martedì 8 agosto 2017

RECENSIONE: JOHN MURRY (The Graceless Age-2013/A Short History Of Decay-2017)



Dietro all’aspetto apparentemente pulito che traspare da alcune foto e video promozionali (‘California’), in controtendenza con l’imperante trasandatezza dei neo-folkers, e dietro a due occhi uguali ai cieli sopra alla sua Tupelo, il trentatreenne John Murry nasconde la sofferenza di un animo tormentato da demoni interni in perenne combutta per l’egemonia ed una classicità di scrittura da veterano del folk/rock. Un drogato di letteratura ed eroina: la prima, ereditata dallo zio premio Nobel e romanziere William Faulkner, è servita da ispirazione “ho letto veramente tanto senza un motivo reale, è come una dipendenza”, la seconda lo ha anche steso orizzontalmente.

Dopo WORLD WITHOUT END debutto distante sette anni in comproprietà con il vecchio folk singer Bob Frank, con THE GRACELESS AGE (2013) scrive un diario biografico estremamente crudo e analitico, quasi confessionale, dove folk, dimessa elettronica e squartanti aperture elettriche contribuiscono ad innalzare i livelli di pathos e redenzione che aleggiano sui testi. Canzoni dalla lunga e sofferta gestazione uscite nel 2012 ed ora ristampate, prodotte insieme a Tim Mooney, batterista degli American Music Club, scomparso poco prima che il disco vedesse la luce. Nei dieci intensi, fulgidi e drammatici minuti di ‘Little Coloured Balloons’, una ballata pianistica in bilico tra Bill Fay e Bruce Springsteen arricchita da parche orchestrazioni d’archi, esorcizza la morte e racconta la sua straziante esperienza “ho voluto esporre i miei demoni, il falso mantello che indossa ogni drogato…ho avuto un’overdose e sono stato clinicamente morto per alcuni minuti”. Un tunnel lungo, il suo, popolato dai tanti fantasmi delle terre del sud (‘Southern Sky’), gli stessi raccontati da Faulkner, dai buchi emotivi lasciati dalla dura infanzia segnata dall’adozione, dalle ferite di relazioni umane finite sempre male. Il tutto impresso sul retro delle stesse pagine scritte dallo Springsteen più oscuro e austero di ‘Nebraska’ e ‘Ghost Of Tom Joad’. Ma là dove Springsteen era osservatore attento e acuto di quegli angoli d’America dimenticati dalla grazia di Dio, Murry sembra essere un timido protagonista di quegli anfratti, ci sprofonda totalmente, lasciando sul suo taccuino, ora visibile a tutti, la sua inadeguatezza, il suo ostentato timore di non essere all’altezza di stare al mondo come canta in ‘If I’m To Blame’. Questa volta la musica ha lavorato a favore della vita. Chuck Prophet, ospite e amico sintetizza così: ”John ha fatto un disco, e ciò che stupisce è che ci sia riuscito nonostante se stesso”.
E in questo 2017, a cinque anni di distanza  esce un disco che si riempie nuovamente di tutte le cose che ha smarrito per strada: questa volta la famiglia. A SHORT HISTORY OF DECAY (TV Records, 2017) ripropone vecchie e nuove ferite sempre aperte e lontane dal cicatrizzarsi. A goderne è la sua musica anche se mi sento il dovere di dare un voto inferiore rispetto al precedente disco che vince per intensità e tragicità. John Murry continua a vivere con complessità e difficoltà i suoi giorni in questa terra tanto da avere costantemente bisogno di una guida spirituale che lo tenga per mano e lo incoraggi. Prima fu Tim Mooney, scomparso dopo le registrazioni di The Graceless Age, oggi è Michael Timmins dei Cowboy Junkies a tirare fuori il profondo disagio ma anche la limpida onestà di un cantautore che sembra guardare solamente dentro a se stesso senza fare troppi calcoli su ciò che gli gira intorno. Nato in poche settimane tra l'esilio in Irlanda e gli studi di registrazione di Timmins a Toronto con il basilare aiuto del fratello di quest'ultimo Peter Timmins alla batteria, Josh Finlayson al basso e i cori di Cait O'Riordan (Pogues). "E' stata una settimana di registrazione molto ispirata e molto intensa. Penso che abbiamo catturato l'essenza grezza di John nello scrivere e suonare" racconta Timmins a proposito della settimana di registrazione in Canada. Quello che ne è uscito è un disco più immediato musicalmente, costruito sulla semplice base rock blues ('Defacing Sunday Bulletins'), pizzicata dalla sporadica presenza delle tastiere come avviene nell'apertura 'Silver Or Lead', o dalla più massiccia presenza delle chitarre elettriche in 'Countess Lola's Blues (All In This Togheter)', mantenendo sempre in primo piano la sua voce greve e profonda, spesso doppiata da Cait O'Riordan. Piace l'acustica crudezza di 'Wrong Man' e il pianoforte di 'When God Walks In' che sembra riallacciarsi al precedente The Graceless Age. Chiude l'album 'What Jail Is Like', canzone degli Afghan Whigs di Greg Dulli, un altro che ha sempre saputo raccontare le ombre dell'amore e del sesso in modo unico e sublime. Il bello di John Murry è racchiuso in quel senso di incompiutezza esistenziale che rimane anche dopo numerosi ascolti di queste dieci canzoni, avvolte nella nebbia e smarrite in quel bosco verde che lo avvolge in copertina. Quel "...e domani come sarà?" che continua a girarti in testa all'infinito e ti fa continuare a vivere e a sperare in qualcosa di meglio nel futuro. 



RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD-Party Of One (2017)

giovedì 3 agosto 2017

RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD (Party Of One)

GEORGE THOROGOOD     Party Of One (Rounder Records, 2017)






acustico sì ma la pensione è lontana

Il disco che non ti aspetti. George Thorogood mette da parte la potenza elettrica dei suoi Destroyers e a sei anni di distanza da 2120 SOUTH MICHIGAN AVE. che omaggiava la vecchia etichetta Chess Records, tributa la musica tutta in solitaria come non aveva mai fatto prima: solo chitarra (ora le Gibson, ora la Hohner, Dobro, Gretsch Resonator), un’ armonica e la voce. A tratti come un vecchio bluesman di Chicago seduto davanti alla platea di un club fumoso, a volte come un navigato folk singer errante al Greenwich Village di New York, sempre con grande grinta e credibilità. Suoni veri, atmosfera intima e ottima scaletta. Un ritorno anche alla vecchia etichetta Rounder Records con cui aveva registrato i suoi primi tre album a partire dal 1977. A tal proposito dice: “covavo questo progetto da lungo tempo. Forse avrebbe dovuto essere il primo album che abbia mai fatto…ma penso che i fan dei Destroyers – e gli hardcore fan del blues siano pronti per l'imprevisto. Questo disco è quello che ero, quello che sono e quello che sarà sempre". Sfilano così i bluesmen da una parte, partendo da Robert Johnson (‘I’m A Steady Rollin Man’), John Lee Hooker (‘Boogie Chillen’, ‘One Bourbon, One Scotch, One Beer’ in una registrazione live e vecchio cavallo di battaglia con I Destroyers fin dai loro esordi), Willie Dixon (‘Wang Dang Doodle’), Elmore James (‘Got To Move’, ‘The Sky Is Crying’), e I folk singer dall’altra, la parte certamente più inusuale e particolarmente riuscita: Bob Dylan (‘Down The Highway’), Johnny Cash (‘Bad News’), Hank Williams (‘ Pictures From Life’s Other Side’), senza dimenticare gli amici Rolling Stones (‘No Expectations’) che fanno categoria a se. C’è chi passa ai suoni acustici con l’avvicinarsi dell’età pensionabile, Thorogood anticipa i tempi con questa parentesi riuscita che ci mostra un nuovo lato poco esplorato fino ad ora, pronto a riprendere le redini dei suoi Destroyers in qualsiasi momento. Più forte di prima.


RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)

  

mercoledì 2 agosto 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 40: THE ROLLING STONES (Their Satanic Majesties Request)

THE ROLLING STONES  Their Satanic Majesties Request (1967)







Keith Richards nell’autobiografia Life non la fa troppo lunga e taglia corto, definendo THEIR SATANIC MAJESTIES REQUEST una stupidaggine. “ Per buona parte di quell’anno compiemmo sforzi a vuoto per registrare Their Satanic Majesties Request. Nessuno di noi ci teneva, ma era giunto il momento di un altro album degli Stones, e Sgt. Pepper stava uscendo, così, sostanzialmente, pensammo di farne una caricatura”. Se all’uscita il disco venne sottovalutato e in parte frainteso e criticato, oggi, con buona pace di Richards si può considerare l’album più bizzarro, ricco di idee (anche se in alcuni casi solo abbozzate), spunti e passaggi che non trovarono mai più posto in nessun altro disco. Confuso ma certamente unico. “ Penso che ci stavamo semplicemente facendo troppi acidi” dirà Mick Jagger. Quella fantasia musicale che i maligni hanno sempre preteso dagli Stones durante la loro carriera è tutta racchiusa in queste dieci tracce: dall’onirica ‘She’s A Rainbow’ con l’arrangiamento d’archi ad opera di John Paul Jones e in perfetta linea con i gruppi psichedelici dell’epoca, a ‘In Another Land’ prima e unica canzone scritta e cantata da Bill Wyman, dalle suggestioni mediorientali di ‘Gomper’ con Brian Jones che si sbizzarrisce, al viaggio nello spazio di Mick Jagger in ‘2000 Light Years From Home’ che ospita pure le mani di un ancora poco conosciuto Eddie Kramer, dal cabaret di ‘On With The Show’ alla corale apertura ‘Sing This All Togheter’ (con i cori di Lennon-McCartney, così si diceva) che con le sue percussioni sembra anticipare la ‘Sympathy For The Devil’ che verrà, traccia ripresa in una sorta di free jam di otto minuti dove tutto sembra concesso, dal riff di chitarra piuttosto pesante di Richards in ‘Citadel’ che si fa strada in mezzo alle diavolerie di Brian Jones alla più stonesiana del lotto ‘2000 Man’ quasi profetica nel testo. Fortemente voluto dalla casa discografica per rimanere al passo con i tempi, il disco scritto per contratto diventa una provocazione, sembra quasi una presa per i fondelli verso chi della psichedelia ne faceva un’attitudine seria, e gli esempi in quel momento non mancavano. Tutto viene esasperato e ingrandito. La parentesi psichedelica dei Rolling Stones si chiude qui. Lontani dalle suggestioni dell’epoca, oggi sembra suonare tutto piacevole e godibile, da scoprire con curiosità, con almeno un poker di canzoni da ricordare. Alle mie orecchie naturalmente. Infine, c’è la copertina tridimensionale: “In compenso ci aggiudicammo la prima copertina 3-D di tutti i tempi. Frutto degli acidi, anche quella. Ci costruimmo il set da soli. Andammo a New York e ci affidammo a un ragazzino giapponese con l’unica macchina fotografica al mondo in grado di scattare in 3-D. Un po’ di vernice, un seghetto, pezzi di polistirolo…” scrive Richards.



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

lunedì 24 luglio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS (Bad To The Bone)

GEORGE THOROGOOD & the DESTROYERS      Bad To The Bone (1982)






1982. Certo, per noi italiani fu l’anno di Paolo Rossi ai mondiali di Spagna ma da qualche parte, sopra ai palchi disseminati lungo gli sterminati States, anche quello di George Thorogood che lo impiegò per raccogliere tutto il buono che riuscì a seminare l’anno prima. Dopo un tour di supporto ai Rolling Stones (periodo TATTOO YOU), lui con i suoi Destroyers (Billy Blough al basso, Jeff Simon alla batteria, più Ian Stewart al piano) nel frattempo rafforzati con il sax di Hank Carter, portarono a termine l’impresa di suonare 50 concerti in 50 sere (in verità ancora meglio: furono 51 concerti in 50 giorni). In quel 1982 guadagnarono un contratto con la EMI americana e la popolarità mediatica grazie all'ancora giovane MTV che si innamorò di ‘Bad To The Bone’ e il suo video, mandandola in heavy rotation. Lo stretto legame della canzone con i grandi schermi continuò per lungo tempo: da noi diventò la sigla del primo Blob di Raitre. “All’inizio era eccitante. Poi le case discografiche iniziarono a chiedere: ”bè, qual è il video?”. Quindi la gente ha iniziato a scrivere canzoni per i video. Non si potevano fare album senza video…” Canzone che rubacchiava il riff di ‘I’m A Man’ del maestro e amico Bo Diddley, ma aggiungeva la sua speciale formula fatta di alti volumi, sudore, esuberanza, semplicità e genuinità. La bar band perfetta. In verità in quel 1982- come nel restanti album fino ad oggi- non cambiò quasi nulla nel modo di concepire i suoi dischi, costruiti con i devoti omaggi, muscolosi e ipervitaminizzati al blues, gonfiati a dovere dalla sua fidata Gibson. Il suo stile torrenziale lascia poco alla mera tecnica, preferendo l'impatto e la potenza (da ‘No Particular Place To Go’ di Chuck Berry a ‘Nobody But Me’ degli Isley Brothers, da ‘New Boogie Chillun’ di John Lee Hooker a una dimenticata quanto particolarmente riuscita ballata come ‘Wanted Man’ di Bob Dylan) e canzoni scritte di suo pugno, la già citata ‘Bad To The Bone’, l’iniziale ‘Back To Wentzille’ e ‘Miss Luann’. Thorogood si dimostra ancora una forza della natura come pochi. Nulla è cambiato dalla seconda metà degli anni settanta (citazione speciale per MOVE IT ON OVER del 1978), quando uscì allo scoperto rispolverando le grandi canzoni dei padri del blues nero, bagnandole con il suo sudore e arricchendole di forza selvaggia intessuta di boogie e rock’n’roll strabordante, ricevendo anche il benestare dei suoi amati idoli (dai Rolling Stones a Bo Diddley) fino ai giorni nostri. In dirittura d’arrivo, uscirà in Agosto, il nuovo disco PARTY OF ONE per la prima volta senza i fidati Destroyers, ma leggendo la tracklist si può intuire che (forse) poco cambierà!

 
 

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
 

mercoledì 19 luglio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 38: ROD STEWART (Every Picture Tells A story)

ROD STEWART-Every Picture Tells A Story (1972)






Dopo la basilare gavetta con Jeff Beck, culminata con l’album TRUTH (1968) e in simultanea con l’avvio della nuova avventura The Faces- corta, sgangherata ma esaltante come poche-Rod Stewart da il via alla carriera solista. Se il debutto THE ROD STEWART ALBUM e il successivo GASOLINE ALLEY , pur ben accolti dalla critica, sembrano riscuotere più successo di pubblico oltre oceano che in patria, solo con il terzo EVERY PICTURE TELLS A STORY qualcosa cambia veramente. “ Stavolta ero davvero unicamente io a figurare come produttore: mi lasciarono gestire le cose da solo…Giunti alla terza occasione, i musicisti conoscevano bene il modo di suonare degli altri, e nella registrazione questo si sente”. Parteciparono alla registrazione: Mick Waller alla batteria, l’inseparabile Ron Wood alle chitarre e basso, Pete Sears al piano più una lunga sfilza di ospiti tra cui Martin Quittenton (coautore di ‘Maggie May’) alla chitarra acustica e Ian McLagan all’organo. Come i precedenti due dischi, le canzoni esaltano il lato roots (gran dispiegamento di strumenti acustici), folk-blues della sua voce calda e roca in contrapposizione con il lato più selvaggio e rock'n'roll che assumeva parallelamente nei Faces. Anche questo disco mischia cover tra cui ‘Tomorrow Is A Long Time’ di Dylan, ‘Reason To Believe’ di Tim Hardin e ‘(I Know) I’m Losing You’ dei Temptation e composizioni originali. “’Every Picture Tells A Story’, ‘Mandolin Wind’ e ‘Maggie May’, "un vago resoconto di quando persi la verginità in un incontro mordi e fuggi con una donna più grande di me al Beaulieu Jazz Festival nel 1961". E ‘Maggie May’, come sapete, cambiò ogni cosa.” ‘Maggie May’ fu scritta insieme al chitarrista Martin Quittenton “un ragazzo gentile, molto tranquillo e diligente con la fronte sempre aggrottata (e una fidanzata adorabile), che in quel periodo era il chitarrista più inventivo che avessi mai incontrato” registrata in sole due take con l’aiuto del mandolino di Ray Jackson dei Lindisfarne. “ Non avrei mai pensato che potesse diventare un singolo…Era senza ritornello. C’erano solo quelle strofe sconnesse. Non aveva niente di orecchiabile”. ‘Maggie May’ fu relegata come b side del singolo ‘Reason To Believe’ fino a quando un dj americano iniziò a passarla in radio. Nonostante i suoi cinque minuti di durata, fu un immediato successo che trascinò l’intero album in cima alle classifiche sia americane che inglesi. “Con mio enorme stupore, e non trascurabile orgoglio, di colpo avevo il singolo e l’album numero uno su entrambe le sponde dell’Atlantico. Era come un allineamento dei pianeti. Nessuno ci era mai riuscito prima: nemmeno Presley, nemmeno i Beatles”. Brani tratti da ‘Rod Stewart-L’autobiografia’.



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

lunedì 17 luglio 2017

RECENSIONE: LEE BAINS III + The Glory Fires (Youth Detention)

LEE BAINS III + The Glory Fires   Youth Detention (2017)







Là dove il debutto era un concentrato di southern/swamp rock caricato a salve da accecanti, limpide e calde striature soul distribuite anche lungo tranquille camminate nel country, nel secondo disco, anche se pasticciato in produzione, venivano lucidate a dovere le canne dei fucili, pronte per sparare una raffica di tosto e spavaldo garage rock, sporco proto punk-i fumi da polvere da sparo di Stooges e MC5 apparvero ad intossicare in continuazione-con chitarre sature di fuzz e feedback, in questo terzo disco YOUTH DETENTION si prosegue su quella strada minata e pericolosa. Tanto da non sembrare nemmeno la stessa band di quell'esordio. Le chitarre di Andy Wallace davanti in prima linea, la voce e i testi-che contano- di Lee Bains immediatamente dopo, in lotta per catturare la scena attraverso strofe pesanti e taglienti di denuncia sociale dedicate, come scritto nei credits, a tutta la valorosa gioventù americana che ha combattuto per i propri diritti indistintamente dal colore della propria pelle, dal sesso e classe sociale. Per non sentirsi straniero nella propria terra, per combattere per la libertà: motti che qualcuno potrebbe scambiare per anacronistici ma purtroppo sempre validi a certe latitudini. Pochi ricami e tanta furia, il messaggio prima di tutto. Si parte dalle ingiustizie presenti dai bassifondi della loro Birmingham (Alabama) e si amplia il discorso a livello nazionale verso i piani più alti. Potrebbe bastare l’ascolto della belluina doppietta piazzata a metà disco, formata da ‘I Can Change!’ e ‘The City Walls’ per capire gli intenti barricaderi della band. 17 canzoni, infarcite di slogan nati dal basso, per poco meno di un’ora dove i momenti di calma si riducono giusto a un paio, tra cui l’acustica ballata dagli umori sudisti ‘The Picture Of A Man’. Lee Bains è incazzato e ha tanti buoni motivi per esserlo ma poche band americane hanno il loro coraggio in questo momento.





RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
  

giovedì 13 luglio 2017

RYAN ADAMS live@Anfiteatro Del Vittoriale, Gardone Riviera (BS), 12 Luglio 2017

Già da alcune foto e un filmato postati nel tardo pomeriggio nel profilo instagram dallo stesso RYAN ADAMS, si poteva capire che il Vittoriale di Gardone Riviera gli andasse a genio. Come dargli torto? Posto incantevole, acustica giusta e senza pecche, visuale perfetta. Aggiungo: tramonto e luna sul lago di Garda, lì appena dietro il palco. Era lecito, quindi, aspettarsi qualcosa in più rispetto a quanto offerto la sera prima a Roma. I racconti di chi c'era non sono stati entusiasmanti. Così è stato. Non tanto nella scaletta e nei suoni che testimoniano l’amore e la fedeltà nei suoi due ultimi lavori in studio RYAN ADAMS e PRISONER ('Outbound Train' e 'Trouble' tra le mie preferite): per me un aspetto positivo e vero giudice per tastare un artista con più di quindici album in carriera che non ha nessuna intenzione di vivere nel passato, quanto nel modo di affrontare il pubblico, con un piglio che mixa insieme arroganza, dietro cui si cela una latente fragilità emotiva e tanta timidezza, e spensierata giocosità da eterno fanciullo. Ryan Adams si veste come noi ai concerti e potrebbe essere quello al tuo fianco se ti volti: t-shirt dei suoi gruppi metal preferiti (anche se stasera indossa una delle sue magliette), jeans e scarpe da ginnastica. Ecco che quel inquietante gattone nero incappucciato che ogni tanto sbucava fuori dalle retrovie con un tamburello in mano, che unitamente agli ampli giganti richiamano il Rust Never Sleeps tour di Neil young, diventa il suo alter ego aizzatore di folla che gli permette di starsene quasi sempre in seconda fila a comandare la giovanissima band e essere giudice nel bene e nel male della serata. Dai divertenti siparietti con i musicisti al cazziatone iniziale, con quasi espulsione, rivolto a qualcuno in prima fila che smanettava troppo con il cellulare, fino a captare gli assist del pubblico trasformandoli in musica: un blues improvvisato (‘Walter Grey’) e poi rispolverare la chitarra acustica facendoci capire che la sua anima folk, tanto cara ai die hard fan della prima ora, è ancora viva e necessita solo di essere spronata quel giusto (‘English Girls Approximately’ è un piccolo gioiello). Ed è già tanto. La serata è vissuta di due momenti ben distinti, l'inizio sparato senza soste a presentare gli ultimi due album dal taglio rock chitarristico ma tanto inclini al pop, album saccheggiati per bene durante tutta la serata, una parte centrale dominata da una 'Cold Roses' jammata fino a raggiungere territori psichedelici, immediatamente seguita da una veloce scheggia punk tratta dal personale tributo alla scena hardcore americana degli anni 80 ('When The Summer Ends') e una seconda parte molto più sciolta, improvvisata e dilatata dove il genio musicale di Adams è venuto allo scoperto senza più timori, scavando anche nel passato.
Il bel finale sulla tirata di 'Shakedown In 9th Street' lo vedete nella foto qui sotto e non ha bisogno di troppi commenti.







SETLIST
Do You Still Love Me?/Gimme Something Good /Am I Safe/Stay With Me/Outbound Train/Prisoner/Let It Ride/Juli/Doomsday/When the Stars Go Blue/Anything I Say to You Now/Cold Roses/I See Monsters (plus Cold Roses reprise)/When the Summer Ends/This House Is Not for Sale/I Just Might /Two/English Girls Approximately/Walter Grey/Halloweenhead /Sweet Illusions /Everybody Knows /New York, New York /To Be Without You /Trouble /Shakedown on 9th Street


mercoledì 5 luglio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 37 : CAPTAIN BEYOND (Captain Beyond)

 
CAPTAIN BEYOND   Captain Beyond (Capricorn Records, 1972)





Potessi riscrivere la storia del rock, o almeno una piccola parte, darei al debutto dei CAPTAIN BEYOND un posto meritevole, lì tra i grandi dischi hard rock (o semplicemente rock) più influenti e da ricordare degli anni settanta. Copertina compresa. I Captain Beyond prendono forma all’indomani dall’uscita di METAMORPHOSIS, quarto album in studio degli IRON BUTTERFLY, un disco diverso e importante per i cambiamenti in formazione e per le nuove strade imboccate, ma come tutta la discografia della band di San Diego schiacciato sotto l’imponenza di un brano monstre come ‘In-A-Gadda-Da-Vida’, uscito qualche anno prima, in grado di diventare un tutt’uno con la band e mangiarsi tutto il resto. Il consolidamento della formazione con due nuovi chitarristi al posto del dimissionario Eric Braunn, paradossalmente, porterà il bassista Lee Dorman e il chitarrista Rhino Rheinhart a cementare la loro intesa fuori dal gruppo madre, dando sfogo alle loro intuizioni musicali con questa nuova e indefinibile creatura. Si uniranno il batterista Bobby Caldwell, che ricordiamo negli And di Johnny Winter e il cantante Rod Evans, in cerca di riscatto negli States dopo i primi dischi registrati come voce dei Deep Purple e la successiva cacciata. La musica dei Captain Beyond è difficilmente etichettabile: una miscela magica di riff hard rock, planate nello space rock, progressioni strumentali, intermezzi acustici e arpeggiati, funanbolismi psichedelici. Un monolite di 35 minuti che se non fosse diviso in 13 tracce che si inseguono con continui rimandi in un gioco di suadente complessità, potrebbe essere preso come un blocco unico e andrebbe bene ugualmente. La chitarra di Rhino ama dividersi tra Jimi Hendrix,. Santana e Tony Iommi, la batteria e le percussioni di Coldwell sono fantasiose e mai banali, il basso di Dorman batte forte, mentre la voce di Evans declama testi che spesso si perdono tra le galassie. Complicato citare le canzoni, visto l’unitarietà del disco, per cui ne scelgo una per tutte da esempio: la sfacettata e multicolore ‘Thousand Days Of Yesterdays’. Creativa, eterea, visionaria, potente, raffinata e sognante, la musica dei Captain Beyond lascia sempre il segno. Senza tempo. Uscito per la Capricorn e dedicato a Duane Allman scomparso da poco ( fu lui a farli firmare per la prestigiosa etichetta che però, bisogna dirla tutta, non li sostenne mai a dovere), in verità il disco ha poco da spartire con il southern rock, candidandosi, invece, a diventare un punto fermo per la generazione stoner californiana, gravitante intorno ai deserti di Palm Springs a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta.


 
 

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

giovedì 29 giugno 2017

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES (To The Top)

BLACKFOOT GYPSIES    To The Top (Plowboy Records, 2017)




Le cose si fanno bene o non si fanno. Anche quando le cose odorano di vecchio, stantio e si presentano polverose e derivative. I BLACKFOOT GYPSIES da Nashville, nati inizialmente come duo, giunti al terzo disco diventando quattro, lo sanno bene e alle note vecchie e arrugginite aggiungono una buona dose di carica, ad...renalina e un pesante colpo di spugna fresca, tanto da far apparire tutto come nuovo e scintillante. Così se mentre faccio girare queste quindici ruspanti tracce (per 60 minuti) pensando ai Kinks (‘I’M So Blue’), a Chuck Berry (‘Promise To Keep’), a Bo Diddley (Gypsies Queen), al Bob Dylan (“ci piace molto Dylan” confessano) più rurale legato a The Band (‘Woman Woman’,’Potatoes And Whiskey’, il country walzer ‘Velvet Low Down Blues’ è dedicata a Lou Reed -“siamo tutti grandi fan di Lou Reed e dei Velvet Underground. Questa canzone è per Lou Reed ed è stata scritta il giorno dopo la sua morte”- ), senza riuscire a tenere fermo il piedino, loro avranno già portato a casa la partita e mi allungano un bicchiere di vino per darmi il benvenuto nella loro personale American Church of Rock’n’Roll. Cheers! Il frontman Matthew Paige alla chitarra e voce, Dylan Whidow al basso, il nuovo acquisto ma veterano della scena di Nashville Ollie Dogg all’armonica, Zack Murphy alla batteria sanno come divertirsi con il blues (‘I’ve Got The Blues’), il funk con quei cori viziosi alla Rolling Stones (‘Everybody’s Watching’), il garage marcato Detroit style con le chitarre elettriche davanti (‘I Wanna Be Famous’, 'I Had A Vision'), il New Orleans sound con tanto di fiati (‘Back To New Orleans’), il southern rock vitaminico caro ai primi Black Crowes (‘Can I Get A Warning’) e lo fanno registrando in presa diretta come fosse un concerto piazzato dentro a un festival a cavallo tra i sessanta e i settanta. A proposito di live: lì sembrano dare il meglio, lo confermano le date negli Stati Uniti in apertura a Alabama Shakes e Drivin’ N’Cryin. Non ci si stanca nemmeno per un secondo. Potrebbe sembrare una botte troppo ricca e dispersiva, ma questo vino è troppo buono per lasciarlo diventare aceto!





RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

 

martedì 27 giugno 2017

RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES (So You Wannabe An Outlaw)

STEVE EARLE & THE DUKES  So You Wannabe An Outlaw (Warner Bros, 2017)
 
 
 
 
 
 
Recentemente Billy Joe Shaver e Willie Nelson hanno cantato in coppia una canzone dal titolo 'Hard to Be an Outlaw'. Un piccolo manifesto dedicato a una generazione di ribelli che sta piano piano scomparendo.
Steve Earle è uno dei pochissimi che può prendere in prestito quel “fuori legge” senza sfigurare, anzi, ci è dentro con naturalezza e pochi sforzi. "Questi artisti non facevano quello che dicevano loro le case discografiche"  racconta Earle in una recente intervista. Con certi personaggi ci è cresciuto, fianco a fianco, ha visto nascere dischi importanti degli anni settanta. "Si tratta solo di riconoscere da dove provengo" ha detto. Sono stati i suoi primi maestri, tanto che GUITAR TOWN, il suo primo disco solista batteva già quelle strade. In So You Wanna Be An Outlaw rende loro omaggio, così come nel precedente TERRAPLANE rese omaggio al blues. C'è Willie Nelson che duetta nella title track, c'è il fantasma di Waylon Jennings che si aggira continuamente, c'è una stupenda canzone acustica ‘Goodbye Michelangelo’, dedicata a Guy Clark, che chiude il disco in modo sublime. In mezzo ci sono anche belle chitarre rock ("ci sono cose di rock piuttosto duro, ma credo sia un disco country"), la sua Telecaster '66, ('The Firebreak Line', If Mama Could Seen Me', 'Fixin’To Die'), ariosi percorsi country folk ('News From Colorado'), ci sono strascichi del recente divorzio dalla moglie Allison Moorer, l’ennesimo, ci sono Miranda Lambert e Johnny Bush (Walkin in LA) come ospiti, ci sono i fedeli Dukes ad accompagnarlo. Ci sono strade, luoghi, chilometri, sbarre e sbagli di una vita. Poi alla fine piazza un poker di cover, riprendendo canzoni di Billy Joe Shaver, Willie Nelson, Waylon Jennings, per ribadire il concetto: è dura essere un fuori legge. Non per lui. Naturalmente.
 
 
 

domenica 25 giugno 2017

NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS live@Parco Estivo PalaBrescia, 23 Giugno 2017



NORTH MISSISSIPPI ALLSTARS live@Parco Estivo PalaBrescia, 23 Giugno 2017

 La manifestazione si chiama “dal Mississippi al Po”, anche se stasera bagna Brescia, ma durante il lungo tragitto qualche volantino che pubblicizzava l’evento dev'essere caduto in acqua senza arrivare a destinazione. Peccato. La prossima volta occorre più pubblicità! Eravamo in pochi nell’area esterna del PalaBrescia dove, a sorpresa, tirava un’arietta fresca dopo l’insopportabile calura del giorno. Pochi ma buoni come si dice. Così come pochi sopra al palco sono i North Mississippi Allstars. Tre: la chitarra e voce, e che chitarra, di Luther Dickinson e due batterie, tra cui quella dello straordinario e simpatico fratello Cody, all’occorrenza alla seconda chitarra per un paio di pezzi ('Deep Ellum'), voce e poi con una mano imprestata alle tastiere e quant’altro quando necessario.
“Abbiamo fatto il disco on the road: abbiamo registrato un po’ di ore a Brooklyn, un po’ a New Orleans, un po’ a St. Louis, una giornata al Royal Studios a Memphis”. Così Luther Dickinson ha presentato le genesi del nuovo disco PRAYER FOR PEACE, il primo su major, durante una recente intervista. Un disco blues nato per le strade che non ha impiegato molto a intrufolarsi e mimetizzarsi dentro a quello che ai fratelli Dickinson riesce meglio da sempre: suonare live. Come potrebbe essere diversamente per due persone cresciute a fianco di una leggenda della musica americana come il padre Jim? Live dove ipnotica energia, e qui la geniale trovata delle due batterie gioca un ruolo importante (imponetene il sempre sorridente Brady Blade) rispetto per la tradizione (anche se non manca quel tocco di innovazione che li ha sempre distinti- ecco ‘You Gotta Move’) hanno accompagnato quella straordinaria gioia di suonare che traspare ad ogni loro movimento. Un’intesa tra fratelli che va aldilà dei vent’anni di carriera musicale, dei dischi fatti, della bastarda miscela tra cover e pezzi propri, dell’importante e lungo curriculum accumulato, e che a conti fatti vince su tutto. Straordinario il finale con il rompete le righe (pubblico finalmente in piedi davanti al palco) e Luther Dickinson alle prese con la piccola chitarra artigianale costruita con un barattolo di pelati, due corde e un bastone. Il mio momento della serata: la jam tra ‘Hear My Train A-Comin’ e ‘Mistery Train’.