giovedì 14 novembre 2019

RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND (Somebody's Knocking)

MARK LANEGAN BAND  Somebody's Knocking (Heavenly Recordings, 2019)




 bene ma non benissimo...
a Mark Lanegan gli si vuole bene: ad ogni disco post Blues Funeral (che grande disco fu quello! Il primo che metteva il blues fuori dalla porta a giocare con l'elettronica) speri sia riuscito a fare quelle due ultime bracciate che gli permetterebbero di uscire da quel vortice new wave in cui continua beatamente a girare. E invece no, Somebody's Knocking per certi versi è la punta più estrema toccata fino ad ora. Che gran bastardo Mark. Alla fine vince sempre lui. Vorrei scrivere e gridare: "non riesco nemmeno più a dire lo salva la voce perché per la prima volta non c'è una canzone che mi sia entrata nel cuore, nell'anima, in qualunque altro posto…" e invece no. Non lo faccio perché queste canzoni alla fine arrivano insieme a tutta la libertà artistica che si sta prendendo. In una recente intervista è stato chiaro: se non vi piace quello che faccio, girate pure alla larga.
" Faccio dischi per far piacere a me stesso, e se a qualcun altro piacciono è la ciliegina sulla torta" racconta a Northern Transmissions. Com
A questo punto è chiaro: ci crede veramente, anche se l'album si apre con questa frase:" going downtown in the wrong direction".
"Quando avevo dodici anni la scuola in cui mio padre lavorava era chiusa e qualcuno gli diede una scatola di dischi che era stata dimenticata. Uno dei dischi era Autobahn dei Kraftwerk. Un altro degli album era un disco dI Lightnin Hopkins, quindi per la prima volta mi sono presentato alla musica elettronica e al blues." Ecco spiegato. Ricorda Lanegan.
Qui bisogna prendere tutto in blocco (quelle più danzerecce, a pensarci bene, forse sono troppo) e forse bisogna farsene una ragione visto il tanto tempo trascorso tra queste onde. Mark Lanegan sta bene così, adagiato e comodo tra la new wave e il synth rock a cui dona la sua rauca e inimitabile voce: echi di Joy Division e New Order, Sisters of Mercy, Depeche Mode. Ma anche i Gun Club quelle poche volte che ritorna al rock vecchia maniera, ci sono pure echi di  Nick Cave, David Bowie e Leonard Cohen quando accompagna le canzoni più atmosferiche. I fidati amici Alaian Johannes (produttore) e Greg Dulli appaiono invece in carne e ossa.
 Mancano i fantasmi folk blues che scavano la terra dell'anima, sostituiti da beat a volte troppo ghiacciati ma in qualche modo suadenti in grado di catturare.
Sempre più freddo. Io aspetto comunque il prossimo…prima o poi ritornerà anche a nuotare in posti più caldi.
E già si intravede all'orizzonte la prossima mossa: nel 2020 è in uscita l'autobiografia accompagnata da un nuovo disco.




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