lunedì 13 luglio 2015

BUSCADERO DAY Pusiano (CO), 11 Luglio 2015 (JAMES McMURTRY, DAVID CORLEY, CHRIS JAGGER, BOBO RONDELLI, BOCEPHUS KING...)


James McMurtry
Il primo impatto con il parco comunale di Pusiano ha lo stesso effetto di un piatto che cade dalla credenza: sorpresa e rumore che passano in un attimo. E' tarda mattina quando il padrone di casa Andrea Parodi (organizzazione impeccabile) cazzia duramente un ambulante di vinili, reo d'aver piazzato il gazebo nel posto sbagliato. Viene chiamato in causa anche il sindaco, si alzano in aria parole ma tutto si sistemerà in breve tempo. Ad ognuno il proprio posto. Chi invece si trova a proprio agio in qualunque luogo venga messo è il canadese Bocephus King, vero prezzemolo della giornata. A lui l'onore di aprire la mia maratona musicale tra i due palchi allestiti al Buscadero Day di quest'anno. Non più piatti che cascano ma portate prelibate servite su piatti che brillano come l'argento, ma alla portata di tutti. Dategli una canzone e la farà sua, dategli una chitarra e vi intratterrà per ore. L'attacco con Jokerman di Dylan è subito delizia, Is Your Love In Vain da Street Legal, album che ama (amo) follemente è straordinaria. Yellow Submarine è un siparietto divertente e simpatico. Nel Bodo Acoustic Corner, ricavato sotto la tettoia a ridosso dei tavoli adibiti per pranzo e cena (ottimi prezzi!) ci si ripara dai raggi solari in una atmosfera intima e raccolta, si ritrovano amici e se ne conoscono di nuovi. Ci sono anche piacevoli sorprese: a fine set la giovanissima Alice Pisano (ne parlerò dopo) si unisce a Bocephus King per un altro omaggio a Dylan.

Bocephus King

Matt Waldon
Il sole batte forte, invece, quando sul Main Stage sale Matt Waldon con la sua band per un set elettrico con le chitarre piazzate davanti a tutto che raggiungono il culmine nell'omaggio finale all'ultimo Tom Petty con American Plan B. Waldon presenta anche tre nuove canzoni che sembrano dare un indirizzo ben preciso al prossimo album. Vedremo.
Cerco l'ombra nel parco, trovo l'erba e mi ci sdraio, sento i concerti della Gabriele Scaratti Band e Salutumana da lì. La siesta pomeridiana con la musica in sottofondo è quasi rigenerante. Mi alzo per i Fireplaces di Caterino Washboard Riccardi, uno che ha trasformato i famosi quindici minuti di popolarità (ormai sapete tutti in quale palco è salito munito di washboard, vero?) in una buona opportunità per far girare la sua musica. Il gruppo, che per l'occasione è arricchito dalla chitarra di Anthony Basso (W.i.n.d.), è un ruspante trattore di campagna che ara i campi del rock'n'roll/folk/blues, sì rock'n'roll/folk/blues può andare: chitarre e chitarristi molto seventies, attitudine da bluegrass band di campagna e Caterino che dirige i suoi "caminetti" come un piccolo Boss del Brenta. La dedica del brano Shelter From The Storm (anche titolo del loro CD) ai poveri alluvionati vittime del recentissimo uragano che ha colpito il Veneto fa loro onore.
The Fireplaces

Me Pek e Barba
Quando sale sul palco la numerosa combriccola dei Me Pek e Barba, il sole ha allungato i suoi raggi ancora di più, occupando tutta l'area del pubblico. I parmensi suonano un Irish Folk contagioso dove antiche tradizioni, costumi popolari, attualità e letteratura si fondono bene insieme e l'ultimo album uscito Carta Canta (di cui parlerò presto) è una bella, curata ed ambiziosa sfida lanciata sul mercato.
Intanto nell'angolo acustico, Cesare Carugi, armato di sola chitarra, cuce il folk/rock americano al suo passaporto italiano come farebbero le buone massaie di una volta alle prese con dei pantaloni bucati sulle ginocchia. Ago e filo resistente che durerà almeno un'altra vita. Carugi presenta anche nuovi brani che usciranno nel prossimo disco (2016?), seguito del già ben accolto Pontchartrain (2013). Segue Alice Pisano, cantautrice che di anni ne ha solo venti, e di vita ne ha ancora molta davanti, ma è determinatissima: fa la spola tra Londra e la Toscana con la musica ben in testa. Sa quello che vuole, la sua musica preferita (l'EP di debutto si intitola Something Good) è quella giusta e con un po' di gavetta ben fatta potrà togliersi belle soddisfazioni. Intanto nella due giorni di concerti al Buscadero Day ha tanti spazi per farsi conoscere. A fine set, Bocephus King ricambia il favore e duetta con lei in Landslide dei Fleetwood Mac.
Cesare Carugi
 
Alice Pisano
Richard Lindgren
Lunghissimo il soundcheck per lo svedese Richard Lindgren  accompagnato da un trio con tanto di sax. Le sue tastiere hanno poca voglia di suonare o semplicemente stanno soffrendo anche loro il caldo. Si perdono minuti. Il suo ultimo album Sundown On A Lemon Tree con titolo dedicato alla Liguria, il cappello da gondoliere veneziano e immediata citazione del prosecco bevuto a pranzo la dicono lunga sul carattere e sull' amore incondizionato per l'Italia. Lui sembra alticcio, ma la voce non da tutti e le canzoni arrangiate, stasera, in modo gentile e soffuso sono giuste per accompagnare il veloce pranzo della sera.

Bobo Rondelli & Bocephus King
Tra i concerti più divertenti, ma non vi erano dubbi, c'è quello di Bobo Rondelli. Partenza in sordina e finale scatenato insieme al prezzemolo Bocephus King che pare appena uscito dal set di Jesus Christ Superstar. Un omaggio sgangherato al rock'n'roll a cui si uniscono i musicisti della Chris Jagger Atcha Band. Una jam divertente che conclude un concerto improvvisato ma quasi perfetto con tanto di apparizioni di principesse e polemica che pare quasi una messa in scena creata ad hoc: uno spettatore gradisce poco il linguaggio colorito del toscanaccio, ma evidentemente lo conosce solo poco. Rondelli ci sguazza.
Bobo Rondelli
 
Chris Jagger
Come sarà stata la vita di Chris Jagger? Almeno cinquant'anni li avrà passati a rispondere a domande sul fratello. A vederlo gigioneggiare sul palco con la sua Atcha Band sembra divertirsi un mondo mentre suona canzoni imbevute di cajun, folk inglese, country americano e rock'n'roll che a volte attaccano come fossero delle riuscite b-sides dei parenti stretti Stones. Un divertente aperitivo per il sopraggiungere della serata e una delle scalette meglio riuscite della giornata.
David Corley
La prima grande attesa della serata è per il cantautore americano David Corley. Corley arriva dall'Indiana ed è un composto e onesto lavoratore del rock giunto al debutto Available Light-osannato dalla stampa straniera- in tarda età, dimostrazione che i treni possono passare anche in ritardo...ma passano. Ballate profonde e sporcate di polvere, narrate con quella voce roca che spesso chiama in causa il fantasma di Lou Reed. A mio avviso mancano ancora un tocco di personalità, maggiore versatilità di scrittura e perché no: la canzone che possa fare da traino. Ma il ragazzo (53 anni) è al debutto ed ha ancora tanta strada davanti a sé.
David Corley
James McMurtry
Alle 22, James McMurtry cala per la prima volta in Italia, in solitaria. I suoi piccoli romanzi americani tradotti in musica (è pur sempre figlio del premio Pulitzer Larry McMurtry) vivrebbero bene anche con le sole parole scritte su un foglio. Stasera manca l'impianto elettrico di una band per rendere il tutto più fruibile e scorrevole ma le sue storie escono ancora più forti per chi mastica bene l'inglese. Cappello calato in testa, sapienti dita sulla chitarra, piccoli occhiali, capelli ricci e lungo pizzetto bianchi, serio, onesto e concentrato così come abbiamo imparato a riconoscerlo negli ultimi anni. Lo sfondo è però lo stesso che campeggiava nel suo debutto Too Long In The Wasteland del 1989 che gli fu prodotto da John Mellencamp: un paesaggio terroso, spoglio e silenzioso, una lunga strada diritta senza fine e nessun segno di vita nelle vicinanze.
McMurtry ha appena rilasciato un disco, Complicated Game, il nono della sua carriera, con poche pecche e tanti alti, perfettamente in linea con tutta la sua carriera. Niente per cercare il facile consenso, ma tutto per proseguire l'eredità lasciata dai grandi cantautori texani dei '70, anche nel riconoscibile timbro vocale vibrato e parlato. Stasera è esattamente così: silenzioso, spoglio e diritto per la sua strada, e non si può non volergli bene.

James McMurtry
James McMurtry

 
vedi anche:
RECENSIONE: CESARE CARUGI- Pontchartrain (2013)
RECENSIONE & INTERVISTA: MATT WALDON-Learn To Love (2014)
RECENSIONE: ME PEK & BARBA-Mé, Pék e Barba 2003-2013 (2013)



giovedì 9 luglio 2015

RECENSIONE: EILEN JEWELL (Sundown Over Ghost Town)

EILEN JEWELL  Sundown Over Ghost Town (Signature, 2015)

 
 
 
 
Se siete soliti frequentare le strade della musica americana, nell’anno 2014 avrete sicuramente osservato un pesante truck  sfrecciare con disinvoltura tra gli altri veicoli che parevano fermi: era Lucinda Williams con il suo perfetto Down Where The Spirit Meets The Bone, più che un faro per molte cantautrici in erba. Eilen Jewell  potrebbe essere un mini van, ben equipaggiato per cercare di tenere testa  a chi le sta davanti, e l’età, seppur non più giovanissima, potrebbe giocare a favore (classe 1979), anche se nel piedistallo degli artisti preferiti campeggiano  anche Bob Dylan, Loretta Lynn (a cui dedicò un album nel 2010, Butcher Holler)e soprattutto Billie Holiday. Nativa di Boise nell’Idaho, a sette anni prende le prime lezioni di pianoforte, a quattordici impara a suonare la chitarra come autodidatta, facendosi  le ossa suonando nelle sempre affollate fiere contadine, poi spostandosi di città in città, da Santa Fe nel New Mexico dove studia, passando per Los Angeles e Boston, città dove prende forma  l’attuale band che la accompagna e tra le cui fila milita il marito e batterista Jason Beek. La strada diventa sempre più importante nella sua vita e fonte d’ispirazione per la scrittura ogni giorno è un nuovo campo di battaglia, una nuova avventura. Ci sono un sacco di sfide. È faticoso. Anche quando è davvero divertente e bello, è comunque faticoso. Sono davvero innamorata della strada. Sono inquieta, quando non sono sulla strada. La versatilità di scrittura è una buona arma usata a dovere “un mix di blues, rockabilly, country, folk...tutte le cose americane con un po' di jazz qua e là. È la classica musica americana, nel senso che è una miscela di tutte le radici musicali”.
Sundown Over Ghost Town è il settimo album della sua carriera, un racconto personale ma quasi cinematografico nel suo incedere, nato durante il ritorno a Boise dopo un decennio di assenza è un album molto autobiografico. Racconta più storie vere di tutti i miei altri dischi ”.
I tocchi lievi di My Hometown accarezzano la tranquillità di casa in contrapposizione ai brutti avvenimenti  accaduti in una scuola elementare di  Newtown (un assassino fece 27 vittime) non riuscivo a smettere di pensare a tutti quei bambini innocenti e la grande perdita che stavano subendo le loro famiglie, tutti a causa di insensato atto di violenza di un giovane uomo. Allo stesso tempo, stavo realizzando quanto ero felice di essere a casa, di quanta gentilezza  mi circondava”. Rio Grande è una western song ma nata in pieno inverno durante una nevicata e impreziosita dalla tromba mariachi dell’ospite Jack Gardner, mentre Songbird che chiude l’album, è l’omaggio folk alla nascita della figlia Mavis (come Mavis Staples), ultima gioia di una vita ora tranquilla e una carriera in crescendo. (Enzo Curelli)  da CLASSIX! #44 (Giugno/Luglio)

 


lunedì 6 luglio 2015

RECENSIONE: LORD HURON (Strange Trails)

LORD HURON STRANGE TRAILS (Iamsound Records, 2015)




Western dei tempi moderni
Quando Ben Schneider ha deciso di tramutare il suo progetto solista in una vera e propria band, aveva in mente un progetto ben preciso. Ora è tutto più chiaro. Gli indizi del precedente ’Lonesome Dreams’, uscito solo nel 2013 sono ampliati, smussati e pure arricchiti: l’incontro tra l’indie folk/rock (Fleet Foxes e My Morning Jacket, i riferimenti) e i temi western che impregnano le canzoni è un flusso continuo, adatto per quei viaggi interminabili che non prevedono una meta precisa. Viaggiare per il piacere di viaggiare: di giorno sotto il sole accecante, La Belle Fleur Sauvage è un treno che attraversa i grandi spazi come farebbe Johnny Cash sopra ad una vecchia locomotiva a vapore e se avesse una barba da neo folker, e di notte attraversando le tentatrici inquietudini e le asprezze del buio (The World Ender). Ancora in ombra rispetto ad altri compagni di viaggio contemporanei ma con tutte le carte in regola per meritare le stesse attenzioni. (Enzo Curelli)   da CLASSIX! #44 (Giugno/Luglio)







giovedì 2 luglio 2015

COUNTING CROWS live@Anfiteatro Vittoriale, Gardone Riviera (BS), 1 Luglio 2015


SETLIST
Round Here/Scarecrow/Mr. Jones /John Appleseed's Lament/Hard Candy/Black Blue/
Omaha/Cover up the Sun/St. Robinson in His Cadillac Dream/I Wish I Was A Girl/Goodnight Elizabeth/Possibility Days/Blues Run The Game/Big Yellow Taxi/Earthquake Driver/A Long December /Palisades Park/Rain King/Holiday in Spain


vedi anche
COUNTING CROWS live @ Alcatraz,  Milano 23/11/2014




giovedì 25 giugno 2015

RECENSIONI:GIANT SAND(Heartbreak Pass) CALEXICO(Edge Of The Sun)


GIANT SAND
HEARTBREAK PASS
(New West Records, 2015)



Festa riuscita
Il recente tour italiano di Howe Gelb, condiviso con Grant-Lee Phillips, è stato una mezza delusione, e Gelb ha recitato la parte della mela marcia. Peccato. Chi lo conosce sa quanto il talento polveroso  venga fuori con maggior incisività quando è in compagnia, sebbene la nutrita band di Tucson è a tutti gli effetti una one man band. Per festeggiare i trent’anni di carriera ci sono 15 nuove canzoni, registrate in giro per il mondo e divise in tre parti, ogni capitolo racchiude un decennio di vita, come spiega Gelb: “la prima parte trasmette un senso di abbandono rumoroso e fortunato, la seconda è più pensierosa, lenta ma diretta, la terza  è il cuore in costante agitazione a causa di un continuo oltrepassare l’oceano, la benedetta maledizione dell’indie-transponder”. Una festa di alt/desert rock che tocca il folk e sfiora pure il jazz, a cui partecipano anche il già citato Phillips, Steve Shelley, John Parish e i nostri Vinicio Capossela (‘Heaventually’) e Sacri Cuori (‘Hurtin’ Habit’). (Enzo Curelli) da CLASSIX! #44 (Giugno/Luglio 2015)

vedi anche: GRANT-LEE PHILLIPS & HOWE GELB live@Latteria Molloy, Brescia, 4 Aprile 2015



CALEXICO
EDGE OF THE SUN
(City Slang, 2015)



Sole e luna
Il tour primaverile in Italia ha confermato quanto siano amati dalle nostre parti. John Convertino e Joey Burns hanno lasciato importanti impronte (‘The Black Light’ e ‘Hot Rail’ tra i loro capolavori) lungo le strade che dall’Arizona portano all’Europa e ora stanno raccogliendo i meritati frutti. ‘Edge Of The Sun’ non cerca lo stacco dal recente passato, il viaggio in direzione Messico è la conferma di quanto luoghi e suggestioni siano ancora al centro della loro musica, ma in primo piano finisce la ricerca della contaminazione perfetta e globale, soprattutto grazie alla interminabile lista di ospiti che compaiono nei credits, tra cui spiccano Ben Bridwell dei Band Of Horses, Sam Beam degli Iron And Wine, Neko Case, Nick Urata dei Devotchka. Manca il fascino misterioso dei primi tempi, presente troppo sporadicamente (‘World Undone’): giova forse alla maggiore immediatezza che esce da tracce come ‘Cumbia De Donde’, ‘Falling From The sky’ e ‘Tapping On the Line’. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #44 (Giugno/Luglio 2015)







lunedì 22 giugno 2015

FESTA DELLA MUSICA, BRESCIA, 20 Giugno 2015

Hell Spet
The Tettalovers


Van Cleef Continental


Cek Deluxe


Cek Deluxe


The Crowsroads


Nana Bang

Jukebox all'Idrogeno


GuruBanana/Dead Candies



 

giovedì 18 giugno 2015

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #1: FRANCESCO DE GREGORI (Titanic)

FRANCESCO DE GREGORI Titanic (RCA, 1982)


Questo è stato il disco delle mie estati per molti anni. Lo registrai sul lato A di una vecchia cassetta da 90, compresi i fruscii e i tonfi della puntina mentre s’adagiava (bruscamente) e si alzava dal disco, nel lato B ricordo una compilation di vecchi successi country tra cui Tom Dooley (chissà in quale versione?) e On The Road Again di Willie Nelson. Avevo undici anni, e lo scovai dalla raccolta di vinili di mio zio in Friuli, in mezzo a tanta altra bella roba. Pomeriggi estivi passati a contemplare quel povero e “freddo” frigo in copertina, con metà merluzzo e metà limone già spremuto per bene che sembravano abbandonati da giorni, magari da qualcuno partito per le vacanze estive come me. Quella foto, in verità scattata una mattina dallo stesso De Gregori nella sua cucina, riusciva a darmi quella sensazione di refrigerio necessaria per combattere la calura estiva della campagna friulana, mentre con il passare dei giorni si trasformava, trasmettendo sempre più malinconia, toccando il culmine durante le ultime ore di vacanza, quelle che precedevano la ripartenza verso il Piemonte.
Ho imparato il testo di Titanic come una filastrocca. Mi ha seguito per tutta la vita. Se davanti ad un falò in spiaggia mi chiedete una canzone da cantare, statene certi, io partirò con ”la prima classe costa mille lire…la seconda cento…la terza dolore e spavento…”. Le filastrocche imparate a scuola le ho dimenticate tutte al suono della campanella. Titanic no, non l’ho imparata a scuola. L’ho amata.
Ho cercato di immaginare il volto sotto a quei Belli Capelli, ancora adesso non so come sia. Ho cercato di immaginare il mio futuro in “quella palla di cannone accesa"  ma non l’ho ancora raggiunto. Forse mai lo farò. Ho vestito quella maglia numero sette, ma ho avuto paura di tirare quel maledetto e fottuto rigore. Ho fatto partire i miei sogni di rock’n’roll con Rollo & His Jets. Quelli continuano ancora…


 
 

giovedì 11 giugno 2015

RECENSIONE:BOB DYLAN (Shadows In The Night) JJ GREY & MOFRO (Ol' Glory)

BOB DYLAN Shadows In The Night (Sony/Columbia, 2015)




Saggezza definitiva
La recente ed esclusiva intervista per presentare l’album, rilasciata all’organo ufficiale dei pensionati americani AARP, è già un indizio per capire che strade sta percorrendo: “la passione è per i giovani, gli anziani dovrebbero essere più saggi. Se sei vecchio e ti comporti da giovane, rischi di farti male". Qualcuno ha atteso l’uscita con il fucile puntato, pronto ad esplodere l’ennesimo “cos’è questa merda?”. Ma Dylan ripaga con un disco languido, sentito, magico, in cui mette in gioco completamente se stesso, ancora una volta: affrontare il repertorio di Frank Sinatra potrebbe mettere al tappeto qualunque vero crooner di questa terra, ma Dylan vince la partita mettendo davanti a tutto lo scorrere del tempo. La vita e la morte trovano il giusto equilibrio e la sua interpretazione se ne frega dello stile esaltando la profondità. Dylan veste le dieci canzoni di pochi indumenti, la sua voce così (im)perfetta calza su tutto. Dylan è vecchio, si comporta da vecchio e commuove. (Enzo Curelli) da Classix! #43 (Marzo/Aprile 2015)




JJ GREY & MOFRO Ol’ Glory (Provogue Records, 2015)




Southern accents
La sorpresa più grande che potreste incontrare dopo aver ascoltato il nono album in carriera di JJ Grey, se ancora non lo conoscete, è scoprire che il colore della sua pelle non è il nero. La sua musica è un calderone dove blues, rock, funk, gospel, R&B e soul viaggiano all’unisono, legati insieme da personali liriche pregne degli umori sudisti della sua Jacksonville e di grande amore verso la vita, cantati da una voce passionale, intensa, colorata di forti dosi di pennellate black. Il groove alla base di tutto. Sempre. Dei CCR degli anni duemila con in più il calore dei fiati. I Mofro sono una band allargata che non lascia prigionieri: incalzanti nel funk di ‘Turn Loose’, contagiosi e graffianti nel rock di ‘Hold On Tight’, viziosi nella trascinante title track, catalizzanti quando calano i ritmi (‘Island’, ‘Home In The Sky’). Difficile non farsi contagiare dalla loro formula magica e da ospiti degni di nota come Luther Dickinson e Derek Trucks. (Enzo Curelli) da Classix! #43 (Marzo/Aprile 2015)





domenica 7 giugno 2015

RECENSIONE: CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG (CSNY 1974, box set)

CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG ’CSNY 1974’ (Rhino/Warner)



Nulla è perduto
Chiuso il primo grande capitolo della loro storia con il live ‘4 Way Street’ uscito nel 1971 e svaniti come bolle di sapone i tanti ideali di una generazione di cui erano diventai un’icona, CSNY nel 1974 erano già acqua stagnante nel giardino fiorito delle singole carriere che peraltro, pur innaffiate da un'ispirazione ai massimi livelli mai più raggiunti, non decollavano come dovuto a causa del marcio che girava intorno: Neil Young stava assaporando il grande successo arrivato con ‘Harvest’ ma la morte per overdose di Danny Whitten, chitarrista dei Crazy Horse, lo fece cadere in un abisso di sensi di colpa (Whitten era appena stato licenziato dallo stesso Young) che però ispirarono due tra le sue opere migliori di sempre, Graham Nash esordì come solista dopo la rottura sentimentale con Joni Mitchell e mise in piedi con David Crosby (reduce dalla morte della madre e da un fresco e non certo ultimo arresto per detenzione di droga) un tour e un disco in coppia, Stephen Stills, il più mal sopportato, stava nuotando a bracciate alterne nella merda delle droghe, cercando un salvagente nei nuovi Manassas, brillanti ma che durarono il tempo di due dischi per poi naufragare con tutte le numerose comparse. Perfino quella che doveva essere una rimpatriata tra vecchi amici alle Hawaii nella casa sulla spiaggia di Young si trasformò in un fallimento dopo le buone premesse iniziali che sembravano portare a un nuovo disco targato CSNY con tanto di copertina e titolo (‘Human Highway’) già pronti. "Metteteci tutti e quattro in una stanza e la minima cosa può innescare un'esplosione fatale. Siamo i peggiori nemici di noi stessi. Che razza di partnership!". Così Nash nella sua recente autobiografia.
Sotterrati nella sabbia di Mala Wharf i tentativi di riconciliazione insieme a eccessi, ego e droghe, ci pensa il vento (sotto forma di Bill Graham) a far volare banconote di verdi dollari verso i quattro, mettendoli tutti d'accordo: un enorme tour di 31 date da tenere nei grandi palazzetti della nazione con il grande finale in Europa, a Londra. Una grande idea che li tenne impegnati per tre mesi. Perché, nonostante tutto, i quattro sul palco erano veramente qualcosa di esplosivo, un patrimonio di perfetta armonia senza eguali che sotterrava tutto il resto.
© Joel Bernstein
 Delle registrazioni di quel tour mai nessuno volle saperne, e il motivo era impresso nella scarsa qualità. Graham Nash e Joel Bernstein hanno fatto un grande lavoro di rispolvero seppure la mancanza di pezzi da novanta come ‘Carry On’ e ‘Woodstock’ grida vendetta. Tra la versione da urlo di ‘Almost Cut My Hair’ con un lisergico Crosby e l’improvvisata ‘Goodbye Dick’ di Young, stoccata contro Nixon, a confermare l’ impegno politico per nulla affievolito, ci sono tre ore ad alta intensità. Il cofanetto è composto da tre CD (40 canzoni, molte estratte dalle rispettive carriere soliste), un debole DVD con sole 8 tracce, ma con un esauriente libretto: 188 pagine, foto e note biografiche. Da avere. (Enzo Curelli) da Classix! #40




LA PAROLA AI PROTAGONISTI
“…quando ci venne proposta una tournée da tenersi nell’estate del 1974, accettai. Accettammo tutti. Altroché…Era un po’ che non andavamo in tour e tutti noi avevamo stili di vita dispendiosi. C’era di sicuro l’incentivo finanziario. E, da quel punto di vista , devo dire che ci svendemmo…La musica era tutta un’altra faccenda. Svolgevamo i nostri riti pre concerto: sniffavamo una riga e salivamo sul palco. A volte eravamo fantastici, altre no. In un paio di sere fummo sfilacciati, stonati, lisergici. Nessuno di noi era al meglio delle proprie potenzialità. Semplicemente girava troppa cocaina…Sul palco, Neil stava da una parte, Stephen dall’altra, con Croz e me nel mezzo, una collisione di ego pazzeschi simile a una fusione nucleare, ma, non appena le luci si accendevano…nel momento in cui la musica e le luci ci illuminavano, andava bene tutto…Eravamo bravi a far sembrare tutto organico. Sul palco, la nostra immagine era quella dei Quattro Moschettieri…Furono un paio di mesi selvaggi, sfrenati, orgiastici, licenziosi, ricchi di scene assurde e , spesso, di musica meravigliosa.” GRAHAM NASH da ‘Wild Tales’ (2013)
“…non prendo in giro la gente quando sto sul palco. Stavano urlando tutti, per cui ho chiesto di sedersi, di calmarsi e di fare un po’ di silenzio. Ma c’era davvero troppo rumore ed ero in difficoltà, per cui, una volta interrotto, non avevo più la spinta emotiva per ricominciare daccapo quella canzone. Così ho attaccato ‘Guinnevere’ e l’ho fatta anche fottutamente bene!” DAVID CROSBY a Rolling Stone (1974) dopo l’interruzione di ‘For Free’ nella data di Vancouver.
“…potrebbe darsi anche che dal tour dell’estate venga fuori un disco dal vivo, so che ci sono almeno venticinque minuti di canzoni mie decisamente pubblicabili. Per quel tour avevamo messo insieme materiale buono, veramente interessante…dopo ogni concerto me ne andavo con mio figlio, il cane e due amici. Così potevo essere fresco ed essere pronto per ogni spettacolo” NEIL YOUNG, 1975
© Joel Bernstein
“…ovviamente i soldi sono parecchi. Voglio dire, posso costruirmi il tipo di studio che voglio e non ho scuse. Non credo che stiamo derubando nessuno, se alla gente non interessasse non verrebbe ai concerti. Questa è la differenza tra business e arte e noi quattro siamo tutti estremamente dediti alla nostra forma d’arte.” STEPHEN STILLS, 1974
"Ogni cosa sarebbe stata di prima classe. I viaggi si sarebbero svolti a bordo di aerei privati, elicotteri e limousine scortate dalla polizia. In tutti gli alberghi, federe ricamate a mano con il disegno che Joni (Mitchell) aveva realizzato di noi quattro, serigrafato in cinque tinte sulla parte anteriore. Il medesimo logo era impresso a fuoco su vassoi di tek che utilizzavamo in tutti i concerti. Dormivamo ogni notte in enormi suite , nei migliori alberghi, con il cibo più incredibile: sushi, champagne, aragosta, caviale a non finire. Avevamo un tizio che ci riforniva di un grammo di coca al giorno. Una volta, chiamai il mio amico Mac e chiesi:" Che ti succede se mandi giù un intero grammo di coca, perché credo di aver appena assunto una capsula di coca insieme alle mie vitamine?". Disse: "Non preoccuparti, guarda la tv e basta. Non ti succederà nulla". Incredibilmente decadente." GRAHAM NASH
"Furono un paio di mesi selvaggi, sfrenati, orgiastici, licenziosi, ricchi di scene assurde e, spesso, di musica meravigliosa" GRAHAM NASH

vedi anche
RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
COVER ART: NEIL YOUNG (On The Beach, 1974)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
RECENSIONE LIBRO: GRAHAM NASH (Wild Tales)




venerdì 29 maggio 2015

RECENSIONE: BANDITOS (Banditos)

BANDITOS  Banditos (Bloodshot/IRD, 2015)



Tre voci soliste che si alternano, due maschili (i chitarristi Timothy Steven Corey Parsons e Stephen Alan Pierce II anche al banjo) e una femminile (Mary Beth Richardson alle prese con  kazoo-Long Gone, Anyway- e tamburello), e tanti input musicali presi dalla vecchia tradizione americana con banjo e contrabbasso che riescono a rendere la proposta del gruppo proveniente dall'Alabama, ma di casa a Nashville, fresca, variegata e personale. A dispetto di un look che potrebbe far pensare ad una Southern rock band arcigna e cazzuta, i Banditos sono un sestetto (completano la formazione l'altro chitarrista Jeffrey David Salter, il bassista e contrabassista Jeffrey "Danny" Vines e il batterista Randy Taylor Wade) a cui piace scavare molto indietro nel tempo, facendo partire ogni cosa dal vecchio rock'n'roll '50 (Cry Baby Cry), aggiungendo di volta in volta qualcosa di diverso per far virare le canzoni verso strade suggestive, a volte impervie, ma sempre rassicuranti nel loro mantenere i piedi nel territorio americano più polveroso e umidiccio di alcol appena rovesciato: dal vigore del boogie/blues quasi zz topiano dell'apertura The Breeze, alle dissonanze elettriche di Golden Grease, all'evocativo blues di Old Ways, al fervore rockabilly/garage di Still Sober (After All These Beer), all' hillybilly di Waitin'  con la voce della Richardson che inizia ad impossessarsi della scena risultando, a fine disco, la vera arma in più: all'occorrenza sa indossare i vestiti dell'innocenza irriverente alla Wanda Jackson, per poi trasformarsi in una affamata e sanguigna Janis Joplin in No Good.
In questo disco tutto parla l'antica lingua della tradizione americana. La vera sorpresa è il piglio con cui viene presentato il tutto: non c'è tempo per far posare troppa polvere  sugli strumenti. "La maggior parte dell'album è stata registrata dal vivo e l'energia si sente sicuramente" dice il chitarrista Salter. I Banditos viaggiano che è un piacere anche quando ciondolano in ballate come Blue Mosey #2 e la finale Preachin' To The Choir, una perfetta chiosa soul. Impatto sporco, attitudine sudata e presenza scenica genuina bastano a formare il carattere vincente di una band che bada al sodo e che ha portato a casa la partita alla prima uscita discografica.
I Banditos sono una delle sorprese più interessanti di questa prima metà dell' anno.





mercoledì 27 maggio 2015

RECENSIONE: HAYSEED DIXIE (Hair Down To My Grass & live@Spazio 211, Torino, 13 Febbraio 2015)



HAYSEED DIXIE
‘HAIR DOWN TO MY GRASS’
(Hayseed Dixie Records)
 
Veniam giù dai monti...
Usciti di scena i due fratelli Reno, da sempre pilastri musicali della band, sostituiti dai nuovi entrati Johnny Butten (banjo) e Hippy Joe Hymas (mandolino), la strana e vivace creatura di John Wheeler, nata tra i monti Appalachi, continua imperterrita a portare avanti la formula che li ha visti nascere: reinterpretare la storia del (hard) rock sotto la veste country/ bluegrass. Se in principio c’era il repertorio degli AC/DC, dei Kiss, e poi arrivarono le prime canzoni autografe e persino dischi cantati in lingua scandinava, questa volta a farne le spese sono canzoni più leggere legate al glam e all’hard rock melodico anni ottanta: Twisted Sister, Def Leppard, Survivor, Europe, Bryan Adams, Scorpions, Bon Jovi e Journey entrano nel calderone. Una formula che pur sembrando ripetitiva rimane accattivante e divertente, in particolar modo quando tutto si trasferisce sopra ad un palco. Lì potreste essere catturati definitivamente. (Enzo Curelli) da CLASSIX! # 43 (Marzo/Aprile 2015)
 

 
live @ Spazio 211, Torino, 13 Febbraio 2015
Appalachian rockgrass
La serata è di quelle rigide e grigie. Dentro al piccolo club di Torino però, la visione di due enormi figure vestite di bermuda mimetiche e grossi anfibi sembra dare un caloroso benvenuto: l’irsuto bassista Jake Bakesnake Byers e il cantante e leader John Wheeler, i due veterani della formazione americana scesa dai monti Appalachi  alla conquista del mondo a suon di brani hard rock rivisitati in salsa country/bluegrass (rockgrass è il loro trademark), si aggirano indisturbati e sorridenti tra il pubblico. I due integratissimi nuovi elementi della formazione, invece, si intravedono dalla porta socchiusa del camerino: Johnny Butten, di diritto nei Guinness dei Primati come le dita più veloci al mondo se si tratta di suonare le corde di un banjo e Hippy Joe Hymas al mandolino, personaggio eccentrico, vero spasso per gli occhi, una babilonia di smorfie che cattura gli sguardi  e accende sorrisi durante tutto il concerto. Ad aprire, il contagioso country and roll dei padroni di casa FJM, un trio dal tiro punk che il pubblico amico apprezza e gradisce. Serata portata a casa tra gli applausi. Gli Hayseed Dixie, invece, hanno un nuovo album da presentare HAIR DOWN TO MY GRASS, il loro tributo al glam/street rock degli anni ottanta (We’re Gonna Take It, Pour Some Sugar On Me e Eye Of The Tiger sono uno spasso così stravolte), ma in apertura di concerto vogliono giocare  sul sicuro con due brani della band australiana da cui hanno preso il nome. Hells Bells e You Shook Me All Night Long sono un biglietto da visita vincente che li traghetterà senza cedimenti fino alla fine, quando si aggiungerà l’immancabile e spianata “autostrada per l’inferno”.
I loro concerti sono una sarabanda ben assortita di traditional bluegrass suonato con piglio da veri metallari tanto che su Ace Of Spades si scatena l’inevitabile pogo nelle prime file, musica classica (Eine Keine Trinkemusic di un certo Mozart),  tecnica strumentale invidiabile (Bohemian Rhapsody è sempre un piacere, una”killing song” come dicono loro) e gag divertenti. A centro palco a fare da scenografia, dove tutte le band normali terrebbero una batteria, campeggia un frigorifero stipato di birre. Gli Hayseed Dixie, infatti, di normale hanno ben poco e John Weeler è un cerimoniere che tra un elogio ai vini italiani, snocciolati uno dopo l’altro da vero ed esperto sommelier, giochi di parole che legano insieme il compianto R.J. Dio  con alcune bestemmie italiane imparate con nonchalance dal defunto Germano Mosconi, quando imbraccia il violino incanta e la pinkfloydiana Comfortably Numb si candida a miglior brano della serata. Il meglio arriva nel finale quando la lunga esecuzione di Hotel California diventa un contenitore pieno di sorprese e citazioni tra cui emergono un inaspettato e bizzarro omaggio a Tiziano Ferro e una coinvolgente Clandestino di Manu Chao. Finito il concerto, come la loro ironica canzone Merchandise Table invita a fare: tutti al banco merchandise per lo shopping, foto di rito...e l’ultimo brindisi. (Enzo Curelli) da CLASSIC ROCK # 29 (Aprile 2015)
altre foto e scaletta QUI


 

lunedì 11 maggio 2015

GOAT live@Latteria Molloy, Brescia, 9 Maggio 2015




SETLIST
1. Words 2. The Light Within 3. Let It Bleed 4. Disco Fever 5. Hide from the Sun 6. Talk to God 7. Goatlord 8. Goatman 9. Run to Your Mama 10. Gathering of Ancient Tribes 11. Golden Dawn 12. Goatslaves 13. Goatchild 14. Goathead 15. Det som aldrig förändras



 

venerdì 8 maggio 2015

RECENSIONE: WILLIAM ELLIOTT WHITMORE (Radium Death)

WILLIAM  ELLIOTT WHITMORE Radium Death (ANTI)


Il giovane vecchio
I tatuaggi nascosti sotto la camicia tradiscono la gioventù passata ascoltando i dischi dei Minor Threat e i trascorsi musicali suonando in una punk rock band; lo scenario sul retro è, invece, un dipinto rurale che ritrae trattori, fattorie e i campi arati del suo Iowa.
Mai come in questo ottavo disco le due anime del trentasettenne folksinger si sono mescolate così bene: la voce allenata con i vecchi dischi di Leadbelly posati sul giradischi è sempre una lama che raschia sul vetro, sia quando le chitarre elettriche ed una full band si prendono la scena (Healing To Do, Don’t Strike Me Down), sia quando lo scarno folk blues tenuto in piedi da soli banjo e chitarra acustica riportano alle atmosfere agresti dei precedenti dischi (Have Mercy, Civilizations). Whitmore si conferma tra i più credibili narratori americani dei nostri tempi: la vicenda delle povere operaie morte intossicate a Orange (New Jersey) conosciute come “radium girls” diventa lo spunto per costruire un sorta di concept album su una delle più grandi menzogne umane della storia del Novecento.

Enzo Curelli,
7 da Classic Rock #30 (Maggio 2015)

vedi anche
RECENSIONE: SEASICK STEVE-Sonic Soul Surfer (2015)
RECENSIONE: STEVE EARLE-Terraplane (2015)

martedì 5 maggio 2015

RECENSIONE/REPORT: SOCIAL DISTORTION live @ Live Club, Trezzo sull'Adda (MI), 23 Aprile 2015




 
Esco dal Live Club di Trezzo, stracolmo e sold out (pare), mentre un gruppetto di skin, neri o rossi non lo so-ma non ha importanza-si scaglia meschinamente su un povero malcapitato, riempendolo di pugni e calci. Cose brutte da vedere ad un concerto, soprattutto dopo aver la certezza che, stasera, la differenza l'ha fatta proprio il pubblico presente. Le  stesse persone che durante Ring Of Fire di Johnny Cash, il pezzo più osannato e cantato della serata, hanno portato in trionfo la band di Mike Ness, Jonny Two Bags (chitarre), Brent Harding (basso) e del "figlio dei Los Lobos" David Hidalgo Jr. (batteria) . Mi chiedo anche quanto sia singolare e curioso che, dopo più di trent'anni di carriera, il pezzo più conosciuto rimanga una canzone che non porta la loro firma. Eppure si stava celebrando il venticinquennale di quell'album omonimo uscito nel 1990 che racchiude bene tutte le anime musicali di Mike Ness (punk, hardcore, rockabilly, blues e country) e  contenente pure tanti inni come Story Of My Life e Sick Boys (sulle cui note si scatena, comunque, il finimondo). Una prima parte di concerto tirata e senza cedimenti- e senza sorprese visto che la scaletta segue l'ordine dei brani nel disco- anche se Ness sembra tenuto in piedi più dal forte carisma e un po' meno dalla voce che arriva poco. A deludere, invece, è la seconda parte di concerto, più stanca e povera di sostanza, con lo storico debutto Mommy's Little Monster incredibilmente ignorato, ma non sarà il solo: il riuscito Sex, Love And Rock'n'Roll (2004), dedicato allo scomparso Dennis Danell dov'era? L'ultimo sforzo di una discografia parsimoniosa, Hard Times And Nursey Rhymes, è invece fresco di memoria e ricordato grazie a Machine Gun Blues e Gimme The Sweet And Lowdown.
Non bastano una ben accolta Cold Feelings dal sempre sottovalutato Somewhere Between Heaven And Hell (1992) e la già citata Ring Of Fire a non far nascere alcuni dubbi su quante canzoni in più potessero essere presenti in scaletta, visto le poche date da headliner nel nostro paese nel corso degli anni. Anche se poi gioca tutto a favore dell'integrità artistica di Mike Ness: uno che non è mai sceso a compromessi con niente e nessuno. Diritto per la sua strada, anche quando decide di sacrificare le canzoni autografe a favore di cover come Wild Horses degli Stones-non roba da poco comunque-che tradisce anche le sue vere e vecchie radici musicali.
 
SETLIST
So Far Away/Lei It Be Me/Story Of My Life/Sick Boys/Ball And Chain/I Coulda Been Me/She's A Knockout/A Place In My Heart/Drug Train/Cold Feelings/Machine Gun Blues/Wild Horses/I Won't Run No More/99 To Life/Gimme The Sweet And Lowdown/Ring Of Fire/Don't Drag Me Down
     
     

sabato 2 maggio 2015

RECENSIONE:THERAPY? (Disquiet)

THERAPY? Disquiet (Amazing Records)


Coerenza
Per i più distratti, i nord irlandesi Therapy? sono quelli di TROUBLEGUM (1994), album monumento dell’alternative rock anni novanta appena festeggiato in tour per il ventennale. Al massimo quelli ancora più grezzi del precedente NURSE(1992) o quelli più accessibili di INFERNAL LOVE (1995). Poi? Per molti il nulla. Invece la band di Andy Cairs e Michael McKeegan ha continuato a produrre dischi a cadenza regolare, seguendo un percorso che li ha portati a sperimentare, mostrando una libertà di movimento che ha toccato tutte le sfumature: dai dischi più melodici e rock'n'roll (SHAMELESS-2001, HIGH ANXIETY-2003) ai quelli ostici e poco penetrabili (SUICIDE PACT YOU FIRST-1999, CROOKED TIMBER-2009), il tutto senza farsi influenzare da mode musicali e lontano da qualsiasi catalogazione. Anche questo quattordicesimo album segue la filosofia di sempre.
La collaudata formazione a tre (con Neil Cooper alla batteria) sa ancora scrivere buone melodie pop (Tides) e picchiare all’occorenza (Insecurity) senza dimenticare di far pensare. Tutto convincente in quello che potrebbe essere il loro best seller del nuovo millennio. Enzo Curelli 8 da Classic Rock #29 (Aprile 2015)

vedi anche
RECENSIONE/REPORT: THERAPY? live @ Rock'n'Roll arena, Romagnano sesia (NO), 9 Novembre 2012