ALICE IN CHAINS Rainier Fog (BMG, 2018)
l'ombra scura del monte Rainier
"La nostra musica è un gigantesco ed efficace atto di esorcismo nei confronti di tutto quello che non amiamo o che finirebbe per portarci nella tomba...". Fa un certo effetto rileggere questa dichiarazione estrapolata da una vecchia intervista apparsa su HM nel Marzo del 1993, alla luce di quello che successe il 5 Aprile 2002, quando Layne Staley raggiunse il fondo di quell'abisso che lo accompagnò per tutti i suoi (soli) 35 anni di vita. Qualcosa non deve aver funzionato a dovere. Senza dimenticare le ombre dietro la morte di Mike Starr, deceduto nel 2011.
Gli Alice In Chains hanno nuotato in acque torbide negli anni novanta, il loro disco di maggior successo commerciale, Dirt (1992), fu la ricetta per esorcizzare tutto ciò, premiato anche dalle vendite, ma nulla potè per depurare l'acqua, che anzi via via si fece sempre più nera e inzaccherata, preferendo seguire il pericoloso percorso scavato dal loro cantante. Gli Alice In Chains di oggi, però, vivono nel presente, Jerry Cantrell continua a ribadirlo a più riprese: non amano girarsi troppo indietro e già lo hanno dimostrato con i precedenti Black Gives Way To Blue e The Devil Put Dinosaurs Here. Continuano a camminare per la loro strada, lasciando ai critici il compito di nominare il nome di Layne Staley una volta su tre in cerca di paragoni (impossibili e deleteri). C'è la voglia di sotterrare i ricordi negativi (quelli pesanti, vissuti in prima persona) ma c'è anche la difficoltà nel farlo completamente; quelli che hanno segnato profondamente le liriche rimangono a dare l'imprinting della loro musica, lasciando solamente alle canzoni il compito di parlare, un po' come se la copertina di Dirt rappresentasse il loro status odierno: un po' dentro, un po' fuori da quelle sabbie.
William DuVall, poi, mi sta simpatico a pelle, si sta dimostrando un cantante-e chitarrista-con una personalità propria e vincente, capace di tenersi alla larga dai possibili paragoni con l'illustre, inarrivabile, e maledetto predecessore, anche se gli spazi sembra che debba guadagnarseli con il tempo e le unghie ben affilate. E questo è il momento giusto. E sappiamo tutti quanto il cambio del cantante in una band sia sempre faccenda delicata, costruita su complessi equilibri interpersonali. La verità è che la band di Seattle sembra molto compatta oggi come allora (sempre con Mike Inez al basso e Sean Kinney alla batteria), complice la maturità e l'esperienza.
RAINIER FOG è un disco monolitico, forse il punto più alto di questa seconda vita della band, registrato nuovamente a Seattle, i 4000 metri del monte Rainier, di origine vulcanica a dominare lo stato di Washington, è lì a ribadirlo, un ritorno a registrare nella loro città dopo più di vent'anni. Cantrell guida le danze fin dall’apertura ‘The One You Know’, un gigantesco, marziale e cadenzato riff per ribadire e certificare che il sound è quello di sempre, riff grossi legati con spesse catene al doom sabbathiano in ‘Drone’ e ‘So Far Under’, aperture lisergiche come avviene in ‘Red Giant’ e ‘Deaf Ears Blind Eyes’, mentre ‘Rainer Fog’ e ‘Never Fade’ possiedono il groove e l’immediatezza dei giorni della gioventù.
Non mancano le caratteristiche armonie vocali che li hanno resi unici e inimitabili nel panorama dei ‘90 e alcuni momenti più ariosi come ‘Fly’ e l’acustica ‘Maybe’, in queste cose sono sempre stati dei fuoriclasse e dei precursori alle loro latitudini, che portano al finale struggente di ‘All I Am’, sette minuti che lasciano il segno in profondità.
E se in alcuni passaggi sentirete odore di Deja Vu, chiamatelo trade mark e il problema è risolto. Cantrell dice: “è un disco che ha tutti gli elementi di qualsiasi cosa ti aspetti da noi. Ha la nostra impronta digitale”. Amen.
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