MARC FORD Holy Ghost (Naim Edge/V2, 2014)
Un vecchio venditore di dischi, anni fa da dietro il bancone, mi disse: "vedrai, quando arriverai in prossimità dei miei anni inizierai ad ascoltare questa musica" indicando vecchi e polverosi dischi di country, folk e americana impilati nello scaffale del suo piccolo ma ricco negozio. "Fidati. Entrerai in questa dimensione". Io ero un ragazzetto con le sue fisse musicali, aperto a tutti i suoni ma limitato, limitatissimo verso i dischi "impolverati" che mi indicava. Eppure, non si era sbagliato di troppo. La chiamai "la mia terza dimensione", quella intima e acustica, quella preponderante in Holy Ghost, quinto disco solista di Marc Ford, uno che a 48 anni si avvicina maggiormente all'età che quel negoziante aveva all'epoca. Di poco, ma più di me sicuramente. Appoggiata e archiviata la chitarra elettrica tra i solchi di alcuni dei migliori dischi rock degli anni novanta a firma Black Crowes (The Southern Harmony And Musical Companion-1992, Amorica-1994) poi collaborando con nomi illustri come Gov't Mule e Ben Harper, e mettendo in piedi svariati e un po' dispersivi progetti solisti, abbandonata momentaneamente la sala di registrazione (tra le sue produzioni importanti, il primissimo Ryan Bingham e gli Steepwater Band del prezioso Grace & Melody), la dimensione acustica si impossessa della scrittura e del suo tempo. Un disco di cuore. Già questo basterebbe per farselo piacere, perché dentro alle dodici tracce di purissima "americana" non ci troverete nulla di miracoloso, nulla che vada sopra le righe, che rotoli fuori dai vecchi binari arrugginiti che uniscono i bordi sdruciti degli anni dell'esistenza, se non la fluidità e il carezzevole trasporto di canzoni dal carattere speranzoso, riflessivo e confessionale (cita la dura pioggia dylaniana che sta ancora cadendo, ma con i cieli blu che già si intravedono in lontananza nella solarità country di Blue Sky) nate nell'intimo percorso di vita dell'autore, tra la sicurezza famigliare-la moglie Kirsten e il figlio Elijah sono coinvolti rispettivamente ai cori e chitarra, un'altra figlia è appena nata-e i lenti ritmi di vita nella sua nuova abitazione a San Clemente. La ricerca del semplice dopo una vita di scalate e sogni raggiunti. "Ho raggiunto la cima della montagna e le risposte non erano lì, non è stata l'illuminazione che stavo cercando. Droga e alcol sono stati solo una grande copertura per alcune mancanze", racconta tra le pagine del suo sito.
Luci e ombre accompagnate lentamente al tramonto da chitarre leggere, incastrate dentro al suono della band britannica Phantom Limb che lo accompagna (gruppo prodotto due anni fa dallo stesso Ford) e registrato tra l'Europa (in Galles) e gli States. Una scrittura lieve, pigra e malinconica (Dancing Shoes, Dream #26), delicata (In You), amara, costruita su pedal steel che fanno immaginare quadri campestri (Just A Girl) e il pianoforte (You Know What I Mean) che mi ha riportato al primo Jackson Browne e alla luminosa scena west coast dell'epoca d'oro, ma che non manca di graffiare con la chitarra elettrica quando necessario come avviene nell' avanzare sudista di I'm Free, nell'assolo di Turquoise Blue, e nel southern blues elettrico di Sometimes, anche se solo brevissimi e rari lampi tra la scura deserticità di Badge Of Descension che avanza pigra tra i tasti di un Fender Rhodes, e l'epica e crescente conclusione affidata alla più strutturata Call Me Faithfull.
Vero e onesto fino alla fine, Holy Ghost rimane però un taccuino intimo ancora tutto da decifrare, con le annotazioni sul tempo trascorso scritte con calligrafia leggera: potrebbe essere solo una breve parentesi, oppure il nuovo punto d'inizio di un uomo che ha fatto pace con se stesso e il mondo circostante. Una pensione d'oro anticipata (di troppi anni). Il vecchio negoziante di dischi sorride compiaciuto.
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)
vedi anche RECENSIONE: LEON RUSSELL-Life Journey (2014)
vedi anche RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)
mercoledì 23 aprile 2014
giovedì 17 aprile 2014
RECORD STORE DAY 2014
RECORD STORE DAY 2014/2015 revisited (ossia: l'articolo dello scorso anno ampliato con nuovi artisti, dischi e racconti)
Un ringraziamento collettivo a tutti i musicisti che hanno riaperto lo scrigno dei ricordi, rovistato tra i dischi della loro memoria, soffiato tra la polvere del tempo, estratto la nostalgia dalla busta, posato la puntina tra un sogno e una canzone; condividendo le loro primissime emozioni legate alla musica, ad un vinile che girava, una copertina che li ammaliava, un testo che li rapiva. A tutti quelli che hanno varcato nuovamente la porta di quel vecchio negozio di dischi, quello che esiste ancora e tiene duro e quello che nel frattempo è diventato un dispersivo e freddo centro commerciale.
Leggendo questi racconti si possono trovare tracce del proprio passato: cambiano gli anni, cambia il disco, cambia la copertina, cambia il negozio...la passione è la stessa per tutti. Intanto, il disco continua a girare...
MASSIMO PRIVIERO
Sono nato nei primi sessanta e mi ritrovai dunque ragazzino a metà dei settanta. Dunque, con la prima chitarra in mano, mi trovai a realizzare a poco a poco che tanto era già successo a partire da dieci, quindici anni prima. Il classico fratello più grande di un mio coetaneo mi aveva venduto il suo usato, giusto qualche mese prima di quella prima chitarra e che di quello strumento era stato causa diretta, BOB DYLAN The Freewheelin’. Il destino ha voluto che non ci sia mai stato un album più importante di quello per la mia vita, anche se ne puoi mettere a fianco un’altra decina che spostarono tante cose della mia esistenza. Al riguardo, parlo di dischi che mi portarono a scegliere di provare a vivere della mia musica, come poi ho fatto, e che fissarono emozioni, forza esistenziale e amore assoluto per quel che volevo fare dei miei giorni. Ma il mio pensiero e il mio sogno di adolescente, ben prima di scrivere ed incidere i miei album, era quello di suonare per le strade le canzoni di Freewheelin’. Questo feci pochi anni più tardi, intorno ai miei venti, vagabondando per l’Europa e facendo spesso il menestrello alle stazioni di metropolitana e dei treni. E non posso, pensando a quei momenti, chiamarli in modo diverso da quel che potresti definire vera libertà. Anche per questa ragione, al di là della clamorosa perfezione poetica di quel disco, ancora oggi lo amo a pure qualche volta mi capita come di parlargli. Come se avessi uno splendido debito con lui al quale devo render conto. E ancora oggi mi capita quasi a regola di suonare Hard Rain’s a Gonna Fall nei soundcheck dei miei concerti. Chiudo gli occhi. Sorrido. E spesso trovo un po’ di ragioni in più dentro alla mia strada.
IACOPO MEILLE (TYGERS OF PAN TANG/GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS)
QUEEN 'A Night At The Opera' (Emi - 1975)
Era il giorno di Natale. L'anno il 1975; di lì a pochi mesi la mia famiglia si sarebbe trasferita a New Delhi, in India. Mio padre aveva accettato un'offerta a cui non poteva dire di no. Mia madre non era del tutto convinta ma fingeva una tranquillità che le faceva onore. Eravamo ospiti dell'allora capo di mio padre, colui che aveva suggerito il suo nome per quel lavoro. Eravamo stati invitati per cena. Mio fratello di due anni era stato lasciato dagli zii, mentre io era stato ritenuto “grande” abbastanza per poter andare con loro. Ricordo poco della casa, solo che le luci erano soffuse ed il salotto era pieno di mobilia e soprammobili. Non c'erano bambini con cui giocare: la figlia del “capo” di mio padre era molto più grande di me. C'era però uno stereo nella stanza; appoggiato vicino, un vinile dalla copertina bianca che sembrava volersi far notare a tutti costi, malgrado le luci basse. Cecilia, la figlia del “capo” mi chiede gentilmente se voglio ascoltarlo ed io, senza esitazioni le rispondo di sì. Accende lo stereo, alza il coperchio del piatto, estrae il vinile dalla copertina e me la porge mentre appoggia la puntina.... 'Dead On Two Legs' parte ed io sono letteralmente rapito. “You can kiss my ass goodbye” canta Freddie ed io, che non conosco una parola d'inglese, capisco però che deve essere una frase “fica” e che non posso chiedere ai miei che cosa significhi.
'I'm In love With My Car' cantata da un'altra voce, roca e sgraziata, la dolcezza di ''39' e quel suono per me allora sconosciuto di Fender Rhodes che apre 'You're My Best Friend' mi ipnotizzano e di quella serata non ricordo altro. Quando è il momento di girare lato, sono al tempo e stesso eccitato e nervoso: “E se poi le altre canzoni non mi piacciono?” penso tra me. Il tempo che 'Prophet's Song' parta ed i dubbi svaniscono: sono rapito. Voglio sapere tutto di questa band. 'Bohemian Rhapsody' è solo l'ultimo tassello di un mosaico di emozioni che ancora oggi porto con me. Quella prima emozione nell'ascolto 'A Night At The Opera', quella ho cercato da quel 25 dicembre 1975 e, per mia fortuna, l'ho provata di nuovo... anche adesso mentre ascolto 'Croz' di David Crosby in quella che io continuo a chiamare “sala da pranzo” ma che sembra più un magazzino di un negozio di dischi con una muraglia tra CD, 45 giri e vinili che la riempiono e nei quali mi immergo.
Negozio preferito: YELLOW RECORDS - Via Torcicoda, 157 - 50142 Firenze
ANTHONY BASSO (W.I.N.D.)
E' davvero una scelta ardua, ma credo che il disco che mi abbia cambiato la vita sia un bel classicone... Made In Japan dei DEEP PURPLE è stato il disco o meglio, l'audio cassetta (essendo io dell'89, era il periodo delle audio cassette) che mi ha fatto innamorare intanto del rock e poi della musica in generale. Lo ascoltai da piccino piccino proprio ed ho sempre un meraviglioso ricordo legato a quel live. I primi calli sulle dita, la prima chitarra ed i primi riff strozzati di Smoke On The Water e Black Night. Con l'arrivo dei primi soldini frutto dei primi mini-concerti qui in Friuli alla tenera età di dieci anni, mi comprai Night Moves di Bob Seger a "L'Angolo Della Musica" di Via Aquileia, a Udine, e fu Amore poi per sempre.. Ahahah! Ad ogni modo anche se può sembrare un po' scontato, probabilmente fu proprio Made In Japan a farmi appassionare. Ascoltato, riascoltato e letteralmente consumato, tanto che la classica matita per riavvolgere il nastro rimasto incastrato nel registratore ad un certo punto non mi fu più d'aiuto...
FRANCO GIORDANI (LUIGI MAIERON BAND/ME PEK E BARBA)
Tra tutti i "migliori dischi della mia vita" io scelgo il primo album dei DOORS, che acquistai naturalmente in vinile. Forse non cambiò la mia vita, ma senz'altro cambiò il mio modo di amare la musica. La voce di Jim Morrison entrò subito nella mia anima, stravolgendola. Si, da lì in poi ho capito (sempre citando Jim) che la musica è l'unica tua amica, fino alla fine.
MATT WALDON
Il mio primo disco ascoltato da bambino fu Full Moon Fever di TOM PETTY, me lo prestò mio cognato e passai un'intera estate ad ascoltarlo. Il mio primo acquisto invece fu Southern Accents sempre di Tom Petty , lo acquistai alla Gabbia di Padova, era il periodo in cui una volta al mese si partiva per un "cd tour" a Padova e le 2 tappe fisse erano sempre il 23 Dischi e la Gabbia. Volevo un disco di Tom Petty dopo aver ascoltato allo sfinimento Full Moon Fever, avevo bisogno di nuova linfa, e la copertina di quel disco mi conquistò! Non esiste un disco che m' abbia cambiato la vita , ce ne sono molti che hanno contribuito ad accompagnarmi durante periodi buoni o cattivi del mio percorso. Attualmente non ho un negozio fisico di riferimento per l'acquisto dei dischi, oramai per comodità e convenienza internet non ha competitors!
ALESSANDRO BATTISTINI (MOJO FILTER)
Il mio primo vinile è stato “Bluesbreakers, JOHN MAYALL with Eric Clapton”... il famigerato "Beano album". ... era una versione originale del 1966 regalatami da un vicino di casa che non sapeva cosa farsene! Io avevo 14 anni... ai tempi non avevo nemmeno il giradischi (che ho comprato proprio per quell'occasione)... ricordo che la prima cosa che mi stregò fu la copertina: quattro inglesi vestiti in maniera strana, seduti chissà dove... uno di loro aveva in mano un fumetto e sembrava leggerlo con grande interesse… o forse fingeva per vincere l’imbarazzo… non so….Poi, finalmente, riuscii a sentirlo e le cose cambiarono per sempre: impazzii letteralmente per Hideaway, All your Love, Ramblin On My Mind… per Eric Clapton e la sua Les Paul che, dentro quel Marshall 1962, aveva un suono che non avevo mai sentito prima …. Avevo scoperto il “british blues”, quella musica che gli inglesi scopiazzavano dagli americani aggiungendoci quel certo non so che … avevo scoperto la swingin’ london degli anni sessanta… love at first sight. Ancora oggi il beano Album è uno dei miei dischi preferiti, il primo di una lunga serie di edizioni più o meno rare a cui ho dato la caccia in questi anni. L’ultimo è stato la prima stampa inglese di “Let It Bleed “ degli Stones che ho comprato il mese scorso a Norimberga.
LUCA ROVINI
Ero un ragazzino, lavoravo per comprarmi i dischi. Ancora oggi, che ho 41 anni, in effetti è così. Ci sono tantissimi artisti che amo alla follia, nella mia storia di amante della musica, di ascoltatore giornaliero, ci sono dischi che mi hanno accompagnato, che mi hanno sconvolto, che mi hanno fatto rinascere, dischi che quando li ascolto mi catapultano improvvisamente in un preciso istante della mia vita. In questo mio contributo ne dovrei scegliere uno soltanto ed è una scelta ardua ma posso farcela. Ma prima devo dare una breve introduzione agli “altri”. Come potrei scordarmi il primo disco che ho comprato, era Chet Baker, un disco dal vivo, bellissimo, sognante, all’epoca sognavo molto più di adesso. Potrei citare i miei autori preferiti in assoluto, WILLY DEVILLE, Steve Earle, Allman Brothers Band, John Hiatt, Elliott Murphy, Bob Dylan ovviamente e Townes Van Zandt. Potrei dire Night Lights o Blood On The Tracks o Shut Up And Die Like An Aviator o Bring The Family o Live At Fillmore East o Live At The Old Quarter. Se devo scegliere un’artista, uno solo, scelgo Willy. Perché io proprio senza la sua voce non posso stare, la più bella che abbia mai sentito. Willy era il miglior cantante che potevi aver la fortuna di vedere dal vivo. Non mi ha mai deluso, quando lo vidi la prima volta ero sotto il palco, mi spaventai quando entrò. Quando sentii quella meravigliosa voce dal vivo capii che Willy era il più grande, per carisma, per voce, le canzoni. Ringrazierò sempre il mio Babbo che mi portò a vederlo a Nonantola, ero un bambino, che regalo pazzesco. Da quella volta ho visto Willy ogni volta che è venuto in Italia, l’ho anche incontrato, ci ho parlato, era un gigante, era fatto, era comunque il migliore. E’ veramente dura scegliere un disco solo di Willy ma se proprio devo scelgo Le Chat Bleu.
FRANK GET (TEX MEX/RESSELL BROTHERS)
Domanda da un milione di dollari… diciamo che devo fare alcuni distinguo, (ho avuto la fortuna di avere dei genitori musicisti..): il primo vinile che ho ascoltato da piccolo (avevo cinque anni…1969) è stato una raccolta dei Beatles, il primo vinile che ho acquistato è stato Ziggy Stardust di David Bowie, quello che mi ha cambiato la vita è stato Born To Run (regalo dei miei cugini di Westwood N.J.) …però devo dirti che il disco che porterei sulla famosa isola deserta è Live Bullet di BOB SEGER (ad un’ incollatura “Live at Fillmore East” Allman Bros) ma purtroppo hai detto uno solo. Il motivo è identico per entrambi, essendo” live”, non ci son scuse, quello si suonava, quello si sentiva, pura adrenalina!! Riguardo ai negozi di dischi apriamo un capitolo tristissimo, parliamo di una specie estinta. Ricordo con piacere due baluardi oramai chiusi da anni The Musical Box, e Wom (Word of music) entrambi gestiti da appassionati di musica. In entrambi oltre all’atto dell’acquisto del vinile, poi del cd (sappiamo bene, poi, come si sia persa la poesia dell’ “oggetto” disco) c’era condivisione e complicità nel giudizio sul disco appena uscito e soprattutto tanta passione per la Musica. Direi che la cosa fondamentale era il dialogo ed il rapporto umano che si veniva a creare. Sicuramente un ottimo contributo alla diffusione della cultura e dell’arte. Purtroppo come ben sappiamo le ragioni economiche han fatto scomparire la bottega in favore della grande distribuzione….ma qui spalanchiamo un abisso, (da cui mi sa che è difficile risalire).
GUY LITTELL
Il mio disco della vita, per quanto riguarda il vinile potrei dire che è On The Beach di NEIL YOUNG. E anche il suo acquisto fu singolare: lo comprai per pochi euro un venerdì o sabato sera, intorno ai 23 anni...un mio amico mi disse che lo zio gli aveva regalato una bella raccolta di vinili, gli dissi che volevo On The Beach e lui me lo portò la sera stessa, nel bel mezzo di un'ubriacata collettiva che in quel momento stava coinvolgendo una ventina di persone nella Villa Comunale di Torre del Greco (Na) dove sono nato e cresciuto. Mi meraviglio che l'indomani fosse ancora con me e soprattutto intatto! Per quanto riguarda il negozio...scelgo Tattoo Records, situato nel bellissimo centro storico di Napoli. Ho davvero un bel ricordo legato a Tattoo: andai a comprare Jacksonville City Nights di Ryan Adams & The Cardinals e credo fossero un po' di mesi che non compravo dischi...ero stato preso da altre cose e forse non avevo poi tanti soldi, comprare quel disco diede di nuovo il via alla mia voglia di spendere in dischi che amavo e presto ne cantavo le canzoni mentre lavoravo come lavapiatti il sabato sera in un pub locale. Magia.
DARIO SNIDARO (RUSTED PEARLS)
In vinile direi Gold di RYAN ADAMS, l'ho comprato recentemente e ha un quarto lato, che nel cd non c'è, con delle canzoni splendide secondo me, come Rosalie Come And Go, The Bar Is A Beautiful Place, The Fools We Are As Men... non che il resto del disco sia da meno...anzi. Sono molto affezionato a questo artista, non è il primo disco che ho sentito, la prima canzone è stata Hotel Chelsea Nights, ma è sicuramente il disco che nel complesso mi piace di più per cantautorato, suoni e impatto live della band, nonostante lui lo abbia visto solamente due volte negli ultimi tour acustici, prima Brighton poi Bruxelles. Purtroppo un negozio di dischi a cui sono affezionato non c'è perché in realtà qui vicino, a parte quanto si trova nei centri commerciali non c'è tanto. C'era però...ed era proprio nella strada parallela a dove vivo ora io a Codroipo, si chiamava Dischi Eugenio, recentemente ho messo un paio di foto su Instagram di com'era appena chiuso e com'è adesso senza più la scritta...abbastanza triste. C'ero stato un paio di volte da quando avevo iniziato a vedermi con la mia ragazza qui e aveva una clientela molto fidelizzata a cui trovava cose di importazione e fuori catalogo, purtroppo l'ho scoperto tardi e l'unico disco comprato è stato 'Hard Candy' dei Counting Crows.
RICCARDO STURA (TAG MY TOE/BUFFALO TRIO)
Il primo disco fondamentale (rigorosamente in vinile), anche il primo che ho avuto, è stato Born In The USA del BRUCE SPRINGSTEEN. Avevo 12 anni e mio papà me lo regalò alla fine di un anno scolastico. Ricordo che durante l'estate non smettevo mai di ascoltarlo, chiamavo papà in ufficio per chiedergli quante volte si poteva ascoltare un vinile prima che si rovinasse, e lui che mi diceva, vai tranquillo che devi ascoltarlo un bel pò di volte, e così feci! Che disco, che sound, che pezzi! Bruce come sai, è l'artista che mi ha cambiato la vita: grazie a lui pochi anni dopo iniziai a suonare la chitarra (primo brano The River), grazie a lui la lingua inglese divenne sempre più fondamentale nella mia crescita, leggevo e traducevo i testi di BitUSA, cercavo di comprendere le liriche e tutto ciò che Bruce voleva comunicarmi. Devi sapere che a Rueglio (piccolo comune del canavese) tutti i miei amici più grandi ascoltavano già il Boss, noi ruegliesi siamo sempre stati ultra fanatici del Jersey Devil e mi piace sempre dire che in rapporto alla popolazione abbiamo il maggior numero di fans! Da quel vinile in poi tutta la mia vita e migliorata, avevo scoperto musica che mi comunicava sensazioni e emozioni (papà possedeva già allora 300 vinili circa di Jazz, ma diciamo che non è mai stato il mio genere, anche se devo ringraziare il babbo per avermi trasmesso la passione nell'ascoltare), un paio di anni dopo comprai Tunnel Of Love e poi tutti gli altri....grazie Bruce!
Riguardo al negozio di dischi ai tempi non ne avevo uno favorito mentre ora devo dire Paper Moon (Biella), ho arricchito tantissimo il mio catalogo con chicche e dischi difficilmente reperibili grazie a Marco, Paolo e Andrea.
CRISTIANO CARNIEL (LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS)
The Joshua Tree degli U2 perché coincide con i miei 18 anni. E poi perché lo amai e lo amo ancora così tanto da pensare che a nessuno potrebbe piacere quanto a me (vi capita mai?). Lo comprai il giorno che uscì, era il 1987, da Buzzi Dischi di Busto Arsizio, il negozio che ricordo con più piacere perché ci spesi molti dei soldi delle paghette per iniziare la mia personale discoteca. 10.000 lire circa a LP. Il sacrificio era tale che un disco che avevi comprato non poteva non piacerti. Non esisteva che non ti piacesse. Lo ascoltavi così tante volte che alla fine ti entrava dentro, bello o brutto che fosse.
MAX ARRIGO (NANDHA BLUES BAND)
Potrei dire Deja Vu di CSN & Y che al primo ascolto mi trasportò a Woodstock o Born In The USA che mi diede un motivo per tenere duro negli anni '80, ma il mio primo 45 giri fu proprio questo:
Il negozio di dischi al quale sono più affezionato è Rock & Folk a Torino. Per anni il sabato pomeriggio ci si incontrava li con gli amici, ancora oggi resiste ma a fatica...
GINO GIANGREGORIO (VIA DEL BLUES)
Il primo vinile che acquistai fu il primo disco 33 giri di Elvis Presley, dal titolo omonimo ed in seguito, quello a cui sono molto legato è Aftermath dei ROLLING STONES, anche Undead dei Ten Years After, quest'ultimo mi ha sconvolto in senso positivo sotto l'aspetto chitarristico, senza contare il primo 33 vinile di Hendrix, ascoltato per 15 ore al giorno, su al Nord e precisamente in Biandronno in provincia di Varese, dove lavoravo ai tempi.
CARLO LANCINI (MOJO FILTER)
Nell’ultimo periodo sto rivalutando i primi anni Novanta, fino al 1996, l’anno del mio servizio militare. Li sto rivalutando perché sono stati gli anni della mia formazione musicale. In quegli anni ero un ragazzo un po’ particolare, e a dirlo erano i miei gusti musicali. Fuori ce n’era per tutti i gusti: il grunge con band di spessore e side projects vari, gli ultimi colpi del glam, il metal, le boy bands e – solo per amore della gnocca – le truzzaggini da discoteca. Ma io impazzivo per quello che è stato definito “Americana”. Come del resto il tutta Italia, anche a Bergamo esistevano ancora i negozi di dischi, alcuni specializzati e altri un po’ meno. Io andavo da Vittorio in Città Alta, il sabato pomeriggio. Prendevo il mio Piaggio Sì grigio, mi mettevo il casco Nolan rosso con sul retro la lisca di pesce bianca, omaggio artigianale ai californiani Fishbone, e correvo “veloce” lungo Viale Papa Giovanni, salivo le mura, facevo l’ultimo curvone prima di Colle Aperto rigorosamente pedalando (il motore era alla frutta!), parcheggiavo alla cazzo solo con il bloccasterzo (altri tempi!) e poi correvo nel negozietto di 20 mq. Lì Vittorio mi ha spacciato, per me a scatola chiusa, Perfectly Good Guitar di John Hiatt, Hollywood Town Hall dei Jayhawks, il primo album di Todd Snider e un sacco di altri dischi fondamentali per la mia crescita. La forza di Vittorio è stata soprattutto quella di alimentare un fuoco acceso però dal fato. Lui non mi ha dato in pasto agli artisti del momento, non ha tentato di vendermi quello che piaceva a lui. Vittorio ha “solo” scelto quello che era giusto per me, quello che era giusto per un adolescente, introverso ma non troppo, con l’aria da secchione ma con una pagella tipica del ripetente, che in una serata primaverile di un anno prima era entrato per acquistare un vinile di Bruce Springsteen, Nebraska.
MARCO DIAMANTINI (CHEAP WINE)
Uno solo non ce la posso fare. Sarebbe non veritiero. Dovrei indicarne minimo una decina. Ma visto che è un gioco: Highway 61 Revisited. Comprato alla fine degli anni 70 ('78 o '79) alla Dimar Dischi di Pesaro che adesso non esiste più.
JAIME DOLCE
Quando ero piccolo guardavo e ascoltavo 3 dischi (veramente ce n' erano tanti...) nella collezione di vinili di mio padre: c'era Band Of Gypsys di Jimi Hendrix , c'era THE ALLMAN BROTHERS BAND Live At Fillmore East e c'era anche Eat A Peach...Dentro Eat A Peach dove c'era questo bellissimo quadro psichedelico..l'adoro ancora...il fatto che potevo aprirli & leggere mentre ascoltavo...leggere chi ci aveva suonato...chi ha scritto...dove e' stato registrato..,quando lessi su Eat A Peach: "dedicated to a brother"(dedicato a un fratello). Questi dischi mi hanno cambiato la vita, mi hanno influenzato tanto...forse e' il suono di quell' auditorio/teatro Fillmore East...per me, quei dischi sono le Bibbie...
Jimi Hendrix e Duane Allman sono ancora i miei due chitarristi preferiti: mille percento anima...Jimi con il suono della Fender...Duane con la Gibson...mille percento BLUES...mille percento SOUL...mille percento ROCK&ROLL.
LUCA MILANI
Erano appena iniziati gli anni novanta ed erano appena passati gli anni ottanta dove l'immagine e "l'apparire" avevano un ruolo fondamentale nella musica (cosa che purtroppo è tornata negli ultimi anni). Un pomeriggio apparve in tv un ragazzo biondo che mi assalì con la sua rabbia, la sua voce e la sua sincerità, vestito come un ragazzo qualunque ma con energia capace di spazzare via in due minuti tutti i bambocci vestiti a festa del decennio precedente. Finalmente era arrivato qualcuno capace di urlare a nome di chi fino a quel momento era stato a guardare in un angolo. Il giorno stesso andai nel negozio di dischi del mio paese, negozio che ora non esiste più e comprai la cassetta di Nevermind dei NIRVANA.
FEDE SPANGHERO (GO GO DIABLOS)
Il disco che mi ha cambiato la vita è stato Some Girls dei ROLLING STONES, nel lontano 1978, il primo che mi sono fatto comprare è stato "Ob-la-di-ob-la-da" nel 1968 (avevo 3 anni)...il negozio a cui sono emotivamente più legato è la vecchia Standa di Monfalcone che aveva un assortimento infinito di musicassette della Joker e della Columbia con tutte le incisioni vecchie di blues e jazz, John Lee Hooker, Jimmy Reed, Lightnin' Hopkins, Robert Johnson, Billie Holiday...una figata!
PAOLO BONFANTI
Il mio primo vinile è stato “Bluesbreakers, JOHN MAYALL with Eric Clapton”... il famigerato "Beano album". ... era una versione originale del 1966 regalatami da un vicino di casa che non sapeva cosa farsene! Io avevo 14 anni... ai tempi non avevo nemmeno il giradischi (che ho comprato proprio per quell'occasione)... ricordo che la prima cosa che mi stregò fu la copertina: quattro inglesi vestiti in maniera strana, seduti chissà dove... uno di loro aveva in mano un fumetto e sembrava leggerlo con grande interesse… o forse fingeva per vincere l’imbarazzo… non so….Poi, finalmente, riuscii a sentirlo e le cose cambiarono per sempre: impazzii letteralmente per Hideaway, All your Love, Ramblin On My Mind… per Eric Clapton e la sua Les Paul che, dentro quel Marshall 1962, aveva un suono che non avevo mai sentito prima …. Avevo scoperto il “british blues”, quella musica che gli inglesi scopiazzavano dagli americani aggiungendoci quel certo non so che … avevo scoperto la swingin’ london degli anni sessanta… love at first sight. Ancora oggi il beano Album è uno dei miei dischi preferiti, il primo di una lunga serie di edizioni più o meno rare a cui ho dato la caccia in questi anni. L’ultimo è stato la prima stampa inglese di “Let It Bleed “ degli Stones che ho comprato il mese scorso a Norimberga.
LUCA ROVINI
Ero un ragazzino, lavoravo per comprarmi i dischi. Ancora oggi, che ho 41 anni, in effetti è così. Ci sono tantissimi artisti che amo alla follia, nella mia storia di amante della musica, di ascoltatore giornaliero, ci sono dischi che mi hanno accompagnato, che mi hanno sconvolto, che mi hanno fatto rinascere, dischi che quando li ascolto mi catapultano improvvisamente in un preciso istante della mia vita. In questo mio contributo ne dovrei scegliere uno soltanto ed è una scelta ardua ma posso farcela. Ma prima devo dare una breve introduzione agli “altri”. Come potrei scordarmi il primo disco che ho comprato, era Chet Baker, un disco dal vivo, bellissimo, sognante, all’epoca sognavo molto più di adesso. Potrei citare i miei autori preferiti in assoluto, WILLY DEVILLE, Steve Earle, Allman Brothers Band, John Hiatt, Elliott Murphy, Bob Dylan ovviamente e Townes Van Zandt. Potrei dire Night Lights o Blood On The Tracks o Shut Up And Die Like An Aviator o Bring The Family o Live At Fillmore East o Live At The Old Quarter. Se devo scegliere un’artista, uno solo, scelgo Willy. Perché io proprio senza la sua voce non posso stare, la più bella che abbia mai sentito. Willy era il miglior cantante che potevi aver la fortuna di vedere dal vivo. Non mi ha mai deluso, quando lo vidi la prima volta ero sotto il palco, mi spaventai quando entrò. Quando sentii quella meravigliosa voce dal vivo capii che Willy era il più grande, per carisma, per voce, le canzoni. Ringrazierò sempre il mio Babbo che mi portò a vederlo a Nonantola, ero un bambino, che regalo pazzesco. Da quella volta ho visto Willy ogni volta che è venuto in Italia, l’ho anche incontrato, ci ho parlato, era un gigante, era fatto, era comunque il migliore. E’ veramente dura scegliere un disco solo di Willy ma se proprio devo scelgo Le Chat Bleu.
Un capolavoro che ancora oggi ascolto spesso. Lì dentro ci sono le ballate, c’è il rock’n’roll, c’è il cajun, c’è il blues e c’è quella magnifica voce che non ho più smesso di amare.
Ricordo bene dove lo comprai, come quasi tutti i dischi di quel periodo.
Erano 3 i miei negozi di dischi preferiti.
Uno era il Contempo di Firenze, un altro era un piccolo negozio di Pietrasanta di cui non ricordo il nome ed un altro era il mitico Magic Sound di Pisa.
Se devo scegliere il mio preferito dico senza dubbio il Macig Sound.
Era in piazza Garibaldi, centralissimo.
Andavamo lì tutte le sere, ragazzi che fumavano e ascoltavano le nuove uscite, e dibattevano, era piccolissimo, aveva tutto.
Lì ho comprato una miriade di dischi, aspettavamo il giorno in cui arrivava il fax che diceva cosa sarebbe arrivato il giorno dopo e potete scommetterci che il giorno dopo eravamo lì ad aspettare i pacchi con i vinili e volevamo vedere mentre venivano aperti e volevamo toccare subito quello che aspettavamo.
Poi i tempi cambiarono, aprirono le grosse catene come il Media World, una truffa, e tutto fu risucchiato senza possibilità di sopravvivenza.
I proprietari chiusero ma amavano talmente tanto la musica che aprirono un locale, il Borderline, dove per diversi anni ci fecero ascoltare concerti stupendi, grazie anche all’amico e mai dimenticato Carlo Carlini. Li abbiamo visto tanti de i nostri idoli, li abbiamo suonato tanto, abbiamo aperto concerti importanti, li ci siamo ubriacati alla follia con Tom Pacheco (birra e tequila per la precisione) e con tanti altri.
Poi anche quello è stato risucchiato dal vile denaro.
Oggi il Borderline è un locale per metallari, non credo ci siano più le copertine di Townes appese ai muri. Oggi dove era il Magic Sound c’è un’agenzia immobiliare del cazzo. Mi capita di passare da Piazza Garibaldi, ogni tanto mi volto, getto lo sguardo lì dove c’era quella minuscola vetrina, non la vedo l’agenzia immobiliare, mi vedo io a 20 anni, con l’impermeabile chiaro lungo, i capelli lunghi, la sigaretta accesa, appoggiato al muro, con mille sogni, che magari ascolto questi sconosciuti Havalinas che nessuno sapeva chi cazzo fossero ma che ci eccitavano, mi vedo a guardare le ragazzine della mia età. Tutte cose che non esistono più, tutto morto. Eppure se metto sul piatto Le Chat Bleu il tempo si ferma di nuovo e posso decidere di essere ovunque. Io con le mie rughe e lui con i suoi rumori di fondo, non comprerò mai una ristampa, così siamo, così ci siamo incontrati e così invecchieremo, in quella piazza di Pisa dove giovani bulletti passano ignari del fatto che 20 anni fa lì c’era la vita.
Oggi il Borderline è un locale per metallari, non credo ci siano più le copertine di Townes appese ai muri. Oggi dove era il Magic Sound c’è un’agenzia immobiliare del cazzo. Mi capita di passare da Piazza Garibaldi, ogni tanto mi volto, getto lo sguardo lì dove c’era quella minuscola vetrina, non la vedo l’agenzia immobiliare, mi vedo io a 20 anni, con l’impermeabile chiaro lungo, i capelli lunghi, la sigaretta accesa, appoggiato al muro, con mille sogni, che magari ascolto questi sconosciuti Havalinas che nessuno sapeva chi cazzo fossero ma che ci eccitavano, mi vedo a guardare le ragazzine della mia età. Tutte cose che non esistono più, tutto morto. Eppure se metto sul piatto Le Chat Bleu il tempo si ferma di nuovo e posso decidere di essere ovunque. Io con le mie rughe e lui con i suoi rumori di fondo, non comprerò mai una ristampa, così siamo, così ci siamo incontrati e così invecchieremo, in quella piazza di Pisa dove giovani bulletti passano ignari del fatto che 20 anni fa lì c’era la vita.
FRANK GET (TEX MEX/RESSELL BROTHERS)
Domanda da un milione di dollari… diciamo che devo fare alcuni distinguo, (ho avuto la fortuna di avere dei genitori musicisti..): il primo vinile che ho ascoltato da piccolo (avevo cinque anni…1969) è stato una raccolta dei Beatles, il primo vinile che ho acquistato è stato Ziggy Stardust di David Bowie, quello che mi ha cambiato la vita è stato Born To Run (regalo dei miei cugini di Westwood N.J.) …però devo dirti che il disco che porterei sulla famosa isola deserta è Live Bullet di BOB SEGER (ad un’ incollatura “Live at Fillmore East” Allman Bros) ma purtroppo hai detto uno solo. Il motivo è identico per entrambi, essendo” live”, non ci son scuse, quello si suonava, quello si sentiva, pura adrenalina!! Riguardo ai negozi di dischi apriamo un capitolo tristissimo, parliamo di una specie estinta. Ricordo con piacere due baluardi oramai chiusi da anni The Musical Box, e Wom (Word of music) entrambi gestiti da appassionati di musica. In entrambi oltre all’atto dell’acquisto del vinile, poi del cd (sappiamo bene, poi, come si sia persa la poesia dell’ “oggetto” disco) c’era condivisione e complicità nel giudizio sul disco appena uscito e soprattutto tanta passione per la Musica. Direi che la cosa fondamentale era il dialogo ed il rapporto umano che si veniva a creare. Sicuramente un ottimo contributo alla diffusione della cultura e dell’arte. Purtroppo come ben sappiamo le ragioni economiche han fatto scomparire la bottega in favore della grande distribuzione….ma qui spalanchiamo un abisso, (da cui mi sa che è difficile risalire).
GUY LITTELL
Il mio disco della vita, per quanto riguarda il vinile potrei dire che è On The Beach di NEIL YOUNG. E anche il suo acquisto fu singolare: lo comprai per pochi euro un venerdì o sabato sera, intorno ai 23 anni...un mio amico mi disse che lo zio gli aveva regalato una bella raccolta di vinili, gli dissi che volevo On The Beach e lui me lo portò la sera stessa, nel bel mezzo di un'ubriacata collettiva che in quel momento stava coinvolgendo una ventina di persone nella Villa Comunale di Torre del Greco (Na) dove sono nato e cresciuto. Mi meraviglio che l'indomani fosse ancora con me e soprattutto intatto! Per quanto riguarda il negozio...scelgo Tattoo Records, situato nel bellissimo centro storico di Napoli. Ho davvero un bel ricordo legato a Tattoo: andai a comprare Jacksonville City Nights di Ryan Adams & The Cardinals e credo fossero un po' di mesi che non compravo dischi...ero stato preso da altre cose e forse non avevo poi tanti soldi, comprare quel disco diede di nuovo il via alla mia voglia di spendere in dischi che amavo e presto ne cantavo le canzoni mentre lavoravo come lavapiatti il sabato sera in un pub locale. Magia.
DARIO SNIDARO (RUSTED PEARLS)
In vinile direi Gold di RYAN ADAMS, l'ho comprato recentemente e ha un quarto lato, che nel cd non c'è, con delle canzoni splendide secondo me, come Rosalie Come And Go, The Bar Is A Beautiful Place, The Fools We Are As Men... non che il resto del disco sia da meno...anzi. Sono molto affezionato a questo artista, non è il primo disco che ho sentito, la prima canzone è stata Hotel Chelsea Nights, ma è sicuramente il disco che nel complesso mi piace di più per cantautorato, suoni e impatto live della band, nonostante lui lo abbia visto solamente due volte negli ultimi tour acustici, prima Brighton poi Bruxelles. Purtroppo un negozio di dischi a cui sono affezionato non c'è perché in realtà qui vicino, a parte quanto si trova nei centri commerciali non c'è tanto. C'era però...ed era proprio nella strada parallela a dove vivo ora io a Codroipo, si chiamava Dischi Eugenio, recentemente ho messo un paio di foto su Instagram di com'era appena chiuso e com'è adesso senza più la scritta...abbastanza triste. C'ero stato un paio di volte da quando avevo iniziato a vedermi con la mia ragazza qui e aveva una clientela molto fidelizzata a cui trovava cose di importazione e fuori catalogo, purtroppo l'ho scoperto tardi e l'unico disco comprato è stato 'Hard Candy' dei Counting Crows.
RICCARDO STURA (TAG MY TOE/BUFFALO TRIO)
Il primo disco fondamentale (rigorosamente in vinile), anche il primo che ho avuto, è stato Born In The USA del BRUCE SPRINGSTEEN. Avevo 12 anni e mio papà me lo regalò alla fine di un anno scolastico. Ricordo che durante l'estate non smettevo mai di ascoltarlo, chiamavo papà in ufficio per chiedergli quante volte si poteva ascoltare un vinile prima che si rovinasse, e lui che mi diceva, vai tranquillo che devi ascoltarlo un bel pò di volte, e così feci! Che disco, che sound, che pezzi! Bruce come sai, è l'artista che mi ha cambiato la vita: grazie a lui pochi anni dopo iniziai a suonare la chitarra (primo brano The River), grazie a lui la lingua inglese divenne sempre più fondamentale nella mia crescita, leggevo e traducevo i testi di BitUSA, cercavo di comprendere le liriche e tutto ciò che Bruce voleva comunicarmi. Devi sapere che a Rueglio (piccolo comune del canavese) tutti i miei amici più grandi ascoltavano già il Boss, noi ruegliesi siamo sempre stati ultra fanatici del Jersey Devil e mi piace sempre dire che in rapporto alla popolazione abbiamo il maggior numero di fans! Da quel vinile in poi tutta la mia vita e migliorata, avevo scoperto musica che mi comunicava sensazioni e emozioni (papà possedeva già allora 300 vinili circa di Jazz, ma diciamo che non è mai stato il mio genere, anche se devo ringraziare il babbo per avermi trasmesso la passione nell'ascoltare), un paio di anni dopo comprai Tunnel Of Love e poi tutti gli altri....grazie Bruce!
Riguardo al negozio di dischi ai tempi non ne avevo uno favorito mentre ora devo dire Paper Moon (Biella), ho arricchito tantissimo il mio catalogo con chicche e dischi difficilmente reperibili grazie a Marco, Paolo e Andrea.
CRISTIANO CARNIEL (LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS)
The Joshua Tree degli U2 perché coincide con i miei 18 anni. E poi perché lo amai e lo amo ancora così tanto da pensare che a nessuno potrebbe piacere quanto a me (vi capita mai?). Lo comprai il giorno che uscì, era il 1987, da Buzzi Dischi di Busto Arsizio, il negozio che ricordo con più piacere perché ci spesi molti dei soldi delle paghette per iniziare la mia personale discoteca. 10.000 lire circa a LP. Il sacrificio era tale che un disco che avevi comprato non poteva non piacerti. Non esisteva che non ti piacesse. Lo ascoltavi così tante volte che alla fine ti entrava dentro, bello o brutto che fosse.
MAX ARRIGO (NANDHA BLUES BAND)
Potrei dire Deja Vu di CSN & Y che al primo ascolto mi trasportò a Woodstock o Born In The USA che mi diede un motivo per tenere duro negli anni '80, ma il mio primo 45 giri fu proprio questo:
Il negozio di dischi al quale sono più affezionato è Rock & Folk a Torino. Per anni il sabato pomeriggio ci si incontrava li con gli amici, ancora oggi resiste ma a fatica...
GINO GIANGREGORIO (VIA DEL BLUES)
Il primo vinile che acquistai fu il primo disco 33 giri di Elvis Presley, dal titolo omonimo ed in seguito, quello a cui sono molto legato è Aftermath dei ROLLING STONES, anche Undead dei Ten Years After, quest'ultimo mi ha sconvolto in senso positivo sotto l'aspetto chitarristico, senza contare il primo 33 vinile di Hendrix, ascoltato per 15 ore al giorno, su al Nord e precisamente in Biandronno in provincia di Varese, dove lavoravo ai tempi.
CARLO LANCINI (MOJO FILTER)
Nell’ultimo periodo sto rivalutando i primi anni Novanta, fino al 1996, l’anno del mio servizio militare. Li sto rivalutando perché sono stati gli anni della mia formazione musicale. In quegli anni ero un ragazzo un po’ particolare, e a dirlo erano i miei gusti musicali. Fuori ce n’era per tutti i gusti: il grunge con band di spessore e side projects vari, gli ultimi colpi del glam, il metal, le boy bands e – solo per amore della gnocca – le truzzaggini da discoteca. Ma io impazzivo per quello che è stato definito “Americana”. Come del resto il tutta Italia, anche a Bergamo esistevano ancora i negozi di dischi, alcuni specializzati e altri un po’ meno. Io andavo da Vittorio in Città Alta, il sabato pomeriggio. Prendevo il mio Piaggio Sì grigio, mi mettevo il casco Nolan rosso con sul retro la lisca di pesce bianca, omaggio artigianale ai californiani Fishbone, e correvo “veloce” lungo Viale Papa Giovanni, salivo le mura, facevo l’ultimo curvone prima di Colle Aperto rigorosamente pedalando (il motore era alla frutta!), parcheggiavo alla cazzo solo con il bloccasterzo (altri tempi!) e poi correvo nel negozietto di 20 mq. Lì Vittorio mi ha spacciato, per me a scatola chiusa, Perfectly Good Guitar di John Hiatt, Hollywood Town Hall dei Jayhawks, il primo album di Todd Snider e un sacco di altri dischi fondamentali per la mia crescita. La forza di Vittorio è stata soprattutto quella di alimentare un fuoco acceso però dal fato. Lui non mi ha dato in pasto agli artisti del momento, non ha tentato di vendermi quello che piaceva a lui. Vittorio ha “solo” scelto quello che era giusto per me, quello che era giusto per un adolescente, introverso ma non troppo, con l’aria da secchione ma con una pagella tipica del ripetente, che in una serata primaverile di un anno prima era entrato per acquistare un vinile di Bruce Springsteen, Nebraska.
MARCO DIAMANTINI (CHEAP WINE)
Uno solo non ce la posso fare. Sarebbe non veritiero. Dovrei indicarne minimo una decina. Ma visto che è un gioco: Highway 61 Revisited. Comprato alla fine degli anni 70 ('78 o '79) alla Dimar Dischi di Pesaro che adesso non esiste più.
JAIME DOLCE
Quando ero piccolo guardavo e ascoltavo 3 dischi (veramente ce n' erano tanti...) nella collezione di vinili di mio padre: c'era Band Of Gypsys di Jimi Hendrix , c'era THE ALLMAN BROTHERS BAND Live At Fillmore East e c'era anche Eat A Peach...Dentro Eat A Peach dove c'era questo bellissimo quadro psichedelico..l'adoro ancora...il fatto che potevo aprirli & leggere mentre ascoltavo...leggere chi ci aveva suonato...chi ha scritto...dove e' stato registrato..,quando lessi su Eat A Peach: "dedicated to a brother"(dedicato a un fratello). Questi dischi mi hanno cambiato la vita, mi hanno influenzato tanto...forse e' il suono di quell' auditorio/teatro Fillmore East...per me, quei dischi sono le Bibbie...
Jimi Hendrix e Duane Allman sono ancora i miei due chitarristi preferiti: mille percento anima...Jimi con il suono della Fender...Duane con la Gibson...mille percento BLUES...mille percento SOUL...mille percento ROCK&ROLL.
LUCA MILANI
Erano appena iniziati gli anni novanta ed erano appena passati gli anni ottanta dove l'immagine e "l'apparire" avevano un ruolo fondamentale nella musica (cosa che purtroppo è tornata negli ultimi anni). Un pomeriggio apparve in tv un ragazzo biondo che mi assalì con la sua rabbia, la sua voce e la sua sincerità, vestito come un ragazzo qualunque ma con energia capace di spazzare via in due minuti tutti i bambocci vestiti a festa del decennio precedente. Finalmente era arrivato qualcuno capace di urlare a nome di chi fino a quel momento era stato a guardare in un angolo. Il giorno stesso andai nel negozio di dischi del mio paese, negozio che ora non esiste più e comprai la cassetta di Nevermind dei NIRVANA.
FEDE SPANGHERO (GO GO DIABLOS)
Il disco che mi ha cambiato la vita è stato Some Girls dei ROLLING STONES, nel lontano 1978, il primo che mi sono fatto comprare è stato "Ob-la-di-ob-la-da" nel 1968 (avevo 3 anni)...il negozio a cui sono emotivamente più legato è la vecchia Standa di Monfalcone che aveva un assortimento infinito di musicassette della Joker e della Columbia con tutte le incisioni vecchie di blues e jazz, John Lee Hooker, Jimmy Reed, Lightnin' Hopkins, Robert Johnson, Billie Holiday...una figata!
PAOLO BONFANTI
Disco della vita: forse Blood on The Tracks di DYLAN...perchè mi ha fatto capire come procedere nel mestiere e nella vita; negozio di dischi sicuramente Disco Club a Genova. Un vero punto di riferimento! Dentro c'è una foto di Giancarlo Balduzzi il proprietario insieme a Nick Hornby, che è un suo grande amico e ha presentato lì il suo famoso libro sull'amore per i vinili. Imprescindibile!
Il mio primo vinile è stato il live degli AC/DC "If You Want Blood", lo comprai dopo aver visto in tv, in una meravigliosa giornata in cui non andai a scuola, il film "Let There Be Rock". Lo comprai in un negozio che oggi non esiste più, purtroppo, che si chiamava Nardi Dischi. Quello a cui sono stato più affezionato è stato Led Zeppelin III, che ancora ritengo fenomenale...
STEFANO GALLI
La mia "carriera musicologica" è iniziata tendenzialmente tardi.
Sono cresciuto, come tutti i bambini del paesello, con il sogno e la passione per il calcio. La Musica si è intromessa piano piano a partire da 14 anni, in prima superiore, periodo in cui il vinile aveva già lasciato il posto alla prepotente ascesa del cd.
Comprai il mio primo lettore e ci abbinai immediatamente 3 dischi: Creedence C.R., Nevermind dei Nirvana e Stone Free (un tributo a Hendrix da parte di grandi artisti).Li consumai letteralmente cercando di suonarci sopra con la mia chitarrina acustica "ZeroSette" e diventai l'incubo dei miei genitori soprattutto per quella Territorial Pissing che faceva vibrare i vetri delle finestre.
Poi arrivò l'Unplugged di CLAPTON e BOOM!!!... folgorazione.
Quello è il mio disco, quello che mi ha indirizzato verso il Blues e tutte le sue sfumature e che ha segnato il mio percorso musicale. Ne tengo 2 copie, una ancora chiusa.
Sono nato nell'era del digitale e i miei genitori non mi hanno lasciato in eredità una gran collezione di vinili; a loro piaceva la musica e ricordo che mio padre ci svegliava sempre con dei dischi di musica classica ma non erano di certo dei gran collezionisti. Conservo però un 45 giri di Folsom Prison di Cash ed è in bella mostra nel mio salotto, unico reperto veramente interessante della loro discografia.
DANIELE TENCA
Il mio "disco della vita", quello che mi ha cambiato la vita, e mi ha fatto decidere di diventare musicista, e' "Live 75-85" di BRUCE SPRINGSTEEN. Per essere precisi, audiocassetta n. 3. Inizia col boato del pubblico al saluto di Springsteen, e poi Born in the USA live. E poi Seeds, The River, eccetera. Probabilmente, senza quella cassetta, sarei una persona diversa, la mia vita sarebbe diversa. Il negozio a cui sono più affezionato invece non è legato a pomeriggi di affannosa ricerca a rarità, bootlegs o dischi appena usciti, ma è Zig Zag Dischi, a San Donato Milanese, dove il sabato pomeriggio ti può capitare di entrare (se riesci...), bere del buon vino e ascoltare artisti presentare i loro lavori dal vivo in un'atmosfera rilassata e familiare, ma attenta e rispettosa. Subito dietro a Zig Zag, Psycho, a Milano, altro luogo speciale di resistenza musicale. Mi troverete li', il 19 aprile pomeriggio, con altri artisti, a far due note per il Record Store Day.
ANDREA POGGIO (GREEN LIKE JULY)
“Blonde on Blonde” - BOB DYLAN. Ho comprato questo disco mosso da quella sorta di imperativo del collezionista diffidente “caro Andrea che ti piaccia o no in ogni collezione di dischi che si rispetti Dylan non può mancare”. Ho iniziato ad ascoltare “Blonde on Blonde” distrattamente, ad una camera di distanza dall’impianto stereo. Da “Visions of Johanna” in poi la mia vita da ascoltatore è cambiata per sempre. Ancora oggi, a quindici anni di distanza, i brani di “Blonde on Blonde” suonano come la prima volta che li ho ascoltati. Ancora oggi sono alla ricerca di un disco che eguagli quella sensazione di meraviglia e sbigottimento che provai all’ascolto di brani come “Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again”, “I Want You” e “Absolutely Sweet Marie”.
“W Dabliu” di Roberto Mocca - via Mondovì 4, Alessandria. In questo luogo, nell’autunno del 2003, sono nati i Green Like July. “May This Winter Freeze My Heart”, il nostro primo disco, è uscito dieci anni fa esatti per una piccola etichetta gestita da Roberto Mocca e chiamata, per l’appunto, “W Dabliu”. Roberto ha rappresentato e rappresenta un punto fermo per ogni collezionista di dischi dell’alessandrino. Nelle stanze del suo negozio ho passato interi pomeriggi ed è lì che ho incontrato Diego Cestino per la prima volta. Senza Diego i Green Like July non esisterebbero. Diego è il nostro Ian Stewart.
THOMAS GUIDUCCI
Il primo disco che ho comprato nella mia vita è stato Der Kommissar di Falco, ero bambino e quella canzone stranissima di cui non capivo nulla mi piaceva. Poi fortunatamente mi sono redento.
Se dovessi scegliere un solo disco che mi ha cambiato la vita (è durissima) direi "Irish Tour" di RORY GALLAGHER. Poi però a ruota ne arriverebbero altri:
1.Rory Gallagher Irish Tour
2.Townes Van Zandt Live at the Old Quarter, Houston, Texas
3.The Band The Band
4.Ray Lamontagne Till The Sun Turns Black
5.The Beatles Hard Day’s Night
Poi ovviamente c'è Johnny Cash, ma lì non potrei scegliere un disco. Ogni cosa che canta mi strappa il cuore.
Il mio negozio di dischi è "Backdoor" di Torino. Patria del vinile e pieno di gente simpatica. Però ho lasciato il cuore nel piccolo "Rockville" oramai chiuso purtroppo.
CATERINO "WASHBOARD" RICCARDI (THE FIREPLACES)
SANDRO PEZZAROSSA (ME PEK & BARBA)
Il primo disco che mi ha veramente emozionato è stato "the Velvet Underground &NIco" che mi ha fatto conoscere un mondo nuovo! Quelli che mi hanno segnato e rovinato a forza di ascoltarli: "Breva e tivan" di Davide Van de Sfroos e "We shall Overcome" del Boss!!
MARCO PYTHON FECCHIO
Nel 1973 avevo 10 anni e un piccolo mangiadischi su cui, dall'età di 4 cantavo a squarciagola tutte le canzoni di Adriano Celentano. La mia cuginetta appena più grande di me andava a scuola dalle suore e impazziva per Gesù. Era un Gesù molto bello e cantava una musica per me sconosciuta, addirittura ne avevano fatto un film. Così, al primo Natale a tiro mi feci regalare "lo stereo", un giradischi di "Selezione dal Reader's Digest" che oltre a vendere per corrispondenza aveva un suo negozio in via Della Moscova a Milano. Era meglio di niente ma non certo all'altezza dei primi Pioneer e Marantz che alcuni miei compagnetti esibivano fieri nel loro salotto. Insieme al giradischi arrivarono i due primi LP: E tu (Claudio Baglioni) e Jesus Christ Superstar (Original Soundtrack). D'obbligo a quel punto la visione del film che fu come aver visto Dio in persona, uno schock che diede un imprinting direi primordiale ai miei gusti e ascolti futuri. Oggi, a 51 anni suonati posso affermare che in quell'opera c'era già tutto quello che poi avrei scoperto nel corso di questa vita e che ancora oggi ascolto con devozione e un po' di commozione. Inutile dire che ne fu di Baglioni…
LUCA HERNANDEZ (HERNANDEZ & SAMPEDRO)
Come succede ancora oggi, con alcune band e con alcune sonorità è amore a prima vista, anzi a primo ascolto. E sono amori che non svaniscono mai. Cambiano, si trasformano, evolvono, ma mai deludono. Ricordo che poco dopo la metà degli anni 90 feci il primo vero passo verso la musica. Prima solo canzonette da adolescente, da radio, non avevo ancora capito che la musica mi avrebbe cambiato e colorato la vita, non avevo ancora scoperto il rock, quello sanguigno, fatto di sogni, sudore, lacrime e passione. Mi sono sempre piaciute le riviste mensili musicali, non c'è un motivo, forse mi attiravano le foto delle copertine, così come accade spesso anche per le copertine dei dischi. Un giorno comprai una di quelle riviste con la paghetta settimanale, e chi c'era in copertina? I PEARL JAM. Un articolo mi incuriosì molto. I PJ in realtà erano già nel pieno della loro attività, probabilmente era un articolo sull'uscita di Yeld , ma da quell'articolo lessi qualcosa riguardo Ten. La cosa mi incuriosì molto, tanto da andare nel negozio di dischi vicino casa poco dopo per ordinare quel cd. Chi l'avrebbe mai detto che dall'istante in cui di nascosto ascoltai quelle canzoni nelle cuffie del lettore portatile, la mia vita sarebbe cambiata. Ebbene sì. Tutto cambiò. Perchè la mia passione cresceva sempre più, tanto da spingermi a formare un gruppo, imparare a suonare la chitarra sulle note di Even Flow e iniziare a strillare le parole di Alive. Se ora ancora ho passione, amore per la musica e un sogno in cui credere, una buona parte del merito deriva da quel disco.
MANUELE ZAMBONI
Il disco al quale sono maggiormente legato, è legato a sua volta nella mia mente ad un fatto di cronaca nera datato 12 febbraio 1996. Il giorno seguente l'articolo del corriere della sera recitava così:
"Apocalisse nella nebbia: 11 morti.
Mega tamponamento sulla A4: 100 feriti, 300 mezzi coinvolti, esplode una cisterna presso Soave visibilità ridotta a zero. Alcune vittime carbonizzate nel rogo. Forse la "curiosità" alla base della tragedia."
All'epoca io ero un ventiduenne camionista.
Non fui coinvolto nell'incidente, ma rimasi bloccato nei 20 km di coda che si crearono, per 8 ore. Quel giorno mi misi in viaggio con una sola musicassetta a bordo. Ascoltai quel nastro per 8 ore filate, chiuso nella cabina del camion.
Anidride Solforosa.
Dieci canzoni su testi di Roberto Roversi.
Musiche di LUCIO DALLA.
Comprai il disco su consiglio indiretto di Federico Fiumani.
Dieci canzoni, non un ritornello. Eppure cantabilissimo. Ascoltato ancora oggi , un disco senza tempo. Musicalmente molto americano, anzi Newyorchese. Con uno sguardo alla baia sull'oceano opposto. San Francisco.
"Anidride Solforosa" (sono andata via perché rimanere sempre a Faenza non è che mi interessasse troppo....)
"La borsa dei valori"
(vendo Richard Ginori, compro Button....)
"Ulisse coperto di sale"
(Nebbia non c'è, il cielo c'è....)
Avevo sete. Nel frattempo la nebbia si era alzata. Gli accodati mettevano il naso fuori dall'auto.
"Carme Colon"
(con i suoi dieci anni, con i suoi piedi nudi sull'asfalto dell'autostrada....)
" Tu parlavi una lingua meravigliosa"
(le volpi con le code incendiate non parlano ma gridano pazze tra gli alberi per il dolore....)
Cominciavano ad arrivare le prime notizie.
Alcuni raccontavano il rumore delle lamiere e le grida disumane.
"Mela da scarto"
(dovevo starci tre mesi invece è passata una vita....)
"Merlino e l'ombra"
(voglio giocare con la tua sorte....)
"Non era più lui"
(sempre in stazione a guardare i treni veloci partire....)
"Un mazzo di fiori"
(passa un'onda la donna si butta, corre l'onda la donna è annegata....)
"Le parole incrociate"
(attenzione dentro ci siamo tutti, è il potere che offende....)
Alle 17 : 30, ci fecero uscire al casello di Montebello. Tornai a casa.
LUKE DUKE (THEE JONES BONES)
Dato che facendo una scelta sui famosi dischi da portare nella famosa isola deserta figurano i vari Tonight’s the Night di Neil Young, If I could only remeber my name di Crosby, Sticky Fingers degli Stones, Fillmore East degli Allman, di cui ci saranno sicuramente ampie recensioni, ho deciso di scrivere due righe sul mio personale quinto disco da portare sulla fantomatica isola:
The Very Crystal Speed Machine dei THEE HYPNOTICS
Pubblicato per la Def American nel 1994 come quarta produzione della band, «...Speed Machine» rappresenta anche il capitolo finale della storia del mitico quartetto anglosassone. Se Live’r than God e Come Down Heavy delineavano un approccio tanto garage-rock (il primo, registrato dal vivo) quanto psichedelico nel suo scarno blues revival (il secondo), tanto da farli paragonare a gruppi come MC5 e Stooges, con Soul Glitter & Sin del ‘91 la band si addentrava in mondi musicali più scuri e neri, quasi da una colonna sonora di un pulp movie primordiale.
Dopo anni di pausa, e resuscitati da Chris Robinson dei (defunti!) Black Crowes che gli procura un contratto negli USA, si siede in consolle di produzione portandosi appresso gli amici Marc Ford a «slidare» e Ed Harsch a picchiare sui tasti del piano, esce appunto «...Speed Machine» da molti considerato il loro disco più commerciale e «facile», ma a mio avviso più ispirato. La chitarra fuzz di Ray Hanson scrive dei riffs e solo tanto classici quanto indelebili nella loro melodica semplicità, e Jim Jones che in seguito assaporerà altri successi con Black Moses e Jim Jones Revue si rivela il grande screamer soul che alla fine è ed è sempre stato.
L’intro di Keep Rollin’ On e Heavy Liquid (che per molti segna l’inizio di una certa musica chiamata Stoner) sono una pesantissima botta di elettricità totale che aprono ad un mondo «Hypnotic» rock con richiami ai grandi classici degli anni ‘70, Stones (Goodbye, Look what you’ve done), Zeppelin (If The Good Lord Loves You) e Free (Down In The Hole) su tutti.
Tra intervalli strumentali ritagliati ad hoc a mettere in risalto le doti dei vari i membri della band, spicca poi Caroline Inside Out, vero e proprio gioiellino, che il sottoscritto annovera tra le best song di tutti i tempi (!). Peccato solo non averli potuti mai sentire e vedere dal vivo, e parlando con il «reverendo» Jim, occasione mai ci sarà.
ANDREA VAN CLEEF (VAN CLEEF CONTINENTAL)
A onor del vero, il primo disco acquistato in vita fu "Arena" dei Duran Duran (sì, facevo il tifo per loro, gli Spandau mi sembravano roba da vecchi). Il disco che riuscì a cambiare però la mia vitaccia di ragazzo di provincia fu in realtà una musicassetta da 90 minuti. Nella preistoria dei supporti discografici, la cassetta si colloca più o meno nel Giurassico medio, sapete, giovani barbari con telefonino? In quel periodo la mia collezione era arricchita, oltre che dagli originali faticosamente acquistati con i pochi risparmi che racimolavo, dalle numerose cassette duplicate da mio fratello (avere un fratello maggiore appassionato di buona musica rock fu uno dei privilegi che compensarono la mia condizione di provinciale). Fu così che un giorno, tra Jethro Tull, Pink Floyd, Van Halen, Neil Young e Led Zeppelin, mi venne recapitata una splendida TDK SA90, una di quelle belle, riservate alle occasioni speciali. Sul lato A (su quelle cassette ci stavano due album, solitamente, se non troppo lunghi; uno per lato) un inquietante nome e un inquietante titolo: BLACK SABBATH - Paranoid. Fu, istantaneamente, la folgorazione: il big bang emotivo che ancora oggi risuona nella percezione e nella sensibilità della musica che con fatica scrivo, suono, incido e tento di portare in giro. "War Pigs", con la sua partenza lenta e strascicata, mi aveva già conquistato anche prima di esplodere. "Paranoid" di contro mi aveva fatto scoprire l'headbanging (io lo chiamavo "fare l'agitato"). "Planet Caravan" era il viaggio cosmico che nella mia testa si fondeva in qualche maniera con Guerre Stellari e Star Trek; sarebbe in realtà diventato presto la colonna sonora di molte e "stupefacenti" estati future, nonché, per quello che può valere, uno dei miei pezzi preferiti di sempre. Il quartetto di partenza era chiuso da "Iron Man": oggi come oggi lo trovo un po' sciocchino, come pezzo, ma all'epoca ero già partito per la tangente pensando a Tony Stark, chiuso nella sua armatura invincibile, che menava il Mandarino. Le ultime quattro, pur non essendo hit, erano insieme un altro viaggio fantastico e inquietante: "Electric Funeral", "Hand of Doom", "Rat Salad", ma soprattutto "Fairies Wear Boots", che mi faceva rimandare indietro più volte il nastro per riascoltare l'intro di chitarra, che pensavo avesse qualcosa di magico che non riuscivo a capire (non conoscevo ancora l'esistenza del delay). Ci sono state tante band che ho amato, nel corso degli anni, che ho seguito, che ho conosciuto e ho risuonato. Ma niente ha mai risuonato nella mia mente come il viaggio di Planet Caravan e come gli altri pezzi di questo disco. Ah, sul lato B c'era "No Sleep 'til Hammersmith" dei Motorhead. Non male, la cassettina.
Quello è il mio disco, quello che mi ha indirizzato verso il Blues e tutte le sue sfumature e che ha segnato il mio percorso musicale. Ne tengo 2 copie, una ancora chiusa.
Sono nato nell'era del digitale e i miei genitori non mi hanno lasciato in eredità una gran collezione di vinili; a loro piaceva la musica e ricordo che mio padre ci svegliava sempre con dei dischi di musica classica ma non erano di certo dei gran collezionisti. Conservo però un 45 giri di Folsom Prison di Cash ed è in bella mostra nel mio salotto, unico reperto veramente interessante della loro discografia.
DANIELE TENCA
Il mio "disco della vita", quello che mi ha cambiato la vita, e mi ha fatto decidere di diventare musicista, e' "Live 75-85" di BRUCE SPRINGSTEEN. Per essere precisi, audiocassetta n. 3. Inizia col boato del pubblico al saluto di Springsteen, e poi Born in the USA live. E poi Seeds, The River, eccetera. Probabilmente, senza quella cassetta, sarei una persona diversa, la mia vita sarebbe diversa. Il negozio a cui sono più affezionato invece non è legato a pomeriggi di affannosa ricerca a rarità, bootlegs o dischi appena usciti, ma è Zig Zag Dischi, a San Donato Milanese, dove il sabato pomeriggio ti può capitare di entrare (se riesci...), bere del buon vino e ascoltare artisti presentare i loro lavori dal vivo in un'atmosfera rilassata e familiare, ma attenta e rispettosa. Subito dietro a Zig Zag, Psycho, a Milano, altro luogo speciale di resistenza musicale. Mi troverete li', il 19 aprile pomeriggio, con altri artisti, a far due note per il Record Store Day.
ANDREA POGGIO (GREEN LIKE JULY)
“Blonde on Blonde” - BOB DYLAN. Ho comprato questo disco mosso da quella sorta di imperativo del collezionista diffidente “caro Andrea che ti piaccia o no in ogni collezione di dischi che si rispetti Dylan non può mancare”. Ho iniziato ad ascoltare “Blonde on Blonde” distrattamente, ad una camera di distanza dall’impianto stereo. Da “Visions of Johanna” in poi la mia vita da ascoltatore è cambiata per sempre. Ancora oggi, a quindici anni di distanza, i brani di “Blonde on Blonde” suonano come la prima volta che li ho ascoltati. Ancora oggi sono alla ricerca di un disco che eguagli quella sensazione di meraviglia e sbigottimento che provai all’ascolto di brani come “Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again”, “I Want You” e “Absolutely Sweet Marie”.
“W Dabliu” di Roberto Mocca - via Mondovì 4, Alessandria. In questo luogo, nell’autunno del 2003, sono nati i Green Like July. “May This Winter Freeze My Heart”, il nostro primo disco, è uscito dieci anni fa esatti per una piccola etichetta gestita da Roberto Mocca e chiamata, per l’appunto, “W Dabliu”. Roberto ha rappresentato e rappresenta un punto fermo per ogni collezionista di dischi dell’alessandrino. Nelle stanze del suo negozio ho passato interi pomeriggi ed è lì che ho incontrato Diego Cestino per la prima volta. Senza Diego i Green Like July non esisterebbero. Diego è il nostro Ian Stewart.
THOMAS GUIDUCCI
Il primo disco che ho comprato nella mia vita è stato Der Kommissar di Falco, ero bambino e quella canzone stranissima di cui non capivo nulla mi piaceva. Poi fortunatamente mi sono redento.
Se dovessi scegliere un solo disco che mi ha cambiato la vita (è durissima) direi "Irish Tour" di RORY GALLAGHER. Poi però a ruota ne arriverebbero altri:
1.Rory Gallagher Irish Tour
2.Townes Van Zandt Live at the Old Quarter, Houston, Texas
3.The Band The Band
4.Ray Lamontagne Till The Sun Turns Black
5.The Beatles Hard Day’s Night
Poi ovviamente c'è Johnny Cash, ma lì non potrei scegliere un disco. Ogni cosa che canta mi strappa il cuore.
Il mio negozio di dischi è "Backdoor" di Torino. Patria del vinile e pieno di gente simpatica. Però ho lasciato il cuore nel piccolo "Rockville" oramai chiuso purtroppo.
CATERINO "WASHBOARD" RICCARDI (THE FIREPLACES)
E' durissima ma scelgo Sticky Fingers. E' in assoluto l'album che mi ha depurato dalla pop music nel senso più basso e mi ha traghettato nel rock/blues. Ho letteralmente consumato due musicassette. (2014)
Visto il mio precedente rollingstoniano contributo, ed essendo sempre più innamorato della chiesa elettrica del sud degli Stati Uniti, questa volta vorrei col mio intervento celebrare la mia seconda band preferita di sempre. THE BLACK CROWES. Potrei calare al primo colpo come minimo tre carichi, ovvero: Southern Harmony Musical Companion, Warpaint e Before The Frost Untill the Freeze (registrato presso gli studi del mai abbastanza celebrato Levon Helm). In soccorso alla mia indecisione viene un raccolta di pezzi che poteva limitarsi ad essere una greatest hits, invece per far si che la mia anima continui a cantare, i miei uccellacci preferiti, confezionano CROWEOLOGY.
Una pista guidata atta ad agire su due fronti: portare un potenziale pubblico nuovo a conoscerli meglio, 2) emozionare con qualcosa di fresco e accattivante chi già li ama. Lo fanno attraverso le loro canzoni, rivisitate in chiave elettroacustica. Il compito di aprire le danze è affidato a Jealous Again, dove il piano e cori la fanno da padrone. Ma il brano che più che una canzone è la testimonianza scritta di ciò che i Crowes sono è MY MORNING SONG.
Già mi fa impazzire la versione in studio, per non parlare della resa live in FREAK'N ROLL INTO THE FOG (registrato al Fillmore a San Francisco). Ma qui, in questa versione la band riesce a superare se stessa, e lo fa rovesciando sul pubblico un pentolone di gospel e sudore. Lo special centrale è il crossroad per definizione. Dove tutto ciò che è Crowes arriva e riparte. Ora c'è solo da sperare che la pausa presa sia solo motivo per re incrociare i becchi e tornare alla grande a farci viaggiare e godere. (2015)
Visto il mio precedente rollingstoniano contributo, ed essendo sempre più innamorato della chiesa elettrica del sud degli Stati Uniti, questa volta vorrei col mio intervento celebrare la mia seconda band preferita di sempre. THE BLACK CROWES. Potrei calare al primo colpo come minimo tre carichi, ovvero: Southern Harmony Musical Companion, Warpaint e Before The Frost Untill the Freeze (registrato presso gli studi del mai abbastanza celebrato Levon Helm). In soccorso alla mia indecisione viene un raccolta di pezzi che poteva limitarsi ad essere una greatest hits, invece per far si che la mia anima continui a cantare, i miei uccellacci preferiti, confezionano CROWEOLOGY.
Una pista guidata atta ad agire su due fronti: portare un potenziale pubblico nuovo a conoscerli meglio, 2) emozionare con qualcosa di fresco e accattivante chi già li ama. Lo fanno attraverso le loro canzoni, rivisitate in chiave elettroacustica. Il compito di aprire le danze è affidato a Jealous Again, dove il piano e cori la fanno da padrone. Ma il brano che più che una canzone è la testimonianza scritta di ciò che i Crowes sono è MY MORNING SONG.
Già mi fa impazzire la versione in studio, per non parlare della resa live in FREAK'N ROLL INTO THE FOG (registrato al Fillmore a San Francisco). Ma qui, in questa versione la band riesce a superare se stessa, e lo fa rovesciando sul pubblico un pentolone di gospel e sudore. Lo special centrale è il crossroad per definizione. Dove tutto ciò che è Crowes arriva e riparte. Ora c'è solo da sperare che la pausa presa sia solo motivo per re incrociare i becchi e tornare alla grande a farci viaggiare e godere. (2015)
SANDRO PEZZAROSSA (ME PEK & BARBA)
Il primo disco che mi ha veramente emozionato è stato "the Velvet Underground &NIco" che mi ha fatto conoscere un mondo nuovo! Quelli che mi hanno segnato e rovinato a forza di ascoltarli: "Breva e tivan" di Davide Van de Sfroos e "We shall Overcome" del Boss!!
MARCO PYTHON FECCHIO
Nel 1973 avevo 10 anni e un piccolo mangiadischi su cui, dall'età di 4 cantavo a squarciagola tutte le canzoni di Adriano Celentano. La mia cuginetta appena più grande di me andava a scuola dalle suore e impazziva per Gesù. Era un Gesù molto bello e cantava una musica per me sconosciuta, addirittura ne avevano fatto un film. Così, al primo Natale a tiro mi feci regalare "lo stereo", un giradischi di "Selezione dal Reader's Digest" che oltre a vendere per corrispondenza aveva un suo negozio in via Della Moscova a Milano. Era meglio di niente ma non certo all'altezza dei primi Pioneer e Marantz che alcuni miei compagnetti esibivano fieri nel loro salotto. Insieme al giradischi arrivarono i due primi LP: E tu (Claudio Baglioni) e Jesus Christ Superstar (Original Soundtrack). D'obbligo a quel punto la visione del film che fu come aver visto Dio in persona, uno schock che diede un imprinting direi primordiale ai miei gusti e ascolti futuri. Oggi, a 51 anni suonati posso affermare che in quell'opera c'era già tutto quello che poi avrei scoperto nel corso di questa vita e che ancora oggi ascolto con devozione e un po' di commozione. Inutile dire che ne fu di Baglioni…
LUCA HERNANDEZ (HERNANDEZ & SAMPEDRO)
Come succede ancora oggi, con alcune band e con alcune sonorità è amore a prima vista, anzi a primo ascolto. E sono amori che non svaniscono mai. Cambiano, si trasformano, evolvono, ma mai deludono. Ricordo che poco dopo la metà degli anni 90 feci il primo vero passo verso la musica. Prima solo canzonette da adolescente, da radio, non avevo ancora capito che la musica mi avrebbe cambiato e colorato la vita, non avevo ancora scoperto il rock, quello sanguigno, fatto di sogni, sudore, lacrime e passione. Mi sono sempre piaciute le riviste mensili musicali, non c'è un motivo, forse mi attiravano le foto delle copertine, così come accade spesso anche per le copertine dei dischi. Un giorno comprai una di quelle riviste con la paghetta settimanale, e chi c'era in copertina? I PEARL JAM. Un articolo mi incuriosì molto. I PJ in realtà erano già nel pieno della loro attività, probabilmente era un articolo sull'uscita di Yeld , ma da quell'articolo lessi qualcosa riguardo Ten. La cosa mi incuriosì molto, tanto da andare nel negozio di dischi vicino casa poco dopo per ordinare quel cd. Chi l'avrebbe mai detto che dall'istante in cui di nascosto ascoltai quelle canzoni nelle cuffie del lettore portatile, la mia vita sarebbe cambiata. Ebbene sì. Tutto cambiò. Perchè la mia passione cresceva sempre più, tanto da spingermi a formare un gruppo, imparare a suonare la chitarra sulle note di Even Flow e iniziare a strillare le parole di Alive. Se ora ancora ho passione, amore per la musica e un sogno in cui credere, una buona parte del merito deriva da quel disco.
MANUELE ZAMBONI
Il disco al quale sono maggiormente legato, è legato a sua volta nella mia mente ad un fatto di cronaca nera datato 12 febbraio 1996. Il giorno seguente l'articolo del corriere della sera recitava così:
"Apocalisse nella nebbia: 11 morti.
Mega tamponamento sulla A4: 100 feriti, 300 mezzi coinvolti, esplode una cisterna presso Soave visibilità ridotta a zero. Alcune vittime carbonizzate nel rogo. Forse la "curiosità" alla base della tragedia."
All'epoca io ero un ventiduenne camionista.
Non fui coinvolto nell'incidente, ma rimasi bloccato nei 20 km di coda che si crearono, per 8 ore. Quel giorno mi misi in viaggio con una sola musicassetta a bordo. Ascoltai quel nastro per 8 ore filate, chiuso nella cabina del camion.
Anidride Solforosa.
Dieci canzoni su testi di Roberto Roversi.
Musiche di LUCIO DALLA.
Comprai il disco su consiglio indiretto di Federico Fiumani.
Dieci canzoni, non un ritornello. Eppure cantabilissimo. Ascoltato ancora oggi , un disco senza tempo. Musicalmente molto americano, anzi Newyorchese. Con uno sguardo alla baia sull'oceano opposto. San Francisco.
"Anidride Solforosa" (sono andata via perché rimanere sempre a Faenza non è che mi interessasse troppo....)
"La borsa dei valori"
(vendo Richard Ginori, compro Button....)
"Ulisse coperto di sale"
(Nebbia non c'è, il cielo c'è....)
Avevo sete. Nel frattempo la nebbia si era alzata. Gli accodati mettevano il naso fuori dall'auto.
"Carme Colon"
(con i suoi dieci anni, con i suoi piedi nudi sull'asfalto dell'autostrada....)
" Tu parlavi una lingua meravigliosa"
(le volpi con le code incendiate non parlano ma gridano pazze tra gli alberi per il dolore....)
Cominciavano ad arrivare le prime notizie.
Alcuni raccontavano il rumore delle lamiere e le grida disumane.
"Mela da scarto"
(dovevo starci tre mesi invece è passata una vita....)
"Merlino e l'ombra"
(voglio giocare con la tua sorte....)
"Non era più lui"
(sempre in stazione a guardare i treni veloci partire....)
"Un mazzo di fiori"
(passa un'onda la donna si butta, corre l'onda la donna è annegata....)
"Le parole incrociate"
(attenzione dentro ci siamo tutti, è il potere che offende....)
Alle 17 : 30, ci fecero uscire al casello di Montebello. Tornai a casa.
LUKE DUKE (THEE JONES BONES)
Dato che facendo una scelta sui famosi dischi da portare nella famosa isola deserta figurano i vari Tonight’s the Night di Neil Young, If I could only remeber my name di Crosby, Sticky Fingers degli Stones, Fillmore East degli Allman, di cui ci saranno sicuramente ampie recensioni, ho deciso di scrivere due righe sul mio personale quinto disco da portare sulla fantomatica isola:
The Very Crystal Speed Machine dei THEE HYPNOTICS
Pubblicato per la Def American nel 1994 come quarta produzione della band, «...Speed Machine» rappresenta anche il capitolo finale della storia del mitico quartetto anglosassone. Se Live’r than God e Come Down Heavy delineavano un approccio tanto garage-rock (il primo, registrato dal vivo) quanto psichedelico nel suo scarno blues revival (il secondo), tanto da farli paragonare a gruppi come MC5 e Stooges, con Soul Glitter & Sin del ‘91 la band si addentrava in mondi musicali più scuri e neri, quasi da una colonna sonora di un pulp movie primordiale.
Dopo anni di pausa, e resuscitati da Chris Robinson dei (defunti!) Black Crowes che gli procura un contratto negli USA, si siede in consolle di produzione portandosi appresso gli amici Marc Ford a «slidare» e Ed Harsch a picchiare sui tasti del piano, esce appunto «...Speed Machine» da molti considerato il loro disco più commerciale e «facile», ma a mio avviso più ispirato. La chitarra fuzz di Ray Hanson scrive dei riffs e solo tanto classici quanto indelebili nella loro melodica semplicità, e Jim Jones che in seguito assaporerà altri successi con Black Moses e Jim Jones Revue si rivela il grande screamer soul che alla fine è ed è sempre stato.
L’intro di Keep Rollin’ On e Heavy Liquid (che per molti segna l’inizio di una certa musica chiamata Stoner) sono una pesantissima botta di elettricità totale che aprono ad un mondo «Hypnotic» rock con richiami ai grandi classici degli anni ‘70, Stones (Goodbye, Look what you’ve done), Zeppelin (If The Good Lord Loves You) e Free (Down In The Hole) su tutti.
Tra intervalli strumentali ritagliati ad hoc a mettere in risalto le doti dei vari i membri della band, spicca poi Caroline Inside Out, vero e proprio gioiellino, che il sottoscritto annovera tra le best song di tutti i tempi (!). Peccato solo non averli potuti mai sentire e vedere dal vivo, e parlando con il «reverendo» Jim, occasione mai ci sarà.
ANDREA VAN CLEEF (VAN CLEEF CONTINENTAL)
A onor del vero, il primo disco acquistato in vita fu "Arena" dei Duran Duran (sì, facevo il tifo per loro, gli Spandau mi sembravano roba da vecchi). Il disco che riuscì a cambiare però la mia vitaccia di ragazzo di provincia fu in realtà una musicassetta da 90 minuti. Nella preistoria dei supporti discografici, la cassetta si colloca più o meno nel Giurassico medio, sapete, giovani barbari con telefonino? In quel periodo la mia collezione era arricchita, oltre che dagli originali faticosamente acquistati con i pochi risparmi che racimolavo, dalle numerose cassette duplicate da mio fratello (avere un fratello maggiore appassionato di buona musica rock fu uno dei privilegi che compensarono la mia condizione di provinciale). Fu così che un giorno, tra Jethro Tull, Pink Floyd, Van Halen, Neil Young e Led Zeppelin, mi venne recapitata una splendida TDK SA90, una di quelle belle, riservate alle occasioni speciali. Sul lato A (su quelle cassette ci stavano due album, solitamente, se non troppo lunghi; uno per lato) un inquietante nome e un inquietante titolo: BLACK SABBATH - Paranoid. Fu, istantaneamente, la folgorazione: il big bang emotivo che ancora oggi risuona nella percezione e nella sensibilità della musica che con fatica scrivo, suono, incido e tento di portare in giro. "War Pigs", con la sua partenza lenta e strascicata, mi aveva già conquistato anche prima di esplodere. "Paranoid" di contro mi aveva fatto scoprire l'headbanging (io lo chiamavo "fare l'agitato"). "Planet Caravan" era il viaggio cosmico che nella mia testa si fondeva in qualche maniera con Guerre Stellari e Star Trek; sarebbe in realtà diventato presto la colonna sonora di molte e "stupefacenti" estati future, nonché, per quello che può valere, uno dei miei pezzi preferiti di sempre. Il quartetto di partenza era chiuso da "Iron Man": oggi come oggi lo trovo un po' sciocchino, come pezzo, ma all'epoca ero già partito per la tangente pensando a Tony Stark, chiuso nella sua armatura invincibile, che menava il Mandarino. Le ultime quattro, pur non essendo hit, erano insieme un altro viaggio fantastico e inquietante: "Electric Funeral", "Hand of Doom", "Rat Salad", ma soprattutto "Fairies Wear Boots", che mi faceva rimandare indietro più volte il nastro per riascoltare l'intro di chitarra, che pensavo avesse qualcosa di magico che non riuscivo a capire (non conoscevo ancora l'esistenza del delay). Ci sono state tante band che ho amato, nel corso degli anni, che ho seguito, che ho conosciuto e ho risuonato. Ma niente ha mai risuonato nella mia mente come il viaggio di Planet Caravan e come gli altri pezzi di questo disco. Ah, sul lato B c'era "No Sleep 'til Hammersmith" dei Motorhead. Non male, la cassettina.
Come fai a dimenticare il primo disco acquistato? Ricordo anche tutti quelli che giravano per casa, non molti in verità, ma il primo…quello che comprai nel primo negozio di dischi che miei occhi videro in vita: “La Discoteca di Valerio” a Biella, situato nella allora popolata e vivace galleria della vecchia Standa. Un posto imboscato per aprire una attività. Un posto che non ti veniva incontro, dovevi andare a cercarlo, come succede con tutte le passioni più grandi: ci vuole impegno. La Standa è sparita da tempo, rimangono ancora i locali vuoti e desolati da anni (magari non è più così?), in pieno centro, il negozio anche: se n’è andato insieme al padrone, qualche anno fa, insieme a tutti i dischi con il tempo diventati cd e svenduti dal figlio, poco temerario nella sua scelta di abbandonare tutto. Rimane una scritta “in vendita” ormai sbiadita dal tempo e che nessuno legge più e le vetrine tappezzate da pagine di giornale che raccontano notizie, vecchie (magari non è più così?). Ricordo che prima di riuscire ad entrare in quel negozio dovetti aspettare che il mio numero di scarpe aumentasse di quel tanto da permettermi di viaggiare da solo, di andare a cercare la mia passione. Da solo, io e le mie scarpe. Prima mi accontentavo di guardare la vetrina durante le classiche passeggiate domenicali con mamma e papà, li trascinavo sempre lì, sotto a quella galleria. Il negozio era sempre chiuso alla domenica, le poche luci della vetrina lo facevano apparire quasi tetro, aumentando ancora di più la mia curiosità.
Quando le scarpe furono arrivate al numero giusto, non ricordo bene il perché ma puntai tutto sul vinile di Crosby, Stills & Nash. Conoscevo già Neil Young, ma qui il suo nome non c’era, non chiudeva la fila. Molto probabilmente erano i tre quarti che mi mancavano, probabilmente quel divano in copertina mi trasmetteva quella serenità che l’ascolto mi confermò dopo, e che ancora adesso provo specchiandomi negli occhi blu di Judy Collins, viaggiando in Africa con il Marrakesh Express o sognando su Wooden Ships e Guinnevere. Probabilmente la foto interna con i tre infreddoliti e avvolti nelle pellicce doveva farsi guardare e diventare tra le mie icone preferite di sempre. Probabilmente era un destino che le mie scarpe già conoscevano. A volte spero che il mio numero di scarpe, da anni fermo sulla ruota del 42, possa diminuire e riportarmi indietro nel tempo, solo per vedere se farei la stessa scelta. Poi desisto. Long Time Gone.
martedì 15 aprile 2014
RECENSIONE: LEON RUSSELL (Life Journey)
LEON RUSSELL Life Journey (Universal Music, 2014)
A leggere le note di retro copertina pare di trovarsi di fronte ad una sorta di testamento musicale in cui il settantaduenne Leon Russell allinea i suoi "maestri", un tributo a tutti i musicisti che ne hanno segnato la carriera (più due nuove composizioni scritte di suo pugno). Esce adesso che il viaggio-di vita-è quasi arrivato alla fine, come ripete più volte, evidentemente affranto dai tanti problemi fisici che lo perseguitano. Facendo i dovuti scongiuri si spera non sia così- anche se qualche buontempone, recentemente, ha pure messo in giro la "bufala" della sua presunta morte-perché il carismatico musicista dell'Oklahoma sta vivendo una seconda brillante giovinezza che sembra quasi una continuazione degli anni d'oro gravitanti intorno al carrozzone messo in piedi con Joe Cocker prima e dalle cause umanitarie promosse da George Harrison dopo, che lo videro protagonista e che lo portarono al centro della scena musicale americana tra il 1969 e il 1973, facendolo diventare il più grande turnista americano dell'epoca ma anche con un paio di dischi solisti da enciclopedia rock sul groppone ed un passato remoto di tutto rispetto alla corte di Phil Spector. Non esiste più lo straripante e fantasioso performer di quegli anni, ma è rimasto l'ineguagliabile feeling del saggio fuoriclasse capace di portare le canzoni-e che canzoni- verso i suoni che hanno caratterizzato tutta la carriera: blues, swing, R & B, country, jazz, dixieland (la sua contagiosa Down In Dixieland, posta in chiusura e suonata con la Dixieland Band di John Clayton è un omaggio al genere di New Orleans. Più che riuscito numero da big band.).
Già lo splendido The Union (2010) condiviso con sir Elton John aveva lasciato intravedere segnali positivi e l'ispirazione dei vecchi tempi andati, facendo dimenticare i tanti anni di oblio-la stessa cosa che sta succedendo all'ispiratissimo Elton John degli ultimi lavori. Con il baronetto inglese ancora dietro alle quinte come produttore esecutivo e con il veterano produttore di estrazione jazz Tommy Lipuma a dare consigli ("il miglior produttore con cui abbia mai lavorato" dice Russell), Life Journey è a suo modo un piccolo classico-costruito sui classici dell'american songbook-che ammalia da cima a fondo senza mai stancare, tenuto legato dall'inconfondibile voce strascicata e arrochita che serpeggia, graffia ancora nei momenti up-tempo, quasi commuove quando ci si rilassa, mettendo in campo il classico blues riletto e modificato (Come On In My Kitchen di Robert Johnson), trascinanti rock'n'roll guidati da un piano barrellhouse (la sua Black Lips), confidenziali evergreen che più classici non si puo' come Georgia On My Mind portata al successo dal suo mito di gioventù Ray Charles, I Really Miss You di Paul Anka e I Got It Bad And That Ain't Good, tutte arricchite dalla presentissima sezione fiati della Clayton Hamilton Jazz Orchestra.
Fever ha l'indole rock'n'roll con la voce di Russell scatenata e protagonista assoluta che un solo attimo dopo sa veleggiare lentamente sopra alla sonnacchiosa pedal steel di Greg Leisz in Think Of Me e nella solarità country/soul/gospel di That Lucky Old Sun. E poi ancora numeri di alta classe come The Masquerade Is Over e New York State Of mind di Billy Joel, anticipata da una personale intro e riletta con devozione e bravura, non perdendo per strada nulla dello skyline metropolitano dipinto da Joel a suo tempo, nonostante Russell abbia dichiarato di conoscere solo vagamente la canzone, prontamente propostagli dal produttore Lipuma.
Classe infinita. "Master Of Space And Time" ancora una volta, non l'ultima. Vero
Russell?
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)
vedi anche RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)
A leggere le note di retro copertina pare di trovarsi di fronte ad una sorta di testamento musicale in cui il settantaduenne Leon Russell allinea i suoi "maestri", un tributo a tutti i musicisti che ne hanno segnato la carriera (più due nuove composizioni scritte di suo pugno). Esce adesso che il viaggio-di vita-è quasi arrivato alla fine, come ripete più volte, evidentemente affranto dai tanti problemi fisici che lo perseguitano. Facendo i dovuti scongiuri si spera non sia così- anche se qualche buontempone, recentemente, ha pure messo in giro la "bufala" della sua presunta morte-perché il carismatico musicista dell'Oklahoma sta vivendo una seconda brillante giovinezza che sembra quasi una continuazione degli anni d'oro gravitanti intorno al carrozzone messo in piedi con Joe Cocker prima e dalle cause umanitarie promosse da George Harrison dopo, che lo videro protagonista e che lo portarono al centro della scena musicale americana tra il 1969 e il 1973, facendolo diventare il più grande turnista americano dell'epoca ma anche con un paio di dischi solisti da enciclopedia rock sul groppone ed un passato remoto di tutto rispetto alla corte di Phil Spector. Non esiste più lo straripante e fantasioso performer di quegli anni, ma è rimasto l'ineguagliabile feeling del saggio fuoriclasse capace di portare le canzoni-e che canzoni- verso i suoni che hanno caratterizzato tutta la carriera: blues, swing, R & B, country, jazz, dixieland (la sua contagiosa Down In Dixieland, posta in chiusura e suonata con la Dixieland Band di John Clayton è un omaggio al genere di New Orleans. Più che riuscito numero da big band.).
Già lo splendido The Union (2010) condiviso con sir Elton John aveva lasciato intravedere segnali positivi e l'ispirazione dei vecchi tempi andati, facendo dimenticare i tanti anni di oblio-la stessa cosa che sta succedendo all'ispiratissimo Elton John degli ultimi lavori. Con il baronetto inglese ancora dietro alle quinte come produttore esecutivo e con il veterano produttore di estrazione jazz Tommy Lipuma a dare consigli ("il miglior produttore con cui abbia mai lavorato" dice Russell), Life Journey è a suo modo un piccolo classico-costruito sui classici dell'american songbook-che ammalia da cima a fondo senza mai stancare, tenuto legato dall'inconfondibile voce strascicata e arrochita che serpeggia, graffia ancora nei momenti up-tempo, quasi commuove quando ci si rilassa, mettendo in campo il classico blues riletto e modificato (Come On In My Kitchen di Robert Johnson), trascinanti rock'n'roll guidati da un piano barrellhouse (la sua Black Lips), confidenziali evergreen che più classici non si puo' come Georgia On My Mind portata al successo dal suo mito di gioventù Ray Charles, I Really Miss You di Paul Anka e I Got It Bad And That Ain't Good, tutte arricchite dalla presentissima sezione fiati della Clayton Hamilton Jazz Orchestra.
Fever ha l'indole rock'n'roll con la voce di Russell scatenata e protagonista assoluta che un solo attimo dopo sa veleggiare lentamente sopra alla sonnacchiosa pedal steel di Greg Leisz in Think Of Me e nella solarità country/soul/gospel di That Lucky Old Sun. E poi ancora numeri di alta classe come The Masquerade Is Over e New York State Of mind di Billy Joel, anticipata da una personale intro e riletta con devozione e bravura, non perdendo per strada nulla dello skyline metropolitano dipinto da Joel a suo tempo, nonostante Russell abbia dichiarato di conoscere solo vagamente la canzone, prontamente propostagli dal produttore Lipuma.
Classe infinita. "Master Of Space And Time" ancora una volta, non l'ultima. Vero
Russell?
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)
vedi anche RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)
giovedì 10 aprile 2014
RECENSIONE: BIGELF (Into The Maelstrom)
BIGELF Into The Maelstrom (Insideout Music, 2014)
La creatura di Damon Fox cresce come un fungo allucinogeno lasciato sotto il sole californiano (loro sono di Los Angeles): le radici nel passato, le nefaste conseguenze, per chi lo coglierà e lo assaggerà, nel futuro. Sono passati ben sei anni e tanti problemi (cambi di formazione, problemi con l'etichetta discografica) dall'ultimo album in studio Cheat The Gallows, e venti dalla nascita, ma la vena compositiva deviata è rimasta ben salda dentro il cilindro calato nella testa di Fox, ormai diventato un one man band assoluto, dopo la dipartita degli altri membri storici del gruppo che lo hanno lasciato solo al momento della stesura delle canzoni, ma comunque sostituiti su disco da Luis Maldonado alle chitarre (buon lavoro il suo) e Duffy Snowhill al basso (comunque in formazione dal 2000). L'arrivo in soccorso di Mike Portnoy (ex batterista di Dream Theatre e mille altri progetti), un presenzialista a cui non si può certamente negare la passione musicale e un posto in squadra, ha riportato la voglia di ripartire in quarta, unitamente agli studi di registrazione Kung-Fu Gardens messi a disposizione da Linda Perry (ex 4 Non Blondes) che ha collaborato anche alla stesura di Already Gone e agli occhi vigili in produzione di Alain Johannes (Queens Of The Stone Age, Them Crooked Vultures tra i suoi lavori).
La musica dei Bigelf è rimasta la stessa tinozza piena e strampalata di sempre, forse meno sorprendente e a volte perfino (fintamente) confusionaria nell'eccesiva ricerca del grandeur d'effetto (chi? i Queen?) che rischia di perdersi o anche farci perdere le mille intuizioni sparse un po' ovunque, ma sempre affascinante e con un po' di attenzione si potranno cogliere tutte le sorprese nascoste dietro ad ogni angolo di questo lungo viaggio temporale all'interno della mente umana: le care melodie beatlesiane sparse un po' ovunque (Already Gone, Theater Of Dreams), teatralità glam grandguignol (The Professor & The Madman, Mr. Harry McQuhae) e allucinata (Vertigo), crescendo progressive/psichedelici che riportano alla mente King Crimson e Genesis (gli otto minuti del viaggio finale ITM), la nuova direzione fantascientifica e apocalittica (l'accoppiata iniziale Incredible Time Machine, Hyperspeed), tastiere e il groove dettato dalla pesantezza delle chitarre sabbathiane (Alien Frequency, Control Freak), schegge indefinibili di pazzia musicale (High, Edge Of Oblivion) si prendono per mano ed iniziano a girare in tondo veloci, sempre più veloci fino a portare allo stordimento, lanciando la follia compositiva in ogni direzione.
I Bigelf sono creatura non per tutti, da maneggiare con cautela, da prendere a piccole dosi inizialmente. Quello che in principio potrebbe sembrare uno spocchioso calderone vintage ha le capacità di tramutarsi in una esperienza esaltante e letale. Se vi lasciate coinvolgere nel vertigo è finita.
vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS- The Winery Dogs (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE NASHVILLE PUSSY- Up The Dosage (2014)
La creatura di Damon Fox cresce come un fungo allucinogeno lasciato sotto il sole californiano (loro sono di Los Angeles): le radici nel passato, le nefaste conseguenze, per chi lo coglierà e lo assaggerà, nel futuro. Sono passati ben sei anni e tanti problemi (cambi di formazione, problemi con l'etichetta discografica) dall'ultimo album in studio Cheat The Gallows, e venti dalla nascita, ma la vena compositiva deviata è rimasta ben salda dentro il cilindro calato nella testa di Fox, ormai diventato un one man band assoluto, dopo la dipartita degli altri membri storici del gruppo che lo hanno lasciato solo al momento della stesura delle canzoni, ma comunque sostituiti su disco da Luis Maldonado alle chitarre (buon lavoro il suo) e Duffy Snowhill al basso (comunque in formazione dal 2000). L'arrivo in soccorso di Mike Portnoy (ex batterista di Dream Theatre e mille altri progetti), un presenzialista a cui non si può certamente negare la passione musicale e un posto in squadra, ha riportato la voglia di ripartire in quarta, unitamente agli studi di registrazione Kung-Fu Gardens messi a disposizione da Linda Perry (ex 4 Non Blondes) che ha collaborato anche alla stesura di Already Gone e agli occhi vigili in produzione di Alain Johannes (Queens Of The Stone Age, Them Crooked Vultures tra i suoi lavori).
La musica dei Bigelf è rimasta la stessa tinozza piena e strampalata di sempre, forse meno sorprendente e a volte perfino (fintamente) confusionaria nell'eccesiva ricerca del grandeur d'effetto (chi? i Queen?) che rischia di perdersi o anche farci perdere le mille intuizioni sparse un po' ovunque, ma sempre affascinante e con un po' di attenzione si potranno cogliere tutte le sorprese nascoste dietro ad ogni angolo di questo lungo viaggio temporale all'interno della mente umana: le care melodie beatlesiane sparse un po' ovunque (Already Gone, Theater Of Dreams), teatralità glam grandguignol (The Professor & The Madman, Mr. Harry McQuhae) e allucinata (Vertigo), crescendo progressive/psichedelici che riportano alla mente King Crimson e Genesis (gli otto minuti del viaggio finale ITM), la nuova direzione fantascientifica e apocalittica (l'accoppiata iniziale Incredible Time Machine, Hyperspeed), tastiere e il groove dettato dalla pesantezza delle chitarre sabbathiane (Alien Frequency, Control Freak), schegge indefinibili di pazzia musicale (High, Edge Of Oblivion) si prendono per mano ed iniziano a girare in tondo veloci, sempre più veloci fino a portare allo stordimento, lanciando la follia compositiva in ogni direzione.
I Bigelf sono creatura non per tutti, da maneggiare con cautela, da prendere a piccole dosi inizialmente. Quello che in principio potrebbe sembrare uno spocchioso calderone vintage ha le capacità di tramutarsi in una esperienza esaltante e letale. Se vi lasciate coinvolgere nel vertigo è finita.
vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS- The Winery Dogs (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE NASHVILLE PUSSY- Up The Dosage (2014)
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