immigration Man / Sleep Song / This Path Tonight / Myself At Last / Wind On Water / Wasted On The Way / Simple Man / Taken At All / House Of Broken Dreams / Mississippi Burning / Back Home / Golden Days / Cathedral / Our House / Chicago / Blackbird / Teach Your Children
Bus Stop / King Midas In Reverse / Marrakesh Express / I Used To Be A king / Immigration Man / Sleep Song / This Path Tonight / Myself At Last / Wind On Water / Wasted On The Way / Simple Man / Taken At All / House Of Broken Dreams / Mississippi Burning / Back Home / Golden Days / Cathedral / Our House / Chicago / Blackbird / Teach Your Children
"Rock Show": questo il mantra pronunciato all'infinito dalla cantante Lisa Kekaula durante tutta la durata del concerto, tra una canzone e l'altra, anche prima e dopo i bis. Poche altre parole durante la serata perché i Bellrays hanno badato al sodo con uno spettacolo diretto e urgente, senza soste o troppi salamelecchi di sorta, e il pubblico della Latteria Molloy, non numerosissimo ma partecipe, attento e competente, ha gradito ugualmente.
I californiani BELLRAYS hanno venticinque anni di carriera sulle spalle e un fresco EP di cover (COVERS appunto, dove rileggono The Seeds, Led Zeppelin, Stevie Wonder, Black Sabbath e Cheap Trick) da presentare dopo una lunga assenza discografica di sei anni e alcuni cambi di formazione alla sezione ritmica (Justin Andres al basso e Stefan Litrownik alla batteria). Guidati dalla potente voce dalla spiccata timbrica soul blues e dalla carismatica presenza scenica di Lisa Kekaula (con l'inconfondibile capigliatura afro e un lontano passato jazz) e dalla chitarra sferragliante del marito Bob Vennum, occhiali da nerd e attitudine punk che gli permette di farsi un giretto in mezzo al pubblico durante un assolo, il loro è il matrimonio perfetto tra due vicoli musicali che portano entrambi verso la vecchia Detroit: da una parte la Motown Records, il R&B, il soul, dall’altra il proto punk selvaggio e iconoclasta di Stooges e MC 5. A proposito di Mc 5 è d'obbligo segnalare la presenza dell'ospite Wayne Kramer nell'ultimo Ep appena uscito.
Le due strade ad un certo punto si uniscono ed escono fuori loro: un micidiale concentrato di sudore rock’n’roll che cattura l'attenzione con la sola forza della musica. Aprono con quella che sembra la loro maggiore hit al momento, quella Black Lightning, title track del loro ultimo album uscito nel 2011(il più setacciato: Closer Your Eyes, Power To Burn, e il R&B di The Way tra le altre in scaletta) e proseguono senza sosta fino alla coinvolgente jam finale insieme agli australiani Dallas Frasca, compagni di tour che hanno aperto alla grande la serata. In mezzo c'è naturalmente spazio per alcune cover rilette a loro modo tra cui spiccano Dream Police (Cheap Trick), la più scontata WholeLotta Love (Led Zeppelin) e Never Say Die (Black Sabbath).
Inutile dirvi che se vi capitano a tiro è d'obbligo partecipare al loro "Rock Show", perché di questo si tratta: solo sano e energico rock'n'roll difficile da addomesticare. Quello che si avvicina di più a quello che chiedo ora ad un concerto rock, fortunatamente così lontano da quei mega eventi da rockstar miliardarie che non mi divertono più. Tutto a misura d'uomo: sangue, sudore e nessuna lacrima.