mercoledì 23 aprile 2014

RECENSIONE: MARC FORD (Holy Ghost)

MARC FORD   Holy Ghost (Naim Edge/V2, 2014)



Un vecchio venditore di dischi, anni fa da dietro il bancone, mi disse: "vedrai, quando arriverai in prossimità dei miei anni inizierai ad ascoltare questa musica" indicando vecchi e polverosi dischi di country, folk e americana impilati nello scaffale del suo piccolo ma ricco negozio. "Fidati. Entrerai in questa dimensione". Io ero un ragazzetto con le sue fisse musicali, aperto a tutti i suoni ma limitato, limitatissimo verso i dischi "impolverati" che mi indicava.  Eppure, non si era sbagliato di troppo. La chiamai "la mia terza dimensione", quella intima e acustica, quella preponderante in Holy Ghost, quinto disco solista di Marc Ford, uno che a 48 anni si avvicina maggiormente all'età che quel negoziante aveva all'epoca. Di poco, ma più di me sicuramente. Appoggiata e archiviata la chitarra elettrica tra i solchi di alcuni dei migliori dischi rock degli anni novanta a firma Black Crowes (The Southern Harmony And Musical Companion-1992, Amorica-1994) poi collaborando con nomi illustri come Gov't Mule e Ben Harper, e mettendo in piedi svariati e un po' dispersivi progetti solisti, abbandonata momentaneamente la sala di registrazione (tra le sue produzioni importanti, il primissimo Ryan Bingham e gli Steepwater Band del prezioso Grace & Melody), la dimensione acustica si impossessa della scrittura e del suo tempo. Un disco di cuore. Già questo basterebbe per farselo piacere, perché dentro alle dodici tracce di purissima "americana" non ci troverete nulla di miracoloso, nulla che vada sopra le righe, che rotoli fuori dai vecchi binari arrugginiti che uniscono i bordi sdruciti degli anni dell'esistenza, se non la fluidità e il carezzevole trasporto di canzoni dal carattere speranzoso, riflessivo e confessionale (cita la dura pioggia dylaniana che sta ancora cadendo, ma con i cieli blu che già si intravedono in lontananza nella solarità country di Blue Sky) nate nell'intimo percorso di vita dell'autore, tra la sicurezza famigliare-la moglie Kirsten e il figlio Elijah sono coinvolti rispettivamente ai cori e chitarra, un'altra figlia è appena nata-e i lenti ritmi di vita nella sua nuova abitazione a San Clemente. La ricerca del semplice dopo una vita di scalate e sogni raggiunti. "Ho raggiunto la cima della montagna e le risposte non erano lì, non è stata l'illuminazione che stavo cercando. Droga e alcol sono stati solo una grande copertura per alcune mancanze", racconta tra le pagine del suo sito.
Luci e ombre accompagnate lentamente al tramonto da chitarre leggere, incastrate dentro al suono della band britannica Phantom Limb che lo accompagna (gruppo prodotto due anni fa dallo stesso Ford) e registrato tra l'Europa (in Galles) e gli States. Una scrittura lieve, pigra e malinconica (Dancing Shoes, Dream #26), delicata (In You), amara, costruita su pedal steel che fanno immaginare quadri campestri (Just A Girl) e il pianoforte (You Know What I Mean) che mi ha riportato al primo Jackson Browne e alla luminosa scena west coast dell'epoca d'oro, ma che non manca di graffiare con la chitarra elettrica quando necessario come avviene nell' avanzare sudista di I'm Free, nell'assolo di Turquoise Blue, e nel southern blues elettrico di Sometimes, anche se solo brevissimi e rari lampi tra la scura deserticità di  Badge Of Descension che avanza pigra tra i tasti di un Fender Rhodes, e l'epica e crescente conclusione affidata alla più strutturata Call Me Faithfull.
Vero e onesto fino alla fine, Holy Ghost rimane però un taccuino intimo ancora tutto da decifrare, con le annotazioni sul tempo trascorso scritte con calligrafia leggera: potrebbe essere solo una breve parentesi, oppure il nuovo punto d'inizio di un uomo che ha fatto pace con se stesso e il mondo circostante. Una pensione d'oro anticipata (di troppi anni). Il vecchio negoziante di dischi sorride compiaciuto.




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