giovedì 27 febbraio 2014

RECENSIONE & INTERVISTA: ALESSANDRO BATTISTINI (Cosmic Sessions)

ALESSANDRO BATTISTINI   Cosmic Sessions  (Club De Musique/IRD, 2014)



Un "out on the weekend" lontano dalla sua band madre che negli ultimi tre anni lo ha tenuto impegnato e continua a farlo. Mentre scrivo, i Mojo Filter sono occupati in un piccolo tour in Germania, "il tour è andato molto bene, abbiamo conosciuto gente che apprezza il rock and roll e che non ha paura di fare km su km per sentire un concerto", arrivando a guadagnarsi una vistosa e continua crescita esponenziale nel panorama rock italiano, confermata dall'ultimo, ottimo disco in studio The Roadkill Songs (2013). Cosmic Sessions è un viaggio introspettivo dentro al suo, ma anche un po' nostro, mondo. Una bizzarra nave/mongolfiera (bella la cover art, opera di Zeppelin Studio) che, piuttosto che solcare mari, sembra alzarsi in aria permettendo uno sguardo a 360 gradi sopra alle sue passioni musicali, quelle che confluiscono molto spesso in un'unica direzione temporale: la California a cavallo tra gli anni 60 e i 70, posto ancora carico di suggestioni a distanza di anni e nonostante la tecnologia di mezzo a fare da ostacolo. Stacca spesso l'amplificazione delle chitarre, quelle che graffiano nei Mojo Filter, si spoglia di ogni orpello elettrico, si circonda di buoni e anche prestigiosi amici, scruta l'infinito spazio e mette in moto la fantasia: "Antonio Gramentieri (Sacri Cuori) aveva già collaborato con i Mojo Filter e si è offerto di suonare una parte di chitarra in 'Wise Rabbit' e devo dire che sono felicissimo che l’abbia fatto… è un artista che ammiro molto e che ha grande gusto e talento, ha saputo riconoscere e enfatizzare il lato acido e vintage di 'Wise Rabbit'. John Egenes e Craig Dreyer sono due grandi musicisti con un curriculum infinito e decisamente all’altezza della loro fama: mi è piaciuto molto lavorare con loro, adoro il solo di sax di Craig alla fine di 'Wise Rabbit', sembra che si spalanchino le porte dell’inferno… è l’ira del coniglio saggio!! … John, invece, ha reso speciali 'All Of Those Rainy Days' e 'Nothing More To Say' … molto di più di quello che mi aspettavo"
Alessandro Battistini, chitarra e voce dei comaschi Mojo Filter rilascia il primo disco solista in modo semplice e spontaneo, registrando il tutto come fosse una session tra vecchi amici intorno ad un falò estivo a tarda notte sotto le luci guida di luna e stelle; ma il filo luminoso che lega le dieci canzoni riesce a trasmettere in modo chiaro la scossa che anima la sua devota passione musicale. "Appartengono in effetti più o meno tutte allo stesso periodo… all’incirca Dicembre 2013… all’improvviso ho sentito che era il momento di assecondare una parte di me e della mia creatività a cui non avevo mai dato il giusto peso e, quando mi sono messo a scrivere, le canzoni sono uscite in blocco… chissà forse sono sempre state lì ad attendere…"
Dondolanti barrelhouse songs (Staring At Your Splendor con il pianoforte di Simone Spreafico), corali e ruzzolanti bluegrass con la sarabanda di un banjo in azione (Fill My World), country accomodanti e rassicuranti sotto le pigre note di una pedal steel come succede in All Of Those Rainy Days e dove anche la "povera" semplicità di Home, che suona tanto scarna con la sola presenza di un ukulele, si arricchisce all'infinito grazie alla voce pregna di soul dell'ospite Jono Manson, cantautore (è appena uscito il suo nuovo album Angels On The Other Side-vedi recensione) e produttore americano-di casa in Italia e già collaboratore degli stessi Mojo Filter- che si è portato il lavoro a casa, masterizzando il tutto nei suoi magici studi di Santa Fe nel New Mexico. "In questo disco Jono si è occupato della masterizzazione (impeccabile come sempre), mentre in ‘Mrs.Love Revolution’ aveva fatto anche il mix. Jono poi mi ha regalato un’interpretazione fantastica di 'Home', uno dei pezzi del disco a cui tengo di più".
Ma anche l'antico rhythm & blues di Rufus Thomas in Walking A Dog (unica cover ed episodio più terroso del disco), la soffice e leggera apertura Nothing More To Say che sale fino ad esplodere in un  gospel nel finale (i cori sono di Francesca Arrigoni), la spensierata chiusura con il fischiettio di Xmas Time's Outside My Door, i momenti più psichedelici (Wise Rabbit) e rarefatti nella connessione con il paradiso tentata nella splendida The Inner Side e portata avanti da un Rhodes e dalle percussioni incantatrici suonate da Mr.Lobo Jim. Disco corto ma intenso, che va diritto al punto, anche quando l'approccio assolutamente "free" delle canzoni porterebbe a pensare il contrario, e immaginare lunghe parti strumentali e minutaggi elevati :"Cosmic Sessions, come dice lo stesso titolo, si rifà a un certo approccio sixties molto jam che ho sempre adorato, ma è comunque anche un tentativo di rendere quello spirito più attuale e diretto. Nei live, tuttavia, avremo sicuramente modo e voglia (molta) di approfondire quelle parti strumentali…quelle che, se riescono, rendono ogni gig speciale e unica".




vedi anche INTERVISTA MOJO FILTER
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: TAG MY TOE-This Fear That Clouds Our Minds (2012)
vedi anche RECENSIONE: THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK GUYS-The Heart And The Black Spider (2012)
vedi anche RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock'n'Roll (2013)
vedi anche RECENSIONE: LUCA ROVINI-Avanzi e Guai (2013)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
vedi anche RECENSIONE/INTERVISTA: TEX MEX-Hang Loose, Tex Mex! (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: BOCEPHUS KING-Amarcord (2014)
vedi anche RECENSIONE: JONO MANSON-Angels On The Other Side (2014)

martedì 25 febbraio 2014

RECENSIONE: BOCEPHUS KING (Amarcord)

BOCEPHUS KING   Amarcord (Appaloosa Records/IRD, 2014)



Un passaporto alla cui scritta "segni particolari" segue un "cittadino del mondo libero". James Perry in arte Bochephus King, nomignolo scelto senza un vero perché dopo essere stato a Nashville, è uno spirito senza dimora che ha inseguito-sta ancora inseguendo-il suo sogno musicale, lo stesso sogno che da bambino lo portava a dire "volevo essere un detective o un predicatore". Oggi che gli anni sono diventati quelli della saggezza, essere un musicista è l'unico modo in cui riesce realisticamente a conciliare gli aspetti più importanti di quei due lavori, almeno nella sua testa, come racconta nello splendido libretto che accompagna il Cd e che l'italiana Appaloosa Records ha preparato per presentare nel migliore dei modi, al pubblico italiano, un cantautore totalmente fuori dagli schemi ma meritevole di tutte le attenzioni possibili. Testi tradotti in italiano, uno scritto di presentazione preparato dall'amico Andrea Parodi e un'autopresentazione scritta di suo pugno ci introducono nel suo personale, strano, istrionico e ricco mondo, ma non bastano a contenerlo tutto fino a quando non partono le note dell'iniziale On The Allelujiah Side, canzone presa dal primo disco Joco Music del 1996, registrato nella casa di famiglia in Canada, con pochi mezzi e tanti sogni in tasca. Da qui in avanti si capisce di più, e fidatevi, dopo il primo ascolto riiniziare da capo viene naturale. Buon viaggio. Un percorso a sedici tappe che attraversa una carriera che sembra aver camminato sempre in quelle zone franche e poco battute nascoste dietro alla curiosità musicale, l'esplorazione, la genuinità: quelle vie che dal nativo Canada portano agli States, alle terre del sud, e poi all'Europa, quelle periferie buie e pericolose ai margini della città, quei paesi costruiti lontano dall'umanità conformista, quelle spiagge libere e abbandonate dove girare nudi non è reato ma solo libertà. Bochepus King riesce a camminare nello stesso lato del marciapiede calpestato dal primo romantico e sognatore Tom Waits, per poi fermarsi in un diner e osservare il calare della sera e i passi delle persone; raccogliere gli umori gipsy di un Willy De Wille sotto il falò di un accampamento nomade; scannerizzare il lato desolante dell'America (Cowboy Neal e Willie Dixon God Damn dal suo ultimo album in studio Willie Dixon God Damn uscito nel 2011) come farebbero solo Townes Van Zandt, John Prine e Steve Earle o i grandi scrittori della beat generation, guidando sopra ud un van e girando in lungo ed in largo i grandi spazi; far brillare le desertiche allucinazioni alla Calexico come succede nella splendida Blues For Buddy Bolden, uno dei suoi tanti picchi artistici; condividere tutto l'amore per il cinema italiano di Fellini e le colonne sonore di Morricone (da qui Amarcord per il titolo dell'antologia) in una Eight And Half che si insinua tra pazzia e libertà, ma anche cercare tra gli anfratti del presente quei modernismi-comunque moderati-presentati in Goodnight Forever Montgomery Clift  e Jesus The Bookie estrapolati dall' album All Children Believe In Heaven, che ci mostrano anche il suo lato più soul e gospel.
Bocephus King è tutto questo e molto di più: dentro ai suoi testi carichi di immagini, visioni e quel velo di mistero che sempre affascina e incuriosisce, c'è la vita.
Fino ad arrivare ad una splendida e originale versione di Senor, estrapolata da Street Legal, disco di Dylan che adoro in tutto e per tutto e che lo stesso Bochephus dice di aver risuonato per intero in compagnia di un manipolo di musicisti indiani conosciuti per caso in un locale. Dylan è il suo idolo da sempre e prima o poi farà uscire il suo personale omaggio, come già fa nei suoi comunicativi concerti.



vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY-Let's Start Again (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2014)



mercoledì 19 febbraio 2014

RECENSIONE: EUGENIO FINARDI (Fibrillante)

EUGENIO FINARDI Fibrillante (Universal Music, 2014)



Nella bellissima autobiografia Spostare L'orizzonte (consigliata) uscita tre anni fa e scritta a quattro mani con Antonio G.D'Errico ci sono molti passi che anticipano almeno la metà dei testi contenuti nei dieci brani del suo nuovo album Fibrillante tanto da farci capire quanto Finardi sia coerente con se stesso, con i suoi inizi, con la sua storia, anche dopo le tante parentesi aperte sul pianeta musica negli ultimi anni: dalla musica sacra alla classica, fino al bellissimo Anima Blues (speravo nella seconda parte, ma ci sarà tempo), uno dei suoi picchi artistici di sempre, da avere assolutamente. Un esilio autoimposto, una fuga dal personaggio che, a suo dire, si era creato con il tempo, tanto da diventare "una condanna, privilegiata, una sorta di arresti domiciliari di me stesso...dovevo uscire..." dice Finardi.
Fibrillante, titolo dell'album-e della canzone-preso in prestito, suo malgrado, dalla fibrillazione atriale a cui è soggetto a causa di un problema di ipertiroidismo, è un ritorno al cantautore che dava battaglia negli anni settanta, uno dei primissimi esempi di cantautorato rock del nostro paese. L'ingenua voglia di cambiare il mondo dettata dalla gioventù si è trasformata in resistenza che solo distrattamente si potrebbe confondere con la rassegnazione di un uomo che ci ha sempre creduto e combatte ancora o cerca di farlo, in altri modi, anche urlando, cercando qualcuno che lo ascolti come canta in Come Savonarola: "so che ti faccio soffrire con le mie facce scure e la mia negatività/Ma devo solo ritrovare un nuovo modo di lottare per la nostra dignità/E una vita che sia umana più libera e più sana di giustizia e verità". Lotta che continua nella dura Cadere Sognare, con la partecipazione di Manuel Agnelli (Afterhours)-che Finardi proclamò suo erede-, un inno di ribellione alla conformità, agli sporchi giochi, una sorta di "non mi avrete mai come volete voi", un inno alla ribellione in questi anni zero (leggasi: zero uguale a vuoto). Una generazione che sembra aver perso, o perlomeno non aver vinto, ma che continua a sperare, aspettando: "ho bisogno di rispetto, di pace e tranquillità del calore di un affetto e di un po' di serenità di avere un ruolo e un posto nella società e sicurezza nel futuro " canta nell'apertura Aspettando, ma c'è anche chi non prende posizione, non rischia mai (Moderato) e rimane immobile, ingessato mentre tutto scorre e corre intorno a lui. "Muoviti, sbattiti, sbrigati, dai, lavora ancora un po'. Io mi ammazzo di fatica , e tu invece no"
Con un piede nei suoni seventies garantiti da ospiti come Patrizio Fariselli (Area) e Vittorio Cosma (ex PFM) ed uno nel presente assicurato dalla collaborazione con i Perturbazione, Manuel Agnelli e Max Casacci dei Subsonica, produttore e tuttofare, Fibrillante è un disco di una onestà disarmante che a tratti diventa fin troppo schietto e puro, calato perfettamente nel mondo odierno, trattando temi d'attualità anche con durezza, senza scorciatoie e giri di parole, preferendo la descrizione della scarna quotidianità creando quadretti di cronaca quotidiana come nella commovente La Storia Di Franco, disavventure di un padre separato senza più un tetto, costretto a vivere come un'ombra invisibile pur di vedere l'unico amore della sua vita, la figlia: "lei pensa che sono in Africa a combattere la povertà, infatti la combatto ma la mia Africa è qua" . Quanti uomini si ritroveranno in Franco?
O raccontando la forza e la superiorità delle donne  (Lei S'illumina dedicata alla moglie e alla madre), Le Donne Piangono In Macchina, ballata pianistica che conferma Finardi come uno dei più delicati e attenti cantautori dell'universo femminile.
Non tutto è perfetto e la finale Me Ne Vado costruita su un tappeto quasi improvvisato di free prog guidato magistralmente da Patrizio Fariselli vede Finardi recitare un testo di finanza quasi fossero i titoli di un telegiornale con il rischio di cadere nella retorica più spiccia. Una pretenziosa lezione di economia che pare eccessiva in un disco tanto onesto e diretto. Da ascoltare assolutamente.




vedi anche EUGENIO FINARDI: gli anni '70
vedi anche: FRANCESCO DE GREGORI-Sulla Strada (2012)
vedi  anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2014)



lunedì 10 febbraio 2014

RECENSIONE: ANDI ALMQVIST (Warsaw Holiday)

ANDI ALMQVIST   Warsaw Holiday (Rootsy/IRD, 2013)



Warsaw Holiday, quarto lavoro in studio del cantautore svedese Andi Almqvist, ha quel raro dono concesso solo a pochi dischi: sa graffiare le ossa fin dal primo ascolto. O lo ami o lo detesti. Non lascia indifferenti. Quasi disturba. Lascia quei brividi che potrebbero essere generati da una lama che scalfisce l'osso. Sveglia gli incubi funesti assiepati tra gli alti (pochi e preziosi) e i bassi (tanti ma forse neppure inutili) della vita . Merito di una voce greve e bellissima, nera e paludosa con l'abissale profondità appartenente a Mark Lanegan, e la forza disperata di un songwriting cupo e darkeggiante che si aggrappa alla vita attraverso sottilissimi e delicati fili, spesso talmente assurdo, cinico, sbeffeggiante da diventare anche umoristico e dissacrante quanto il migliore Nick Cave di inizio carriera, dove vita e morte sembrano danzare sull'ultimo valzer concesso ai bordi del precipizio che porta direttamente alla fine del mondo. Il tutto accompagnato da un folk scarno (No More Songs For You), dal blues minimale ma corale tenuto insieme da un Hammond sullo stile Al Kooper nei dischi di Dylan (No) e da lente e inquietanti ballate pianistiche dal color bianco e nero, intrise di pathos funereo come l'iniziale e ululante Worwood, o la stupenda e cinematografica Pornography così carica di immagini d'effetto, o meglio ancora la malinconica intensità di In The Land Of Slumber con un violoncello a tessere ragnatele sulla lunga profondità. Un disco che incuriosisce fin dalla copertina (no, non è Almqvist quello) che ritrae un personaggio bizzarro e "vissuto" che Almqvist ha conosciuto in una piccola cittadina della Repubblica Ceca. A lui è dedicato il disco e nel libretto troverete solo sue foto ed uno speciale invito a pagargli una birra se mai capiterete dalle sue parti: lui si chiama Vaclav, il paese è Český Krumlov, è lì è un personaggio ben voluto da tutti, soprannominato "el presidente".
Oh La La  (con una "o" in meno dei Faces) gira intorno ad un cupo e prepotente giro di blues che esalta l'alienazione tanto da farmi materializzare davanti agli occhi il fantasma di Layne Staley e gli Alice In Chains unplugged arricchiti da uno straniante sax, canzone che viene ripetuta in una versione full band. Unica vera concessione al rock del disco.
Kinski (già presentata in versione live-insieme ad un paio di altri brani-nel suo precedente disco dal vivo The Misadventures Of Andi Almqvist uscito nel 2011) ha l'andatura sbilenca, folle, felliniana e clownesca del Tom Waits di metà carriera, Happy End è una stridente preghiera acustica per sola voce (ecco il paragone con Mark Lanegan che si materializza), chitarra e violino da recitare ai bordi della fossa, quando l'ultimo respiro affannoso uscirà dalle labbra, gli occhi spalancati saranno coperti dalla terra e le orecchie sentiranno solo il rumore della pala di un becchino in azione. Addio. Mentre la title track Warsaw Holiday si dipana sinuosa e sinistra sulle note di un Fender Rhodes suonato da dita decise, Insomnia promette nottate senza chiuder occhio con un inquietante e paranoico coro fanciullesco (un crescente lalalala) ed un carillon a dettare i secondi. Insomma c'è poco da stare allegri con Almqvist in circolazione. Svegliate i vostri incubi e mettete a riposo i bambini.
Anche se uscito nel 2013, Warsaw Holiday è una delle migliori folgorazioni di questo mio inizio anno. Spengo la luce e ascolto il mio gravedigger che sposta la terra.








vedi anche RECENSIONE: CHET O'KEEFE-Because Of You (2013)



vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY- Le's Start Again (2014)



vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)




vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)





giovedì 6 febbraio 2014

RECENSIONE: NASHVILLE PUSSY (Up The Dosage)

NASHVILLE PUSSY  Up The Dosage (SPV/Steamhammer, 2014)




Tette, pussy e rock'n'roll. Variando l'ordine degli elementi il prodotto non cambia, anche se... Quando necessito di una malata e sboccata dose di becero rock'n'roll senza troppe pretese, i Nashville Pussy, quartetto misto di Atlanta, riescono sempre a portare a casa la partita sopra al piatto del mio stereo, ci riescono ormai dal lontano 1998 quando la copertina sguaiata di Let Them Eat Pussy era cosa da non lasciare in vista ai piccoli nipoti che giravano per casa. Persa per strada la componente più rusticamente sessista, belluina e punk della gioventù, ben rappresentata figurativamente dalla prima bassista Corey Banks, una poco raccomandabile, tatuata e svestita valchiria di razza, quello che non è mai mancato è l'umorismo da squallida bettola di infima categoria e la provocazione a buon mercato basata su sesso e droghe anche quando il suono della band, negli anni, ha preso sempre più la strada polverosa del southern rock, del blues ipervitaminico alla ZZ Top (recentemente hanno anche coronato il sogno di aprire per i loro barbuti idoli, rimettendoci pure molto in dollari) e del country più sporcaccione in rappresentanza di tutti gli stereotipi americani più marcati e con la scritta "vietato ai minori" sempre ben in vista. Iconicamente legati all'immagine dei due coniugi chitarristi, anche ora che i capelli di Blaine Cartwright sono sempre più radi sotto il cappellaccio da cowboy, la sua pancia da trucker diventa sempre più rotonda e la  voce simile ad un Alice Cooper passato alla carta vetrata-lo zio americano che tutti vorremmo per uscire a rimorchiare il venerdì sera anche se Milano non è l'America, cantava qualcuno- mentre il seno di sua moglie Ruyter Suys  rimane sempre ben in vista e schiacciato sopra alla fiammeggiante chitarra che durante i live diventa l'incontrollabile manico della perversione che tanto la trasforma in un indemoniato Angus Young in reggiseno (provare un loro live per crederci), i Nashville Pussy sono una collaudata macchina da guerra che non vuole smettere di macinare riff su amplificatori tarati al massimo, chilometri su strade secondarie e parolacce di quart'ordine, con il batterista Jeremy Thompson-dalla barba sempre più lunga-pronto a dare la carica e con una continua girandola di bassiste che dopo Corey Banks e Tracy Alzaman, questa volta si ferma sulla nuova e massiccia Bonnie Buitrago dopo la dipartita della precedente Karen Cuda.
Up The Dosage, sesto album in discografia, sembra rappresentare una piccola svolta d'immagine fin dalla copertina, una sorta di black album ("è il nostro Back In Black" dice Blaine), che vuole forse testimoniare un nuovo inizio nella volontà di puntare tutto sulla musica (il mitico Eddie Spaghetti dei Supersuckers collabora come autore su buona parte delle 12 canzoni) e meno sull'immagine provocatoria della band, con il divertimento sempre e comunque al centro dell'attenzione. Nessuno è diventato serio qui, sia chiaro. Il contenuto è un buon calcio sulle palle fin dall'iniziale Everybody's Fault But Mine, dal veloce  rifferama dove southern rock e AC/DC stipulano un patto di sangue, e tutto il resto è un buon bilanciamento tra le caratteristiche seminate in tutti gli anni di attività: anthemici e pesanti hard rock boogie con la  chitarra solista di Ruyter Suys sempre presente negli assalti "motorheadiani" di Rub It To Death, Pillbilly e Spent, nella cadenzata Till The Meat Falls Off The Bone, nel riff circolare della viziosa Up The Dosage (un colpo che si stampa bene in testa), nel punk anthemico di The South 's Too Fat To Rise Again , nell'honky tonk  blues "drogato" di Before The Drugs Wear Off (presente come bonus track in una versione alternativa unitamente all'inedito Begging For A Taste nella digipack edition) con il pianoforte suonato dalla stessa Ruyter e l'assolo di chitarra dell'ospite Earl Crim, nel boogie hard rock'n'roll di Beginning Of The End.
Un inno selvaggio al party nella scheggia di 48 secondi cantata dalla stessa Ruyter Suys (Takin' It Easy, cover della band Dethklok protagonista della serie televisiva Metalocalypse) che si contrappone alla pesantezza '70 di White And Loud dove dai fumi emergono gli spiriti sabbathiani, che a sua volta precede di poco la divertente country song  Hooray For Cocaine, Hooray For Tennessee con il dobro di Andy Gibson (nella band di Hank III) e il mandolino della Ruyter. Il loro mondo sta tutto qua.
Si diceva: tette, pussy e rock'n'roll. Variando l'ordine degli elementi il prodotto non cambia, ma questa volta il rock'n'roll sembra averla vinta. Ma poi arriva la finale Pussy's Not A Dirty Word, un numero alla AC/DC che ci ricorda che: pussy non è una parola sporca e fa girare il mondo. Divertitevi finchè potete, per diventare vecchi c'è ancora tempo e Up The Dosage ve lo ricorderà a lungo, senza più il timore di lasciare la copertina del disco sopra al tavolo in cucina. Proprio ora che i nipoti sono cresciuti...






giovedì 30 gennaio 2014

RECENSIONE: DAVID CROSBY (Croz)

DAVID CROSBY  Croz (Blue Castle Records, 2014)


Quando lo vedi sopra al palco catalizza l'attenzione con il solo carisma senza spostarsi di un centimetro, tanto da mettere in ombra i suoi fidi compagni di sempre: il lunatico e bizzoso Stephen Stills e l'etereo e più ginnico Graham Nash. I pochi ma sempre lunghi e candidi capelli bianchi al vento, i baffoni come li portava già nel 1969-gli manca solamente la giacca di renna scamosciata con le frange, la stessa indossata poi da Dennis Hopper in Easy Rider-la voce inconfondibilmente pura che fluttua nell'aria, il fisico segnato dalla vita- ma poi nemmeno troppo diverso rispetto a noi comuni mortali-David Crosby ha sempre incarnato lo spirito del suo tempo "migliore", quello sognante, quello ancora lontano da una tentata autodistruzione culminata negli anni ottanta e costruita su abusi, armi da fuoco illegali, galere e dalle inevitabili conseguenze prodotte da un trapianto di fegato avvenuto nel 1994 e da ripetuti attacchi al suo debole ma roccioso cuore. Nonostante tutto sembra ancora lo specchio di quel periodo, epoca che apriva e chiudeva il sogno americano con la conseguente rassegnazione di chi si è bruciato tutto, troppo in fretta, per troppi ideali disattesi e troppe utopie. Una generazione che ci ha provato: "un grande uomo disse 'ho un sogno'. Un altro arriva e gli spara in testa" canta in Time I Have. La fortuna di guardarsi indietro e spiare in avanti fa spesso capolino tra i testi (Slice Of Time, Holding On To Nothing). La  fortuna di un sopravvissuto. Crosby ringrazia. Di tutte queste cadute con relative rinascite canta nella personale Set That Baggage Down, uno dei picchi confessionali e musicali del disco con una chitarra elettrica che fa il suo, un groove che sale ed un'esortazione ad alzarsi sempre e comunque davanti ad ogni sciagura: "Rise Up, Rise Up" canta nel finale.
Dopo un capolavoro epocale e tanto "malato" da non fargli nemmeno ricordare il proprio nome (If I Could Only Remember My Name del 1971), disco che lo consacrò guida spirituale dell'intero movimento della West Coast Californiana e tra i manifesti più puri e lisergici dell'epoca, dopo la risposta a quella domanda avvenuta a quasi vent'anni di distanza, anni di rinascita soprattutto fisica (Oh,Yes I Can del 1989), dopo le tante strade percorse, anche sbagliate, del poco significativo disco di cover Thousand Roads del 1993: ad altri vent'anni dal quest'ultimo disco, ci rivela il nome, la sua identità. Chiamatemi tutti Croz sembra voler dire, sbattendo un significativo primo piano del suo faccione in copertina senza nessuna remora nel mostrare rughe e segni di vecchiaia (il CD è avvolto in un digipack veramente ben rifinito). Con l'unico rimpianto-suo e nostro-di essere arrivato al solo quarto disco solista in cinquant'anni di carriera, trascorsi come si farebbe sopra ad una montagna russa senza fine, dai fasti inarrivabili di Byrds e CSN & Y ai buchi degli anni ottanta pur con qualche sporadica e buona perla da cercare nei dischi targati CSN (Delta, Compass, Dream From Him).
Un disco che non lascia sorprese epocali, non si avvicina minimamente al capolavoro della vita anche se ha in comune quella impalpabile flessuosità che lo accompagna da sempre, ma  è una foto fedele del suo autore negli ultimi anni, uno sguardo attento alla sua anima interiore e a quello che lo circonda, perché lontano dalle scene e dalla vita, nell'ultimo ventennio, non ci è mai stato veramente. In pista sia con i compagni di una vita girando il mondo in tour, con il solo fraterno Nash (bello e spesso dimenticato è il loro disco del 2004), e con il gruppo CPR messo in piedi con il figlio ritrovato James Raymond (qui arrangia, produce e suona molto). Proprio da qui si riparte. Scritto interamente con il figlio, Croz è un album  dal passo lento, armonico, dal feeling jazzato che non ha fretta di arrivare, che non cerca i facili consensi: "l'ho scritto per me stesso" dice Crosby.
Un album contemplativo fin dall'iniziale What's Broken con la chitarra carezzevole di Mark Knopfler, brano piacevole anche se i due non si sono mai incontrati veramente-hanno collaborato a distanza-un qualcosa che ai tempi d'oro non sarebbe mai successo. A pensarci si perde un po' di quella antica magia che invece sembra avvolgere tutto il lavoro. Se ne prende atto e si va avanti tra stoccate alla moderna politica militare USA (la fumosa Morning Falling); acuti quadretti sulla prostituzione giovanile condotti con sola voce e chitarra arpeggiata (If She Called) e dipinti con la saggezza paterna dopo aver visto delle giovani ragazze al lavoro in un marciapiede fuori da un hotel dove soggiornava in Belgio; le immancabili armonie vocali che escono da Radio; i raffinati velluti jazzistici sia in Holding On To Nothing offerti dalla tromba di Wynton Marsalis che si mescola ad una chitarra acustica e nella finale Find A Heart vetrina musicale per i virtuosi ospiti Steve Taglione (sax) e Leland Sklar (basso); ma anche la sorprendente esplosione elettrica nella seconda metà di The Clearing, tra le più rock delle undici tracce -insieme a Set That Baggage Down- con il synth del figlio James Raymond e le chitarre di Marcus Eaton e di Shane Fontayne (che qualcuno ricorderà alla corte di Bruce Springsteen nel tour del 1993) a  dar battaglia. Però non tutto gira bene e Dangerous Night cade nello scalino di un AOR stanco e poco incisivo.
Eterno rispetto per un uomo (superstite) che ci fa visita solo quando ha qualcosa da dire. Un disco che avrà scritto solamente per se stesso, come dice, ma con la classe appartenente a pochi e la capacità di arrivare ancora a molti. Primo grande disco del 2014.


vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At tHe Cellar Door (2013)




vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY-Let's Start Again (2014)




vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH- Out Among The Stars (2014)




vedi anche RECENSIONE: LEON RUSSELL-Life Journey (2014)




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vedi anche RECENSIONE: TOM PETTY & THE HEARBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)


lunedì 27 gennaio 2014

RECENSIONE: TEX MEX (Hang Loose, Tex Mex!) & INTERVISTA a FRANK GET

TEX MEX  Hang Loose, Tex Mex!  (atoproduzione, 2014)


Come tutte le storie più belle, anche il viaggio dei triestini Tex Mex giunge al termine del percorso, proprio ora che li ho conosciuti ed iniziavano a viziarmi con il loro blues costruito con l'antica cura di una volta e domiciliato nell'estremo est del nostro paese, terra sempre ricca di tradizioni e buonissima musica rock. Ma non è un addio definitivo alle scene, solo un "arrivederci" che prestissimo si tramuterà in una nuova band, un power trio che ha già un nome scritto e un futuro segnato: Ressel Brothers Blues Band. Scelta maturata durante l'incisione di due nuove tracce in studio: il southern rock dai forti umori Lynyrd Skynyrd di Dancing Around To The Fire e l'ancora più possente Can You See, canzoni qui presenti e registrate nel Novembre del 2013, buone testimoni del futuro nuovo corso. "E' curioso il fatto che le due nuove registrazioni, che rappresentano la fine del percorso per la band Tex Mex, racchiudano comunque gli elementi che troveremo nel nuovo album che stiamo già registrando con il nuovo gruppo (Ressel Brothers), in questo caso potrei dire che segnano un cambio di direzione sicuramente non studiato a tavolino ma raggiunto in maniera assolutamente spontanea.... posso sicuramente dire che i cambiamenti (quando si è pronti ad accettarli) portano ad aperture mentali e stilistiche a volte inaspettate". Così mi racconta Frank Get, cantante e bassista del gruppo. Una scelta dettata principalmente da una lenta revisione della formazione originale che negli anni ha visto snaturare il significato di partenza del progetto, suppongo. Il modo migliore per abbandonare il vecchio monicker è racchiudere la "storia", seppur breve, in un disco live che comprende alcune testimonianze raccolte lungo le tante strade percorse durante gli ultimi tre anni. Trattandosi di canzoni estrapolate da diverse date e location, si è pensato di tagliare, in gran parte, pause e pubblico tra una canzone e l'altra, tanto che potrebbe benissimo essere un disco di studio registrato in presa diretta  come lo fu-veramente-il precedente The Best Has  Yet To Come (2012)-vedi recensione. Perché durante i live, la band triestina (oltre a GetMatteo Zecchini alle chitarre, Giovanni Vianelli al piano, Sandro Bencich alla batteria) riesce a tirare fuori il meglio di stessa. Band amante delle lunghe jam strumentali-spesso mi torna in mente la libertà compositiva dei Little Feat-e dei voli pindarici, e qui a spiccare è la parentesi quasi prog di My Obsession con il flauto ospite dello statunitense James Thompson a spadroneggiare. "Il lato jam band è forse la componente più divertente in questa band ed è una caratteristica soprattutto dei singoli musicisti che son portati a cercare i momenti di jam.... anche se gran parte dei pezzi son scritti da me, all'interno di ciascun arrangiamento c'è sempre spazio per qualunque tipo di interazione tra tutti noi (forse sarà dettato dal fatto che tutti quanti per moltissimi anni abbiamo suonato in varie formazioni in giro per l'Europa in situazioni in cui le prove al massimo si facevano per telefono ). Riguardo a James posso dirti che ci conosciamo e siamo amici da quasi trent'anni (il primo incontro avvenne ad un festival dell'Unità nell' 87 dove James si esibiva con Arthur Miles ed io facevo il fonico) poi ci siamo frequentati sia quando suonava con il pianista Stefano Franco sia quando suonava con Zucchero (in quel periodo ho suonato anche con Derek Wilson e Mario Schilirò). Qualche anno fa abbiamo pure fatto assieme un mini tour con No Stress Brothers (blues band austriaca). James oltre ad esser stato ospite nel CD Tex Mex e aver suonato con noi in alcuni concerti; ha suonato pure nel mio CD solista "Hard Blues" del 2009".
Fortemente ancorata alle radici terrose che attorcigliano le grandi southern/blues band dei seventies, si ascolti il divertentissimo e cavalcante blues di Don't Step Along The Line, corsa a tutta slide (Matteo Zecchini) e armonica (Marco Beccari) ma anche quando a prevalere è il suono più raffinato, acustico e unplugged, il calore non smette di cessare, anzi, corre ancora più forte lungo i tasti di un presentissimo pianoforte. Succede in tre composizioni: quelle che aprono il disco (Don't Think Twice, Hot Aliens Aftrnoon, Work On Time) registrate con il compianto primo batterista Dario "Doppio" Vatovac, le sue due ultime registrazioni prima di lasciarci. "Dario oltre ad esser stato uno dei fondatori della band è stato soprattutto un grande amico, era la persona che con l'esperienza (è stato, negli anni 70, batterista dei Boomerang, rock band della ex Yugoslavia, e poi ha vissuto negli Stati Uniti per più di 15 anni) e la capacità di sintesi sapeva dire la parola giusta al momento giusto. La registrazione testimonia l'ultima volta in cui si è seduto dietro la batteria ed abbiamo suonato assieme....è incredibile come nella registrazione ( è l'unica di tutto il CD non a tracce separate, quindi senza possibilità di remix) siamo riusciti a catturare il feeling ed il momento assolutamente unico!! Grazie Dario!"
A lui è dedicata anche la springsteeniana No Surrender, registrata live durante il release party del loro primo Cd e che vede la partecipazione di Elisa Maiellaro ai cori.
Un disco che riesce a trasmettere la vera passione per la musica dei rodati protagonisti, creando quell'ideale aggancio tra l'America musicale e le radici della loro terra, tanto che il nome della futura band sarà Ressel Brothers, monicker ispirato dal cognome di un loro concittadino del 1800, il ceco Josef Ressel, inventore dell'elica navale nonché con il prestigioso merito di aver iniziato un importante progetto di rimboschimento del loro Carso.
Arrivederci a prestissimo, quindi.




vedi anche RECENSIONE: TEX MEX-The Best Has Yet To Come (2013)
vedi anche RECENSIONE: RUSTED PEARLS & THE FANCY FREE-Roadsigns (2012)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.-Temporary Happiness (2013)
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martedì 21 gennaio 2014

RECENSIONE: BAP KENNEDY (Let's Start Again)

BAP KENNEDY  Let's Start Again  (Proper Records/IRD, 2014)



La "penna" di Bap Kennedy è una stilografica di valore, di quelle che usi solo nelle buone occasioni per scrivere cose importanti. Quelle parole che devono rimanere nel tempo. E di cose buone e importanti il cinquantenne cantautore di Belfast ne ha sempre lasciate sul foglio bianco, nonostante abbia portato avanti la sua carriera senza i meritati riconoscimenti di pubblico che gli spetterebbero, proprio come una penna di valore tenuta sempre nascosta per paura d'essere consumata dai più. Di bellezza non fa eccezione nemmeno questo nuovo Let's Start Again che esce a soli due anni di distanza dal precedente Sailor's Revenge che gli fu prodotto da Mark Knopfler, forse il picco artistico come autore; fu il perfetto incontro tra la musica americana incrociata fin dall'esordio solista Domestic Blues sotto l'ala protettrice di Steve Earle che lo volle fortissimamente in quel di Nashville-american roots amplificate poi dal personale tributo a Hank Williams-e le sue vere radici celtiche, sviluppate nel passato remoto collaborando con il mentore Van Morrison che ha sempre stravisto per lui fin da quando faceva il "rocker" suonando negli Energy Orchard, sua prima band con cinque dischi in discografia. Sostanzialmente meno brumoso e malinconicamente irish del precedente, questa volta, Kennedy, autore onesto e musicalmente curioso come un vero marinaio dei due mondi, ritorna al suo passato musicale, riabbracciando sì il country ma tornando a registrare nella sua Irlanda Del Nord con l'aiuto in produzione del vecchio amico "ritrovato" Mudd Wallace, e suonando insieme alla fedele band che lo accompagna dal vivo più un nutrito numero di musicisti del posto: la moglie Brenda Boyd al basso, Gordy McAlliser alle chitarre, Rabb Bennett alla batteria, John McCullough alle tastiere, Noel Lenaghan al mandolino, Richard Nelson  alla pedal steel e dobro e John Fitzpatrick al violino.
Semplicità, maturità e stile, abbinate alla romantica positività dei testi, sono caratteristiche che affiorano in ognuna delle undici canzoni che spaziano a tutto campo, rivisitando l'intera carriera: il country da grandi spazi condotto da pedal steel e slide (Let's Start Again, l'up tempo della corale Revelation Blues, la contagiosa leggerezza di un ardente desiderio in Song Of Her Desire), l'amore per il rock'n'roll dei '50 nel doo-woop di If Things Don't Change e Heart Trouble  quasi ad accarezzare il jazz ma con un ispiratissimo violino guida ,il folk a passo di lento valzer (Let It Go), le cullanti e nostalgiche onde radio che pervadono Radio Waves, l'ardente Under My Wing tra caraibi e Van Morrison, e tuffi in atmosfere calienti, tex mex e latine (Fool's Paradise e King Of Mexico che si muove con lo stesso passo de La Bamba) a dimostrazione che la sua "penna" possiede più colori: meno grigi e freschi rispetto al precedente Sailor's Revenge ma più rossi e cocenti.
Degna di nota, infine, la deluxe edition che include un disco in più. Una sorta di greatest hits contenente altre undici tracce scelte tra i suoi vecchi dischi: Domestic Blues, Lonely Street, Howl On, The Big Picture, più due versioni acustiche di Jimmy Sanchez e Please Return To Jesus.
Un disco di altissima classe cantautorale con ancora impresse la freschezza e la vitalità del debuttante ma scritto con la maturità del veterano, e in grado di traghettare, a passo lento ma con qualche lunga falcata, le mie uggiose giornate di questo inverno verso l'imminente primavera.
In uscita il 3 Febbraio 2014.





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giovedì 16 gennaio 2014

RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN (High Hopes)

BRUCE SPRINGSTEEN  High Hopes (Sony, 2014)



Mi spiace deludervi. Deludermi. Se siete arrivati fino a qui sperando di leggere una nuova, fresca e magari diversa recensione del nuovo album di Bruce Springsteen, non la troverete. In verità c'è, ingrossata da continui rimaneggiamenti, un working in progress che non ha più senso nella mia testa, non è fresca e diversa ma c'è, e rimarrà nascosta per sempre tra le bozze incompiute del blog. Per scovarla dovreste scassinare il mio profilo blogger (non ne vale la pena, giuro). Ho scoperto che non ha più senso, non importerebbe più a nessuno sapere di queste canzoni, dei miei pensieri a riguardo (anche se alla fine ci casco). E' già stato detto tutto, il contrario di tutto: capolavoro o cagata pazzesca? Cos'è questo disco? Perché? Ha un senso la sua uscita? Stai a vedere che la verità è, poco originalmente, proprio lì, nel mezzo. Posto stretto e impolverato che non interessa mai a nessuno. Come sempre. Ma io adoro il grigio. Quindi: acqua gelida su esaltazioni fin troppo esagerate per un disco di mezzi scarti, assemblato apparentemente (sottolineo apparentemente) senza senso se non tenuto unito dalla presenza della chitarra di Tom Morello e da alcuni canzoni su tematiche di sogno e speranza che affiorano dai testi, poi anche un po' di fuoco a riscaldare gli animi su chi ha gettato fango ghiacciato troppo preventivamente e gratuitamente. Non si fa. Mi ci metto. Mea culpa.
Ecco i miei pensieri ordinati in due post svolazzanti che ho scritto frettolosamente e di getto, e poi pubblicati sul mio profilo facebook a distanza di dieci giorni l'uno dall'altro. Non combaciano. Poco importa. Poco interessa. Prima o poi, ne arriverà un terzo...

29 Dicembre 2013. ( Amazon ci ha messo del suo).
"Che poi…mica resisti. Invidio (!?!) chi arriverà vergine al 14 gennaio. Arrivi a casa alle due di notte, lo trovi, lo scarichi, lo metti immediatamente su CD e ti addormenti alla seconda canzone. Ero stanco, non per altro (o era 'premonizione preventiva'?). Ti risvegli alle otto di mattina e sei già al terzo ascolto consecutivo: scartando tre canzoni (quelle che non mi piacciono proprio) da un disco essenzialmente di scarti e frattaglie, rimangono nove canzoni di cui tre cover, scartando le tre cover (bello ritrovare Bruce ‘on the road’ mentre canta di “strade e puttane” anche se ha dovuto scomodare i Saints), rimangono sei canzoni…sei canzoni valgono un disco? Secondo me no, ma l’operazione (discutibile) è questa. Prendere o lasciare". Vedi P.S.2

10 Gennaio 2014. (Ho tra le mani il CD fisico, più il DVD contenente tutto Born In The Usa live registrato a Londra 2013, quattro giorni prima dell'uscita ufficiale. Sono fortunato?).
"Sono partito prevenuto. Super prevenuto. La presa per il culo era dietro l’angolo. Alla fine mi piace, ha un senso, una logica, segue un suo percorso anche se a tratti va a sbattere, senza mai farsi male veramente però. Coraggioso e temerario, in alcuni punti perfino parossistico, ma in fondo ha fatto quel cazzo che ha voluto. Ma chi siamo noi?
Tom Morello? Prima che il chitarrista a tutto “effetti”: UOMO che sposa in toto le” idee militanti” di Springsteen fin dai tempi dei Rage Against The Machine, soprattutto a quei tempi (sì, vabbè il contratto con la ricca Columbia cozzava con le dure invettive della band), quando erano tra i pochi megafoni di protesta “ad alto volume” dei ’90, quando presero The Ghost Of Tom Joad la rivoltarono come un calzino, la riempirono di crossover senza disperdere la sua forza dirompente, il testo . Questi due si piacciono per quello. Poi se chiami Tom Morello devi fargli fare anche “il” Tom Morello, scratching compresi, anche se nei suoi dischi solisti gioca a fare “lo” Springsteen folk/acustico, il menestrello. Sarebbe stato giusto aggiungere un “featuring Tom Morello” in copertina. Sarebbero tutti più contenti e avrebbe smussato subito tante chiacchiere inutili. Comunque, anche se ne è un fratello “bastardo”, già preferisco questo a Wrecking Ball, che credo sia il disco di Springsteen che ho ascoltato meno, e non perché sia l’ultimo in ordine di tempo…proprio non regge i MIEI ascolti. Spero che nella sua anomalia da istant record che testimonia una breve parentesi di vita- o di noia tra un tour e l’altro, o di mossa commerciale (risposta esatta?)-usando canzoni pescate da una parentesi di tempo molto più ampia, iniziata nel 2001, High Hopes passi per quello che è: un disco spartiacque tra una vecchia fine e un nuovo ennesimo inizio. Quanti possono permetterselo? Ma poi…chi sono io?"

P.S. 1. Una MIA curiosità finale: ma quanti die hard fan di Springsteen hanno mai ascoltato prima Tom Morello? Nei Lock Up (suo primo gruppo), nei Rage Against Machine, negli Audioslave (RATM più Chris Cornell), nei Street Sweeper Social Club (insieme a Boots Ryley), nel progetto solista The Nighwatchman ?

P.S. 2. Le tre canzoni che non mi piacciono
Harry's Place, esce dalle session di The Rising ma potrebbe uscire da quelle di Human Touch e da un televisore acceso con 27 canali e nulla di interessante da vedere e da sentire (soprattutto). Passa veloce. I nuovi personaggi della sua infinita carrellata, meritavano ben altra canzone. Springsteen è già abbastanza popular per essere anche pop (questo tipo di pop con data di scadenza). Appare il sax di Clarence Clemons e qualche punto in più lo guadagna.
American Skin (41 Shots), era perfetta, cruda e agghiacciante nel Live In New York City(2001). Qui no: troppa roba. Rimane uno dei suoi migliori testi degli anni 0.
Down In The Hole. Già sentita nel 1984. Ma compare l'organo del compianto Danny Federici.
Le tre cover
High Hopes degli Havalinas (finalmente arriva il loro momento di fama, anche se con più di vent'anni di ritardo) che già incise e nascose dentro al cd allegato al film Blood Brothers del 1995, quello che documentava la reunion con la E Street Band. Sempre piaciuta, sia l'originale che la prima versione.
Dream Baby Dream dei Suicide che già propose in maniera più convincente in tour passati.
Ritorna ipoteticamente a cavalcare l'asfalto con Just Like Fire Would degli australiani The Saints, un rock abbastanza fedele all'originale che merita un dieci già solo per essere stata scelta e un nove per quel ritorno al Jersey Sound, anche se troppo pettinato.
Le sei canzoni rimanenti
The Wall, con lo zampino dell'amico Joe Grushecky (ecco, il suo ultimo Somewhere East Of Eden contiene tante cose che vorrei risentire da Springsteen). Canzoni così ne ha scritte a decine, ma questa rimane l'assoluto capolavoro del disco.
Heaven's Wall, sorella di Rocky Ground, contiene una infinità di spunti interessanti, peccato siano mescolati così a caso ed in modo disordinato. Tutti pronti per celebrarla nei prossimi live, già vedo le manine alzate.
The Ghost Of Tom Joad. Una canzone perfetta che tale rimane anche con la chitarra di Morello già svezzata a queste note fin dalla versione che ne fecero i Rage Against The Machine nel 1999. Solo un minuto di troppo: quello finale.
La parte centrale del disco, la parte solida, omogenea e compatta: Frankie Fell In Love (mi ricorda il buon rock del sempre dimenticato Lucky Town-1992), This Is Your Sword con il suo retrogusto irish si aggancia alle Seeger Sessions, Hunter Of Invisible Game è in perfetta linea con la sua produzione degli anni 2000.


vedi anche RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN-Wrecking Ball (2012)




vedi anche RECENSIONE: TOM MORELLO the NIGHTWATCHMAN-World Wide Rebel Songs (2011)



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lunedì 13 gennaio 2014

RECENSIONE: SUGAR RAY DOGS (Sick Love Affair)

SUGAR RAY DOGS  Sick Love Affair (Sugarraydogs.com/IRD, 2013)


Dopo settimane di ascolti dedicate ai Mink DeVille, mi piomba sullo stereo il disco degli italiani Sugar Ray Dogs, band pavese al secondo album dopo l'esordio discografico Vaudeville'n'roll del 2011. Strane coincidenze. "E allora?" direte voi. Allora, una volta aperto il libretto noto che tra i musicisti ospiti, in quattro brani, c'è Fred Koella, chitarrista alla corte di Willy De Ville che suonò pure con le band di Bob Dylan (periodo 2003/2004), con Zachary Richard e Dr.John. Bel colpo, mi dico. Ma questo non faccia passare in secondo piano la musica e i meriti del gruppo: il loro, è il suono di una band in continuo movimento (già numerosi i tour in tutta Europa, sintomo che noi italiani arriviamo sempre in ritardo, anche a casa nostra), capace di assorbire tanto lungo il cammino, partendo dal rockabilly, arrivando all'irish folk, al gypsy rock, al tex mex con l'innata capacità di fare loro i suoni incontrati lungo le tante strade che dalle misteriose paludi della Louisiana portano alla nebbie della pianura padana, tanto da far perdere ogni possibile tentativo di classificazione musicale e temporale. Guidati dalla voce e dal basso di  Ernani Ray Natarella-anche autore di tutti i pezzi-dalla chitarra di Alberto Steri (bellissimo il suo lavoro in Nocturnal) e la batteria di Andrea Paradiso, Sick Love Affair è un disco che come puro distillato d'uva ad altra gradazione, impiega poco ad entrare in circolo: bastano le prime note dell'apertura Time To Run, un trascinante brano con influenze celtiche giocato abilmente da cornamusa e violino (suonato dall'insostituibile violinista di Davide Van De Sfroos, Angapiemage Galiano Persico), gli scatti rock della trascinante Nocturnal con i suoi inserti irish, See You Die e Mortally Wounded e quelli rock'roll '50 di Road Of 7 Sins con la slide di Koella a duellare con l'armonica (Marco "Sonny" Simoncelli) per restare rapiti.
Conquistato l'ascoltatore, non rimane che ammaliarlo e stenderlo con il "bagnato" romanticismo da petoli di rosa rossa di Baby No Mercy e Fall In Love, quest'ultima quasi un omaggio al compianto De Ville con il violino suonato dallo stesso Koella che sembra ricamare idilliache strisce di luce lungo bui marciapiedi di periferia. Diventano irresistibili quando mischiano il folk dei due mondi, mescolando con sapiente mestiere tarantella e irish/folk nella breve strumentale Red Dog, invitando alle danze western da saloon in Tonight, e quelle sudaticce da pub irlandese in We're All Irish, tradendo tutto l'amore per la verde isola, con il violino della brava Chiara Giacobbe a fare il bello e cattivo tempo. Smorzano infine i bollenti spiriti con la corale ballata piena di amarezze Story Without Glory e l'etnicità gospel di Till The End Of Time che impiega poco ad acquistare velocità, congedandosi con lo stesso mood dell'opener.
In un continuo susseguirsi di rimandi e agganci al meglio che potreste chiedere alla musica senza tempo, il viaggio dei Sugar Ray Dogs promette  52 minuti di spasso tra lingue di asfalto sempre pronte ad allargarsi in grandi autostrade o stringersi in angusti boardwalk di periferia che costeggiano corsi d'acqua carichi di straripanti storie di ordinaria follia (musicale) tra sboccato vizio notturno e amaro romanticismo. Da ascoltare.



vedi anche RECENSIONE: CHEAP WINE-Based On Lies (2012)
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vedi anche RECENSIONE: LUCA ROVINI-Avanzi e Guai (2013)
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vedi anche RECENSIONE: ME, PEK E BARBA- Me, Pek e Barba live 2003/2013 (2013)

martedì 7 gennaio 2014

RECENSIONE: ELSA MARTIN (vERsO)

ELSA MARTIN  vERsO (autoproduzione, 2012)



Arrivo in ritardo e me ne pento. Elsa Martin sta già lavorando al successore, ne sono certo, e questo disco ha già fatto incetta di meritati riconoscimenti e premi durante l'anno appena trascorso. Avevo scritto la bozza per raccontare il disco, ma avevo messo da parte tutto senza alcun motivo, forse schiacciato da altre uscite discografiche più pesanti (!?!). Un disco perso senza una vera colpa, vittima senza un motivo, ma ora sembra riemerso grazie alla sua limpida leggerezza, ad una positiva bellezza che chiede spazio e visibilità tra i miei ascolti a cavallo tra la fine e l'inizio del nuovo anno, quasi fosse buona e purificatrice acqua di fonte.
Anche perché, quando sono invitato all'ascolto di musica dialettale sono sempre contento. Mi ci perdo. Non importa la regione di provenienza e il genere musicale, quello che conta è quella sensazione di antico, arcano e senza tempo che sembra avvolgermi ogni volta. Quando gli input arrivano da una persona giovane come è Elsa Martin, il piacere raddoppia: a sapere che giovani musicisti si impegnano nel far riemergere il passato, guardano alle tradizioni della terra natia che nel suo caso si chiama Friuli Venezia Giulia, proprio la stessa terra di Luigi Maieron che ho tanto apprezzato due anni fa e che scopro anche abitare in un paesino vicino a quello di Elsa, mi si allarga il cuore, perchè quando per motivi famigliari hai un pezzetto di quell'organo così vitale che batte per conto suo proprio in direzione di quella piccola regione così tanto ad est, il piacere arriva anche a triplicarsi.
Verso è il debutto discografico di Elsa, e arriva dopo una buona gavetta costruita con il duro studio del canto (è anche insegnante e musicoterapeuta) e tanti concerti lungo lo stivale che lei stessa ha documentato così bene e con tanto entusiasmo nelle pagine dei social network nel corso del suo intensissimo 2013. Io stavo in disparte e osservavo.
Elsa Martin riesce a creare quell'ipotetico ponte generazionale tra il passato legato ad antichi canti tradizionali dei suoi luoghi di origine, che in parte affida al Trio vocale femminile di Givigliana (E Io Cjanti, Griot, Al vajve lu soreli, quest'ultima ripresa e calata nel presente da Elsa in  Al vaive ancje il soreli), e il futuro rappresentato dai nuovi arrangiamenti e dalle composizioni scritte di suo pugno con l'aiuto di Stefano Montello e Marco Bianchi. Folk, pop e raffinate partiture jazz (Come Un Aquilone) si intrecciano e dialogano così come il linguaggio usato, equamente diviso tra il dialetto fiulano (O Staimi Atenz, Dentrifur, La Lus) e l'italiano (Calda Sera, Neve), ed una voce piena di sfumature tutte da scoprire, capace di trasmettere ottime vibrazioni, raccontandoci dei meravigliosi misteri della natura tramandati nei secoli, del trascorrere del tempo (Neule Scure), dei luoghi fisici e quelli più introspettivi dell'anima. Un piccolo e delicato gioiellino da riscoprire-per me, rimasto "colpevolmente" indietro, per voi se ancora non la conoscete-costruito, seguendo un valido e ben preciso progetto, da un'autrice giovane, preparata, completamente indipendente, slegata da tutti quei circuiti molto spesso fabbriche di false illusioni poi vendute a buon mercato e di cloni plastificati senza personaltà , qualità che qui non manca ma abbonda in gran quantità.




 vedi anche RECENSIONE: LUIGI MAIERON-Vino, Tabacco e Cielo (2011) 



vedi anche INTERVISTA a LUIGI MAIERON 




vedi anche RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS- Yanez (2011)



venerdì 3 gennaio 2014

RECENSIONE:JOE NOLAN (Tornado)

JOE NOLAN  Tornado (Rootsy/IRD, 2013)



Tradizione pesante da portare avanti. I songwriter canadesi che hanno lasciato la firma sopra alla pergamena che ricorda i grandi del rock sono pochi ma indelebilmente segnati in grassetto: Leonard Cohen, Neil Young, Bruce Cockburn, Joni Mitchell, Gordon Lightfoot sono inavvicinabili. Il giovane Joe Nolan, classe 1990 , arriva al secondo disco con un promettentissimo esordio, Goodbye Cinderella uscito nel 2011, che gli valse una nomination al Canadian Folk Music Awards come "miglior artista emergente" e la voglia di continuare a portare avanti quella tradizione in modo onestissimo e senza colpi di testa, ma con una saggezza poetica da veterano consumato, penna brillante, romantica, voce che entra, sano e contagioso entusiasmo che potete riscontrare anche leggendo il diario delle sue giornate aggiornato sul sito personale nel web. Il suo, è un folk grigio, autunnale (le carezze di Autumn Sky e Pawnshop), perfettamente in bilico tra tradizione e presente dove sentimenti (On the Highway cantata insieme alla sorella Nataya Nolan), solitudini, relazioni interrotte (l'apertura I Know The Difference) giocano un ruolo primario nelle liriche, ma con una strabordante forza interpretativa, generatrice di magnetismo e calore non indifferenti. Le atmosfere soffuse, notturne della jazzata I'll Still Remember Your Name che si mette all'inseguimento delle orme di Joe Henry, le malinconiche passeggiate condotte a piccoli passi di danza spruzzati di rock dalla chitarra elettrica in Tighrope Dancer, cantata insieme alla voce di Lindi Ortega, il folk povero di Massey Hall (ancora con la sorella) e quello ricco di archi (Shambles), il lento viaggio di ritorno verso casa su desolate autostrade (Tornado) catturano l'attenzione e promettono tutto il bene possibile per una brillante carriera.
Registrato tra Nashville e Calgary sotto l'ala protettrice di Colin Linden che produce e impreziosisce il tutto con la sua chitarra, coaudiuvato da Marco Giovino e Gary Craig alla batteria, John Dimond (dei Blackie and The Rodeo Kings) al basso e John Whynot alla tastiere.
Mancano più graffi vincenti, quelli in grado di lasciare il ricordo, come quello che esce benissimo in Did Somebody Call The Cops, con quelle chitarre elettriche che si stagliano tra aria e asfalto, lacerando, ma è indubbio che il ventiduenne cantautore di Alberta abbia classe da vendere, e possieda il fattore x in corpo, marchiato, scalpitante e pronto a fargli spiccare il volo.




vedi anche RECENSIONE: JOE HENRY-Reverie (2011)




vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)




vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)





vedi anche RECENSIONE: TIM GRIMM-The Turning Point (2013)