THE WYNNTOWN MARSHALS The Long Haul (Blue Rose/IRD, 2013)
Pochi dubbi sullo scalo aereo che il boeing in copertina andrà ad impattare. La fascinazione degli scozzesi, di Edimburgo, The Wynntown Marshals è chiara, chiarissima. Limpida, tanto che bastano i primi accordi dell'apertura Driveaway a svelarlo, il testo ci conferma il tutto. Toccata terra, il territorio americano è lì per essere percorso da cima a fondo, attraversato con un motore rombante sotto il sedere, con una dolce compagnia nel sedile a fianco, quattro ruote fumanti e Life In The Fast Lane che esce prepotente dall'autoradio, andando a toccare i territori chitarristici cari a certo southern rock '70, a Neil Young, canadese come lo sono i sogni che provengono da Canada, canzone che svela anche tutto l'amore per le armonie vocali della west coast californiana a cavallo tra i sessanta e primi anni settanta. Un viaggio da grandi spazi che continua tra le parole di Low Country Comedown tra alt/country '90 (Wilco, Jayhawks), americana e scatti rock'n'roll e prosegue lungo le dieci tracce che compongono questo secondo disco (il primo, Westerner, fu del 2010) del gruppo guidato da Keith Benzie, cantante e chitarrista con le idee molto chiare.
Sulla strada si incontrano anche strani personaggi: la lenta Curtain Call, successo e tragedia di un sedicente mago, con il violino che guida in mezzo a desertiche solitudini e Submariner che porta all'eccesso la fascinazione per il viaggio, raccontando la storia di chi, un giorno, decide di lasciare tutto per solcare in solitaria i grandi oceani.
Anche se il tragitto, a tratti, sembra dipanarsi su strade già conosciute e battute
, ripresentando gli stessi luoghi più volte visitati dagli ascoltatori più attenti a quel che succede sul suolo musicale americano-arrivando inesorabilmente ad annullare la sorpresa della prima volta-la band dimostra di avere le idee chiare, forte di una fascinazione concreta e vissuta sulla propria pelle al cento per cento. Attitudine giusta, ampli fumanti, lunghi e distesi spazi e una cartina stradale sempre aperta: questi sono i The Wynntown Marshals da Edimburgo.
vedi anche RECENSIONE: CHET O'KEEFE-Because Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: JOE GRUSHECKY-Somewhere East Of Eden (2013)
vedi anche RECENSIONE:TIM GRIMM-The Turning Point (2013)
vedi anche RECENSIONE:NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
domenica 15 dicembre 2013
martedì 10 dicembre 2013
RECENSIONE: NEIL YOUNG (Live At The Cellar Door)
NEIL YOUNG Live At The Cellar Door (Reprise Records, 2013)
Non abbiate fretta. Qualcuno (chi? io?) si aspettava che gli archivi facessero un balzello temporale in avanti. Non di molto, bastavano due anni. Superare il 1972 e trovarsi davanti alle nebbie di uno dei periodi più scuri della carriera del canadese, ma certamente tra i più prolifici ed ispirati, ancora tutto da scoprire nei tanti album mai venuti alla luce. Non abbiate fretta però, perché potrebbe bastare una rarissima Cinnamon Girl suonata al pianoforte per cambiare idea e farvi venire voglia di rimanere ancora un po' con le orecchie appoggiate a questo 1970, anno ricco e cruciale come non mai per Neil Young, dichiarato unanimemente artista dell'anno: già fuori in Marzo con Deja Vù insieme a Crosby, Stills e Nash ma alle prese con un difficile seguito che mai vedrà la luce-che inesorabilmente sembra già calare d'intensità sul supergruppo- e con i protagonisti lanciati verso le rispettive carriere soliste ("cocaina ed ego distrussero il gruppo" dirà invece Neil Young) e con il fresco After The Goldrush uscito a Settembre da presentare, da cui attingerà parecchio in questi sei show acustici, porzione di una serie di concerti affrontati in solitaria in piccolissimi spazi tra la fine del 1970 e l'inizio del 1971, e che sarebbero dovuti confluire in un disco live mai portato a conclusione (naturalmente). Ad attendervi è la cronaca spiccia e selezionata delle sei performance intime-quasi fosse nella familiarità del buen retiro a Topanga Canyon-trascorse tra il 30 Novembre e il 2 Dicembre del 1970 al Cellar Door di Washington D.C., un piccolissimo locale tra la 34th Street e la M Street con il pubblico alle calcagna, un music club dove i grandi artisti usavano mettersi alla prova e teatro di numerosi dischi live tra cui spicca quello di Miles Davis.
Non abbiate fretta, perché se volete le nere sabbie mobili di On The Beach, dentro a questi 45 minuti (13 canzoni) trovate pure quelle, le prime sfumature di grigio si intravedono nell' embrionale versione al pianoforte di See The Sky About To Rain, intensa canzone che apparirà solo quattro anni più tardi proprio in quell'album, ed una splendida versione di Old Man, canzone scritta per il vecchio Louis, custode del Broken Arrow Ranch appena acquistato: fredda, cruda ma con la dolcezza di una carezza che verrà ripresa, colorata, scaldata e arricchita su Harvest grazie agli interventi di James Taylor e Linda Ronstadt. Basterebbero queste tre canzoni per mitigare l'ansia. Invece ci si perde, ancora una volta, dentro all'essenzialità di un artista venticinquenne che già teneva in pugno l'audience con la sola profondità di una chitarra acustica ed un pianoforte-il vero protagonista di questi concerti-, già forte di un passato importante da raccontare (Flying On The Ground Is Wrong, Expecting To Fly, I Am A Child dei Buffalo Springfield, l'album Everybody Knows This Is Nowhere (1969) da cui vengono riprese Cinnamon Girl, Down By The River, Cowgirl In The Sand), un presente tormentato dalle visioni apocalittiche che ispirarono un film-mai realizzato-che a sua volta ispirò After The Goldrush (Tell Me Why, Only Love Can Break Your Heart alla chitarra, l'epica After The Goldrush al piano, Don't Let It Bring You Down, Birds) , ed un futuro già parzialmente scritto (Old Man, See The sky About The Rain), perché quando Neil Young ti presenta una nuova canzone, nella sua testa è già sostituita da un'altra, prossima a venire. Da crimine sembra essere, se mai ci fosse stato, il parziale taglio delle parti parlate di Neil Young tra un brano e l'altro, essenziali per render l'idea dell'atmosfera che si respirava in quella piccola e calda location, eccetto per l'inizio della finale Flying On The Ground Is Wrong, dove Young parla e scherza sulle sue virtù al pianoforte.
Neil Young al Cellar Door è un artista ansioso di imboccare la carriera solista, di mettersi alla prova, testarsi, dimostrare prima a se stesso poi al grande pubblico quanto la vita di gruppo gli andasse stretta, troppo stretta. Questo è l'antipasto che sublimerà solo due mesi dopo durante i- già pubblicati- concerti alla Massey Hall che ce lo mostrano più sicuro e in palla, nonostante i lancinanti dolori alla schiena che lo tormentarono in quel periodo, facendo risultare questa uscita un gradino sotto a quelle registrazioni (sette canzoni su tredici sono presenti anche nella setlist di Live At Massey Hall 1971). Sarebbe stato preferibile far uscire Cellar Door prima delle registrazioni alla Massey Hall di Toronto, ma all'interno del disordine cronologico younghiano tutto è permesso, e noi ci adeguiamo come sempre. Ora, però, proseguiamo. Senza fretta, naturalmente.
"Ai tempi il Cedars era un vecchio ospedale. Io ero in trazione, c'erano cavi e pesi che tiravano il piede per alleviare la pressione sui dischi della spina dorsale. (Mentre ero lì, ascoltai molto una cassetta del Cellar Door di Washington. Era un nastro inciso di recente dal vivo con Henry Lewy. Era veramente ottimo e scrissi alcuni appunti; un giorno pubblicherò un album veramente figo di quei tempi...)" da Il Sogno di un hippie di Neil Young.
vedi anche RECENSIONE:NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Americana (2012)
vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
vedi anche NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, Collisioni, 21 Luglio 2014
Non abbiate fretta. Qualcuno (chi? io?) si aspettava che gli archivi facessero un balzello temporale in avanti. Non di molto, bastavano due anni. Superare il 1972 e trovarsi davanti alle nebbie di uno dei periodi più scuri della carriera del canadese, ma certamente tra i più prolifici ed ispirati, ancora tutto da scoprire nei tanti album mai venuti alla luce. Non abbiate fretta però, perché potrebbe bastare una rarissima Cinnamon Girl suonata al pianoforte per cambiare idea e farvi venire voglia di rimanere ancora un po' con le orecchie appoggiate a questo 1970, anno ricco e cruciale come non mai per Neil Young, dichiarato unanimemente artista dell'anno: già fuori in Marzo con Deja Vù insieme a Crosby, Stills e Nash ma alle prese con un difficile seguito che mai vedrà la luce-che inesorabilmente sembra già calare d'intensità sul supergruppo- e con i protagonisti lanciati verso le rispettive carriere soliste ("cocaina ed ego distrussero il gruppo" dirà invece Neil Young) e con il fresco After The Goldrush uscito a Settembre da presentare, da cui attingerà parecchio in questi sei show acustici, porzione di una serie di concerti affrontati in solitaria in piccolissimi spazi tra la fine del 1970 e l'inizio del 1971, e che sarebbero dovuti confluire in un disco live mai portato a conclusione (naturalmente). Ad attendervi è la cronaca spiccia e selezionata delle sei performance intime-quasi fosse nella familiarità del buen retiro a Topanga Canyon-trascorse tra il 30 Novembre e il 2 Dicembre del 1970 al Cellar Door di Washington D.C., un piccolissimo locale tra la 34th Street e la M Street con il pubblico alle calcagna, un music club dove i grandi artisti usavano mettersi alla prova e teatro di numerosi dischi live tra cui spicca quello di Miles Davis.
Non abbiate fretta, perché se volete le nere sabbie mobili di On The Beach, dentro a questi 45 minuti (13 canzoni) trovate pure quelle, le prime sfumature di grigio si intravedono nell' embrionale versione al pianoforte di See The Sky About To Rain, intensa canzone che apparirà solo quattro anni più tardi proprio in quell'album, ed una splendida versione di Old Man, canzone scritta per il vecchio Louis, custode del Broken Arrow Ranch appena acquistato: fredda, cruda ma con la dolcezza di una carezza che verrà ripresa, colorata, scaldata e arricchita su Harvest grazie agli interventi di James Taylor e Linda Ronstadt. Basterebbero queste tre canzoni per mitigare l'ansia. Invece ci si perde, ancora una volta, dentro all'essenzialità di un artista venticinquenne che già teneva in pugno l'audience con la sola profondità di una chitarra acustica ed un pianoforte-il vero protagonista di questi concerti-, già forte di un passato importante da raccontare (Flying On The Ground Is Wrong, Expecting To Fly, I Am A Child dei Buffalo Springfield, l'album Everybody Knows This Is Nowhere (1969) da cui vengono riprese Cinnamon Girl, Down By The River, Cowgirl In The Sand), un presente tormentato dalle visioni apocalittiche che ispirarono un film-mai realizzato-che a sua volta ispirò After The Goldrush (Tell Me Why, Only Love Can Break Your Heart alla chitarra, l'epica After The Goldrush al piano, Don't Let It Bring You Down, Birds) , ed un futuro già parzialmente scritto (Old Man, See The sky About The Rain), perché quando Neil Young ti presenta una nuova canzone, nella sua testa è già sostituita da un'altra, prossima a venire. Da crimine sembra essere, se mai ci fosse stato, il parziale taglio delle parti parlate di Neil Young tra un brano e l'altro, essenziali per render l'idea dell'atmosfera che si respirava in quella piccola e calda location, eccetto per l'inizio della finale Flying On The Ground Is Wrong, dove Young parla e scherza sulle sue virtù al pianoforte.
Neil Young al Cellar Door è un artista ansioso di imboccare la carriera solista, di mettersi alla prova, testarsi, dimostrare prima a se stesso poi al grande pubblico quanto la vita di gruppo gli andasse stretta, troppo stretta. Questo è l'antipasto che sublimerà solo due mesi dopo durante i- già pubblicati- concerti alla Massey Hall che ce lo mostrano più sicuro e in palla, nonostante i lancinanti dolori alla schiena che lo tormentarono in quel periodo, facendo risultare questa uscita un gradino sotto a quelle registrazioni (sette canzoni su tredici sono presenti anche nella setlist di Live At Massey Hall 1971). Sarebbe stato preferibile far uscire Cellar Door prima delle registrazioni alla Massey Hall di Toronto, ma all'interno del disordine cronologico younghiano tutto è permesso, e noi ci adeguiamo come sempre. Ora, però, proseguiamo. Senza fretta, naturalmente.
"Ai tempi il Cedars era un vecchio ospedale. Io ero in trazione, c'erano cavi e pesi che tiravano il piede per alleviare la pressione sui dischi della spina dorsale. (Mentre ero lì, ascoltai molto una cassetta del Cellar Door di Washington. Era un nastro inciso di recente dal vivo con Henry Lewy. Era veramente ottimo e scrissi alcuni appunti; un giorno pubblicherò un album veramente figo di quei tempi...)" da Il Sogno di un hippie di Neil Young.
vedi anche RECENSIONE:NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Americana (2012)
vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
vedi anche NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, Collisioni, 21 Luglio 2014
martedì 3 dicembre 2013
RECENSIONE:GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS(Double Trouble)
GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS Double Trouble (Red Cat Records/Audioglobe, 2013)
Un valoroso generale ben saldo al comando con sei corde di chitarra Fender tese, accordate e puntate verso il passato, e quattro potenti casse collegate ad amplificarne i comandi. Cosa chiedere di più ad una rock band? Quando poi ci mettono nove canzoni per 35 minuti di musica (la perfezione, quella dei dischi di un tempo) senza riempitivi e note inutili, il gioco è fatto. Piace e convince. Lo scetticismo legato alla corta longevità discografica dei super gruppi-la fascinosa e dannata storia del rock vuole così-è annullato dal seguito del superbo esordio della band fiorentina, un concentrato di sana passione, con le diverse carriere musicali dei componenti che trovano la via comune nell'amore viscerale, raccontato a cuore aperto, per il sano hard rock/blues dei '70, quello inglese (Free, Jeff Beck Group, Led Zeppelin, Cream, Humble Pie, Stones) con ampie spruzzate di polveroso american roots, suonato con la professionalità e l'esperienza che meriterebbero le più quotate piazze internazionali (visto lo striminzito spazio che i nostri media dedicano al rock sarebbe opportuno espatriare) con i locali quanto meno brulicanti di gente. Insieme a Rival Sons, The Answer e Scorpion Child, solo tre nomi affini alla band toscana venuti alla ribalta in campo mondiale negli ultimissimi anni, i General Stratocuster and the Marshals ci stanno alla grande e fanno la loro figura. Provare per credere. Internazionale è comunque il cantante: Jacopo Meille che, oltre a mille impegni in altre band e come critico musicale su svariati magazine, da alcuni anni è il frontman a tempo pieno dei britannici Tygers Of Pan Tang, storico gruppo della NWOBHM nato insieme a Iron Maiden, Saxon e Def Leppard ma rimasto cult, sfortunato e per pochi. Per pochi ma con l'augurio di esplodere lo sono, per ora, anche i GSATM.
Per chi si fosse perso il primo appuntamento, il consiglio è quello di andarsi a recuperare l'esordio omonimo del 2011 e poi continuare il viaggio partendo dalla viziosa, d'impatto e colorata copertina di questo Double Trouble (i caratteri del monicker vi ricordano qualcosa?). La band mantiene le promesse-già certezze-dell' esordio, lasciando il doppio gioco solamente alla parte iconografica del progetto. Qui non c'è nessun inganno. E' la verità del rock'n'roll a venire a galla: pane al pane, vino al vino, chitarre che suonano come chitarre (il generale Fabio Fabbri, è lui al comando), basso che stantuffa (Richard Ursillo già nei Sensation Fix e Campo di Marte), batteria che pesta quando deve (Alessandro 'Nuto' Nutini dei Bandabardò) e tastiere importanti nell'economia finale senza mai invadere (Federico Pacini), fin dalla prima traccia Drifter, suono teso, sinistro e zeppeliniano che prepara all'esplosione rock'n'roll di Cute Evil Angel che accoppia un rifferama alla Keith Richards alla timbrica plantiana di Jacopo Meille che si conferma una delle migliori ugole sulla piazza. Lo shuffle di Double Trouble gioca viziosamente con il funk grazie alla presenza dei fiati, ricordando sì i Rolling Stones di metà carriera ma facendomi venire in mente anche il primissimo e ispiratissimo Lenny Kravitz di Mama Said, quello ancora lontano dallo show-business tritatutto.
What Are You Looking For fa scuotere il sedere, un cosmic honky tonk che fa a pugni contro la successiva Don't Be Afraid Of The Dark che dice tutto nel titolo, lenta atmosferica discesa nell'oscurità con la voce di Meille che ci accompagna nel sottoscala tetro e spaventoso.
Per chi ha paura del buio, nella parte B-mi piace viverlo come un vinile-cala la tensione. Non la qualità, sia chiaro. Un trittico di ottime ballate acustiche (l'unico appunto che posso trovare è la loro sequenzialità), che esplorano la facciata americana fatta di scintillante country (Alone), il falsetto che accompagna I Just Got Scared , a metà strada tra Purple Rain e Wild Horsers , la melodica e sognante Time, facendo da preludio all'ultima scossa tellurica della finale Push The Limit, un veloce ed energico rock'n'roll, unione perfetta tra il lato yankee e quello british della loro musica. Un arrivederci con il botto, perché mi piace pensare che i General Stratocuster and the Marshals da super gruppo ("nella musica rock e pop in genere, il termine supergruppo o superband si riferisce a un gruppo musicale composto da musicisti particolarmente celebrati per il loro talento tecnico e in genere già divenuti famosi in altri gruppi" da: Wikipedia) diventino super gruppo ("band come poche in Italia" da: me stesso). Come riverniciare le stanze dell'hard rock/blues con colori (rigorosamente
made in Italy) ancora freschi, genuini e eternamente duraturi. Qualcuno, pace all'anima sua, lo cantava: Long Live Rock'n'Roll.
Ora pensateci voi.
vedi anche RECENSIONE: GENERAL STRATOCUSTER and the MARSHALS (2011)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.-Temporary Happiness (2013)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
Un valoroso generale ben saldo al comando con sei corde di chitarra Fender tese, accordate e puntate verso il passato, e quattro potenti casse collegate ad amplificarne i comandi. Cosa chiedere di più ad una rock band? Quando poi ci mettono nove canzoni per 35 minuti di musica (la perfezione, quella dei dischi di un tempo) senza riempitivi e note inutili, il gioco è fatto. Piace e convince. Lo scetticismo legato alla corta longevità discografica dei super gruppi-la fascinosa e dannata storia del rock vuole così-è annullato dal seguito del superbo esordio della band fiorentina, un concentrato di sana passione, con le diverse carriere musicali dei componenti che trovano la via comune nell'amore viscerale, raccontato a cuore aperto, per il sano hard rock/blues dei '70, quello inglese (Free, Jeff Beck Group, Led Zeppelin, Cream, Humble Pie, Stones) con ampie spruzzate di polveroso american roots, suonato con la professionalità e l'esperienza che meriterebbero le più quotate piazze internazionali (visto lo striminzito spazio che i nostri media dedicano al rock sarebbe opportuno espatriare) con i locali quanto meno brulicanti di gente. Insieme a Rival Sons, The Answer e Scorpion Child, solo tre nomi affini alla band toscana venuti alla ribalta in campo mondiale negli ultimissimi anni, i General Stratocuster and the Marshals ci stanno alla grande e fanno la loro figura. Provare per credere. Internazionale è comunque il cantante: Jacopo Meille che, oltre a mille impegni in altre band e come critico musicale su svariati magazine, da alcuni anni è il frontman a tempo pieno dei britannici Tygers Of Pan Tang, storico gruppo della NWOBHM nato insieme a Iron Maiden, Saxon e Def Leppard ma rimasto cult, sfortunato e per pochi. Per pochi ma con l'augurio di esplodere lo sono, per ora, anche i GSATM.
Per chi si fosse perso il primo appuntamento, il consiglio è quello di andarsi a recuperare l'esordio omonimo del 2011 e poi continuare il viaggio partendo dalla viziosa, d'impatto e colorata copertina di questo Double Trouble (i caratteri del monicker vi ricordano qualcosa?). La band mantiene le promesse-già certezze-dell' esordio, lasciando il doppio gioco solamente alla parte iconografica del progetto. Qui non c'è nessun inganno. E' la verità del rock'n'roll a venire a galla: pane al pane, vino al vino, chitarre che suonano come chitarre (il generale Fabio Fabbri, è lui al comando), basso che stantuffa (Richard Ursillo già nei Sensation Fix e Campo di Marte), batteria che pesta quando deve (Alessandro 'Nuto' Nutini dei Bandabardò) e tastiere importanti nell'economia finale senza mai invadere (Federico Pacini), fin dalla prima traccia Drifter, suono teso, sinistro e zeppeliniano che prepara all'esplosione rock'n'roll di Cute Evil Angel che accoppia un rifferama alla Keith Richards alla timbrica plantiana di Jacopo Meille che si conferma una delle migliori ugole sulla piazza. Lo shuffle di Double Trouble gioca viziosamente con il funk grazie alla presenza dei fiati, ricordando sì i Rolling Stones di metà carriera ma facendomi venire in mente anche il primissimo e ispiratissimo Lenny Kravitz di Mama Said, quello ancora lontano dallo show-business tritatutto.
What Are You Looking For fa scuotere il sedere, un cosmic honky tonk che fa a pugni contro la successiva Don't Be Afraid Of The Dark che dice tutto nel titolo, lenta atmosferica discesa nell'oscurità con la voce di Meille che ci accompagna nel sottoscala tetro e spaventoso.
Per chi ha paura del buio, nella parte B-mi piace viverlo come un vinile-cala la tensione. Non la qualità, sia chiaro. Un trittico di ottime ballate acustiche (l'unico appunto che posso trovare è la loro sequenzialità), che esplorano la facciata americana fatta di scintillante country (Alone), il falsetto che accompagna I Just Got Scared , a metà strada tra Purple Rain e Wild Horsers , la melodica e sognante Time, facendo da preludio all'ultima scossa tellurica della finale Push The Limit, un veloce ed energico rock'n'roll, unione perfetta tra il lato yankee e quello british della loro musica. Un arrivederci con il botto, perché mi piace pensare che i General Stratocuster and the Marshals da super gruppo ("nella musica rock e pop in genere, il termine supergruppo o superband si riferisce a un gruppo musicale composto da musicisti particolarmente celebrati per il loro talento tecnico e in genere già divenuti famosi in altri gruppi" da: Wikipedia) diventino super gruppo ("band come poche in Italia" da: me stesso). Come riverniciare le stanze dell'hard rock/blues con colori (rigorosamente
made in Italy) ancora freschi, genuini e eternamente duraturi. Qualcuno, pace all'anima sua, lo cantava: Long Live Rock'n'Roll.
Ora pensateci voi.
vedi anche RECENSIONE: GENERAL STRATOCUSTER and the MARSHALS (2011)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.-Temporary Happiness (2013)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
giovedì 28 novembre 2013
RECENSIONE: TIM GRIMM (The Turning Point)
TIM GRIMM The Turning Point (Cavalier Music/IRD, 2013)
Il nome di Tim Grimm dirà poco ai più e molto ai cinefili incalliti (solo americani, mi sa) che lo avranno ammirato come attore al fianco di Russell Crowe in The Insider, e in molti altri film, telefilm e opere teatrali, ma la sua storia va oltre, è la trasposizione fatta persona di quelle belle favole americane ambientate nella sperduta provincia degli States. Quelle che spesso ci raccontano proprio i film, quelle piene di tutti quei luoghi comuni che tanto piacciono, legati alla dura vita rurale nel Midwest statunitense: posti fascinosamente desolati e abitati da persone schiette, vita dura di campagna ma semplice e appagante. Quelle che vorremmo vivere almeno una volta nella vita, quando si ha voglia di lasciare tutto alle spalle e dire "me ne vado in America!". Nativo dell'Indiana, dopo una brillante carriera a Los Angeles dove ha girato film e telefilm al fianco dei più grandi attori, proprio sul più bello, quando i suoi piccoli bambini iniziavano a crescere-bisognosi di più tempo e attenzioni-decide di tornare indietro, al suo passato, alla semplice vita di un tempo dove passare le giornate a fingere, come un attore, non è più possibile. Dove il richiamo della terra va assecondato senza finzioni, innaffiato giorno dopo giorno. Giorni che passano inesorabili, ma questa volta sempre più dettati dagli impegni musicali che si intensificano sotto la buona ispirazione della natura che lo circonda.
Grimm è il tipico folksinger che non ha bisogno di alzare la voce o lanciare in aria fuochi d'artificio per attirare l'attenzione. La sua strada musicale è la stessa aperta e percorsa dall'amato amico Ramblin' Jack Elliott, da John Prine, da Steve Earle, da Tom Paxton a cui dedicò il precedente Thank You Tom Paxton (2011), rileggendone la carriera. I suoi precedenti dischi gli sono già valsi numerosi riconoscimenti e questo non farà eccezione. Se amate il "poco" che possono dare una voce calda, rassicurante e avvolgente, degli strumenti a corda della tradizione (chitarra acustica, violino, banjo) e una manciata di storie intimiste, raccolte- e raccontate come Dio comanda- durante il trascorrere dei giorni in una normale settimana come tante passata nel suo ranch, o dall'altra parte dell'Oceano nella amata Olanda, ad osservare la vita che scorre e la natura che lo abbraccia, rimarrete rapiti fin dalla prima traccia The Lake, country/folk che gioca con la forza della natura, la nostalgia, la speranza, le emozioni e l'amore, ingredienti che si ritrovano spesso lungo le undici canzoni del disco, alcune scritte con la moglie Jan Lucas e che vedono la partecipazione di Jason Wilber già chitarrista di John Prine.
Personaggio vero, già le foto basterebbero per certificarlo, voce profonda che ci porta in giro tra i ricordi d'infanzia in una vecchia casa nell'Indiana in Family History dove il violino di Diederick Van Wassenaer ricama nostalgia e i tasti di un pianoforte (Connor Grimm) battono i minuti; un giro intorno alla musica che ama, amiano, in King Of The Folksingers che pare uscita da Desire di Dylan dove il violino che fu di Scarlet Rivera ora è di Jordana Greenberg, proprio quel Bob Dylan che viene citato tra le parole del testo insieme all'amico Ramblin' Jack Ellioth (a cui è dedicata), a Tom Waits, Johnny Cash, Arlo Guthrie, Rolling Stones, Jack Kerouac; le memorie scritte nei paesaggi (The Canyon, Indiana) che riportano alla mente la vita vissuta, la strada, la semina e il raccolto dei giorni.
Rovin'Gambler è un traditional folk, minimalista, scarno ed oscuro, riarrangiato e interpretato come farebbero Bruce Springsteen alle prese con il bianco e nero di Nebraska o lo Steve Earle più acustico e tenebroso; The Turning Point è esercizio di scrittura di qualità, narrazione di un omicidio ambientato nel diciassettesimo secolo nella cittadina di Spijkerboor in Olanda, paese che ritorna in Anne In Amsterdam, puro folk per chitarra e violino, ispirato da un viaggio nei Paesi Bassi, dove Grimm rimase colpito dal museo e dalle stesse lacrime che versò, ripercorrendo le parole che Anna Frank ci ha lasciato in memoria, canzone che contrastsa con la singolarità dell'up country Blame It On The Dog, un finale gioioso lasciato ai margini di un disco intenso, scavato e profondo.
Tim Grimm quando canta non recita. La sensibilità si impossessa della scena e le vibrazioni genuine scuotono. La vera vita non è un film. Tim Grimm non cambierà mai il corso della musica ma sono
personaggi così, semplici e puri, quelli che tengono ancora in piedi la baracca.
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: GREG TROOPER-Incident On Willow Street (2013)
vedi anche RECENSIONE: CHET O'KEEFE- Because Of You (2013)
Il nome di Tim Grimm dirà poco ai più e molto ai cinefili incalliti (solo americani, mi sa) che lo avranno ammirato come attore al fianco di Russell Crowe in The Insider, e in molti altri film, telefilm e opere teatrali, ma la sua storia va oltre, è la trasposizione fatta persona di quelle belle favole americane ambientate nella sperduta provincia degli States. Quelle che spesso ci raccontano proprio i film, quelle piene di tutti quei luoghi comuni che tanto piacciono, legati alla dura vita rurale nel Midwest statunitense: posti fascinosamente desolati e abitati da persone schiette, vita dura di campagna ma semplice e appagante. Quelle che vorremmo vivere almeno una volta nella vita, quando si ha voglia di lasciare tutto alle spalle e dire "me ne vado in America!". Nativo dell'Indiana, dopo una brillante carriera a Los Angeles dove ha girato film e telefilm al fianco dei più grandi attori, proprio sul più bello, quando i suoi piccoli bambini iniziavano a crescere-bisognosi di più tempo e attenzioni-decide di tornare indietro, al suo passato, alla semplice vita di un tempo dove passare le giornate a fingere, come un attore, non è più possibile. Dove il richiamo della terra va assecondato senza finzioni, innaffiato giorno dopo giorno. Giorni che passano inesorabili, ma questa volta sempre più dettati dagli impegni musicali che si intensificano sotto la buona ispirazione della natura che lo circonda.
Grimm è il tipico folksinger che non ha bisogno di alzare la voce o lanciare in aria fuochi d'artificio per attirare l'attenzione. La sua strada musicale è la stessa aperta e percorsa dall'amato amico Ramblin' Jack Elliott, da John Prine, da Steve Earle, da Tom Paxton a cui dedicò il precedente Thank You Tom Paxton (2011), rileggendone la carriera. I suoi precedenti dischi gli sono già valsi numerosi riconoscimenti e questo non farà eccezione. Se amate il "poco" che possono dare una voce calda, rassicurante e avvolgente, degli strumenti a corda della tradizione (chitarra acustica, violino, banjo) e una manciata di storie intimiste, raccolte- e raccontate come Dio comanda- durante il trascorrere dei giorni in una normale settimana come tante passata nel suo ranch, o dall'altra parte dell'Oceano nella amata Olanda, ad osservare la vita che scorre e la natura che lo abbraccia, rimarrete rapiti fin dalla prima traccia The Lake, country/folk che gioca con la forza della natura, la nostalgia, la speranza, le emozioni e l'amore, ingredienti che si ritrovano spesso lungo le undici canzoni del disco, alcune scritte con la moglie Jan Lucas e che vedono la partecipazione di Jason Wilber già chitarrista di John Prine.
Personaggio vero, già le foto basterebbero per certificarlo, voce profonda che ci porta in giro tra i ricordi d'infanzia in una vecchia casa nell'Indiana in Family History dove il violino di Diederick Van Wassenaer ricama nostalgia e i tasti di un pianoforte (Connor Grimm) battono i minuti; un giro intorno alla musica che ama, amiano, in King Of The Folksingers che pare uscita da Desire di Dylan dove il violino che fu di Scarlet Rivera ora è di Jordana Greenberg, proprio quel Bob Dylan che viene citato tra le parole del testo insieme all'amico Ramblin' Jack Ellioth (a cui è dedicata), a Tom Waits, Johnny Cash, Arlo Guthrie, Rolling Stones, Jack Kerouac; le memorie scritte nei paesaggi (The Canyon, Indiana) che riportano alla mente la vita vissuta, la strada, la semina e il raccolto dei giorni.
Rovin'Gambler è un traditional folk, minimalista, scarno ed oscuro, riarrangiato e interpretato come farebbero Bruce Springsteen alle prese con il bianco e nero di Nebraska o lo Steve Earle più acustico e tenebroso; The Turning Point è esercizio di scrittura di qualità, narrazione di un omicidio ambientato nel diciassettesimo secolo nella cittadina di Spijkerboor in Olanda, paese che ritorna in Anne In Amsterdam, puro folk per chitarra e violino, ispirato da un viaggio nei Paesi Bassi, dove Grimm rimase colpito dal museo e dalle stesse lacrime che versò, ripercorrendo le parole che Anna Frank ci ha lasciato in memoria, canzone che contrastsa con la singolarità dell'up country Blame It On The Dog, un finale gioioso lasciato ai margini di un disco intenso, scavato e profondo.
Tim Grimm quando canta non recita. La sensibilità si impossessa della scena e le vibrazioni genuine scuotono. La vera vita non è un film. Tim Grimm non cambierà mai il corso della musica ma sono
personaggi così, semplici e puri, quelli che tengono ancora in piedi la baracca.
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: GREG TROOPER-Incident On Willow Street (2013)
vedi anche RECENSIONE: CHET O'KEEFE- Because Of You (2013)
giovedì 21 novembre 2013
RECENSIONE: JAKE BUGG (Shangri La)
JAKE BUGG Shangri La (Virgin/EMI, 2013)
Al giovane Jake Bugg auguravo di finire nelle mani giuste dopo un esordio convincente e di carattere ma per certi versi ancora acerbo e poco inquadrabile, con la classica strada da compiere lunga e libera davanti. E' passato un solo anno e le manone esperte di Rick Rubin si sono allungate e lo hanno rapito con la pesante complicità della Universal che al ragazzo sembra crederci, così tanto da spremerlo fin troppo in così breve tempo. Ricordo vetrine di record stores a Dublino tappezzate dal suo esordio, capace di vendere 450.000 copie in UK. Rubin lo ha condotto lontano, fuori dal suo fortino del Regno Unito, negli studi Shangri La (ecco servito il titolo!) di Malibu (California) e ha cercato di plasmare l'ancora fresca e malleabile arte del giovin virgulto di Nottingham (per saperne di più), classe 1994, broncio perenne, sfrontatezza e tanto talento da vendere. Quello che ne è uscito, per certi versi, agita ancor più le acque della sua arte, seppure fresche, limpide e potabili ma che sembrano imboccare ancora troppi percorsi alternativi. Quello che colpisce immediatamente sono i primi due singoli lanciati, molto simili tra loro, che all'interno del disco sono come due mosche indemoniate in un barattolo di placide formiche: la freneticità di Slumville Sunrise e What Doesn't Kill You (ti si stampano in testa, non c'è dubbio), due canzoni semplici e lineari di rock/blues diretto dal piglio quasi punk che non mancheranno di dare la carica durante i live. Due fulmini a ciel sereno che poco hanno da spartire con il folk, quello che permeava l'esordio e buona metà di questo disco, perché i corsi d'acqua che bagnano le polverose strade americane sono i più numerosi e facilmente rintracciabili negli episodi folk (il romantico country di Me And You, la sognante A Song About Love, le minimali e intime Pine Trees e Storm Passes Away), nel folk/rock'n'roll (quasi parente dell'antico skiffle) dell'apertura There's A Beast And We All Feed It, tanto vintage nel suono-Bob Dylan meets Eddie Cochran- quanto attuale nel testo e caratterizzata dalla voce nasale, ormai un segno distintivo e peculiare, o nel rock di Kingpin, un numero fortemente influenzato da Tom Petty (ecco le manone di Rick Rubin che si allungano). Aria meno nebbiosamente brit ma più polverosamente yankee, in definitiva.
In altri punti si sente maggiormente il tocco "esperto" di Rubin che, diversamente da altre volte, cerca di smussare l'ingenua urgenza esecutiva dell'esordio, arricchendo le canzoni di sfumature, anche grazie ai musicisti americani di prim'ordine coinvolti: da Chad Smith, Red Hot Chili Peppers (batteria) a Matt Sweeney (chitarre) e Jason Lader (basso). La lunga coda chitarristica presente nella bella ballata All Your Reasons, le leggere influenze soul/latine che fanno tanto Stephen Stills e Manassas con il Fender Rhodes di Eric Lynn ben presente in Kitchen Table, i crescendo a tutta band di Simple Pleasures e di Messed Up Kids, da cui esce una storia di emarginazione giovanile che non ti aspetti.
Un periodo più lungo tra l'esordio e questo seguito avrebbe certamente consentito a Bugg di godersi con più tranquillità il successo accumulato durante quest'ultimo anno solare. Anche se: "mi sembra la cosa giusta da fare. Meglio battere il ferro finché è caldo, no? In questo periodo che ho passato in tour e a viaggiare per il mondo ho avuto esperienze nuove, nuove opportunità. Perché non scriverne?" rilancia diretto dalle pagine di Rolling Stone. Se il primo disco era un sogno avverato, a tratti sì ingenuo, manieristico ma estremamente sincero; questo Shangri La, nonostante la breve distanza intercorsa-proprio come si usava nei 60/70-, sembra più ragionato nel costruire "canzoni". Canzoni che funzionano dannatamente bene. Due dischi diversi: l'unica costante è il talento di Bugg, su cui non ci sono più dubbi. Sono certo che ne sentiremo ancora delle belle: e... il "tre" sarà il numero perfetto. La completa maturità è dietro l'angolo. Io ci spero, il ragazzo mi piace.
vedi anche RECENSIONE: JAKE BUGG-Jake Bugg (2012)
vedi anche RECENSIONE: CHET O'KEEFE-Because Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE:CAROLYNE MAS-Across The River (2013)
Al giovane Jake Bugg auguravo di finire nelle mani giuste dopo un esordio convincente e di carattere ma per certi versi ancora acerbo e poco inquadrabile, con la classica strada da compiere lunga e libera davanti. E' passato un solo anno e le manone esperte di Rick Rubin si sono allungate e lo hanno rapito con la pesante complicità della Universal che al ragazzo sembra crederci, così tanto da spremerlo fin troppo in così breve tempo. Ricordo vetrine di record stores a Dublino tappezzate dal suo esordio, capace di vendere 450.000 copie in UK. Rubin lo ha condotto lontano, fuori dal suo fortino del Regno Unito, negli studi Shangri La (ecco servito il titolo!) di Malibu (California) e ha cercato di plasmare l'ancora fresca e malleabile arte del giovin virgulto di Nottingham (per saperne di più), classe 1994, broncio perenne, sfrontatezza e tanto talento da vendere. Quello che ne è uscito, per certi versi, agita ancor più le acque della sua arte, seppure fresche, limpide e potabili ma che sembrano imboccare ancora troppi percorsi alternativi. Quello che colpisce immediatamente sono i primi due singoli lanciati, molto simili tra loro, che all'interno del disco sono come due mosche indemoniate in un barattolo di placide formiche: la freneticità di Slumville Sunrise e What Doesn't Kill You (ti si stampano in testa, non c'è dubbio), due canzoni semplici e lineari di rock/blues diretto dal piglio quasi punk che non mancheranno di dare la carica durante i live. Due fulmini a ciel sereno che poco hanno da spartire con il folk, quello che permeava l'esordio e buona metà di questo disco, perché i corsi d'acqua che bagnano le polverose strade americane sono i più numerosi e facilmente rintracciabili negli episodi folk (il romantico country di Me And You, la sognante A Song About Love, le minimali e intime Pine Trees e Storm Passes Away), nel folk/rock'n'roll (quasi parente dell'antico skiffle) dell'apertura There's A Beast And We All Feed It, tanto vintage nel suono-Bob Dylan meets Eddie Cochran- quanto attuale nel testo e caratterizzata dalla voce nasale, ormai un segno distintivo e peculiare, o nel rock di Kingpin, un numero fortemente influenzato da Tom Petty (ecco le manone di Rick Rubin che si allungano). Aria meno nebbiosamente brit ma più polverosamente yankee, in definitiva.
In altri punti si sente maggiormente il tocco "esperto" di Rubin che, diversamente da altre volte, cerca di smussare l'ingenua urgenza esecutiva dell'esordio, arricchendo le canzoni di sfumature, anche grazie ai musicisti americani di prim'ordine coinvolti: da Chad Smith, Red Hot Chili Peppers (batteria) a Matt Sweeney (chitarre) e Jason Lader (basso). La lunga coda chitarristica presente nella bella ballata All Your Reasons, le leggere influenze soul/latine che fanno tanto Stephen Stills e Manassas con il Fender Rhodes di Eric Lynn ben presente in Kitchen Table, i crescendo a tutta band di Simple Pleasures e di Messed Up Kids, da cui esce una storia di emarginazione giovanile che non ti aspetti.
Un periodo più lungo tra l'esordio e questo seguito avrebbe certamente consentito a Bugg di godersi con più tranquillità il successo accumulato durante quest'ultimo anno solare. Anche se: "mi sembra la cosa giusta da fare. Meglio battere il ferro finché è caldo, no? In questo periodo che ho passato in tour e a viaggiare per il mondo ho avuto esperienze nuove, nuove opportunità. Perché non scriverne?" rilancia diretto dalle pagine di Rolling Stone. Se il primo disco era un sogno avverato, a tratti sì ingenuo, manieristico ma estremamente sincero; questo Shangri La, nonostante la breve distanza intercorsa-proprio come si usava nei 60/70-, sembra più ragionato nel costruire "canzoni". Canzoni che funzionano dannatamente bene. Due dischi diversi: l'unica costante è il talento di Bugg, su cui non ci sono più dubbi. Sono certo che ne sentiremo ancora delle belle: e... il "tre" sarà il numero perfetto. La completa maturità è dietro l'angolo. Io ci spero, il ragazzo mi piace.
vedi anche RECENSIONE: JAKE BUGG-Jake Bugg (2012)
vedi anche RECENSIONE: CHET O'KEEFE-Because Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE:CAROLYNE MAS-Across The River (2013)
lunedì 18 novembre 2013
RECENSIONE:CAROLYNE MAS (Across The River)
CAROLYNE MAS Across The River (Route 61, 2013)
Artista predestinata. Lo si capisce leggendo la pagella scolastica di quando aveva soli sei anni, scritta da un'insegnante e datata 1961, riportata nel bel libretto che accompagna l'importante ritorno discografico di Carolyne Mas. Artista poco fortunata, però, che non ha mai raccolto in termini di popolarità quanto seminato in quegli anni (fine settanta, primissimi ottanta) di fervente attività musicale in quel di New York, Greenwich Village e dintorni, in compagnia di amici quali Steve Forbert, il già "troppo famoso" Bruce Springsteen ( a cui spesso venne paragonata), Willie Nile (la sua carriera discografica è pressoché identica a quella di Carolyne) e tanti altri musicisti famosi e minori che popolavano quelle strade e locali, solo di passaggio o vivendoci notte e giorno. Tutti artisti e amici che la Mas omaggia in questo disco che ha visto la luce, dopo sette anni di assenza, grazie ai suoi sempre più frequenti contatti in Italia-ora come ora, la sua seconda patria-l'interessamento di Ermanno Labianca che produce e la accoglie a Roma nel roster della sua etichetta discografica Route 61, e i musicisti coinvolti: Piergiorgio Faraglia (chitarre), Andrea Lupi (basso), Lucrezio De Seta (batteria), Gianfranco Mauto (tastiere), Marco Valerio Cecilia (cello) e Joe Slomp (cori) . Un disco che ripercorre la carriera, ci fa rivivere il fermento creativo della città di New York dell'epoca, tra sentiti omaggi, riletture autografe, ripescaggi di inediti rimasti nel cassetto e vecchi ricordi di vita che affiorano nitidi: amori ed emozioni messe in musica, non più con il piglio e l'energia rock che la contraddistinsero in gioventù ma con il calore di una voce fattasi soul, adulta, ancor più graffiante e vissuta (con le sue "brutte" e tormentate cicatrici), piena di sfumature e calorosamente avvolgente che tocca l'apice nel finale, lungo i dieci intensi minuti di New York City Serenade, proprio quella che Bruce Springsteen ha suonato, a sorpresa, quest'anno a Roma con l'accompagnamento di un'orchestra completa-per la prima volta in Italia-rivisitata privandola della sua magniloquenza musicale e rivestendola invece di sola voce e pianoforte che non scalfiscono nulla dell'originale intensità ma facendo guadagnare in penetrante efficacia, un ricordo dei suoi primi passi musicali nei piano bar e del primo incontro con quello che diventerà suo marito. Anche così, rimane sempre una canzone da pelle d'oca.
Prima di arrivare qui, bisogna passare attraverso un'alta girandola di emozioni in musica che la voce della Mas porta verso altissime vette, facendosi bastare la sola voce come avviene nell'apertura Dizzy From The I-IV-V in versione a "cappella", una chitarra folk ed un hammond (suonato da Luciano Gargiulo) nella rilettura di Witch Blues di Steve Forbert; sia con il parco contorno del fedele pianoforte come succede in In A Box per la prima volta su disco e originariamente scritta per un musical teatrale, e nella title track Accross The River, vecchio brano di Willie Nile contenuto nello strepitoso esordio del piccolo "grande" songwriter di Buffalo del 1980. Gioca, si diverte con la voce tra i vocalizzi scat che ricamano una strepitosa Sittin' In The Dark scritta nel 1978 insieme a David Landau; modula e ammalia nella swingata, jazzata e notturna That Swing Thing; intrattiene e diverte riproponendo Under The Boardwalk dei Drifters, memore di ascolti adolescenziali; graffia in So Hard To Be True, un battente blues con l'intervento di Daniele Tenca e la sua band; e fa sognare nell'evocativa ipnoticità di Mexican Love Song.
Un disco che emana calore umano e passione dalla prima all'ultima nota, avvolge e mi fa ritrovare quella bellezza in musica rimasta per troppo tempo sopita. Con il grande- e raro-pregio di quei dischi che ti fanno capire immediatamente quanta parte di cuore l'artista ci abbia lasciato dentro e quanta parte del nostro possiamo ritrovarci: in entrambi i casi, tanta. Fatevi un regalo.
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA- Wake Up Nation (2013)
vedi anche RECENSIONE: JOE GRUSHECKY-Somewhere East Of Eden (2013)
vedi anche RECENSIONE: CHET O'KEEFE- Because Of You (2013)
Artista predestinata. Lo si capisce leggendo la pagella scolastica di quando aveva soli sei anni, scritta da un'insegnante e datata 1961, riportata nel bel libretto che accompagna l'importante ritorno discografico di Carolyne Mas. Artista poco fortunata, però, che non ha mai raccolto in termini di popolarità quanto seminato in quegli anni (fine settanta, primissimi ottanta) di fervente attività musicale in quel di New York, Greenwich Village e dintorni, in compagnia di amici quali Steve Forbert, il già "troppo famoso" Bruce Springsteen ( a cui spesso venne paragonata), Willie Nile (la sua carriera discografica è pressoché identica a quella di Carolyne) e tanti altri musicisti famosi e minori che popolavano quelle strade e locali, solo di passaggio o vivendoci notte e giorno. Tutti artisti e amici che la Mas omaggia in questo disco che ha visto la luce, dopo sette anni di assenza, grazie ai suoi sempre più frequenti contatti in Italia-ora come ora, la sua seconda patria-l'interessamento di Ermanno Labianca che produce e la accoglie a Roma nel roster della sua etichetta discografica Route 61, e i musicisti coinvolti: Piergiorgio Faraglia (chitarre), Andrea Lupi (basso), Lucrezio De Seta (batteria), Gianfranco Mauto (tastiere), Marco Valerio Cecilia (cello) e Joe Slomp (cori) . Un disco che ripercorre la carriera, ci fa rivivere il fermento creativo della città di New York dell'epoca, tra sentiti omaggi, riletture autografe, ripescaggi di inediti rimasti nel cassetto e vecchi ricordi di vita che affiorano nitidi: amori ed emozioni messe in musica, non più con il piglio e l'energia rock che la contraddistinsero in gioventù ma con il calore di una voce fattasi soul, adulta, ancor più graffiante e vissuta (con le sue "brutte" e tormentate cicatrici), piena di sfumature e calorosamente avvolgente che tocca l'apice nel finale, lungo i dieci intensi minuti di New York City Serenade, proprio quella che Bruce Springsteen ha suonato, a sorpresa, quest'anno a Roma con l'accompagnamento di un'orchestra completa-per la prima volta in Italia-rivisitata privandola della sua magniloquenza musicale e rivestendola invece di sola voce e pianoforte che non scalfiscono nulla dell'originale intensità ma facendo guadagnare in penetrante efficacia, un ricordo dei suoi primi passi musicali nei piano bar e del primo incontro con quello che diventerà suo marito. Anche così, rimane sempre una canzone da pelle d'oca.
Prima di arrivare qui, bisogna passare attraverso un'alta girandola di emozioni in musica che la voce della Mas porta verso altissime vette, facendosi bastare la sola voce come avviene nell'apertura Dizzy From The I-IV-V in versione a "cappella", una chitarra folk ed un hammond (suonato da Luciano Gargiulo) nella rilettura di Witch Blues di Steve Forbert; sia con il parco contorno del fedele pianoforte come succede in In A Box per la prima volta su disco e originariamente scritta per un musical teatrale, e nella title track Accross The River, vecchio brano di Willie Nile contenuto nello strepitoso esordio del piccolo "grande" songwriter di Buffalo del 1980. Gioca, si diverte con la voce tra i vocalizzi scat che ricamano una strepitosa Sittin' In The Dark scritta nel 1978 insieme a David Landau; modula e ammalia nella swingata, jazzata e notturna That Swing Thing; intrattiene e diverte riproponendo Under The Boardwalk dei Drifters, memore di ascolti adolescenziali; graffia in So Hard To Be True, un battente blues con l'intervento di Daniele Tenca e la sua band; e fa sognare nell'evocativa ipnoticità di Mexican Love Song.
Un disco che emana calore umano e passione dalla prima all'ultima nota, avvolge e mi fa ritrovare quella bellezza in musica rimasta per troppo tempo sopita. Con il grande- e raro-pregio di quei dischi che ti fanno capire immediatamente quanta parte di cuore l'artista ci abbia lasciato dentro e quanta parte del nostro possiamo ritrovarci: in entrambi i casi, tanta. Fatevi un regalo.
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA- Wake Up Nation (2013)
vedi anche RECENSIONE: JOE GRUSHECKY-Somewhere East Of Eden (2013)
vedi anche RECENSIONE: CHET O'KEEFE- Because Of You (2013)
giovedì 14 novembre 2013
RECENSIONE: CHET O'KEEFE (Because Of You)
CHET O'KEEFE Because Of You (Rootsy.Nu/IRD, 2013)
Ombre e luci giocano una partita importante dentro alle liriche del quarantasettenne Chet O'Keefe, cantastorie del Massachusetts giunto al terzo disco. Serpeggia in continuazione un'aura di bieca, grigia e desolata solitudine accompagnata immediatamente da rari sprazzi di sincera vitalità aggregativa e umoristica. Figlio naturale di un padre jazzista, ma in tutto e per tutto della sua vera madre: "la grande e desolata America". Quanto nipote musicale di veri "outlaws" come Guy Clark, John Prine e Town Van Zandt nel suo modo di esporre le emozioni, le storie e la vita in musica; nonostante nasca con la chitarra elettrica in mano, l'incontro con la musica di questi eroi americani così underground quanto importanti fu determinante per imboccare la giusta strada in carriera. Una via di delicati, intimi, quanto aspri e cupi affreschi acustici a partire dalla bellezza dopo il baratro alcolico sfiorato nell'apertura Not Drunk Yet-l'alcol è spesso presente (Drinkin' Day)- che mostrano una mano, nonostante tutto, personale ed originale, quasi da vecchio veterano-il nuovo look con lunga barba ascetica potrebbe ingannare veramente-, affinata ulteriormente grazie alla possibilità avuta, nel tempo, di confrontarsi con i grandi, suonando nella band di Bo Diddley e scrivendo per altri numerosi artisti. Al resto ci ha pensato una vita "vagabonda" che lo ha portato a spostarsi in lungo e in largo: dall'infanzia nel New England, passando per il New Ampshire, a Nashville dove ha scritto i due precedenti dischi e quella Ring The Bell che lo ha sdoganato ai più, tanto che nel 2010 fu nominata canzone dell'anno dall'Intl Bluegrass Music Association-presente nel precedente disco Game Bird (2010) che vedeva la prestigiosa partecipazione di Nanci Griffith-poi ancora buone esperienze di passaggio nel nord Europa, fino ad arrivare a Washington dove conduce una vita da eremita senza troppi agi, e dove ha preso forma questo Because Of You.
Esperienze di vita che scavano nella quotidianità delle strade, dei vizi, delle emozioni, del duro "tirare avanti" giornaliero, cercando i protagonisti (oltre a se stesso) tra le vie più nascoste e poco lucenti: pigro girovagare tra i marciapiedi e i locali di Nashville nella folkie Down At The Star Cafe e incursioni tra la dura vita di una giovane madre di tre figli alla ricerca illusoria(?) del vero amore che possa diventare salvifico, protettivo e far svoltare la vita a lento passo di valzer in True Love. Esercizi di buona scrittura (Blue Martin), dove colpisce la fredda e dimessa introspezione della più che buona title track che pare uscire direttamente da The Ghost Of Tom Joad di springsteeniana memoria, e incontenibili fiumi di parole in stile dylaniano che scorrono senza freno in Hick Tech(Nology) e Talkin Kerrville Blues, aiutato dall'essenzialità di una band ridotta all'osso, composta da Lynn Williams (batteria), Mark Fain (basso) e Thomm Jutz (anche produttore) alle chitarre, che confermano l'autenticità di un cantastorie minimalista che dalla scarna intimità riesce a tirare fuori il meglio, spogliandosi di tutto il superfluo.
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)
vedi anche RECENSIONE: JOE GRUSHECKY- Somewhere east Of Eden (2013)
vedi anche RECENSIONE: GREG TROOPER-Incident On Willow Street (2013)
Ombre e luci giocano una partita importante dentro alle liriche del quarantasettenne Chet O'Keefe, cantastorie del Massachusetts giunto al terzo disco. Serpeggia in continuazione un'aura di bieca, grigia e desolata solitudine accompagnata immediatamente da rari sprazzi di sincera vitalità aggregativa e umoristica. Figlio naturale di un padre jazzista, ma in tutto e per tutto della sua vera madre: "la grande e desolata America". Quanto nipote musicale di veri "outlaws" come Guy Clark, John Prine e Town Van Zandt nel suo modo di esporre le emozioni, le storie e la vita in musica; nonostante nasca con la chitarra elettrica in mano, l'incontro con la musica di questi eroi americani così underground quanto importanti fu determinante per imboccare la giusta strada in carriera. Una via di delicati, intimi, quanto aspri e cupi affreschi acustici a partire dalla bellezza dopo il baratro alcolico sfiorato nell'apertura Not Drunk Yet-l'alcol è spesso presente (Drinkin' Day)- che mostrano una mano, nonostante tutto, personale ed originale, quasi da vecchio veterano-il nuovo look con lunga barba ascetica potrebbe ingannare veramente-, affinata ulteriormente grazie alla possibilità avuta, nel tempo, di confrontarsi con i grandi, suonando nella band di Bo Diddley e scrivendo per altri numerosi artisti. Al resto ci ha pensato una vita "vagabonda" che lo ha portato a spostarsi in lungo e in largo: dall'infanzia nel New England, passando per il New Ampshire, a Nashville dove ha scritto i due precedenti dischi e quella Ring The Bell che lo ha sdoganato ai più, tanto che nel 2010 fu nominata canzone dell'anno dall'Intl Bluegrass Music Association-presente nel precedente disco Game Bird (2010) che vedeva la prestigiosa partecipazione di Nanci Griffith-poi ancora buone esperienze di passaggio nel nord Europa, fino ad arrivare a Washington dove conduce una vita da eremita senza troppi agi, e dove ha preso forma questo Because Of You.
Esperienze di vita che scavano nella quotidianità delle strade, dei vizi, delle emozioni, del duro "tirare avanti" giornaliero, cercando i protagonisti (oltre a se stesso) tra le vie più nascoste e poco lucenti: pigro girovagare tra i marciapiedi e i locali di Nashville nella folkie Down At The Star Cafe e incursioni tra la dura vita di una giovane madre di tre figli alla ricerca illusoria(?) del vero amore che possa diventare salvifico, protettivo e far svoltare la vita a lento passo di valzer in True Love. Esercizi di buona scrittura (Blue Martin), dove colpisce la fredda e dimessa introspezione della più che buona title track che pare uscire direttamente da The Ghost Of Tom Joad di springsteeniana memoria, e incontenibili fiumi di parole in stile dylaniano che scorrono senza freno in Hick Tech(Nology) e Talkin Kerrville Blues, aiutato dall'essenzialità di una band ridotta all'osso, composta da Lynn Williams (batteria), Mark Fain (basso) e Thomm Jutz (anche produttore) alle chitarre, che confermano l'autenticità di un cantastorie minimalista che dalla scarna intimità riesce a tirare fuori il meglio, spogliandosi di tutto il superfluo.
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: ANDERS OSBORNE-Peace (2013)
vedi anche RECENSIONE: JOE GRUSHECKY- Somewhere east Of Eden (2013)
vedi anche RECENSIONE: GREG TROOPER-Incident On Willow Street (2013)
lunedì 11 novembre 2013
RECENSIONE:THE QUIREBOYS (Beautiful Curse)
THE QUIREBOYS Beautiful Curse (Off Yer Rocka, 2013)
Ci sono band che non hanno bisogno di uscite "alternative" di sicurezza. Ai Quireboys sono sempre bastati i marciapiedi lungo i docks londinesi, i locali fumosi con i banconi appiccicaticci che raccontavano di serate bagorde dove sesso e romanticismo stringevano patti che duravano notti intere. Le loro storie le hanno raccolte tutte lì, lungo quei metri d'asfalto disseminati di mozziconi di sigarette, vetri infranti e romantici petali di rose rosse gettati in pasto al vento, fin dal loro esordio con l'incredibile successo di A Bit Of What You Fancy (1990) che li fece diventare re del rock'n'roll per una sola notte, tra i più credibili epigoni-in quegli anni insieme ai concittadini Dogs D'Amour e ai cugini d'oltreoceano Black Crowes- di tutte quelle band che su quell'asfalto ci lasciarono impronte ben più indelebili (Rolling Stones, Faces, Rod Stewart, Mott The Hopple). Il collante ideale e perfetto tra il colorato hard rock "sleaze" ottantiano e la decadenza del più classico classic rock dei settanta. Da re caddero presto in acqua, non solo per colpa loro naturalmente, trasformandosi presto in pirati del rock'n'roll che navigavano a vista su scialuppe di salvataggio, paladini di un modo retrò di intendere la musica che la modernità ed il voler essere al passo con i tempi, sempre e comunque, non riusciva più a concepire. Fedeli al verbo del rock'n'roll duro e puro, corroso solamente dall'alcol, guidati dalla voce-con il tempo sempre più aspra e raschiosa-e dal carisma di Spike, uno che ne ha cantate tante (se la sua bandana potesse solo parlare...), e da una girandola di comprimari che si sono succeduti in formazione; da alcuni anni hanno ripreso il timone e navigano con sicurezza tra piccole isole sperdute ma sicure, tenute a galla dai devoti fan, e portando avanti la missione in modo onesto come dimostrato nelle recentissime date live italiane. Ora che il mare della modernità si è acquietato, c'è ancora spazio per il loro hard rock'n'roll di vecchio stampo, dove ibridi abrasivi tra AC/DC e Stones ( Too Much Of A Good Thing) con le chitarre in primo piano dell'altro veterano Guy Griffin e di Paul Guerin si sposano alla perfezione con quelle ballate evocative, come si facevano una volta (Mother Mary), sporcate dall'ugola si Spike, tanto
convenzionali e già sentite ma che sogneresti di ascoltare ancora per una volta in un disco di Rod Stewart. Anche la linguaccia sbavante degli Stones fa capolino più volte tra gli honky tonk di King Of Fools e For Crying Out Loud che potrebbero uscire dalle sessions del forzato "esilio" francese di Jagger e soci, al groove irresistibile giocato dalla sezione ritmica (Pip Mailing alla batteria e Nick Mailing al basso) di Diamonds And Dirty Stones che fa l'occhiolino agli Stones più funky e danzerecci.
Una raccolta varia di canzoni sanguigne, coerenti con la loro storia, il loro passato, il loro presente: classic rock songs imbevute nel brandy e perse nell' hammond di Keith Weir (Talk Of The Town, I Died Laughing), di soul blues (Homewreckers And Heartbreakers che era anche il titolo dell'ultimo album uscito nel 2008), perfette drive songs ma con il pensiero ben catalizzato a quell'età maledetta nel rock (Twenty Seven Years), ballate pianistiche (Don't Fight It).
Un disco che emana buona freschezza compositiva, tanto piacevole e
brillante da far sperare che la scialuppa di salvataggio con la bandiera a brandelli che li ha condotti fino ad oggi dopo trent'anni di onorata carriera, si possa trasformare ancora una volta in veliero con le vele spiegate e Spike con i suoi bucanieri possano ridiventare re per almeno un altra notte.
vedi anche RECENSIONE: THE CULT- Choice Of Weapon (2012)
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)
vedi anche RECENSIONE/REPORT Live THE BLACK CROWES @ live Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013
vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Rarities (2013)
Ci sono band che non hanno bisogno di uscite "alternative" di sicurezza. Ai Quireboys sono sempre bastati i marciapiedi lungo i docks londinesi, i locali fumosi con i banconi appiccicaticci che raccontavano di serate bagorde dove sesso e romanticismo stringevano patti che duravano notti intere. Le loro storie le hanno raccolte tutte lì, lungo quei metri d'asfalto disseminati di mozziconi di sigarette, vetri infranti e romantici petali di rose rosse gettati in pasto al vento, fin dal loro esordio con l'incredibile successo di A Bit Of What You Fancy (1990) che li fece diventare re del rock'n'roll per una sola notte, tra i più credibili epigoni-in quegli anni insieme ai concittadini Dogs D'Amour e ai cugini d'oltreoceano Black Crowes- di tutte quelle band che su quell'asfalto ci lasciarono impronte ben più indelebili (Rolling Stones, Faces, Rod Stewart, Mott The Hopple). Il collante ideale e perfetto tra il colorato hard rock "sleaze" ottantiano e la decadenza del più classico classic rock dei settanta. Da re caddero presto in acqua, non solo per colpa loro naturalmente, trasformandosi presto in pirati del rock'n'roll che navigavano a vista su scialuppe di salvataggio, paladini di un modo retrò di intendere la musica che la modernità ed il voler essere al passo con i tempi, sempre e comunque, non riusciva più a concepire. Fedeli al verbo del rock'n'roll duro e puro, corroso solamente dall'alcol, guidati dalla voce-con il tempo sempre più aspra e raschiosa-e dal carisma di Spike, uno che ne ha cantate tante (se la sua bandana potesse solo parlare...), e da una girandola di comprimari che si sono succeduti in formazione; da alcuni anni hanno ripreso il timone e navigano con sicurezza tra piccole isole sperdute ma sicure, tenute a galla dai devoti fan, e portando avanti la missione in modo onesto come dimostrato nelle recentissime date live italiane. Ora che il mare della modernità si è acquietato, c'è ancora spazio per il loro hard rock'n'roll di vecchio stampo, dove ibridi abrasivi tra AC/DC e Stones ( Too Much Of A Good Thing) con le chitarre in primo piano dell'altro veterano Guy Griffin e di Paul Guerin si sposano alla perfezione con quelle ballate evocative, come si facevano una volta (Mother Mary), sporcate dall'ugola si Spike, tanto
convenzionali e già sentite ma che sogneresti di ascoltare ancora per una volta in un disco di Rod Stewart. Anche la linguaccia sbavante degli Stones fa capolino più volte tra gli honky tonk di King Of Fools e For Crying Out Loud che potrebbero uscire dalle sessions del forzato "esilio" francese di Jagger e soci, al groove irresistibile giocato dalla sezione ritmica (Pip Mailing alla batteria e Nick Mailing al basso) di Diamonds And Dirty Stones che fa l'occhiolino agli Stones più funky e danzerecci.
Una raccolta varia di canzoni sanguigne, coerenti con la loro storia, il loro passato, il loro presente: classic rock songs imbevute nel brandy e perse nell' hammond di Keith Weir (Talk Of The Town, I Died Laughing), di soul blues (Homewreckers And Heartbreakers che era anche il titolo dell'ultimo album uscito nel 2008), perfette drive songs ma con il pensiero ben catalizzato a quell'età maledetta nel rock (Twenty Seven Years), ballate pianistiche (Don't Fight It).
Un disco che emana buona freschezza compositiva, tanto piacevole e
brillante da far sperare che la scialuppa di salvataggio con la bandiera a brandelli che li ha condotti fino ad oggi dopo trent'anni di onorata carriera, si possa trasformare ancora una volta in veliero con le vele spiegate e Spike con i suoi bucanieri possano ridiventare re per almeno un altra notte.
vedi anche RECENSIONE: THE CULT- Choice Of Weapon (2012)
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)
vedi anche RECENSIONE/REPORT Live THE BLACK CROWES @ live Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013
vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Rarities (2013)
giovedì 7 novembre 2013
RECENSIONE: JOHNNY FLYNN (Country Mile)
JOHNNY FLYNN Country Mile (Transgressive Records, 2013)
A Larum, debutto di Johnny Flynn uscito nel 2008 colpì nel segno, facendosi forza trainante di tutto un nuovo movimento folk che stava per invadere e sovraffollare le isole britanniche, riuscendo anche a nuotare oltre oceano e conquistare nuovi approdi. Un disco essenziale e ricco di forti e trascinanti melodie acustiche in chiaro-scuro che mettevano a nudo l'ancor giovane vita di Flynn, un attore teatrale shakespeariano prestato al folk. Un piccolo nuovo talento da coltivare. Il successivo Been Listening (2010)-che in verità ho ascoltato pochissimo- fu il classico passo più lungo della gamba, tanto che il biondo folk singer, dalla faccia perennemente adolescenziale e nato in Sudafrica, sembrò inciampare su arrangiamenti più elaborati, ricchi di strumenti a fiato, ma meno immediati, nonostante il duetto con l'amica Laura Marling in Water valesse da solo il prezzo dell'acquisto. Uno sforzo compositivo apprezzabile ma che sembrò ritorcegli contro piuttosto che lanciarlo definitivamente a livello mondiale, dove invece iniziarono ad impossessarsi della scena i colleghi e amici Mumford And Sons. Un successo quasi inspiegabile, il loro. In questo terzo disco, Flynn fa un passo indietro, a discapito del titolo (Country Mile) e ritrova l'essenzialità folk di quell'esordio senza abbandonare piacevoli incursioni in altri campi come avviene nella trascinante danza tribale Fol-De-Rol dove un organo malandrino imperversa tra la world music e i cori "black". Un disco che fin dall'iniziale title track, una struggente marcia che affonda i piedi nel viaggio, metafora- ma anche qualcosina in più-di vita. Forse ancora alla ricerca di se stesso, Flynn cammina a passo veloce e ben disteso dentro alla vita, cercando nuovi significati e risposte in giro per il mondo: "libero dalle mie radici, mi sono perso nel vento/Il vento sulla montagna e la montagna è mia amica" , sognando ed immaginando un nuovo mondo per lui e per il piccolo figlio da poco nato. Scritto in viaggio tra l'asse Londra-New York, e prodotto interamente da se stesso, Flynn preferisce vestire i panni dell'antico menestrello: After Eliot, Murmuration, Gypsy Hymn, ballata per sola voce e pianoforte con i cori della sorella Lillie Flynn, la bella intuizione di Einstein's Idea con quel "Oh My Darling" che ci fa venire in mente altre cose, la carezzevole melodia di violoncello e violino nella finale Time Unremembered o le adulte atmosfere di Bottom Of The Sea Blues, una delle mie preferite.
Testi pieni di metafore, imprevedibili, fervida immaginazione che a volte travalica un po' troppo, arrangiamenti semplici sui cui si applicano bene interventi a sorpresa di trombe e organo (The Lady Is Risen). Una forma arcaica di canzone che si nutre dai padri Fairport Convention, si mette le vesti buone, melodiche e gentili del pop e approda alle nostre orecchie in modo carezzevole e garbato, senza mai sbavare fuori dal disco. Manca sempre quello scatto in più da vero fuoriclasse (quale potrebbe diventare), ma ciò non toglie la genuinità che pervade le sue composizioni che hanno quell'aura decadente che conquista e ammalia. Il 23 Novembre sarà in Italia per un'unica data al Tunnel di Milano.
vedi anche RECENSIONE:ANDERS OSBORNE-Peace (2013)
vedi anche RECENSIONE:GREG TROOPER-Incident On Willow Street (2013)
A Larum, debutto di Johnny Flynn uscito nel 2008 colpì nel segno, facendosi forza trainante di tutto un nuovo movimento folk che stava per invadere e sovraffollare le isole britanniche, riuscendo anche a nuotare oltre oceano e conquistare nuovi approdi. Un disco essenziale e ricco di forti e trascinanti melodie acustiche in chiaro-scuro che mettevano a nudo l'ancor giovane vita di Flynn, un attore teatrale shakespeariano prestato al folk. Un piccolo nuovo talento da coltivare. Il successivo Been Listening (2010)-che in verità ho ascoltato pochissimo- fu il classico passo più lungo della gamba, tanto che il biondo folk singer, dalla faccia perennemente adolescenziale e nato in Sudafrica, sembrò inciampare su arrangiamenti più elaborati, ricchi di strumenti a fiato, ma meno immediati, nonostante il duetto con l'amica Laura Marling in Water valesse da solo il prezzo dell'acquisto. Uno sforzo compositivo apprezzabile ma che sembrò ritorcegli contro piuttosto che lanciarlo definitivamente a livello mondiale, dove invece iniziarono ad impossessarsi della scena i colleghi e amici Mumford And Sons. Un successo quasi inspiegabile, il loro. In questo terzo disco, Flynn fa un passo indietro, a discapito del titolo (Country Mile) e ritrova l'essenzialità folk di quell'esordio senza abbandonare piacevoli incursioni in altri campi come avviene nella trascinante danza tribale Fol-De-Rol dove un organo malandrino imperversa tra la world music e i cori "black". Un disco che fin dall'iniziale title track, una struggente marcia che affonda i piedi nel viaggio, metafora- ma anche qualcosina in più-di vita. Forse ancora alla ricerca di se stesso, Flynn cammina a passo veloce e ben disteso dentro alla vita, cercando nuovi significati e risposte in giro per il mondo: "libero dalle mie radici, mi sono perso nel vento/Il vento sulla montagna e la montagna è mia amica" , sognando ed immaginando un nuovo mondo per lui e per il piccolo figlio da poco nato. Scritto in viaggio tra l'asse Londra-New York, e prodotto interamente da se stesso, Flynn preferisce vestire i panni dell'antico menestrello: After Eliot, Murmuration, Gypsy Hymn, ballata per sola voce e pianoforte con i cori della sorella Lillie Flynn, la bella intuizione di Einstein's Idea con quel "Oh My Darling" che ci fa venire in mente altre cose, la carezzevole melodia di violoncello e violino nella finale Time Unremembered o le adulte atmosfere di Bottom Of The Sea Blues, una delle mie preferite.
Testi pieni di metafore, imprevedibili, fervida immaginazione che a volte travalica un po' troppo, arrangiamenti semplici sui cui si applicano bene interventi a sorpresa di trombe e organo (The Lady Is Risen). Una forma arcaica di canzone che si nutre dai padri Fairport Convention, si mette le vesti buone, melodiche e gentili del pop e approda alle nostre orecchie in modo carezzevole e garbato, senza mai sbavare fuori dal disco. Manca sempre quello scatto in più da vero fuoriclasse (quale potrebbe diventare), ma ciò non toglie la genuinità che pervade le sue composizioni che hanno quell'aura decadente che conquista e ammalia. Il 23 Novembre sarà in Italia per un'unica data al Tunnel di Milano.
vedi anche RECENSIONE:ANDERS OSBORNE-Peace (2013)
vedi anche RECENSIONE:GREG TROOPER-Incident On Willow Street (2013)
domenica 3 novembre 2013
RECENSIONE:MOTÖRHEAD (Aftershock)
MOTÖRHEAD Aftershock (UDR, 2013)
"...molti dicono: "una volta ascoltavo i Motörhead", con il sottointeso che, crescendo, non si può più. Be', sono felice che dicano questo perchè non voglio dei fottuti adulti tra il mio pubblico. Sono sempre gli adulti quelli che mandano tutto a puttane. Rispetto a quando avevo venticinque anni non sono cambiato per niente, sono solo diventato più furbo e più saggio...". da La Sottile Linea Bianca, biografia di Lemmy Kilmister.
Caro Lemmy,
una volta ascoltavo i Motörhead. Ora anche. Sai perché? Perché nella vita ci si aggrappa anche alle certezze. Con le unghie consumate e i polpastrelli sanguinanti ma con la forza e la passione che non ti fanno crollare giù. Perché, quando so che arriva il momento di un nuovo disco (regolarmente ogni due anni, questa volta tre)- lo so che arriva, lo so, anche se questa estate hai spaventato tutti cancellando alcune date per motivi di salute-mi catapulto indietro ad ascoltare i vecchi dischi, anche quelli più recenti, quelli riusciti e quelli così così: mi piacciono Sacrifice e Inferno ma non butto via nemmeno Hammered o Snake Bite Love. Tanto dicono che i vostri dischi sono tutti uguali, per cui...Ho bisogno di scaldare i motori, di mettere olio ai stantuffi, forse già arrugginiti ma ancora funzionanti, di rientrare in quel mondo fatto di sicurezze, perché so che ci troverò tutto quello che voglio da voi. Un bel poker di pezzi tirati fast and furious (Heartbreaker, il burrascoso speed End Of Time, Paralyzed), quei mid tempo schiacciasassi (Death Machine, il groove di Silence When You Speak To Me non me l'aspettavo e mi elettrizza), quei blues tanto canonici quanto resi unici dalla tua voce inconfondibilmente corrosiva che si insinua tra il lento incedere di Lost Woman Blues con il finale vorticosamente accelerato, e tra la più psichedelica e fumosa Dust And Glass che catapulta direttamente nei '70 e ricorda le tue origini musicali. Canzoni che potrebbero indicare la strada futura, quando il cuore sarà veramente in panne e chiederà pietà una volta per tutte, il più tardi possibile, naturalmente. Ci sono viaggi oltre frontiera, perché dopo il Brasile- vi ricordate di Going To Brazil del '91?- vai in Messico (Going To Mexico); c'è anche l'amato rock'n'roll delle origini riscritto alla tua maniera (Crying Shame). Avete mai ascoltato Lemmy,Slim Jim & Danny B, disco del 2000 con Lemmy alle prese con i classici del rock'n'roll primigenio? Poi, hard boogie che nemmeno più gli AC/DC riescono a fare (Keep Your Powder Dry) e il punk alla tua maniera (Queen Of The Damned). Gli assoli di Phil Campbell, la batteria da prima linea di Mikkey Dee, la migliore e più longeva formazione di sempre.
C'è pure qualche riempitivo di troppo. Ci sono sempre anche quelli, e questa volta hai esagerato mettendo addirittura 14 canzoni.
E dire che sembrava andare tutto a puttane questa estate. Ma come? Lemmy cancella un tour per motivi di salute? Nessuno ci poteva credere. Forse nemmeno tu ci hai creduto, o forse sì, visto il titolo ironico che hai piazzato all'album, prendendoti beffe del tuo defibrillatore impazzito. Abrasivo, solido con la stessa copertina di sempre, cambiano solo i colori per distinguerle, l'una dall'altra. Perché solo Aces Of Spades (poi venne anche Overnight Sensation che effettivamente non è come il capolavoro della vostra carriera) meritava una copertina senza l'inconfondibile Snaggletooth .
Perché, alla fine, non c'è miglior cosa di un disco che sai già come suona. Potrei averlo scritto io, mettendoci tutto quello che ho elencato poco più sopra. Difficilmente delude. L'originalità? Veramente c'è ancora qualcuno che la cerca in un disco dei Motörhead? Quando al giorno d'oggi milioni di band di sbarbatelli suona vintage rock vecchio e già sentito e vengono pure osannati? I Motorhead suonavano già vecchio nel lontano 1977. E i vostri coetanei, invece? Negli ultimi quarant'anni si sono sciolti, riuniti, fatto dischi senza un perché e patetici tour di reunion. Voi no.
Troppe domande? Una sola risposta, sempre uguale: Motörhead. E' quello che voglio sentire, almeno una volta ogni due anni.
Intanto, mentre scrivo: il tour sospeso questa estate e rifissato a Novembre è stato nuovamente posticipato nel 2014. Forza Lemmy!
vedi anche RECENSIONE: MOTORHEAD-The World Ir Yours (2010)
"...molti dicono: "una volta ascoltavo i Motörhead", con il sottointeso che, crescendo, non si può più. Be', sono felice che dicano questo perchè non voglio dei fottuti adulti tra il mio pubblico. Sono sempre gli adulti quelli che mandano tutto a puttane. Rispetto a quando avevo venticinque anni non sono cambiato per niente, sono solo diventato più furbo e più saggio...". da La Sottile Linea Bianca, biografia di Lemmy Kilmister.
Caro Lemmy,
una volta ascoltavo i Motörhead. Ora anche. Sai perché? Perché nella vita ci si aggrappa anche alle certezze. Con le unghie consumate e i polpastrelli sanguinanti ma con la forza e la passione che non ti fanno crollare giù. Perché, quando so che arriva il momento di un nuovo disco (regolarmente ogni due anni, questa volta tre)- lo so che arriva, lo so, anche se questa estate hai spaventato tutti cancellando alcune date per motivi di salute-mi catapulto indietro ad ascoltare i vecchi dischi, anche quelli più recenti, quelli riusciti e quelli così così: mi piacciono Sacrifice e Inferno ma non butto via nemmeno Hammered o Snake Bite Love. Tanto dicono che i vostri dischi sono tutti uguali, per cui...Ho bisogno di scaldare i motori, di mettere olio ai stantuffi, forse già arrugginiti ma ancora funzionanti, di rientrare in quel mondo fatto di sicurezze, perché so che ci troverò tutto quello che voglio da voi. Un bel poker di pezzi tirati fast and furious (Heartbreaker, il burrascoso speed End Of Time, Paralyzed), quei mid tempo schiacciasassi (Death Machine, il groove di Silence When You Speak To Me non me l'aspettavo e mi elettrizza), quei blues tanto canonici quanto resi unici dalla tua voce inconfondibilmente corrosiva che si insinua tra il lento incedere di Lost Woman Blues con il finale vorticosamente accelerato, e tra la più psichedelica e fumosa Dust And Glass che catapulta direttamente nei '70 e ricorda le tue origini musicali. Canzoni che potrebbero indicare la strada futura, quando il cuore sarà veramente in panne e chiederà pietà una volta per tutte, il più tardi possibile, naturalmente. Ci sono viaggi oltre frontiera, perché dopo il Brasile- vi ricordate di Going To Brazil del '91?- vai in Messico (Going To Mexico); c'è anche l'amato rock'n'roll delle origini riscritto alla tua maniera (Crying Shame). Avete mai ascoltato Lemmy,Slim Jim & Danny B, disco del 2000 con Lemmy alle prese con i classici del rock'n'roll primigenio? Poi, hard boogie che nemmeno più gli AC/DC riescono a fare (Keep Your Powder Dry) e il punk alla tua maniera (Queen Of The Damned). Gli assoli di Phil Campbell, la batteria da prima linea di Mikkey Dee, la migliore e più longeva formazione di sempre.
C'è pure qualche riempitivo di troppo. Ci sono sempre anche quelli, e questa volta hai esagerato mettendo addirittura 14 canzoni.
E dire che sembrava andare tutto a puttane questa estate. Ma come? Lemmy cancella un tour per motivi di salute? Nessuno ci poteva credere. Forse nemmeno tu ci hai creduto, o forse sì, visto il titolo ironico che hai piazzato all'album, prendendoti beffe del tuo defibrillatore impazzito. Abrasivo, solido con la stessa copertina di sempre, cambiano solo i colori per distinguerle, l'una dall'altra. Perché solo Aces Of Spades (poi venne anche Overnight Sensation che effettivamente non è come il capolavoro della vostra carriera) meritava una copertina senza l'inconfondibile Snaggletooth .
Perché, alla fine, non c'è miglior cosa di un disco che sai già come suona. Potrei averlo scritto io, mettendoci tutto quello che ho elencato poco più sopra. Difficilmente delude. L'originalità? Veramente c'è ancora qualcuno che la cerca in un disco dei Motörhead? Quando al giorno d'oggi milioni di band di sbarbatelli suona vintage rock vecchio e già sentito e vengono pure osannati? I Motorhead suonavano già vecchio nel lontano 1977. E i vostri coetanei, invece? Negli ultimi quarant'anni si sono sciolti, riuniti, fatto dischi senza un perché e patetici tour di reunion. Voi no.
Troppe domande? Una sola risposta, sempre uguale: Motörhead. E' quello che voglio sentire, almeno una volta ogni due anni.
Intanto, mentre scrivo: il tour sospeso questa estate e rifissato a Novembre è stato nuovamente posticipato nel 2014. Forza Lemmy!
vedi anche RECENSIONE: MOTORHEAD-The World Ir Yours (2010)
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