lunedì 27 febbraio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 30: RITMO TRIBALE (Bahamas)

RITMO TRIBALE   Bahamas  ( Edel Records, 1999)







Il sole, le spiagge e la tranquillità delle isole Bahamas stridono nel pensare alla musica dei vecchi Ritmo Tribale, ma si adattanno bene alle soluzioni musicali di questo disco, l'ultimo capitolo (se si esclude la raccolta del 2007) del gruppo milanese. Le Bahamas: le isole felici, lontane e mai viste, che ognuno di noi conserva da qualche parte dentro alla propria testa. Il posto dove si vorrebbe fuggire quando si è nei guai. E per un gruppo che aveva appena perso il proprio carismatico frontman, i guai erano dietro l’angolo. Cosa fare? Continuare? Cambiare nome? Cambiare musica? “Siamo l’unico gruppo distrutto dalla droga che non è diventato famoso per questo. In genere i gruppi, quando c’è quello che si fa perché pippa, perché beve, diventa famoso. Noi no. Noi ci siamo solo distrutti! Avevamo litigato con tutti, avevamo scazzato con la casa discografica anche se avevamo trovato un contratto con la Edel che non era niente male. Facemmo un disco completamente di rottura, musicalmente, con ciò che eravamo prima. Fare un disco in cui scimmiottavamo i Ritmo Tribale con Edda sarebbe stato assurdo. Uscimmo con un disco secondo noi molto bello però molto introspettivo, intimo e diversissimo dagli altri mentre venne promosso come se fossimo ancora quelli di MANTRA.” Così Andrea Scaglia sulle pagine di UOMINI, il libro di Elisa Russo, uscito nel 2014, che racconta la storia dei Ritmo Tribale. Suoni fluidi, elettronica, loop e campionamenti che si incastrano alla perfezione con i tradizionali strumenti rock e Andrea Scaglia, nuovo cerimoniere dopo l'uscita dell'istrionico e (quasi) insostituibile Edda, sono i tratti fondamentali di questo lavoro. Uscito nel 1999 dopo PSYCORSONICA (1995), ultimo lavoro con Edda che di fatto rappresenta la chiusura di una prima parte di carriera di uno dei gruppi basilari del rock italiano a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. Il gruppo cambia pelle, mantenendo inalterate coerenza e spirito. Bahamas doveva essere un nuovo inizio ma si tramutò anche nel disco di addio. Il punto a capo. Con il nuovo ritorno ancora adesso seguito da un grande punto interrogativo. Proprio per questo rimane un'opera preziosa, unica e purtroppo poco capita, sottovalutata, soprattutto da chi pensava che i Ritmo Tribale senza Edda, non avessero ragione d'esistere. La smentita è un disco che oggi, a diciotto anni dall’ uscita, suona ancora fresco, guadagnando i classici punti alla distanza. Devo ammettere che fu dura entrare nella nuova strada intrapresa dai Ritmo Tribale.
La rivalutazione avvenne per gradi, con canzoni fluide, dai testi quasi ermetici, che ti giravano attorno, ti scrutavano e poi ti penetravano. Registrato in gran parte lontano dagli storici studi Jungle Sound, loro casa naturale, i cinque tribali abbandonano la quotidianità metropolitana per tuffarsi e rifugiarsi nella tranquillità delle campagne romagnole del "castello" di Pieve Salutare, una frazione di Castrocaro Terme, in provincia di Forlì. A beneficiarne sono dieci canzoni compatte, unitarie, collegate tra loro dai testi quasi visionari di Scaglia, anche produttore dell'intero lavoro. Se i contatti con il rock del passato si possono scorgere in alcune tracce come ‘Meno Nove’ o la bonus track ‘Cuore Nero’, il resto viaggia tra partiture liquide e psichedeliche con le chitarre di Andrea Scaglia e Fabrizioo Rioda impegnate a tessere intrecci sfuggenti e la base ritmica composta da Andrea Briegel Filipazzi e Alex Marcheschi sempre pulsante e vivace. Un disco d'impronta quasi progressive che amalgama anche i nuovi suoni elettronici del trip-hop con il rock (grande lavoro del tastierista Luca Talia Accardi), giocando con i testi mai banali o scontati ma aperti a qualunque interpretazione. Esempi del nuovo corso sono le bellissime ‘Il Centro’, ‘Lumina’, ‘Diamante’, il singolo ‘2000’ che apre il disco, ‘Musica’, e la title track che chiude con tanto di violino e moog. Se questo doveva essere l'ultimo disco a nome Ritmo Tribale, mai commiato fu migliore. Poi: undici anni dopo, il cerchio chiuso (riaperto momentaneamente per la reunion live del 2007) si riaprirà totalmente sotto nome NO GURU. E oggi, anno 2017?
L'appuntamento è per Venerdì 24 Aprile 2017 al Pub Centrale Rock di Erba (Como) , per un unico concerto di reunion , proprio con la formazione di Bahamas, disco che verrà suonato per intero.






DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

mercoledì 22 febbraio 2017

RECENSIONE: TINARIWEN (Elwan)

 TINARIWEN  Elwan (Wedge Records, 2017)







Chi è stato almeno per una volta nell' Africa sahariana e ha avuto modo di percorrere alcune strade lontane dai centri turistici, ha trovato un mondo al rallentatore, fatto di persone che camminano, apparentemente senza meta, lungo infinite strade polverose e altre, ferme a gruppetti ai bordi di queste strade ad aspettare non si sa chi o cosa. Qualcosa di inconcepibile nella nostra assurda frenesia giornaliera. È qui che pensi : "a volte ci sarebbe bisogno di un lungo passo indietro". E di passi indietro, i Tinariwen continuano a farne, tanto che, per assurdo, sembrano essere ancora una volta lì, davanti a tutti, a tirare la fila, come appare chiaro nello splendido scatto di copertina.
La musica della band, originaria del Mali, non è più la sorpresa di alcuni dischi fa (di quando venivano chiamati guerriglieri con le chitarre), eppure l’ascolto di ogni nuovo lavoro libera sabbia ricca di purezza e magia, pur contenendo ancora messaggi forti e chiari dove luoghi (‘Tenere Taqqal’), fede, appartenenza (i Tuareg hanno vita difficile in Mali), unità (‘Ittus’) ma anche la libertà delle donne (‘Assawt’) sono gettati in pasto alle nostre orecchie occidentali senza troppi filtri, anche se un velo di nostalgia sembra affiorare sempre più frequentemente. Al resto ci pensano l’ipnotico ritmo delle canzoni, un blues costruito su un suono di chitarra unico, un groove circolare, continuo e trascinante, e i cantilenanti testi in lingua madre (Tamasheq) che in concerto diventano pura droga in grado di rapire, stordire. Mandarti al tappeto. Da provare almeno una volta nella vita. Una delle esperienze live più lisergiche a cui ho assistito.

Anche ELWAN (elefanti) è stato registrato tra i deserti californiani di Joshua Tree (Rancho De La Luna), la Francia, e il Marocco, tenendo fede alla loro natura nomade e ancora una volta i tanti ospiti sembrano inghiottiti e calati perfettamente tra i deserti africani. Vi sfido a trovare le tracce di Mark Lanegan, Kurt Vile, Matt Sweeney e Alain Johannes (QOTSA). Felicemente inghiottiti come chi ascolta.






RECENSIONE: SON VOLT-Notes Of Blue (2017)
RECENSIONE:JOHN GARCIA -The Coyote Who Spoke In Tongues (2017)
RECENSIONE: SCOTT H. BIRAM- The Bad Testament (2017)


 

venerdì 17 febbraio 2017

RECENSIONE: SON VOLT (Notes Of Blue)

SON VOLT  Notes Of Blue (2017)





Due strade ben distinte. Quando gli Uncle Tupelo hanno cessato di esistere-era il 1994- dopo una breve ma intensa carriera, è scomparsa una grande band ma magicamente ne sono apparse altre due, altrettanto grandi. Pure differenti, proprio come lo erano i caratteri e gli istinti musicali di Jeff Tweedy e Jay Farrar, due che insieme facevano faville ma anche scintille e qualche volta pure a cazzotti. Se i Wilco di Tweedy hanno continuato nella personalissima crescita, puntando sempre in direzioni diverse, sfaccettate e sperimentali (solo ultimamente le uscite discografiche paiono un po’ stanche e in ribasso, contrariamente ai live: sempre eccelsi), i Son Volt di Farrar hanno sempre mantenuto i piedi saldi nella tradizione americana, meno avventurosa, e NOTES OF BLUE, il ritorno dopo quattro anni di assenza (l’ultimo album fu HONKY TONK del 2013), non tradisce in tal senso. Un equo bilanciamento tra la parte country folk più sognante e melodica che mette in mostra la riconoscibile voce e l’istinto da songwriter di Farrar, in perenne rincorsa verso l'amato Neil Young (‘Promise The World’ guidata dalla pedal steel,’The Storm’,’Cairo And Southern’) e quella più diretta, rock e corrosiva con le chitarre ben piantate davanti in prima linea (‘Static’, ‘Lost Souls’) con una bilancia, che questa volta, si abbassa più frequentemente verso il lato blues inseguendo Mississippi Fred McDowell e Skip James (“lo spirito del blues, ma non il blues standard che conosce la maggior parte della gente” dice Farrar) come l’oscura e tenebrosa ‘Midnight’, la battente ‘Sinking Down’ e lo stomp incalzante di ‘Cherokee St.’. Solo mezz’ora, immersa nei nostri duri tempi bui, ma che vale la pena di essere vissuta. Anche più di una volta.



mercoledì 15 febbraio 2017

RECENSIONE: JOHN GARCIA (The Coyote Who Spoke In Tongues)

JOHN GARCIA- The Coyote Who Spoke In Tongues (Napalm Records, 2017)







Il ritorno di John Garcia con il secondo album solista THE COYOTE WHO SPOKE IN TONGUES più che ricordare i cingoli di un carro armato poggiati sulle quelle sabbie scaldate dal sole cocente nei deserti di Palm Springs, pare nascere a tarda notte quando c’è bisogno di un fuoco a scaldare e di una chitarra a far compagnia, con i volumi bassi per non disturbare troppo i coyote assonnati della zona. A proposito del titolo, in una recente intervista al sito echoessundust.com, dice: “è una sorta di ode al posto da cui vengo. Vivo ancora nel bel mezzo del deserto, e ho tutti questi animali intorno a me. Sin da quando l'ultimo disco dei Kyuss è stato registrato , ognuno dei miei dischi ha avuto una specie di animale in copertina. Io sono un veterinario di giorno e un musicista da notte – così come un padre e un marito! Il titolo è davvero un'ode ai miei posti, sono orgoglioso di vivere ancora del deserto”.
Un disco acustico, ma le pennate sono ben decise e pesanti, che l’ex cantante dei Kyuss (ma anche Unida, Slo Burn, Hermano, Vista Chino) covava da parecchio tempo: l’impalcatura la fanno le vecchie canzoni dei Kyuss, smontate dei cingoli, addomesticate e rimodellate coraggiosamente in chiave acustica (‘Green Machine’, ‘Space Cadet’, ‘Gardenia’, ‘El Rodeo’), mentre alle nuove composizioni (la più energica del disco ‘Kylie’ che apre, 'The Hollingsworth Session’, ‘Argleben II’, la strumentale ‘Court Order’ che chiude il disco) spetta il compito di segnalarci lo stato di salute del cantante. Direi stabile, tendente al buono. Garcia è aiutato dalla chitarra del fedele Ehren Groban (War Drum), dal bassista Mike Pygmie (Mondo Generator, You Know Who) e dal percussionista Greg Saenz (The Dwarves, You Know Who), e il disco pur costruito solo per i fan duri e puri di vecchia data, potrebbe servire a far conoscere l’iconico cantante (47 anni) del movimento stoner a un pubblico poco avvezzo a amplificatori tarati a mille e lunghe jam session tra la sabbia. Il disco è figlio diretto dei tour acustici fatti recentemente, e a detta dell’ autore è stato uno dei più importanti e difficili da portare a termine di tutta la sua carriera. Intanto, pare aver rimesso in moto i Slo Burn per un nuovo tour. I coyote sono avvisati.












lunedì 13 febbraio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 29: STEPHEN STILLS

STEPHEN STILLS   Stephen Stills (1970)



Quando uscì il suo primo album solista, Stephen Stills aveva venticinque anni e i suoi credits erano già impressi in almeno un poker di dischi che entreranno nella storia del rock americano: con i BUFFALO SPRINGFIELD (è sua la hit del gruppo ‘For What It’s Worth’), con CROSBY & NASH (il primo con divano in copertina e il secondo DEJA VU con YOUNG) e con SUPER SESSION insieme a Al Kooper e Mike Bloonfield.
Febbraio/Marzo 1970: Crosby, Stills, Nash e Young stanno per uscire con il nuovo disco quando Stills decide di passare un mese in Inghilterra in cerca di nuove esperienze. Forti esperienze. Stills ritornerà da Londra con due pesanti valige in mano: una piena di importanti scambi musicali che saranno la colonna portante del disco solista che uscirà a Novembre, l’altra piena di cocaina, altrettanto pesante e abbastanza decisiva per rovinare alcuni rapporti umani e artistici.
“Stephen tornò dall’Inghilterra con il pretesto di cantare AFTER THE GOLDRUSH, ma anche per rientrare all’ovile. Vivere all’estero lo aveva proprio scombinato. Aveva jammato con Jimi Hendrix ed Eric Clapton. Aveva suonato nel singolo di Ringo Starr ‘It don’t come easy’. E aveva partecipato a venticinque session in ventisette giorni, lavorando al suo disco, in cui aveva suonato un’incredibile varietà di strumenti. Per cui, il suo ego era grande come Urano. Stava portando al limite la sua follia per la cocaina.” Scrive NASH nella sua autobiografia.
Nonostante Stills avesse messo le mani su numerosi strumenti, scorrere la lista degli ospiti è estremamente gratificante: dai già citati Jimi Hendrix che suona la chitarra, ma ci si aspettava qualcosa in più, nell’incalzante e incendiaria ‘Old Times Good Times’ che comunque saldava una vera amicizia ("una volta abbiamo jammato per cinque giorni di fila, una lunga maratona nella mia casa sulla spiaggia a Malibu. Lo sceriffo sentì il suono delle nostre chitarre. Quando ci trovò ci chiese se poteva parcheggiare la macchina della polizia appena fuori casa mia in modo potesse sentire le chiamate dalla radio. Ci disse di non preoccuparci, era lì solamente per ascoltare noi") e Eric Clapton nel blues elettrico ‘Go Back Home’ (forse la migliore), a Ringo Starr nascosto dietro al semplice nomignolo Richie, fino ai compari David Crosby e Graham Nash, e poi ancora John Sebastian, Booker T Jones, Mama Cass Elliot, Dallas Taylor.
Partendo da ‘Love The One You’re With’, ispirata da una conversazione con Billy Preston avvenuta a Londra, e che diventerà un punto forte della sua carriera e di CSN (nel live FOUR WAY STREET) nonché il primo passo verso i ritmi latini che troveranno libero sfogo nella mossa successiva a nome MANASSAS, al folk ‘Do For The Others’ in cui fa tutto da solo, il blues acustico di ‘Black Queen’ dove sale in cattedra la sua tecnica fingerpicking, il flauto jazzato in ‘Cherokee’, il R&B che si sfoga nel gospel in ‘Church’, l’orchestrale ondeggiamento di ‘To A Flame’, l’epicità finale di ‘We Are Not Helpless’. Nessuna sbavatura in queste dieci canzoni in grado di mostrare la colorata varietà compositiva del suo autore, in bilico tra malinconia e forte passionalità. Stills non raggiungerà mai più queste vette compositive se non in modo sporadico nel secondo disco che uscirà un anno dopo, con il primo Manassas del 1972, in alcuni episodi con Neil Young in LONG MAY YOU RUN e in canzoni sparse in altri progetti, non ultimi i RIDES. Ma cito anche il bello e sottovalutato MAN ALIVE! del 2005 che ha negli undici minuti di 'Spanish Suite' il colpo del fuoriclasse.
18 Settembre 1970: muore Jimi Hendrix. Stills farà in tempo a dedicare il disco all’amico con questa nota inclusa nei credits: “dedicated to James Marshall Hendrix”.





martedì 7 febbraio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 28: JUNKYARD (Junkyard)

JUNKYARD   Junkyard (1989)





Il grunge doveva ancora esplodere e per gruppi come i Junkyard la strada era ancora lunga e libera. Così sembrava. Nati a Los Angeles ma dall’incontro di due texani, il cantante David Roach e il chitarrista Chris Gates (ex Big Boys), il debutto, prodotto da Tom Werman (Cheap Trick, Ted Nugent, Motley Crue, Molly Hatchet) arriva con forza grazie alla firma con la Geffen Records che nello stesso periodo mise sotto contratto anche i Guns N' Roses, con più fortuna commerciale. I Junkyard non hanno le canzoni di Axl Rose e soci (anche se il singolo ’Hollywood’ potrebbe essere la loro ‘Welcome To The Jungle’) ma possono guardare tutti dall’alto in basso grazie ad un’attitudine rock’n’roll giusta che non si piega a nessun compromesso musicale ed estetico: hard rock, sleaze, southern blues (‘Texas’ parla chiaro in puro ZZ Top style) e punk nati e vissuti pericolosamente sulla strada. “Non siamo di quei gruppi che pensano a produrre roba buona solo per andare sul mercato e per fare soldi. Ci viene da dentro, ti viene spontaneo e hai bisogno di fare musica come di mangiare e bere”. Raccontò David Roach all'epoca. La prima traccia, l’alcolica ‘Blooze’, viaggia veloce e selvaggia sulle coordinate dettate dal chitarrista Brian Baker, un ex di lusso con il passato nel punk (Minor Threat e Dag Nasty) e il futuro pure (Bad Religion). David Roach è un cantante spigoloso con l’ugola che graffia sia nel boogie rock’n’roll ‘Hot Rod’ che nella veloce ‘Life sentence’ dal riff spaccaossa. Da menzionare gli ospiti di tutto riguardo: EarlSlick, chitarrista di David Bowie che lascia le sue impronte slide nella southern ballad ‘Simple Man’ (non quella dei Lynyrd Skyrd ma la strada è la stessa) e nel blues ‘Long way Home’, Al Kooper al pianoforte e Hammond nella finale ‘Hands Off’ e Duane Roland dei Molly Hatchet in ‘Shot In The Dark’. Dopo questo debutto seguiranno tour importanti con Dangerous Toys e gli allora sconosciuti Black Crowes che apriranno per loro, e un secondo, meglio prodotto e più maturo disco SIXES, SEVENS AND NINES (1991) in cui compare pure Steve Earle. Poi…poi i tempi cambieranno veramente e il terzo disco in preparazione non vedrà mai la luce. I Junkyard si riformeranno negli anni 2000 per arrivare fino ai nostri giorni.





mercoledì 1 febbraio 2017

It's Just Another Town Along The Road, tappa 2: LUCA MILANI & THE GLORIOUS HOMELESS (Fireworks For Lonely Hearts)

La seconda puntata di IT'S JUST ANOTHER TOWN ALONG THE ROAD fa tappa a Milano. Di seguito una breve introduzione al disco e le risposte di Luca Milani ad alcune domande orbitanti intorno al pianeta viaggio, di cui il disco è un buon satellite.



LUCA MILANI & THE GLORIOUS HOMELESS-Fireworks For Lonely Hearts (Hellm Records/IRD, 2016)





Il 2016 è stato un anno ricco di meritati riconoscimenti per Luca Milani. In estate, davanti al numeroso pubblico di The White Buffalo, presentò alcuni brani del disco in uscita, il quarto dopo l'EP SCARS AND TATTOO (2009), SIN TRAIN (2011) e LOST FOR ROCK AND ROLL (2011), e subito si era capito d'essere difronte a un album dall'anima rock e notturna, dove fughe, viaggi, eroi, città bagnate dalla pioggia, cuori spezzati e speranza trovavano una via comune nell'urgenza compositiva, anche quando a prendere la scena sono toste ballate come 'Heroes Have Gone'. In conclusione dell'anno (sempre il 2016) c'è stata la quasi unanime consacrazione in quelle classifiche che tutti odiano, tutti fanno, ma che alla fine finiscono per dare indicazioni importanti. Mi aggiungo in colpevole ritardo, FIREWORKS FOR LONELY HEARTS lo merita.
Nove canzoni che confermano quanto il rocker milanese sia ormai un esponente di punta di quella scena italiana con eliche e ali puntate verso il rock a stelle e strisce. E qui dentro il rock potrete trovarlo  in quasi tutte le sue forme anche grazie all'apporto determinante dei GLORIOUS HOMELESS che lo accompagnano: Giacomo Comincini (batteria), Enrico Fossati (basso), Federico Olivares (chitarre), Riccardo Maccabruni (piano, hammonmd).
Dall'amato grunge dei novanta da cui eredita chitarre e cantato ('The Best In Town'), dal punk californiano caro a Mike Ness e imbottito di mitologia rock'n'roll ('Buddy's Plane'), al rock tout court di 'The Road' con il suo riff alla 'All Along The Watchtower' e della più orecchiabile 'Jukebox' che sembra essere la canzone che a Brian Fallon e i suoi  Gaslight Anthem non riesce più da qualche tempo, fino al country rock  di 'Dead Eyes' e  arrivare al folk solitario di 'Every Goodnight Is A Goodbye' rivestito di quel poco che basta (chitarra acustica, pianoforte e armonica) per accompagnarci verso le ore più scure e silenziose. Non manca nulla. FIREWORKS FOR LONELY HEARTS ha il pregevole merito di dare tutto nello spazio di quaranta minuti. La durata giusta dei dischi giusti. Un botto fulmineo che lascia a bocca aperta proprio come ha fatto il malinconico e notturno incedere della title track quando l'ho ascoltata per la prima volta. La mia preferita.



In viaggio con Luca Milani

1) I km nel tuo disco. IL viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Alcune canzoni di Fireworks hanno iniziato a prendere forma mentre macinavo km per il tour di "Lost for rock'n'roll". Il viaggio e la strada a volte possono rappresentare un addio, un ritorno, una speranza andando verso una nuova meta o un fallimento tornando verso casa dopo aver perso "una guerra", tutte cose presenti nelle mie canzoni. Senza dimenticare il viaggio più importante, quello attraverso il tempo, le varie stagioni della vita, gli incontri e gli addii, guardando avanti ma restando perennemente perso in qualche lontana notte d'estate dove si era così illusi da poter pensare di poter esistere per sempre, quella canzone nel jukebox non si è mai fermata.
2) Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Sicuramente tra gli aspetti positivi c'è il fatto di poter conoscere gente sempre diversa e il fatto di poter suonare e cioè fare la cosa che ti riesce meglio potendo essere te stesso nell'unico posto dove hai veramente senso, il palco. Il lato negativo è il fine serata, quando si spengono le luci e torni ad essere uno "fuori posto" nel mondo. Ci sono alcuni posti dove torno o tornerei volentieri ma spesso quando fissano programmazione del locale non stanno a guardare se tu hai fatto un bel disco ma si basano su quanto sei loro "amico", quanti favori devono restituire, quanto sei "simpatico" ecc.. e io non sono "simpatico" Un posto dove sono quasi di casa è Spaziomusica a Pavia.
3) Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Entrambe le cose, il mio problema è che sono un vagabondo molto ossessionato dal passato... Non ho ancora trovato l'interruttore del famoso jukebox e la canzone continua a girare.
4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Avrei voluto suonare con i Nirvana per poter parlare con Kurt Cobain... Ma di base mi sarebbe piaciuto aprire per molti dei gruppi provenienti da Seattle nei primi anni 90. Come mi vedo tra vent'anni? Non ne ho idea, forse cerco di non pensarci... Ecco mi hai fatto salire la depressione.
5) La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
"Hunger Strike" (Temple of the dog)





IT'S JUST ANOTHER TOWN ALONG THE ROAD tappa 1: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS/HERNANDEZ & SAMPEDRO

RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock'n'Roll (2013)

lunedì 23 gennaio 2017

RECENSIONE: SCOTT H. BIRAM (The Bad Testament)

SCOTT H. BIRAM    The Bad Testament (Bloodshot Records, 2017)






Se il successo di un musicista si misurasse dal numero di ossa rotte in vita, il quarantaduenne Scott H. Biram sarebbe in cima alle classifiche. Sfortunatamente per le sue tasche sdrucite non è così, e il texano continua ad incidere dischi (questo è il decimo), con fierezza e rara passione, camminando e talvolta correndo troppo con il suo vecchio Ranchero 65 lungo quella linea zigzagante, poco trafficata ma pericolosa, che divide il bene dal male, il sacro dal profano, la redenzione dal peccato, e dove country, blues, punk e metal viaggiano allineati in contemporanea lungo le sei corde delle sue vecchie chitarre. Ossa spezzate in episodi marginali alla vita artistica ma capaci di inquadrare il personaggio: prima l’incidente stradale in Texas nel 2003 che gli lasciò intatto un arto su quattro ma non gli impedì, un paio di mesi dopo, di salire sul palco in sedia a rotelle con una flebo al seguito, poi in Francia nel 2009, quando scivolò nei pressi di una pompa di benzina. Cicatrici e protesi al titanio lo tengono unito. Uno scavezzacollo sporco e genuino, “ho imparato a sputare e menar pugni prima di imbracciare una chitarra”, che in giovane età, prima di essere conquistato dal blues (Doc Watson e ‘Vol.4’ dei Black Sabbath tra i suoi preferiti) e poi dal punk, accontentò pure la famiglia prendendo la sua meritevole laurea in arte che ora viene bene solamente per disegnare t-shirt con grande spirito DIY, lo stesso che gli bolle in corpo quando ha una chitarra in mano, quando sbuffa dentro un’armonica, batte il piede su una stomp box amplificata e sale sul palco a ringhiare. Tutto insieme. Un “The Dirty Old One Man Band” (anche titolo del suo miglior disco) capace di unire Leadbelly e Motorhead, Merle Haggard e Black Flag, incendiare fienili con litri di alcol etilico, sfidare la morte provocandola pericolosamente e pregare per ringraziare d’essere ancora su questa terra. Nel precedente NOTHIN’ BUT BLOOD, uscito nel 2014, si era fatto ritrarre in un mare di sangue per quello che sembrava un nuovo battesimo, ma che in verità cambiava poco le carte nella sua disordinata tavola da garage dove prende forma il suo lavoro. Questa volta impugna il personale libro del cattivo testamento ma in verità continua a camminare tra peccato, redenzione e amori persi. Come sempre: “ho un piccolo lato spirituale e amo la musica gospel, dico preghiere e cose del genere, ma non so di chi diavolo sto parlando”, disse una volta. Registrato nel suo studio casalingo ad Austin, Texas, ancora una volta Biram mantiene fede al suo status di One Man band e registra tutti gli strumenti con le proprie mani. Cambia veramente pochissimo nella sua musica dove a prevalere sono sempre la pura genuinità e l’urgenza sia nei momenti country (‘Set Me Free’), negli oscuri folk (‘Still Around’, ‘Righteous Ways’), nelle tracce blues (‘Red Wine’, ‘Crippled & Crazy’ con l’hammond dietro), nell’ honk tonk che cavalca il vecchio west (‘Long Old Time’), nell’ assalto all’arma bianca di ‘Trainwrecker’ (l’unica concessione punk del disco), nel gospel solo cantato di ‘True Religion’, per concludere con tre strumentali con una slide rumorosa e l’armonica (‘Hit The River’,‘Pressin On’ e ‘What Doesn’t Kill You…’). Questa volta Biram sembra ringhiare meno del solito ma la partita la porta sempre a casa, anche facendo prevalere il lato country blues, più accomodante e addomesticato.



mercoledì 18 gennaio 2017

RECENSIONE: CHRIS STALCUP & THE GRANGE (Downhearted Fools)

CHRIS STALCUP & THE GRANGE-Downhearted Fools (Dirtlegs Records, 2016)



Mi è entrato in casa solo ora, ma Downhearted Fools di CHRIS STALCUP con i suoi THE GRANGE, uscito nel 2016, mi ha fatto lo stesso effetto di Traveller di Chris Stapleton nel 2015: buono alla prima. Se osservate la foto di copertina che pare lo scarto di un quadro di Hopper, e liberate tutto il vostro immaginario legato all’America più nascosta, lavoratrice e silente, otterrete pure il contenuto. Aggiungete tutto quello che può starci dentro tra Gram Parsonsm i Drive-By Truckers, Steve Earle e Ryan Bingham e il gioco è quasi fatto. Un disco di storie ordinarie e di realtà di provincia poco eccitante, in bilico tra country e rock’n’roll, tra strade e amori finiti, tra la lentezza della malinconica quotidianità e gli scatti pigri ma repentini rivolti ad una promessa di futuro migliore ma solo immaginario nei fatti. Un disco che non rivoluzionerà un bel nulla ma che cattura morbosamente come farebbe l’insegna di quel Motel in copertina, quando, dopo aver viaggiato tutta la notte per le strade della Georgia, si è in cerca di un rifugio temporaneo, ma comunque sicuro. Almeno per una notte. Si mette la freccia, si spengono l’autoradio e le luci, e si parcheggia davanti all’entrata. Intanto un altro giorno è quasi passato. Nuovamente.




domenica 8 gennaio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN

DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)






La luce della foto in copertina, scattata al Parco Nazionale Ramble Mansion a Ellenton in Florida, sembra quella giusta dell’orario d’aperitivo. Dickey Betts e la sua nuova band GREAT SOUTHERN pasteggiano con chitarre e una bottiglia di Jack Daniel’s sul tavolo mentre sullo sfondo una donna con la gonna svolazzante gioca con dei bambini davanti al grande palazzo bianco in stile vittoriano. Dopo la morte di Duane Allman, il ruolo del chitarrista di West Palm Beach diventa basilare all’interno delle meccaniche degli Allman Brothers (culminate nell’epocale e diverso BROTHERS AND SISTERS), ma Betts tenta anche la carta della carriera solista per mettere in mostra le altre sfumature delle sue capacità come autore. Dopo l’esordio HIGHWAY CALL del 1974, incentrato attorno al violino di Vassar Clements e ad suono country bluegrass, con il secondo album le atmosfere virano verso un southern blues più vicino alla band madre, spesso accurate e fluenti, da viaggio al tramonto: più ritmate come l’apertura ‘Out To Get Me’ con la slide di Betts sempre in cattedra e la chitarra di Dangerous Dan Toler (passato a miglior vita nel 2013) e l’armonica dell'ospite Topper Price ad accompagnare, il boogie di ‘Run Gipsy Run', con ‘Nothing You Can Do’ dove le tastiere di Tom Broome sono maggiormente in evidenza o la più movimentata del lotto ‘California Blues’, a mettersi in mostra, qui, è la sezione ritmica formata da Ken Tibbets (basso), Doni Sharbono e Jerry Thompson (batteria).
Non manca la distensione country da veranda in prima serata, appunto: la nostalgica rilassatezza di canzoni come ‘Sweet Virgina’ e della sognante ‘The Way Loves Gone’, fino ai sette minuti finali di ‘Bougainvillea’, scritta insieme al futuro Miami Vice, Don Johnson, con la sua partenza morbida e il finale jammato più vicino a quello che la band sapeva proporre dal vivo e ben immortalato nel live Rockpalast 1978.






domenica 1 gennaio 2017

15 DISCHI 15 per il 2016




Non è una classifica, ma semplicemente i quindici dischi, usciti nel 2016, che hanno girato di più nel mio stereo.



ALEJANDRO ESCOVEDO-Burn Something Beautiful
Dopo il trittico di uscite con la produzione di Tony Visconti e l'aiuto di Chuck Prophet (l’ultimo fu il più sperimentale e coraggioso BIG STATION del 2012), ALEJANDRO ESCOVEDO ritorna con un disco dal carattere forte e deciso come si dice per certi liquori invecchiati bene, dove le chitarre prendono spesso possesso della scena durante le tredici canzoni: ora più affilate, aspre e taglienti (‘Horizontal’ scava nel passato punk dei Nuns, ‘Luna De Miel’, 'Heartbeat Smile' è un buon compromesso pop rock) ora glitterate (‘Shave The Cat’) sulla scia della polvere di stelle seminata da Marc Bolan, ora pigre, sonnacchiose e desertiche (‘Redemption Blues’, ‘Johnny Volume’ sembra rievocare gli spiriti dell'amato Lou Reed), poi ancora acustiche (‘Suit Of Lights’, ‘Beauty And The Buzz’, la bella 'Farewell To The Good Times'), pure ciondolanti verso un sound che rimanda a Phil Spector (‘I Don’t Want To Play Guitar Anymore’) [...] RECENSIONE COMPLETA



JON DOE-The Westerner
[...]il nuovo disco di John Doe, una carriera solista spezzettata ma che ha ormai doppiato (in anni) quella dei seminali X.
Questo nono disco arriva a cinque anni dal precedente ma ne conferma lo status di songwriter di altissimo livello. Il disco è stato registrato a Tucson negli studi di Howe Gelb (Giant Sand) e proprio durante i primi giorni di registrazione è avvenuto l’episodio che ha influito sensibilmente sul percorso musicale e concettuale del disco: la morte dell’amico scrittore, sceneggiatore e regista Michael Blake, conosciuto per essere l’autore del romanzo Balla Coi Lupi, da cui fu tratto il film. [...]

Un disco che sembra andare oltre la musica, perfettamente in bilico tra border ballads e scatti elettrici (la finale ‘Rising Sun’), per avvicinarsi sensibilmente all’anima [...] RECENSIONE COMPLETA


GRANT-LEE PHILLIPS-The Narrows

[...] I tempi dei Grant Lee Buffalo e dei loro dischi più rappresentativi FUZZY (1993) e MIGHTY JOE MOON (1994) sembrano un lontano ricordo da raccontare a figli e nipoti. La carriera solista, giunta all’ottavo disco, si è invece trascinata tra alti e bassi per troppo tempo ma questa volta Grant-Lee Phillips decide di spingersi ancora più indietro per rinascere artisticamente: riparte da Nashville, lì ha scelto di vivere dopo anni trascorsi a L.A., per ritrovare il suo passato e quello remoto dei suoi antenati pellerossa Cherokee. Ne esce uno dei migliori dischi in carriera dove gli ultimi diventano i primi, dove si riflette in modo amaro sulla morte (il disco è dedicato al padre scomparso tre anni fa) e sull’importanza di luoghi (‘Tennesse Rain’) e radici (‘Mocassin Creek’) [...] RECENSIONE COMPLETA



DRIVE-BY TRUCKERS-American Band
Una copertina che non ti aspetti dopo i disegni che hanno campeggiato per vent’anni. Ma il disco, l’undicesimo in carriera, sembra richiederla. Qui la band di Athens (Georgia), guidata da Patterson Hood e Mike Cooley, va giù duro e fotografa uno dei più delicati momenti storici degli Stati Uniti d’America: a Ottobre il popolo è chiamato alle urne e le prospettive all’orizzonte non sono mai apparse così incerte. I pregiudizi e le paure sembravano poter influenzare l’esito finale e per la band, che crede in certi valori (“l’America è sempre stata una terra di immigrati e di ideali”) sarebbe stata una grave sconfitta. “Questi sono tempi pazzi e abbiamo fatto un disco immerso in questo momento della storia che stiamo vivendo in prima persona. Ci siamo sempre considerati un gruppo politico, anche quando quell'aspetto sembrava essere nascosto…”. Purtroppo è stata una sconfitta. Trump ha trionfato, ma i Drive-By Truckers anche e il disco funziona alla grande. Trump passerà (speriamo presto). I Drive-By Truckers resteranno.



MARC FORD and The NEPTUNE BLUES CLUB-The Vultures
Ultimamente ripasso spesso da qui
l'ho già detto che Marc Ford ha fatto un grande disco? Credo di sì! Per me: una delle migliori uscite dell'anno."Se Holy Ghost era la domenica mattina, The Vulture è il sabato sera", così lo stesso Ford presenta la sua nuova opera, diversissima dal precedente riflessivo e solitario disco (comunque bellissimo). Un disco che spazia dal Southern rock, al blues, al soul. Tanta carne al fuoco, ma cotta molto bene. Peccato non ci sia ancora nessuna traccia fisica in giro...



MICHAEL KIWANUKA-Love & Hate
Quando puoi permetterti di aprire, con coraggio, il secondo disco in carriera con ‘Cold Little Heart’, canzone lunga dieci minuti dalle forti suggestioni pinkfloydiane, hai già vinto in partenza. Il singolo “importante” ‘Black Man In A White World’ ribadisce e conferma lo status di grazia dell’ancora giovane Kiwanuka.I suoni e la voce... del fortunato debutto HOME AGAIN, ci avevano riportano ai tempi "verdi" di Otis Redding, Bill Withers, Marvin Gaye, ma anche il Van Morrison di Astral Weeks e perchè no, il sempre dimenticato John Martin erano presenti in qualche forma. Kiwanuka, lo si capisce vedendolo (nella sua prima apparizione italiana ai Magazzini Generali nel 2012) e ascoltandolo, è un personaggio vero e genuino. Come vera sembra essere la parabola che lo ha portato alla musica: genitori nativi dell'Uganda, lui nato e cresciuto nel quartiere di Muswell Hill a Londra, dove mamma e papà si sono trasferiti per sfuggire al violento e sanguinario regime imposto da Amin Dada. Lì dove gli si è aperto un mondo, dopo il folgorante ascolto di Bob Dylan, Hendrix e poi Otis Redding. Scoperte in musica che nella sua adolescenza è stata totalmente assente per un lungo periodo. Poi lo studio della chitarra, i primi concerti accompagnando altri artisti fino a trovare se stesso e le sue confessioni di spirito, mature e sincere. LOVE & HATE è la conferma che si aspettava, anzi qualcosa in più. Il disco che conferma Kiwanuka come uno dei pochi in grado di far rinascere l’interesse per il soul nero, ancorato per troppo tempo al suo importante e ingombrante passato. Produce, con estrema cura, Danger Mouse.



PAUL SIMON-Stranger To Stranger
[...] Simon è ancora un folk singer con l’accento pop marcato (che voce!) certamente tra i più atipici, (‘Insomniac’s Lullaby’, solo chitarra e voce che chiude il disco ma è stata anche la prima canzone scritta per l’album, ce lo dimostra) a cui piace ancora avventurarsi in giro per il mondo e saltellare avanti e indietro nel tempo, raccontare di omicidi consumati in famiglie benestanti in quel di Milwaukee (‘The Werewof’), di campioni di baseball “velocissimi” degli anni ’30 (‘Cool Papa Bell’), di veterani di guerre mica troppo lontane da noi (‘The Riverbank’), homeless visionari (‘Street Angel’) e guaritori brasiliani (‘la stupenda’Proof Of Love’) . Di amore. Sopra alla sua valigia non mancano, anche questa volta, adesivi stampati nella lontana Africa, in Sud America, in Spagna (c’è tanto Flamenco) e pure in Italia. Il coraggio di non rinnegare il presente, ma viverlo [...] RECENSIONE COMPLETA


DEVON ALLMAN-Ride Or Die
RIDE OR DIE, terzo disco solista per Devon Allman. Il migliore fino a qui. Si prende tutta la libertà possibile di spaziare tra i suoni con cui è cresciuto: dalla pesante eredità southern lasciata da papà e zio al soul bianco, con tutto quello che ci gira in mezzo e intorno. Non è più solo “ il figlio di Gregg Allman”: l’etichetta inizia ad andargli stretta stretta. Un musicista completo. Disco perfetto per un volante, quattro ruote e una lunga striscia d’asfalto.





THE RECORD COMPANY-Give It Back To You
ia la loro vera attitudine. Qualcuno li avrà anche visti lo scorso autunno a Milano in apertura per i southern rockers Blackberry Smoke. Il loro primo album è appena uscito: un sentiero sonoro lungo dieci tracce per quaranta minuti che lascia pochi dubbi sui dischi che hanno girato nei loro piatti dopo le serate stonate al pub: tanto blues di casa Chess Records (Muddy Waters, Bo Diddley), di conseguenza Canned Heat (‘On The Move’), Stones e Led Zeppelin (‘Hard Day Coming Down’), il vecchio rockabilly (‘Don’t Let Me Get Lonely’), soul (‘This Crooked City’ con le voci femminili di Maesa e Rosa Pullman), coralità contagiante ('Feels So Good') a cui si aggiunge la sporca urgenza della Detroit rock a cavallo tra i 60 e i 70 (la finale ‘In The Mood For You’ fa tanto Stooges). [...] RECENSIONE COMPLETA





STURGILL SIMPSON- A Sailor’s Guide To Earth
Salutato come il salvatore del country americana dopo l’uscita dei precedenti HIGH TOP MOUNTAIN (2013), il debutto, e il più sorprendente METAMODERN SOUNDS IN COUNTRY MUSIC (2014), Sturgill Simpson mette la freccia a sinistra e supera tutti in volata. Va da altre parti, spiazzando e convincendo ancora di più. Vola sopra a tutto, fregandosene delle etichette. Se tutti gli album avessero questa gioiosa voglia di giocare con i generi musicali, il mondo (musicale) sarebbe anche meno brutto di quanto appaia ad un primo sguardo. Ambizioso ma rispettoso di certe tradizioni. E di bello e gioioso non c’è molto dentro alle sue liriche, anche se spesso viene usata l’ironia come metodo per convincere. Le nove canzoni sono una lettera aperta, intima e personalissima, cantata con una voce che fa la differenza e indirizzata al piccolo figlio di due anni per avviarlo sulle strade del mondo nel modo più giusto e meno traumatico possibile, un avviso al futuro navigante [...] RECENSIONE COMPLETA


PARKER MILLSAP-The Very Last Day
[...]Un disco intenso che lancia direttamente il ventitreenne nell'olimpo dei songwriter (in erba) che contano, perché Millsap non ha paura di mettere in discussione la sua infanzia, ancora troppo vicina e lì dietro l'angolo vista la faccia ancora così pulita, trascorsa a Purcell, un piccolo paese di seimila anime dell' Oklahoma, un angolo tra i più conservatori degli States. "Non c'è molto da fare a Purcell. Se ti regalano una chitarra quando sei abbastanza giovane, scrivere musica è un buon modo per passare il tempo".
Pur crescendo in una comunità evangelica a diretto contatto con la chiesa Pentacostale, continua a raccogliere  buoni spunti di osservazione sulla religione, mettendola in discussione, e pescandone pregi e difetti, come fatto nel precedente e apprezzato disco PARKER MILLSAP (2014), e  come fa, immedesimandosi in un ragazzo omosessuale alle prese con un padre predicatore, in 'Heaven Sent'. Pezzo di punta che sa conquistare e commuovere fin  dal primo ascolto grazie al suo crescendo emozionale.[...] RECENSIONE COMPLETA





GRAHAM NASH-This Path Tonight
THIS PATH TONIGHT (splendida la title track), uscito dopo quattordici anni di assenza discografica da solista, guarda al passato (Golden Days) ma sa affrontare bene il presente (Myself At Last) e il futuro, segnati fortemente dal matrimonio naufragato dopo 38 anni con Susan Sennett e dalla nuova relazione con Amy Grantham, una donna molto più giovane che sembra aver fatto bene anche al lato artistico di Nash. L'ispirato e vivace THIS PATH TONIGHT, è il sentiero di un uomo che, a settantaquattro anni, sta ancora correndo, a piedi rigorosamente scalzi, verso nuove mete di vita.



NEIL YOUNG-Peace Trail

[...] comunque sia, Neil Young sempre meglio di me sarà. Anche quando butta giù un album in pochi giorni nello studio di registrazione di uno dei produttori più acclamati degli ultimi trent’anni senza badare alla perfezione (buona la prima, ottima la seconda!), con un giornale aperto ad ispirargli i testi o scovando notizie e personaggi che nessuno mette in prima pagina, due session man che lo seguono, e una copertina fatta in casa ma con i testi stampati in un gigantesco poster.
Uno dei pochi vecchi rocker a metterci ancora la faccia nelle battaglie in musica, con tutta la libertà compositiva che può giustamente permettersi. A volte zoppica ma rimane sempre in piedi. Un forte urlo politico e sociale con quella romantica ingenuità che non è mai mancata in cinquant' anni di carriera e che spesso fa la differenza. [...] RECENSIONE COMPLETA


CONOR OBERST-Ruminations
Ci sono dischi che entrano in circolo subito, senza chiedere permesso. Che prendono fuoco all’istante. Bruciano. Rendono gli occhi luminosi. RUMINATIONS di Conor Oberst è uno di questi, nonostante l’ascolto preveda un buon impegno e la situazione adatta. La mia parentesi di vita è la situazione adatta. È stato scritto e registrato da Oberst in pochi giorni durante un auto esilio in pieno inverno (quello del 2015) rinchiuso nella sua casa ad Omaha in Nebraska. Rifugio sicuro per fuggire dal mondo e riprendersi dalle batoste della vita (dalle pesanti accuse di violenza carnale piombatigli addosso all’improvviso, poi smentite e ritirate, alla diagnosi di una ciste al cervello, ad una depressione sempre dietro l’angolo). Un disco nato per caso, durante le ore della notte, mentre la legna alimentava il fuoco e la neve faceva scomparire il paesaggio fuori, cancellando le ultime orme di vita prima del lungo letargo. Un pianoforte, una chitarra acustica, un’armonica e testi personalissimi [...] RECENSIONE COMPLETA


HOWE GELB    Future Standards
C’è chi campa coverizzando antichi standard americani con la speranza di risollevarsi la carriera, HOWE GELB no: gli standard se li scrive e se li canta da solo, con la speranza che lo diventino in un prossimo futuro, cantati da altri. Un disco nato già vecchio lungo l’asse New York-Tucson-Amsterdam, che a prima vista potrebbe apparire anche molto pretenzioso, ma chi conosce Gelb sa che questo tipo di cose rientrano, da sempre, nelle sue corde di musicista, su disco ma soprattutto live quando gira da solo senza la sua creatura Giant Sand (a proposito: l’avventura continua oppure no?). Un disco mininale e jazzato, intimo, essenziale: pianoforte, basso e batteria accarezzata a colpi di spazzole, qualche raro intervento di chitarra e la voce di Lonna Kelley a duettare in più occasioni. Naturalmente ci pensa l’inimitabile voce di Gelb a portare a casa la partita. [...] RECENSIONE COMPLETA