giovedì 12 ottobre 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 47:TOM PETTY (Highway Companion)

TOM PETTY   Highway Companion (American Recordings, 2006)





Se c'è un album con il quale mi piace ricordare Tom Petty è HIGHWAY COMPANION del 2006, un disco sempre poco citato ma che rappresenta bene la rinascita, non tanto quella artistica, Petty non ha sbagliato quasi nulla in carriera, quanto quella umana.
Highway Companion arrivò all’indomani di annunci importanti, fortunatamente poi disattesi: mai più tour con gli Heartbreakers, mai più interviste. Qualcuno disse pure mai più dischi. Con il senno del poi si pensò ad un’astuta mossa commerciale per lanciare il nuovo album che arrivava dopo quattro anni di silenzio, l’ultimo fu The LAST DJ del 2002. Invece no, gli si poteva credere cecamente, gli anni incollati prima del disco non furono tra i più felici della sua vita e la fatica per uscirne fuori fu tanta (il divorzio e la lunga depressione che seguì, la scomparsa dell’amico e musicista Howie Epstein, le grane con la casa discografica), Petty è sempre stato un tipo sincero ed estremamente diretto e combattivo. Highway Companion è il terzo disco ad uscire senza il monicker degli Heartbreakers in copertina, ed è un disco che lo riporta alla purezza, sulle strade, alla fuga solitaria, in cerca della bellezza, alla meditazione sui sentimenti (splendida ‘Damaged Of Love’) e alla ricerca del luogo ideale. Petty fa quasi tutto da solo, suona perfino la batteria. I soli ammessi sono l’inseparabile Mike Campbell alle chitarre e Jeff Lynne (al basso) un ritorno anche alla produzione, ma qui sembra lasciare meno segni rispetto ai fasti del passato. Il disco suona minimale e puro. Poco lavorato. Spesso dimenticato, questo disco è un viaggio a ritroso tra la semplicità del tempo che passa inesorabile, tra la quotidianità e l'affiorare della fiducia verso i sentimenti (una nuova compagna), i paesaggi che scorrono veloci sotto gli occhi, un omaggio alla musica che lo ha accompagnato da sempre. Alla fine ne esce un inno alla vita completo. Uno dei suoi migliori testamenti, e di canzoni da ricordare ce ne sono: la splendida ‘Square One’ ad esempio. Personale fino alla fine. Dalla ruvidezza della galoppante ‘Saving Grace’ sulle orme di John Lee Hooker e con lo spirito swamp di John Fogerty, al viaggio tra gli umori del suo sud in ‘Down South’ condotto con fare dylaniano, alle melodie byrdsiane di ‘Flirting With Time’, qualcosa che potrebbe avvicinarsi ai suoi classici, al viaggio notturno e meditativo di ‘Night Driver’, gli scatti improvvisi di ‘Jack’, il crescendo di ‘Turn This Car Around’, la spensieratezza country di ‘Big Weekend’, ‘This Old Town’ con il passo sornione alla Neil Young e il ritornello beatlesiano. Un disco di viaggi interiori e da viaggio su asfalto assolutamente da riscoprire. In ‘Square One’, Petty canta di “un mondo di guai e lacrime”. Mai come in questi giorni successivi alla morte, ci ha lasciati così: nei guai e con le lacrime agli occhi. Buon viaggio Tom.


PUNTATE PRECEDENTI
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #21-NICOLETTE LARSON-Nicolette (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #23-ERIC ANDERSEN-Blue River (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #24-BADLANDS-Voodo Highway (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #25-GEORGE HARRISON-Living In The Material World (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA#26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH-Wind On The Water (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #29: STEPHEN STILLS (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #31: SUZI QUATRO-Suzi Quatro (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #34: EDOARDO BENNATO- Edo Rinnegato (1990)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #35: GENE CLARK-White Light (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #37: CAPTAIN BEYOND-Captain Beyond (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #38: ROD STEWART-Every Picture Tells a Story (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS-Bad To The Bone (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #40: THE ROLLING STONES-Their Satanic Majesties Request (1967)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH-Daylight Again (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #44: TERRY REID (River)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #45: JACKSON BROWNE-Running On Empty (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #46: THE ROLLING STONES-Emotional Rescue (1980)

 

domenica 8 ottobre 2017

RECENSIONE: LEON RUSSELL (On A Distant Shore)


LEON RUSSELL  On A Distant Shore (Palmetto Records, 2017)





L’ultimo viaggio del Master Of Space and Time
Questa sta diventando una cattiva abitudine, ve lo dico. Quest’anno sono usciti molti dischi postumi, registrati dagli autori poco prima di morire: Chuck Berry e Gregg Allman svettano su tutti. L’anno scorso non fu da meno. Ora è arrivato il momento di Leon Russell che come Leonard Cohen nel suo ultimo album, nella title track che apre il disco, sembra anticipare, inconsapevolmente (o forse no), il suo futuro prossimo, preparando la strada al destino : “My poor heart sounds like a drum/On a mountain far away/I’m waiting here for my time to come/Can I keep the wolves at bay/These feelings are so dangerous/Like the fires of hell and more/No answers can be found/Bad news is at the door”, fino ad arrivare alla strofa che recita “Sounds like a funeral for some person here”.
ON A DISTANT SHORE fu portato a termine nel Novembre del 2016, pochi giorni prima della morte avvenuta il 13 Novembre. “Diceva che era il miglior disco che avesse mai registrato” così Jan Bridges, la moglie di Russell presenta il disco. Mark Lambert, il produttore, conferma e rilancia “è stato infaticabile fino alla fine. Nella canzone ‘Just Leaves and Grass,’ potete ascoltarlo mentre piange veramente. Non c'è nulla di falso. On A Distant Shore è un grande ritratto di Russell”. Tredici canzoni, tra cui tre suoi vecchi successi riletti (‘This Masquerade’, ‘Hummingbird’ e ‘A Song for You’), suonate all’antica maniera seguendo la grande tradizione dell’ American songbook, con l’obbiettivo di creare nuovi standard gravitanti intorno al jazz, al gospel e al blues (bella ‘Black And Blue’ con la chitarra di Ray Goren) il tutto con largo uso di arrangiamenti orchestrali che riempiono le canzoni, a volte fin troppo e a dismisura e una voce che a tratti pare stanca ma per questo ancora più vera e genuina. Ma a Russell perdono tutto. Se nel precedente LIFE JOURNEY rendeva omaggio a vecchi e veri standard e a canzoni di amici vari, qui segue la stessa identica strada inventandosi però qualcosa di nuovo scritto di suo pugno. A 74 anni non è stato per nulla facile, ma dopo UNION, lo straordinario album con Elton John, l’ispirazione sembrava essere ripartita. Questo è l’ultimo straordinario viaggio del Master Of Space and Time. Grazie di tutto.


RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD-Party Of One (2017)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Hitchhiker  (2017)
RECENSIONE: JAKE BUGG- Hearts That strain (2017)



martedì 3 ottobre 2017

RECENSIONE: DAVID CROSBY (Sky Trails)

DAVID CROSBY Sky Trails (BMG, 2017)






L’uscita del bellissimo CROZ nel 2014 , con quel titolo, sembrava la risposta giusta all’amnesia che si portava dietro dal titolo del primo ineguagliabile disco solista uscito nel 1971 (“il punto più alto per me. Era un momento difficile della mia vita, ma Jerry Garcia era lì quasi ogni notte…” racconta in una intervista rilasciata a Spin in questi giorni). Chi l’ avrebbe mai pensato che nel giro di un paio d’anni David Crosby avrebbe fatto uscire tre dischi: una prolifica ispirazione che forse mai gli era appartenuta prima. Una corsa ininterrotta che sembra abbia voglia di riprendersi tutti gli anni persi e buttati all’aria per troppi vizi e cattiva salute. SKY TRAILS esce a un solo anno di distanza dal precedente LIGHTHOUSE e musicalmente sembra prendere altre direzioni mettendo totalmente allo scoperto l’amore per il jazz, ma non solo. Lo si capisce fin dall’apertura ‘She ‘s Got To Be Somewhere’, un quasi dichiarato omaggio ai Steeley Dan di Donald Fagen e del recentemente scomparso Walter Becker : “ Ho sempre amato i Steey Dan. La loro scrittura è incredibilmente buona”. Non l’unico amore ad uscire da questo disco: la cover, l’unica del disco, di ‘Amelia’ di Joni Mitchell è un altro: “Credo che Joni sia la migliore cantante songwriter vivente”. Là dove Lighthouse era un disco acustico e quasi solitario, Sky Trails è un lavoro di squadra a tratti sofisticato ma sempre lucido e pulito, perfino troppo in alcuni passaggi. “ Ci sono complessita', sottigliezze e strutture intricate in queste canzoni, cose con cui mi sono sempre sentito a mio agio”. Suonano: il sassofonista Steve Tavaglione, il batterista Steve DiStanislao, il bassista Mai Agan. Il disco è prodotto e condotto musicalmente dal figlio (ritrovato) James Raymond (coautore di metà delle canzoni) e avanza sinuosamente in maniera spesso languida tra ricami jazzati (tra il passato del suono di un sax e il presente di battiti elettronici molto anni ottanta: 'Capitol', 'Sell Me A Diamond' con Greg Leisz alla pedal steel) e una vocalità che a 75 anni è ancora miracolasamente intatta e che esce allo scoperto nella ballata pianistica 'Before Tomorrow Falls On Love', uno dei vertici dell'album, scritta insieme a Michael McDonald. Senza dimenticare mai il passato, che riaffiora negli antichi graffi politici e sociali presenti in ‘Capitol’, il personale dito medio alzato al governo, e nella title track a due voci, una canzone folk scritta e cantata insieme a Becca Stevens. Intanto, come dichiarato, sembra che l’amore per il jazz possa continuare anche per il futuro…quello lì, dietro l’angolo del prossimo disco che non si farà più aspettare troppo. Nuovamente.


RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD-Party Of One (2017)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Hitchhiker  (2017)
RECENSIONE: JAKE BUGG- Hearts That strain (2017)

sabato 30 settembre 2017

RECENSIONE: JAKE BUGG (Hearts That Strain)

JAKE BUGG    Hearts That Strain (2017)





"How many roads must a man walk down Before you call him a man"
Ottobre 2012, mi trovo a Dublino davanti alla vetrina di un grande Record Store: è tappezzata da tanti cd tutti uguali, in copertina campeggia il viso sbarbato e imbronciato di un ragazzo che pare appena uscito dall’ età adolescenziale. Assomiglia a Justin Bieber, ma lo conosco di nome e so che la sua musica è molto lontana dall’idolo pop delle teenager. Torno in Italia con il suo debutto in valigia che presto passa nell’impianto stereo: voce giovane ma nasale e musica elettro acustica che costruisce i ponti ideali tra il folk americano orbitante nei Coffee House di Minneapolis frequentati dal giovane Bob Dylan e il folk britannico di Donovan con gli antichi guizzi r’n’r di Buddy Holly e le melodie brit pop anni novanta degli Oasis. Sarà proprio Noel Gallagher a tesserne pubblicamente le lodi e portarselo in tour. L’idilio tra i due finì quando Gallagher scoprì che Bugg collaborò con due co-autori per la stesura di alcuni pezzi. Stranezze del Rock. Il debutto arriva a vendere 450.000 copie solo in UK, e non passa un anno che l’etichetta discografica decide di investire tutto sul giovane proveniente dall’operaia Nottingham: lo spedisce a Malibu, in California, sotto le mani esperte di Rick Rubin che mette a disposizione musicisti amici tra cui Chad Smith (Red Hot Chili Peppers). In SHANGRI LA l’aria si fa meno nebbiosamente brit ma più polverosamente yankee, con alcune possenti puntate punk rock. Rubin smussa l'ingenua urgenza esecutiva dell'esordio, arricchendo le canzoni di sfumature ma complicando ulteriormente la vita a chi cerca di inquadrarlo. Devono però passare tre anni per ritrovare nuovamente Jake Bugg in studio con ON MY ONE. Il ragazzo ha solo ventidue anni ma ha deciso che è il momento di camminare da solo: il disco è più il personale e autobiografico dei tre incisi, per le liriche (nella title track canta dei tre anni passati in tour e dei 400 concerti) e perché si cimenta per la prima volta anche come produttore, aggiungendo degli spiazzanti retaggi elettro Hip Hop al già ricco recente passato. Troppa carne al fuoco. Arrivati in questo 2017, mentre le sue canzoni ('Lightning Bolt') si possono sentire in TV abbinate a prodotti pubblicitari, la domanda sorge spontanea: qual è la sua reale strada artistica? Bene, nemmeno questo quarto disco HEARTS THAT STRAIN ci darà una risposta esaustiva. (Che brutta copertina!). Bugg ha deciso di partire ancora una volta per gli Stati Uniti, destinazione Nashville. Lì incontra Dan Auerbach con il quale scrive un paio di pezzi e che gli mette a disposizioni i migliori musicisti sulla piazza con una certa esperienza dietro, gli stessi che hanno registrato con lui l’ultimo solista: The Memphis Boys, Bobby Woods, Gene Chrisman . Ne esce un disco intimo e malinconico, costruito esclusivamente su ballate country folk leggere ma spesso dalle atmosfere grevi (‘Hearts That Strain’), quasi soffici con pochissimi guizzi lungo il percorso: a differenziarsi ‘Waiting’ cantata in coppia con Noah Cyrus, sorella della più famosa Miley, un soul costruito su pianoforte e fiati, prima ti imbarazza ma poi ti conquista, e l’up tempo ‘Burn Alone’ comunque lontano da qualcosa che si possa chiamare rock, e qui il tocco di Auerbach si sente. Si viaggia sempre a favore del leggero vento west coast (‘How Soon The Dawn’) che ricorda gli America di metà anni settanta, quelli del periodo George Martin per intenderci, mentre la presenza del pianoforte in parecchie canzoni (‘The Man On Stage’) porta alla mente la musicalità gentile e raffinata di Graham Nash. Se aspettate il guizzo rock’n’roll che segnava i primi due dischi, mettetevi l’anima in pace: non arriverà mai. I giudizi sul disco, facendo un giro nel web, non sono molto entusiasmanti (io non lo boccio ma lo rimando al prossimo, ah? Il prossimo era già questo?), e questo accentuato velo di nostalgia verso il passato che sembra avvolgere le canzoni ha avuto il suo peso nei giudizi, andando a cozzare contro l’ancora giovane età di Bugg. Sembra un settantenne che volge lo sguardo verso il passato. Che ti è successo Jake? Avrai tutto il tempo per queste nostalgie. L’unico consiglio che posso dare è quello di ritornare a sognare l’America avvolto dal grigio delle fabbriche della sua Nottingham, come avvenne all’esordio. Il suo vantaggio però sta tutto lì: davanti ha ancora tanta strada e tanti dischi. Invidiabile e non da tutti.



RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD-Party Of One (2017)


martedì 26 settembre 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 46: THE ROLLING STONES (Emotional Rescue)

THE ROLLING STONES- Emotional Rescue (1980)


L’entrata dei Rolling Stones negli ottanta cerca di ricalcare, in tutto e per tutto (ma non sarà proprio così), il successo avuto dal precedente SOME GIRLS uscito due anni prima. Alcune canzoni arriveranno direttamente da quelle prolifiche session di registrazione, anche se le sedute per questo nuovo capitolo, avvenute tra il Pathe-Marconi Studio di Parigi e i Compass Point Studio di Nassau alle Bahamas, non furono da meno tanto da andare a foraggiare, in modo ottimale, il successivo TATTOO YOU. “Ricordo che, mentre stavamo registrando a Parigi, Keith fu irremovibile sulla necessità di lavorare oltre il necessario. Alle quattro di mattina, quando tutti erano ormai distrutti, dopo avere eseguito e inciso alcune tracce, diceva:’Bene, adesso facciamo così…’ Il suo motto a quell’epoca era ‘Nessuno dorme se io sono sveglio’. Erano sedute di registrazione schiavistiche, e lavorammo un sacco.” Scrive Ronnie Wood nella sua autobiografia.
Con un Keith Richards stacanovista, ancora al centro del mirino dopo l’arresto per possesso di droga avvenuto a Toronto nel 1977 che faceva il paio con l’oscuro episodio avvenuto a casa sua nel 1979 ( la morte del diciassettenne Scott Cantrell che si sparò in testa nella camera da letto dove dormivano Anita Pallenberg e Richards, giocando alla roulette russa con una pistola appartenente alla coppia) e impegnato insieme a Ronnie Wood nel nuovo passatempo a nome The New Barbarians, i Rolling Stones registrano EMOTIONAL RESCUE, un disco che mette bene in mostra le due anime della band, quella battente rock di Keith Richards in episodi semplici e diretti con le chitarre in primo piano come ‘She’s So Cold’ (uno dei singoli estratti anche se non andò oltre la 30 posizione nelle classifiche), ‘Summer Romance’, ‘Let Me Go’ e l’energica ‘Where The Boys Go’ e l’anima pop di Mick Jagger, con relativa sbandata disco, che dopo il gran successo di ‘Miss You’ ritenta la carta vincente nel funk d’apertura ‘Dance (pt.1)’ (scritta con Ronnie Wood e con ospite il giamaicano Max Romeo) ma soprattutto nella title track forte di un’interpretazione sopra le righe giocata su un falsetto ammiccante e contagioso e con il ritorno del sassofono di Bobby Keys.
Anche l’amore per il reggae ritorna prepotente in ‘Send It To Me’, a rafforzare la sbandata di Jagger per i ritmi in levare ben rappresentata nell’album BUSH DOCTOR (1978) di Peter Tosh dove i due duettano nel successo ‘Don’t Look Back’. I due episodi più particolari del disco sono l’atipico blues di ‘Down In The Hole’ con l'armonica di Sugar Blue e la ballata country con i fiati mariachi di ‘Indian Girl’, con l’arrangiamento di Jack Nitzsche e con un testo chiaramente politico che indagava tra la miseria dei paesi latinoamericani. Spetta invece a Keith Richards la chiusura del disco con una ballata scarna e malinconica dalla doppia interpretazione: c’è l’amore ma c’è una velata tirata d’orecchie al gemello Jagger, che mette in risalto un rapporto che stava incamminandosi verso i minini storici di sempre. Le litigate erano all’ordine del giorno.
“Una canzone non parla mai di una cosa soltanto, ma in questo caso, se proprio parlava di qualcosa, probabilmente era più che altro su Mick. Alcune frecciatine erano per lui. Era un periodo in cui mi sentivo profondamente ferito.” scrive Richards in Life, l'autobiografia.
 L’album fu premiato dal pubblico (prima posizione in UK e USA) ma presto dimenticato, dagli Stones in primis “Non portammo mai l’album in tour, forse perché troppo stanchi” dirà Wood.
A distanza di tanti anni EMOTIONAL RESCUE rimane un disco piacevole, poco omogeneo e aperto in mille direzioni, senza i grandi classici da ricordare ma perfetto per inquadrare cos’erano gli Stones in quel periodo. Un disco a cui sono molto affezionato: una delle mie prime cassette. Quando dico mie, intendo: scelte da me!



PUNTATE PRECEDENTI
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #21-NICOLETTE LARSON-Nicolette (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #23-ERIC ANDERSEN-Blue River (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #24-BADLANDS-Voodo Highway (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #25-GEORGE HARRISON-Living In The Material World (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA#26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH-Wind On The Water (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #29: STEPHEN STILLS (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #31: SUZI QUATRO-Suzi Quatro (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #34: EDOARDO BENNATO- Edo Rinnegato (1990)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #35: GENE CLARK-White Light (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #37: CAPTAIN BEYOND-Captain Beyond (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #38: ROD STEWART-Every Picture Tells a Story (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS-Bad To The Bone (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #40: THE ROLLING STONES-Their Satanic Majesties Request (1967)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH-Daylight Again (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #44: TERRY REID (River)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #45: JACKSON BROWNE-Running On Empty (1977)

 

domenica 17 settembre 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 45 :JACKSON BROWNE (Running On Empty)


JACKSON BROWNE  Running On Empty (Asylum Records, 1977)






C’è ancora tanta magia da scoprire lungo i solchi di RUNNING ON EMPTY. Anche se i solchi friggono, la puntina a volte salta e ti viene voglia di mettere su il CD, e l’immagine di copertina sul cartone lascia sempre più intravedere la forma circolare del vinile. Tutto mi parla di vita, di anni passati (e sono quaranta!), di tempi all’apparenza sbiaditi ma ancora scalpitanti, di una celebrazione (il concerto) che non ha ancora perso il suo fascino. Della vita che si trasforma in un lungo tour che sai quando inizia ma non quando finisce. Un neverending tour (Dylan la sa lunga!). Ci sono le strade e le grandi città, le stanze d’albergo e i tour bus, ci sono alberghi da tre stelle e motel pessimi, ci sono i palchi e i backstage, ci sono il sole accecante del giorno e l’oscurità silente della notte, ci sono la famiglia e le groupie, ci sono i sogni e le illusioni, ci sono il divertimento e la noia. C’è Jackson  Brown e che registra uno dei dischi live più potenti del rock senza bisogno di chitarre elettriche a palla e pubblico esaltato davanti. Un live fuori dall’ordinario, che prende vita ai margini del palco, nato per strada che racconta la strada, quella principale fatta di serate e pubblico ma soprattutto di strade secondarie, quelle meno battute dove si incontrano le storie più belle ma anche quelle più disperate. è la vita che presenta le sue due facciate, quella pubblica e quella privata. Qui ci sono entrambe. Jackson Browne è democratico nel dare spazio a sue composizioni: l’apertura con l’autobiografica ‘Running On Empty’, un classico all’istante, una folle corsa nel vuoto e nell’incertezza del futuro, il sesso facile in ‘Rosie’, una ballata al pianoforte, poi ancora ‘You Love The Thunder’, The Load-Out’, e brani scritti da amici tra cui spicca ‘The Road’ di Danny O’Keefe guidata dal violino di David Lindley, un inno che non ha ancora perso efficacia, una intima ‘Cocaine’ del Reverendo Gary Davis registrata nella stanza 124 di un Holyday Inn nell’Illinois in un caldo agosto del 1977 con quella sniffata finale che è più potente di un assolo, così come ‘Shaky Town’ di Danny Kortchmar che apre il lato B e l’ariosa ‘Love Needs A Heart’ scritta con l’amico Lowell George. Con ‘Stay’, cover datata 1960 di Maurice Williams And The Zodiacs si chiude il disco, e il falsetto di David Lindley le canta chiare: un invito al pubblico a restare, la vita mica finisce al calar del sipario… E’ la vita on the road di un cantautore ma è anche la mia, la tua, la nostra su questa terra. “Running On Empty/running blind/running Into The Sun/but I’m Running behind”


© Joel Bernstein, 1977


UNTATE PRECEDENTI
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #21-NICOLETTE LARSON-Nicolette (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #29: STEPHEN STILLS (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #31: SUZI QUATRO-Suzi Quatro (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #34: EDOARDO BENNATO- Edo Rinnegato (1990)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #35: GENE CLARK-White Light (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS-Bad To The Bone (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #40: THE ROLLING STONES-Their Satanic Majesties Request (1967)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH-Daylight Again (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #44: TERRY REID (River)




lunedì 11 settembre 2017

RECENSIONE: MOTÖRHEAD (Under Cöver)

MOTÖRHEAD   Under Cöver (Motörhead Music, 2017)
 
 
 
 
 
Qui dentro non c'è nessuna grande novità, almeno per chi ha sempre seguito la band di Lemmy. Undici cover recuperate e raccolte tra quelle realizzate dalla formazione più longeva a partire dal 1992 fino alla morte di Lemmy avvenuta il 28 Dicembre del 2015, solo pochi mesi dopo la pubblicazione dell’ultimo disco BAD MAGIC. Tutte canzoni che hanno trovato posto nei dischi ufficiali, in compilation e tributi vari. Tutte recuperabili facilmente. La nota negativa sta tutta qui: è il primo disco postumo, si poteva scavare di più tra gli inediti, ma ne sono certo, arriverà presto molto altro.
Tutte canzoni già edite meno una: ‘Heroes’ di David Bowie, l’unico vera novità mai ascoltata prima, una delle ultime registrazioni di Lemmy, Phil Campbell e Mikkey Dee, canzone che Lemmy adorava. Un’omaggio a Bowie che, ironia della sorte, morirà due settimane dopo Lemmy.
Così tra ‘Breaking The Law’ dei Judas Priest, ‘Cat Scratch Fever’ di Ted Nugent, c'è  pure quella ‘Hellraiser’ scritta da Lemmy insieme a Ozzy Osbourne e Zakk Wylde che insieme ad un’altra manciata di canzoni finì nell’album NO MORE TEARS di Ozzy “Feci più soldi scrivendo quelle quattro canzoni per Ozzy che in quindici anni di Motorhead” scriverà Lemmy nell’autobiografia La Sottile Linea Bianca. E poi ancora l’omaggio al primo punk inglese dei Sex Pistols (‘God Save The Queen’) e americano dei Ramones (‘Rockaway Beach’) anche se a riguardo Lemmy aveva le idee chiare “Sex Pistols furono una grande rock’n’roll band ma non molto più di questo. Tra l’altro diedi io delle lezioni di basso a Sid Vicious”. Si pesca tra gli amati Rolling Stones, presenti  con ben due canzoni (‘Jumpin’ Jack Flash’ e ‘Sympathy For The Devil’), un pensiero all'amico Dio con ‘Startruck’ dei Rainbow per l’occasione cantata da Biff Byford dei Saxon, ‘Shoot ‘Em Down’ dei Twisted Sister e una infuocata versione di ‘Whiplash’ dei Metallica (quando i Metallica facevano ancora i Motorhead).
Il disco scorre via in un batter d’occhio così come è sempre successo con i loro dischi. Lemmy scrisse:”Molti mi dicono:’Una volta ascoltavo i Motorhead’, con il sottointeso che, crescendo, non si può più. Bè sono felice che lo dicano perché non voglio dei fottuti adulti tra il mio pubblico. Sono sempre gli adulti che mandano tutto a puttane”. Quindi scegliete voi da che parte stare. Io mi sento ancora (relativamente) giovane.
 
 

 

 

mercoledì 6 settembre 2017

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Hitchhiker)


NEIL YOUNG Hitchhiker (Reprise records, 1976/2017)
 

 

 

1975-1976: come vivere dieci anni in due. Proviamo a ricostruire cosa furono quei due anni per Neil Young. Con ZUMA uscito nel 1975 aveva rimesso in moto i Crazy Horse, reclutando il nuovo Poncho Sampedro alla chitarra in sostituzione di Danny Whitten. Un disco sostanzialmente rock ("uno dei miei preferiti" dice Young) che gli fece riprendere fiato dopo l'apnea esistenziale che avvolse la personale trilogia oscura (TIME FADES AWAY, ON THE BEACH e TONIGHT'S THE NIGHT), tra i picchi assoluti della sua carriera. Nel mezzo registra altri due album: HOMEGROWN, che lo stesso autore preferì mettere da parte, per le tante debolezze presenti disse, a favore della forza e la coesione di Tonight's The Night. Homegrown è ancora inedito oggi e molto probabilmente vedrà  la luce per la prima volta con l'uscita del prossimo giro di archivi. L'altro fu CHROME DREAMS. Intanto arriviamo al Gennaio del 1976: Young è a Miami con Stephen Stills, i due iniziano a definire le canzoni che finiranno nel loro album LONG MAY YOU RUN. Un disco carico di tante aspettative a cui seguiranno più delusioni che vero successo. Il tour conseguente andò a rotoli dopo poche date e Stills si ritrovò da solo a portare a termine il tour e con il buon servito di Young in tasca ("Eat The Peach"). Il 25 Novembre Neil Young insieme a una formidabile schiera d'artisti partecipa a The Last Waltz, il concerto d'addio della Band. In mezzo a tutte queste cose però, l'11 Agosto del 1976, Neil Young prese il suo pickup, chiamò con sé il fidato David Briggs (collaboratore fin dal 1968) e l'amico Dean Stockwell e si diresse agli Indigo Ranch Studios.

 

© Henry Diltz, 1975
“Nel 1976 ero una furia e siccome avevo preso l’abitudine di scrivere diverse canzoni alla settimana, mi ritrovai ingolfato: avevo troppo materiale e poco tempo in studio. Registravo ovunque potessi farlo e mi muovevo velocissimo, finendo i miei dischi molto rapidamente…
Una sera io e Mister Briggs prendemmo Stretch (un
Pickup Dodge Wagon Crew Cab Long-bed del 1975 soprannominato Scretch Armstrong) e andammo al suo posto preferito, gli Indigo Ranch Studios. Con David passai la notte a registrare nove canzoni acustiche e completammo un nastro che intitolai HITCHHIKER. Era un’opera fatta e finita, nonostante io fossi piuttosto strafatto, come si può sentire da quelle performance. Con noi quella sera c’era Dean Stockwell, mio amico e grande attore con cui in seguito lavorai come co-regista di Human Highway. Dean rimase lì con me nella stessa stanza dove registrai tutte le canzoni di seguito, tranne qualche piccola pausa per l’erba, la birra o la cocaina. Briggs stava in sala e missava in diretta sul suo banco preferito.
Stretch era il mezzo perfetto per raggiungere l’Indigo Ranch, lo studio dove creammo moltissima musica in un brevissimo lasso di tempo suddiviso nell’arco di un anno. Per me e Briggs fu uno dei periodi più creativi. Quello studio si trovava molto all’interno tra le colline sopra Malibu. Era su una strada sterrata alla fine del Canyon, oltre la casa di Garth Hudson (il magico organista di The Band). Lasciammo un bel po’ di anima in quell’edificio quando, pochi anni dopo, fu raso al suolo da un incendio che distrusse anche tutte le attrezzature analogiche preferite da David. Le cause dell’incendio rimangono ignote”
Neil Young dall'autobiografia Special Deluxe


Poi il nulla fino ad Aprile di questo 2017, quando un indizio malandrino fatto uscire dal fotografo Gary Burden riportò interesse verso quel disco perduto: la stupenda copertina di Hitchhiker fece la sua prima comparsa sui social, mettendo in subbuglio i fan, me per primo. Qualche mese di conferme, date d’uscita smentite e tracklist ipotizzate in mezzo all’intensa e disordinata attività artistica di Neil Young fatta di nuove uscite e vecchi archivi sempre in dirittura d’arrivo. L'attesa è finita, dopo 41 anni quelle registrazioni sono state pubblicate ufficialmente questo 8 Settembre. Ci sono dieci canzoni, otto già conosciute e pubblicate in diverse versioni in dischi successivi: 'Pocahontas' che si apre con la frase "are you ready Briggs?", 'Powderfinger', 'Ride My Llama' finirono su RUST NEVER SLEEPS (1979), 'Human Highway' su COMES A TIME (1978), 'Captain Kennedy' su HAWKS & DOVES (1980), 'The Old Country Waltz' su AMERICAN STARS 'N BARS (1977), 'Compaigner' vide la luce nella sostanziosa raccolta DECADE (1977), mentre la scura 'Hitchhiker' che da il titolo al disco è una piccola biografia in musica tra confessioni di paranoia e droga "la confessione della mia progressiva storia  con le droghe assunte nel corso della mia vita" venne recuperata molto tardi nel sempre sottovalutato LE NOISE del 2010.

Fanno la prima comparsa su disco invece: la misteriosa ‘Hawaii’ con un inaspettato chorus in simil falsetto e tanti rumori in sottofondo, e ‘Give Me Strenght’ che ha il passo di un suo classico, già presentata live, dove Young canta di solitudine e di un amore finito male:
" I'm Ridin' down Swett road in my old car/The moon is almost full; I see thec stars shinin''/The party ended long before the night/She made me feel alive and that's alright"

Un disco intimo, caldo e brillante seppur con un velo di tristezza che spesso si adagia riportando alla mente gli stati d'animo dei due anni precedenti, che va a rimpolpare ("completare" non si può ancora usare) uno dei periodi più prolifici del canadese che sfodera la grandezza dei pochi di fronte alla spoglia (embrionale) esecuzione in acustico di dieci canzoni: voce, una chitarra,  un'armonica, più un pianoforte che compare nella finale 'The Old Country Waltz'. Aggiungete un po' di sana stonatura da sostanze e Hitchhiker è completo nella sua spartana incompletezza. Tutto qui? Tanto direi.
Un inizio d'autunno caldo per tutti gli amici di Neil. 
Per me è già il miglior disco di questo 1976.
★★★★ 1/2 (5)

Come il precedente PEACE TRAIL, i testi sono stampati in un foglio dalle dimensioni gigantesche, contenuto all'interno del solito digipack versione archivi (CD). All'interno un intenso primo piano in bianco e nero, mentre nel retro copertina brilla una bella foto di Neil Young a passeggio sulla riva del mare, preceduto di pochi passi dal fido cane. I passi porteranno verso la tranquillità di COMES A TIME.


© Henry Diltz, 1975


RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
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NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
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martedì 5 settembre 2017

il SI e il NO: PARADISE LOST (Medusa), QUEENS OF THE STONE AGE (Villains)


 PARADISE LOST-Medusa (2017)    SI ↑






Un lungo cerchio che si chiude. Con MEDUSA il gruppo anglosassone completa il lungo viaggio, partito nel lontano 1990, con il nero che ha raggiunto il suo apice subito in album come SHADES OF GOD, GHOTIC e ICON, colonne che saranno portanti per decine di gruppi che arriveranno dopo. Hanno attraversato varie fasi arrivando perfino a quel punto impensabile dove la melodia dominava sul resto, fino a raggiungere l’impossibile e toccare l’elettronica con il comunque bello HOST (1999) per poi ritornare lentamente sui loro passi. Con Medusa si ritorna a calpestare le radici, attraverso il sound scuro, doom, death e gotico (gli otto minuti d’apertura di ‘Fearless Sky’ mettono in chiaro tutto), lo stesso che caratterizzava i primi dischi. Nick Holmes ha ricominciato a ruggire e usare la voce growl più massicciamente, perdendo forse quella varietà che comunque piaceva, e il produttore Arellano ha riportato la giusta dose di grezza pesantezza (‘Blood & Chaos’). Ma i Paradise Lost non sono un gruppo che rinnega del tutto i passaggi più melodici della propria storia: ‘Medusa’ e ‘Symbolic Virtue’, infatti, si riallacciano a ONE SECOND (1997), il capolavoro indiscusso di metà carriera. Nulla di veramente nuovo ma una band ritornata per riprendersi i meriti guadagnati, poi dispersi, in trent’anni di carriera e che spettano loro di diritto.






QUEENS OF THE STONE AGE-Villains (2017)    NO ↓






 Ho ascoltato il nuovo VILLAINS con tutte le buone intenzioni e senza pregiudizi. Premessa: per me i QOTSA dopo SONGS FOR THE DEAF non hanno più azzeccato un disco intero, perdendo un po’ identità (a me sembra sempre più il progetto solista di Josh Homme) e la bussola grezza e pura dei loro esordi (quanto mi manca l'esuberanza punk di Nick Oliveri!), esasperando la ricerca di strade nuove e colpi a sensazione che hanno funzionato sporadicamente per alcune canzoni ma mai sulla lunga distanza di un disco, anche se l’ultimo ...LIKE CLOCKWORK aveva lasciato buoni segni per il futuro. Il futuro è arrivato! I grandi magazine ne parlano già bene, a volte benissimo (Mojo, Uncut, Classic Rock, Rolling Stones) ma a me questa deriva funk danzereccia con synth annessi (l’apertura ‘Feet Dont Fail Me’ parte dopo un lungo e inutile intro, ‘The Way You Used To Do’) che a tratti sembra strizzare l’occhio a gruppi nati già fotocopie come Killers e Franz Ferdinand non convince per nulla. Mi annoia. E non c'è nemmeno la voce di Mark Lanegan a salvare la baracca, vista la recente svolta New Wave di quest’ultimo. In alcune canzoni spuntano alcuni rimandi del disco che Josh Homme ha fatto con Iggy Pop (‘Domesticated Animals’), altro disco osannatissimo ma che mi lasciò freddo. Pure quello. E non c'è nemmeno la vecchia iguana nuda al microfono. No, nemmeno lui. Ecco: freddo è quello che i QOTSA mi danno a fine disco. Fortunatamente, non butto via tutto: mi piacciono lo psycho rock’n’roll schizzato di ‘ Head Like Haunted House’ e ‘The Evil Has Landed’, i rimandi a Bowie della finale ‘Villains Of Circumstance’. Poi lo so già: sarà un disco osannatissimo e io continuerò ad ascoltare R. Ecco: forse l’aver messo R nella chiavetta dell’autoradio immediatamente dopo questo nuovo disco è stato deleterio per tutti: disco e mio giudizio finale. Tutti contenti? No.





lunedì 28 agosto 2017

RECENSIONE: LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL (Lukas Nelson & Promise Of The Real)

LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL  Lukas Nelson & Promise Of The Real (Fantasy/Universal, 2017)





Si giocano bene le loro carte Lukas Nelson e i Promise Of The Real. Il quarto album è un bel viaggio panoramico sopra alla musica americana. Tranquillo, rilassato, piacevole e con tutta la sicurezza che solo un figlio d’arte che dall’età di 13 anni (ora sono 28) frequenta i palchi e i backstage musicali di tutti gli States, potrebbe avere. Se negli episodi più country, le ballate ‘Ju...st Outside Of Austin’ e la finale ‘If I Started Over’ sorrette da buonissime melodie da polvere di stelle, le radici con il leggendario padre sembrano uscire fuori prepotenti dal terreno, Willie Nelson è pure ospite alla chitarra nella prima, i momenti migliori si hanno quando l’ormai rodata squadra allunga il passo. I sette minuti dell’iniziale ‘Set Me Down Of a Cloud’ e gli otto di ‘Forget About Georgia’, scritta ricordando una relazione sentimentale giunta al termine, si giocano le carte soul (belle le sfumature della sua voce lungo tutte le dodici canzoni) e sparando qualche leggero fumo di psichedelia, buon lascito dell'esperienza in studio e live con zio Neil Young (già pronto un altro disco registrato a Malibu) che oltre ad aver portato visibilità in più, ha regalato tanta esperienza e nuovi "vecchi" trucchi. “Questo disco, più degli altri, cattura la nostra vera essenza di band”, dice Lukas.
Tra leggerezza (‘Breath Of My Baby’), buoni R&B (‘Die Alone’, ‘Four letter Word’), accenti southern (‘Carolina’), qualche episodio da vecchio west (‘Runnin Shine’) e il più duro affondo politico e sociale in ‘High Time’, canzone dal passo simile ai migliori Tom Petty And The Heartbreakers (anche la copertina ricorda molto da vicino THE LAST DJ di Petty), incuriosisce la presenza della pop star Lady Gaga ai cori in un paio di episodi (‘Carolina’ e ‘Find Yourself’). Niente che faccia gridare allo scandalo ma segno che Lukas Nelson e i Promise Of The Real pur componendo musica che di moderno ha poco (mi piace inquadrarla dentro la retta che da The Band passa per i CCWR e porta a Waylon Jennings, papà Willie e Kris Kristofferson), sono perfettamente sintonizzati nel loro presente.



RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD-Party Of One (2017)
RECENSIONE: JOHN MURRY- The Graceless Age (2013) A Short History Of Decay (2017)
RECENSIONE: RAY WYLIE HUBBARD-Tell The Devil That I’m Gettin' As Fast I Can (2017)


mercoledì 23 agosto 2017

RECENSIONE: RAY WYLIE HUBBARD (Tell The Devil... I’m Gettin' There As Fast I Can)

RAY WYLIE HUBBARD  Tell The Devil That I’m Gettin' As Fast I Can (Bordello Records, 2017)






“Se vuoi diventare un fuorilegge, figliolo, pensaci due volte” canta Steve Earle nel suo ultimo album. Il texano d’adozione RAY WYLIE HUBBARD (nato in verità in Oklahoma), uno degli ultimi rimasti, e tra i più dimenticati di quella straordinaria generazione che cambiò radicalmente la country music negli anni settanta, potrebbe confermare dall’alto dei suoi quasi 71 anni d’età. E’ un lavoro difficile, lasciate fare a me, sembra pensare dalla foto che lo ritrae in copertina. Da qualche tempo, poi, sembra averci preso gusto e sta sfornando dischi a ripetizione (4 negli ultimi sette anni) tutti toccati dalla buona ispirazione e con una decisa virata verso un suono più paludoso e dark rispetto al passato. In questo TELL THE DEVIL...I’M GETTIN' THERE AS FAST AS I CAN emerge fuori dal nero della copertina con un paio d’ali per volare sopra alla sua musica costruita come sempre sull’ossatura di un folk blues semplice, fangoso e misterioso ma sempre ficcante e pieno di simboli e rimandi: quando ulula come un lupo alla luna piena nell’omaggio a Howlin Wolf (‘Old Wolf’), quando cita l’album del trio folk Koener, Ray & Glover, BLUES, RAGS AND HOLLERS (1963) in ‘Spider, Snaker and Little Sun’, quando riesce a scrivere una canzone sull’accordatura della sua chitarra in ‘Open G’, condotta in solitaria. Seppure non sia un concept come lui stesso ha dichiarato in un’ intervista, le undici canzoni sembrano seguire un corso logico: partono con la genesi (la strisciante ‘Good Looked Around’ guidata dai battiti di mano) e finiscono con qualcosa che si avvicina al paradiso nella finale ‘In Times Of Cold’ dedicata al produttore dei suoi ultimi due dischi George Reiff, scomparso l’anno scorso a soli 56 anni.
In mezzo: tutto il suo straordinario immaginario fatto di polvere e deserti (‘Dead Thumb King’), fede e peccato (la cowboy song ‘Prayer’), stivali e serpenti striscianti, diavoli rossi tentatori, fantasmi (‘House Of The White Rose Bouquet’) e la sempre giusta dose d’ironia. Immancabile. Ray è il traghettatore che trasporta le nostre anime dal bene verso il male e viceversa. Folk blues minimale, quanto di più si avvicini alle murder ballads acustiche con qualche buon graffio elettrico (‘Lucifer And Fallen Angels’) portato in dote dal figlio Lucas ormai spalla destra affidabile e preziosa nelle due tracce che aprono il disco. Ma sono tanti anche gli ospiti questa volta: da Lucinda Williams e Eric Church nella title track che avanza pigra a ritmo di un country valzer dylaniano scaldato sotto il sole dei deserti, a Patty Griffin nella conclusiva e già citata ‘In Times Of Cold’ ai Bright Light Social Hour al completo  nella più variegata e psichedelica (moderna?) del lotto ‘The Rebellious Sons’. E se fino a qui avevate scelto Steve Earle come disco dell’anno americano, ora dovete fare i conti con il vecchio Ray . La lotta è dura, come si conviene a due veri outlaw.







RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD-Party Of One (2017)
RECENSIONE: JOHN MURRY- The Graceless Age (2013) A Short History Of Decay (2017)