martedì 4 dicembre 2018

RECENSIONE: JONATHON LONG (Jonathon Long)

JONATHON LONG   Jonathon Long (Wild Heart Records,2018)




la scommessa di Samantha Fish
Ragazzone di grande talento Jonathon Long, non solo come chitarrista anche come buon compositore. C’è voluto tutto l’intuito femminile di Samantha Fish per portarlo finalmente allo scoperto e sullo stereo di più persone possibili. Arriva da Baton Rouge, Louisiana, città fortemente toccata dall’uragano Katrina nel 2005, e come scrive la stessa Fish nelle note di copertina, Fish che lo produce, ci suona insieme, duetta e lo fa uscire per la sua etichetta discografica Wild Heart Records: ”dalla stessa scena che ha dato al mondo Buddy Guy, Slim Harpo, Silas Hogan, Lazy Lester e tanti altri. “. Sì perché sembra chiaro che abbia il fuoco che brucia dentro come i migliori. Questo suo terzo disco è quello della svolta e per ribadirlo, lo stesso Jonathon, ventinovenne e una buona gavetta alle spalle, elimina quel “boogie” che fine all'altro ieri divideva il nome Jonathon da Long. Ora che ha trovato la sua vera strada può esprimere in toto la sua anima sudista cresciuta a fede e buon rock blues, spalleggiato dalla sua band: Chris Roberts (basso), Julian Civello (batteria) e Phil Been (tastiere). Voce soul e ottima chitarra, nelle undici canzoni calde e profonde (tutte sue tranne ‘The River’ di Kenny Tudrick) che sanno di vita e redenzione sa accarezzare e schiaffeggiare con estrema disinvoltura e naturalezza, quest'ultima la sua principale dote. Quando si è presentato negli studi di registrazione Nola a New Orleans con le canzoni già pronte, la Fish si è sciolta: “immediatamente ho sentito le canzoni tagliare direttamente l’anima con un ardente comando della chitarra che ha lasciato le mascelle di tutti sul pavimento". Guarda al passato con l'occhio dell'uomo del futuro. Un uomo del fare determinato e sembra ribadirlo fin dalla prima traccia ‘Bury Me’ dove canta : ”seppelliscimi quando me ne sarò andato, con la mia chitarra e un po’ di acqua di colonia a basso costo, tutto quello che rimane è un mucchio di ossa, ricordati di me attraverso le parole della mia canzone.” Long gioca bene le sue carte su quel confine musicale che divide l'eleganza soul e R&B (That’s When I Know’), dai graffi più sporchi e polverosi del southern rock (‘This Road’, 'Natural Girl', la finale 'Pray For Me') , passando per il violino tutto americano di ‘The Light’ e le nottate alcoliche di 'Pour Another Drink' condotta da vero crooner appoggiato al bancone del bar. Bella sorpresa.





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