JAKE BUGG On My One (Mercury, 2016)
Ottobre 2012, mi trovo a Dublino davanti alla vetrina di un grande Record Store: è tappezzata da tanti cd tutti uguali, in copertina campeggia il viso sbarbato e imbronciato di un ragazzo che pare appena uscito dall’ età adolescenziale. Assomiglia a Justin Bieber, ma lo conosco di nome e so che la sua musica è molto lontana dall’idolo pop delle teenager. Torno in Italia con il suo debutto in valigia che presto passa nell’impianto stereo: voce giovane ma nasale e musica elettro acustica che costruisce i ponti ideali tra il folk americano orbitante nei Coffee House di Minneapolis frequentati dal giovane Bob Dylan e il folk britannico di Donovan con gli antichi guizzi r’n’r di Buddy Holly e le melodie brit pop degli Oasis. Sarà proprio Noel Gallagher a tesserne pubblicamente le lodi e portarselo in tour. L’idilio tra i due finì quando Gallagher scoprì che Bugg collaborò con due co-autori per la stesura di alcuni pezzi. Stranezze del Rock. Il debutto arriva a vendere 450.000 copie solo in UK, e non passa un anno che l’etichetta discografica decide di investire tutto sul giovane proveniente dall’operaia Nottingham: lo spedisce a Malibu, in California, sotto le mani esperte di Rick Rubin che mette a disposizione musicisti amici tra cui Chad Smith (Red Hot Chili Peppers). “Mi sembrò la cosa giusta da fare. Meglio battere il ferro finché è caldo, no? In quel periodo che ho passato in tour e a viaggiare per il mondo ho avuto nuove esperienze e opportunità. Perché non scriverne?”. In ‘Shangri La’ l’aria si fa meno nebbiosamente brit ma più polverosamente yankee, con alcune possenti puntate punk rock. Rubin smussa l'ingenua urgenza esecutiva dell'esordio, arricchendo le canzoni di sfumature ma complicando ulteriormente la vita a chi cerca di inquadrarlo. Devono però passare tre anni per ritrovare nuovamente Jake Bugg in studio con il nuovo ‘On My One’. Il ragazzo in questo 2016 ha solo ventidue anni ma ha deciso che è il momento di camminare da solo: "Questo titolo riassume per molti versi l’essenza del disco, soprattutto perché l’ho fatto per conto mio. L’ho visto come il passo logico successivo nel mio sviluppo come compositore”.
E’ più il personale e autobiografico dei tre dischi incisi, per le liriche (nella title track canta dei tre anni passati in tour e dei 400 concerti) e perché si cimenta per la prima volta anche come produttore, aggiungendo degli spiazzanti retaggi elettro Hip Hop al già ricco recente passato. Succede così che dalla west coast in stile America di ‘The Love We’re Hoping For’ alle rime rappate alla Beastie Boys di ‘Ain’t No Rhyme’ il passo è breve. "Che si tratti di soul o di hip hop, tutto deriva dal blues. Per me il blues significa solo cantare le proprie emozioni o esprimere il proprio dolore in modo che gli altri possano sentire ciò che provi. Questa è la bellezza della musica. È un esercizio di equilibrio difficile, fare cose nuove senza spaventare quelli a cui piacevano le cose vecchie”. Il ragazzo ha personalità e faccia tosta da vendere (Enzo Curelli). da CLASSIX! #48 (Agosto/Settembre 2016)
RECENSIONE: JAKE BUGG-Jake Bugg (2012)
RECENSIONE: JAKE BUGG-Shangri La (2013)
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