mercoledì 5 settembre 2012

RECENSIONE: BOB DYLAN ( Tempest )

BOB DYLAN   Tempest  ( Columbia Sony Music, 2012)

Scrivo queste righe durante una di quelle sere di fine estate quando la calura ha già lasciato il posto alla frizzante aria settembrina che entra senza troppo permesso dal balcone, scompigliando il buio, i pensieri e solleticando la fioca luce dell’abat jour. E’ una di quelle sere dedicate totalmente a Dylan. Succedono una, due, tre volte all’anno. L’unica a scadenza fissa, non so perché, ma è sempre quella di fine estate (come l'uscita dei suoi dischi: ancora una volta l'11 settembre). Una di quelle sere in cui i dischi sono lì, sotto lo stereo, sparpagliati e disordinati, come l’ascolto delle canzoni: quando passi da Love Sick a Jokerman, da Dear Landlord a Political World, senza un senso logico temporale. E questa sera ci sono anche le nuove canzoni di Tempest. Qualche dylaniano riuscirebbe anche a trovarlo, quel nesso tra le canzoni.
Poi inizio a farmi delle domande.
Quante vite ha Bob Dylan? Quante ne ha raccontate? Quante ne ha cambiate, e quante ne ha salvate? Quante ne ha sotterrate-in senso artistico-prima ancora che ebbero inizio? Quando il passatempo era associare la didascalia “il nuovo Dylan” a qualunque essere vivente con una chitarra in mano. Only the strong survive.
Quante volte lo si è dato per morto-sempre in senso artistico, anche se non mancano episodi più terreni o da leggenda-, e quante volte ha dimostrato di essere più vivo che mai? Difficile rispondere. Perché il suo libro è ancora fascinosamente e misteriosamente aperto e oggi, lui è "molto" vivo.
Di una cosa si ha la certezza. Da Time Out Of Mind, Dylan ha ristretto il suo raggio d’azione. Attenzione, non vuol dire che abbia perso la vena creativa, anzi. Credo che la sua ricerca musicale di tutta una carriera abbia finalmente trovato un punto focale. Il recupero di tutta quella enorme quantità di musica di cui avrebbe voluto essere protagonista. Quasi una irrefrenabile voglia di impossessarsi del tempo, quello che per motivi anagrafici non ha potuto vivere e poter giustificare così, in modo totalitario, il titolo di artista del ventesimo secolo che spesso gli viene-giustamente- attribuito. Intanto i secoli sono diventati ventuno.
Tutto ha un suo perché: Good As I Been to You(1992) e World Gone Wrong(1993), dischi di vecchi traditionals degli anni venti e trenta riletti in acustica e solitaria bellezza, non furono che il preludio del  ventennio successivo che ha nel 1997, la data ufficiale della nascita dell’ultima vita dylaniana-coincidente con il sistema cardiaco che fa le bizze e il ritorno nella parte del menestrello ai piedi di Papa Wojtyla-, quella che continua ancora oggi e che il nuovo Tempest ha portato a sublime esaltazione. Ebbene sì, Tempest è un gran disco. Di ballate essenzialmente e qualche rovente blues. Di amore e di morte. Di tante citazioni da decifrare, studiare. Di passato e di presente. Di mistero e qualche certezza.
Ancora una volta, a Dylan piace prendere le veci del rocker in disuso, lo stesso che recitava in film come Hearts Of Fire o Masked and Anonymous. Quello saggio che sa partire da molto lontano per raccontarci il presente, usando metafore, giocando con le parole e le rime come solo lui, ineguagliabilmente, sa fare. Quello talmente fuori moda da essere eterno. Quello che si nasconde in concerto, defilato in un lato dietro alle tastiere e che gira per le strade americane, alla ricerca di nuove case da comprare, conciato come un vecchio barbone. Forse per prenderci per il sedere, forse per far risaltare ancora di più la sua grandezza, Dylan si diverte in questo ruolo e in quello di produttore dove si cela, ormai da alcuni anni, sotto il nome Jack Frost. A tal proposito, il disco suona dannatamente bene e Dylan canta ed interpreta come non mai.
Un rocker che rievoca secoli passati e lontani in Early Roman Kings e lo fa prendendo in prestito uno dei giri blues più famosi e strausati della storia-Mannish Boy di Muddy Waters, I'm a man di Bo Diddley-,e dove, solamente alla fisarmonica di David Hidalgo (il Los Lobos è preziosa comparsa in tutto il disco)  è consentito il disturbo del ripetitivo incedere.
Oppure come nella epica title track Tempest, ballata di 14 minuti in cui racconta il suo Titanic, ispirato da The Great Titanic della Carter Family, come detto dallo stesso Dylan, senza tralasciare moderni riferimenti alla versione cinematografica di James Cameron. Se Francesco De Gregori ci aveva raccontato in musica e parole il "prima" della tragedia con la festa, le attese, lo sfarzo della prima classe ma anche la povertà della terza, Dylan ci regala anche la raggelante fine dentro un mare nero in tempesta. Dove le classi sociali non contano più nulla. Dove si è tutti uguali. Un lungo valzer con un Dylan dalla voce confidenziale e paterna, come un nonno che legge antiche storie marinare ai nipoti rapiti."Saw the water getting deeper/saw the changing of his world". Un brano senza sussulti musicali, ripetitivo nella forma, che ha la sua forza nel testo narrativo e nella presenza di un violino dai sapori irish. Sembra riprendere quelle vecchie e lunghe canzoni del passato fino a Blood on the tracks.
Duquesne Whistle, unica canzone scritta in coppia con Robert Hunter e con un testo aperto a molte interpretazioni, anche di carattere sessuale, è uno shuffle con un tiro da big band anni '30, che sbuffa (qualcosa ritorna a soffiare) come un treno in corsa e ti fa battere il piede e schioccar le dita. Il tutto si apre con le vecchie note jazz provenienti da una antica radio a valvole e con un Dylan che sembra travestirsi (vocalmente) da Louis Armstrong. Primo singolo, accompagnato da un video divertente ma anche gratuitamente violento, che in parte ruba l'idea e rivisita il videoclip di  Bitter Sweet Symphony dei Verve.
Piace l'incedere blues e sferragliante di Narrow Way, con tutta la band  sugli scudi, la stessa che lo accompagna dal vivo: Tony Garnier al basso, George G.Receli alla batteria, Donnie Herron alla steel guitar, banjo e violino, Charlie Sexton e Stu Kimball alle chitarre. Canzone chitarristica che live potrebbe esplodere.
Tempest è un disco sostanzialmente di ballate: ci sono le note accomodanti, lievi e country di Soon After Midnight;
Scarlet Town, la mia preferita, è una ballata oscura e misteriosa che rievoca antichi paesaggi western, sbiadite fotografie dimenticate al sole, con il banjo e il violino (sembra provenire da Desire) che conducono lievemente il gioco fino all'assolo di chitarra. Quasi fosse una outtake di Oh Mercy o Time Out Of Mind.
Espiazione dei peccati in Pay in Blood. "I pay in blood, but not my own". E' forse la canzone con la melodia rock più orecchiabile, memorizzabile e diretta (sembra arrivare da Infidels), in un disco dove Dylan  ritrova le melodie sacrificate in questi ultimi anni, così come nei nove minuti ipnotici di  Tin angel, scandida in modo chiaro e brillante da splendide rime, che racconta di una tresca amorosa che si conclude nel peggiore dei modi.
La breve Long and Wasted Years è riflessiva, quasi un bilancio di vita con qualche rimpianto. Saranno i suoi? Intanto un organo stanco sbuffa un ciondolante blues. 
Roll on John chiude il disco. Epitaffio e ricordo per John Lennon, amico quasi coetaneo morto troppo presto, con un pianoforte che risuona come le più belle e ispirate canzoni soliste dell'ex Beatles. Una canzone che a Dylan mancava da molto tempo."Shine a light, Move it on, You burned so bright / Roll on John".
Tempest è un sunto degli ultimi quindici anni della sua musica, a cui ha voluto aggiungere quelle melodie da ricordare che mancavano negli ultimi quattro precedenti dischi : il Mississippi di Love and Theft, il malinconico  Modern Times, la frontiera di Togheter through Life, il passatempo natalizio di Christmas in the Heart. Un nuovo guizzo, una nuova zampata. Dylan.
Quando la vecchia stazione radiofonica che apre Duquesne Whistle inizia la trasmissione, non hai idea di dove le liriche ti porteranno. Uno scrigno pieno di riferimenti letterari, religiosi, musicali, cinematografici e geografici che solamente una mente ancora genialmente lucida come quella di Dylan riesce a generare. Peccato, ancora una volta, che nello scarno libretto(?), manchino i testi, anche se ci regala tre scatti fotografici (nelle foto): sul retro copertina è alla guida con il volante saldamente in pugno; all'interno: un primo piano con lo sguardo puntato lontano e una misteriosa figura femminile(con volto tagliato) alla sua sinistra  e poi con sigaro in bocca insieme a tutta la band. Tutto qua.
Ancora tanto lavoro per gli studiosi di Dylan, nell'anno che festeggia i cinquant'anni dall'uscita dell'esordio. Anno che si era aperto con il monumentale tributo Chimes of Freedom per Amnesty International ed è proseguito con la consegna della medal of freedom, massimo riconoscimento civile degli States, che il presidente Obama ha donato a Dylan nel maggio scorso. 
Tutti gli altri si potranno accontentare del miglior lavoro da Time Out Of Mind, e non è poco. Quante vite ha Bob Dylan?









 

lunedì 3 settembre 2012

RECENSIONE: Tributo a IVAN GRAZIANI( AA.VV )

Tributo a IVAN GRAZIANI  AA.VV.  (Sony Music, 2012)

E' difficile descrivere a parole quel misto di eterea nostalgia e ribelle provocazione che l'ascolto dei testi di Ivan Graziani mi hanno sempre provocato. Più di qualunque altro cantautore italiano, nonostante l'ascolto delle sue canzoni sia più saltuario rispetto a tanti altri (De Gregori, De André, Rino Gaetano). La sua grazia ribelle, ma allo stesso tempo nostalgica e fortemente radicata nel quotidiano, il suo romanticismo delicato quanto, a volte, sanamente sboccato, la sua autoironia mi hanno sempre lasciato qualcosa dentro, qualcosa di assolutamente inspiegabile.
Ho provato a capirci qualcosa poco più di un mese fa a Barolo (CN), quando suo figlio Filippo Graziani, che ha fortemente voluto questo tributo, si è presentato sul palco prima di un colosso come Patti Smith e ha cantato le canzoni di papà. I risultati furono solo piccole (grandi) scosse di brividi ascoltando Firenze, Pigro e Lugano Addio. Mi feci bastare queste vibrazioni e lasciai da parte le domande.
O come quel Sanremo del 1985, a cui partecipò con poca convinzione. Quando i suoi grossi e caratteristici occhiali colorati, la sua chitarra e il testo di quella fuga d'amore assolutamente in linea con la tradizione rock'n'roll, tra ricordi, speranze, murales, treni, vagoni, polizia e un padre incazzato nel pop di Franca, ti amo mi avevano fatto capire che Graziani era fuori dal comune, e sperare... Sperare che la sua canzone potesse arrivare a vincere il Festival. Che delusione vederlo al diciassettesimo posto, poco più in alto di Finardi, Locasciulli, New Trolls, Zucchero e Garbo. Solo anni dopo capii che gli ultimi di quella classifica sarebbero diventati i primi nella mia. Questa è l'Italia delle canzonette. A Sanremo ci tornò nel 1994 con Maledette Malelingue. Andò meglio.
Quando nell'adolescenza i tuoi gusti musicali cambiano come le stagioni, la voce  e i vestiti, scopri che dentro l'audiocassetta di IvanGarage(1989), comperata per quel titolo così rock, dedica una canzone ai metallari (I Metallari), giocando, a suo modo, con i soliti luoghi comuni e tu sei appena tornato a casa con la tua nuova copia di No Prayer For The Dying degli Iron Maiden. Un nuovo mito da idolatrare: "I metallari, condannati a ricucirsi da soli"; quando scopri il sesso e capisci che la sua ostentata, e mai nascosta, ossessione per il corpo femminile con le sue colline bianche e solchi misteriosi, un poco, è anche la tua e quella di tutti i maschietti: "Le scarpe da tennis bianche e blu, seni pesanti e labbra rosse ..." da Lugano Addio; "E se tu le vuoi incontrare, uguali come gocce d'acqua Dada la grande e Ivette senza tette, le due cugine strette" da Dada; il titolo del suo album Seni e coseni (1981); e l'apoteosi finale in Poppe, poppe, poppe da Maledette Malelingue(1994), il suo ultimo testamento di studio.
Devo dirvi la verità, un po' mi spiace che esca questa raccolta. Che esca (anche) allegata e legata ad un quotidiano così famoso. Non fraintendetemi. Mi spiace, perché vorrei che le sue canzoni rimanessero ancora per pochi, per chi ha continuato ad ascoltarlo in questi quindici anni e non per chi ha continuato, come in vita, ad ignorare la sua opera. Non vorrei per Graziani quello che è successo per Rino Gaetano. Non vorrei sentire le sue canzoni, riscoperte all'improvviso, e strumentalizzate per fini poco nobili come successo per Gaetano. Vorrei che rimanessero lì, sospese in quella eterea nostalgia e ribelle provocazione, magari tramandate da padre in figlio come succedeva una volta. In fondo lui non si è mai piegato alle leggi del mercato discografico ("le case discografiche sono le fabbriche degli illusi" disse), non è mai venuto a compromessi per vendere la sua musica. Ha sempre percorso la sua strada, inciampando negli insuccessi, nelle critiche, ma mai cadendo  e se è successo si è rialzato più forte di prima. E lo stava facendo di nuovo con Maledette Malelingue, ma venne sconfitto-solo-dalla malattia nel 1997. Colto, libero, ironico, diretto e tagliente da diventare scomodo e di difficile e non immediata lettura. 
Però, poi, sono contento che qualche giovane rocker possa scoprirlo ascoltando I Metallari, rivestita di grossi riff nu-metal ed elettronica, rifatta dai torinesi Linea 77. Perché Graziani è stato uno dei pochi veri e genuini cantautori rocker che abbiamo avuto in Italia (io ci aggiungo il primo Edoardo Bennato). E chi vuole aggiungerci quei due che stanno sempre a battibeccare tra loro lo faccia. Io non sono d'accordo. Era anche un grande chitarrista (fieramente autodidatta) che amava la sua chitarra come e più di una donna, tanto da considerarla prolungamento del suo corpo, come solo i più grandi chitarristi fanno.
 "Ma tu smetterai?"(di suonare) "Mai. Un vero chitarrista muore, deve morire sul palco". da una intervista di Pino Scaccia.
Perché una canzone come Pigro, rifatta dai Marta Sui Tubi andrebbe insegnata ad ogni giovane uomo che non vuole commettere sempre i soliti errori in società.
Graziani era anche un bravo pittore e disegnatore di fumetti e la grottesca storia di Monnalisa rifatta con un pesante e grosso riff '70 dai Marlene Kuntz, era un po' il suo testamento d'artista: "la scuola è una gran cosa/ soprattutto se ti insegnano ad amare/ i capolavori del passato/ però è un gran peccato che tu non li puoi vedere nè toccare" . L'arte è di tutti.                   
C'è l'impegno e la critica sociale: I Lupi (rifatta da Tre Allegri Ragazzi Morti) parla della guerra, dei fantasmi di un reduce che solo spezzando il fucile e ritornando sul luogo dell'orrore riesce a scacciare gli incubi; l'epicità rock'n'roll e la follia dell'uomo nella poco conosciuta ma bellissima  Lontano dalla paura (Massimo Zamboni-Angela Baraldi), che in origine faceva da colonna sonora al misconosciuto film di Noel Marshall: "Il grande ruggito".
Ci sono quei ritratti di quotidianità provinciale da cronaca vera (nera), cantati con sapiente ironia in cui qualcuno riusciva ad identificarsi: la geniale violenza teppista di Motocross  nella pesante versione dei torinesi Titor, l'autoritratto veritiero di Prudenza Mai  nella versione rocksteady di Roy Paci: "Prudenza mai/mai neanche adesso che son grande/e dovrei stare attento/a quel che pensa la gente/e invece ti mando a fare in culo/a te che sei il direttore/che mangi sempre minestrina/e dopo fai la cacchina/beh, niente sermoni, aio, aio/non rompetemi i maroni". Gli evocativi paesaggi di Fuoco sulla collina nella versione elettro-dub di Raiz. La migliore cover del disco, secondo me.
E poi, i tanti romantici e malinconici ritratti di luoghi e donne, nati per essere inscindibili tra di loro. Ballate che spesso fanno male, facendo riaffiorare situazioni e ricordi che tutti, chi più chi meno, abbiamo provato sulla nostra pelle legandoli ad un particolare momento di vita: Firenze  nella fedele riproposizione di Simone Cristicchi che dimostra, purtroppo, quanto le canzoni di Graziani siano difficili da interpretare, Lugano Addio (Mauro Ermanno Giovanardi), l'amore separato dai chilometri di distanza in Cleo (-Luca- MorinoMigrante), le illusioni e le storie mancate in Olanda che diventa una canzone elettro/rock (Paolo Benvegnù).
 E poi le donne, tutte le donne, poeticamente rappresentate, cantate e descritte in Agnese  in cui si specchia con dolcezza Cristina Donà e Sei Così bella che il figlio Filippo Graziani canta con quella voce che sembra, sempre, far rivivere papà. Fu scritta e dedicata alla moglie Anna. Un piccolo cerchio che si chiude.
" Se c'è un brano nella produzione di mio padre che avrei voluto scrivere è proprio questo. L'eterna lotta e l'autodistruzione per capire il gentil sesso e la consapevolezza che è impossibile farlo" Filippo Graziani.
Nel secondo disco di questa raccolta sono incluse altre 14 canzoni originali, prese dalla discografia di Ivan Graziani.                                                                         foto di Cesare Monti


giovedì 30 agosto 2012

RECENSIONE: NICK CAVE & WARREN ELLIS ( Lawless-original motion picture soundtrack )

NICK CAVE & WARREN ELLIS   Lawless-original motion picture soundtrack  ( Sony Music, 2012)

A leggere le varie recensioni del lungometraggio presenti sul web, sembra che la colonna sonora batta il film, ai punti. Non posso dirlo con assoluta chiarezza avendo a disposizione solamente la musica, ma una volta ascoltata, lo si può immaginare ed ipotizzare, vista l'alta qualità della soundtrack.   
Lawless del regista australiano John Hillcoat (The Proposition, The Road) è stato presentato al festival di Cannes nel Maggio 2012, ed uscirà negli States il 31 Agosto mentre in Italia drovremo aspettare l'arrivo di Novembre. Recitato da una parata di stelle del cinema internazionale: Gary Oldman, Tom Hardy, Jason Clarke, Shia Labeouf, Jessica Chastain, Guy Pearce, Dane Dehaan, Noah Taylor, Mia Wasikowska.
Ambientato nel periodo della grande depressione e del proibizionismo americano degli anni 20/30 (parallelismo e amara riflessione con i nostri hard times? Pura casualità?), narra la storia di tre fratelli (Bondurant brothers) che sbarcano il lunario con la produzione (clandestina) di liquori ad alta gradazione. Le distillerie di Moonshine (whiskey) in quegli anni animavano il sottobosco clandestino. Poteva andarti bene o meno, in base al livello di complicità che riuscivi ad instaurare con le massime autorità. Ai fratelli Bondurant gli affari vanno bene, grazie al favoreggiamento della polizia locale, disposta a chiudere un occhio, anche due. Tutto peggiora e precipita con l'arrivo di un nuovo poliziotto nella piccola contea di Franklyn in Virginia, che pretenderà una parte degli introiti guadagnati dai fratelli . Da quel momento la trama inizierà a colorarsi di rosso sangue.
La sceneggiatura del film, forte e cruda ma a quanto pare non eccelsa, sembra l'anello debole della pellicola ( mi baso sempre sulle recensioni trovate in rete), è di Nick Cave che già lavorò su The Proposition . Ispirata dal romanzo di Matt Bondurant ("La contea più fradicia del mondo"), che a sua volta si basava su fatti realmente accaduti ai suoi avi.
A Nick Cave e al fedele Warren Ellis è affidata anche la colonna sonora come avvenuto con The Road, precedente film del regista Hillcoat. Questa volta i due fidi compagni (Bad Seeds e Grinderman) decidono di fare interpretare le canzoni -niente strumentali quindi-, reclutando un cast di interpreti di prim'ordine ( Mark Lanegan, Emmylou Harris, Ralph Stanley e Willie Nelson i principali) e scegliendo di far accompagnare alcune composizioni scritte di loro pugno da una manciata di cover assolutamente non banali; ma su questo con Nick Cave si va sul sicuro. Tutte rivestite di bluesgrass/country dal taglio spesso incisivo ed inquietante.
Battezzata la band di accompagnamento con il nome Bootleggers- in tema con il film- che vede oltre a Cave e Hellis anche Martyn P. Casey (fido bassista nei Bad Sedds e Grinderman), George Vjestica (chitarrista aggiunto nei Groove Armada) e il musicista David Sard.
Spetta a Mark Lanegan aprire il disco.
La voce di Lanegan, sempre più di moda ed inseguita in questi ultimi anni, calza a pannello su Fire and Brimstone, canzone di Link Wray, seminale chitarrista che rivoluzionò la chitarra moderna e che non ebbe mai l'esposizione mediatica e i riconoscimenti meritati sia in vita che ora. Canzone, quasi stonesiana, presa all'omonimo disco del 1971, in cui il chitarrista, dopo anni di molti strumentali, si cimentò al canto con eccellenti risultati. Fire and Brimston verrà ripresa più avanti nel disco e affidata alle cure di Ralph Stanley, in modo minimale con sola voce e chitarra. Stanley, che oggi è un arzillo ottantacinquenne, in compagnia del suo fido banjo riuscì a portare alle masse, insieme al fratello (oggi scomparso) un genere come il bluegrass, che attualmente, in America, sta vivendo una seconda popolarità grazie al crescente numero di giovani bands che si stanno buttando sulla tradizione. Stanley, un eroe del buegrass in patria, reinterpreta a cappella anche Sure'Nuff Yes I Do di Captain Beefheart e la sua voce non può non far venire in mente luoghi solitari e affascinanti come i vecchi monti Appalachi.
Un interprete come Lanegan va però sfruttato al meglio: eccolo, allora, alle prese con la più canonica, conosciuta e allucinogena  White Light/White Heat dei Velvet Underground (ripresa anche da Stanley e a tal proposito Cave in una intervista rilasciata a John Jurgensen dice: "Non si era mai avventurato in questo tipo di roba contemporanea, quindi alla fine è stato un bel colpo"), riveduta e corretta in una improbabile ma divertente rilettura country/grass -decisamente meglio di quella nenia noiosa sentita recentemente da Metallica/Lou Reed- e Sure' Nuff Yes I Do di quel genialoide di Captain Beefheart.
Lanegan va a nozze con tutto, così come la voce angelica di Emmylou Harris che contrasta in maniera rimarchevole con l'ugola profonda e cavernosa dell'ex Screaming Trees.
Il breve  intermezzo Fire in The Blood (ripreso due volte dalla Harris e una volta da Stanley) cantata da Emmylou Harris non lascia il segno pur essendo il motivo portante del film, diversamente da Cosmonaut, lieve e lucente affresco originale accompagnato dal mandolino. Così come notevole è la bella interpretazione di Snake Song di Townes Van Zandt (cantata recentemente anche da Lanegan/Campbell nel loro Hawk-2010), accompagnata da Cave e Hellis alla chitarra. La Harris ribadisce e riconferma che la vera icona femminile -incontrastata-del country continua a rimanere lei.
Emmylou Harris duetta anche con Liela Moss (affascinante e bionda cantante dei britannici The Duke Spirit) in So you'll aim towards the sky , melodica e pianistica ballata che chiudeva il secondo album The Sophware Slump (2000) degli ormai sciolti Grandaddy.
La brevissima Burnin' Hell di John Lee Hooker cantata da Nick Cave è un oscuro, marziale e darkeggiante bluegrass con uno stridente violino che ricorda le pazzie di Tom Waits, così come l'unico strumentale della colonna sonora, scritta appositamente per il film, End Crawl che chiude i battenti in modo raggelante e inquietatamente sinistro.
C'è ancora il tempo per la ciliegina sulla torta: è la stupenda Midnight Run di Willie Nelson, un fuorilegge della country music, autore quest'anno del bel Heroes(2012), che ci sguazza in una pellicola del genere; pur essendo ambientata nei primi anni del '900, grazie ai paesaggi naturali della Virginia e al profilo da fuorilegge dei protagonisti, sembra quasi un vecchio western. La canzone è già in odor di Oscar, e non compare nemmeno nel film.
A questo punto, non rimane altro che aspettare l'uscita del film per poter constatare di persona se la pellicola vale la colonna sonora. Intanto si può affermare con tutta chiarezza che Cave, dopo Wim Wenders , ha trovato nel conterraneo John Hillcoat, il regista che tramuta in immagini i suoi peggiori incubi e viceversa. Una di quelle colonne sonore pensate, lavorate e destinate a rimanere.


lunedì 27 agosto 2012

RECENSIONE: SHAKEY GRAVES ( Roll the Bones )

SHAKEY GRAVES  Roll The Bones (  autoprod., 2011)

Con un po' di ritardo, grazie alla segnalazione di una amica americana (thanks Tracy), mi si intrufola sulla cartella musicale del pc questo Shakey Graves. Posto sbagliato per conservare la sua musica, ma per ora bisogna accontentarsi. Dietro al monicker Shakey Graves, si nasconde il texano (di Austin) Alejandro Rose-Garcia e la sua musica assolutamente lo-fi, dalla antica e primordiale formula folk/blues che si fa bastare una chitarra, un banjo, claphands, battiti di piedi e poco altro per catturare l'attenzione ed ipnotizzarti all'ascolto. Ti odio pc.
Alla disperata ricerca di qualche nozione biografica sul web, ottengo ben poco, se non sapere che il suo è un passato da attore cinematografico che nel 2005  fu folgorato dalla musica che si è presentata  sottoforma di fantasma, da lui catturato e messo in gabbia. La folgorazione sembra arrivare dopo l'ascolto di un vecchio vinile anni sessanta della cantautrice folk Buffy Sainte -Marie, scoperto, insieme a tanti altri, dopo aver dato in pegno il suo banjo per l'acquisto di un giradischi e tanti vecchi vinili. 
Il suo album si può ascoltare interamente e scaricare su bandcamp. Al nostro piace mettere mistero, tanto da giocare ironicamente con le date: l'anno di uscita del disco è il 1987 e una canzone registrata live, City in A Bottle reca addirittura la data 2023, mentre lui gioca a fare Tom Waits in mezzo ai fiati.
Tutte le canzoni sono volutamente sporche e acustiche, registrate con sovraincisioni spesso dozzinali e poco precise ma, proprio per questo, emanano quel fascino che sa di spontaneità e verità, raccontando la sua America fatta di tante strade ancora  polverose, tante ingiustizie e romantici e disperati amori per la vita. 
Basta l'opener Unlucky Skin per dare l'idea della cifra stilistica dell'intero album: banjo, battiti e armonica con la voce spesso doppiata. Un one-man band dei tempi andati, un hobo solitario e viaggiatore che ha raccolto lungo la strada le  parole da mettere in musica, capace di colpire l'immaginario in presa diretta. Buona la prima.
Sorprendentemente affascinante la rilettura blues di I'm On Fire di Bruce Springsteen che, svestita di quella patina anni ottanta, diventa quasi un altra canzone  tanto che il taglio di 6 inch in mezzo all'anima sembra ancora più lungo e doloroso.
Romantiche nottate sotto la luna che sembra illuminare distese di campi di cotone (Gerorgia Moon) e sonnolenti viaggi tra polverose strade di campagna e lunghe autostrade coast to coast. Piccoli paesi di campagna e grandi città. Falò accesi e instancabile finger picking (Roll the Bones).Voce rotta e incubi che giocano a disturbare la realtà e il sogno. Tante voci vaganti (Business Lunch), tutte meravigliosamente ipnotizzanti e ammaglianti.
Shakey Graves, a quanto ho capito, è alla disperata ricerca di fondi per poter realizzare un nuovo disco, magari con l'aiuto di qualche casa discografica che ancora-distratta- non lo ha notato, diversamente dalla sua città, Austin, che lo ha già adottato a nuovo beniamino locale della folk-music.
Per ascoltare Roll The Bones.
   


venerdì 24 agosto 2012

RECENSIONE: PONDEROSA ( Pool Party )

PONDEROSA   Pool Party  (NEW WEST Records, 2012)


I Ponderosa, dopo due soli dischi, sono ufficialmente un gruppo in cerca di una identità: figli del solare e bucolico southern rock degli anni settanta o fratelli del neo indie/rock del nuovo millennio? Il loro debutto fu una piacevole ondata di aria fresca che piegava spighe gialle e faceva oscillare verdi rami, Moonlight revial si poneva esattamente a metà strada tra i primi e campagnoli Kings Of Leon e l'anima più semplice, southern e diretta dei Black Crowes. Nulla per cui strapparsi un qualcosa da dosso ma comunque un ascolto piacevole di analogia musicale.
Poco meno di due anni fa concludevo la recensione del loro esordio con queste parole: "Per chi crede che i Kings of Leon abbiano perso quel poco di rustico che sembravano avere ad inizio carriera, consiglio l'ascolto dei Ponderosa, sperando che la loro genuinità non si perda per strada come successo ai sopracitati "nuovi dei" del rock americano".
In Pool Party di quell' esordio uscito un paio di anni fa, rimane veramente poco se non nulla. L'incontro con il produttore Dave Fridman (Flaming Lips, Mercury Rev) ha trasformato letteralmente il loro suono. La fresca brezza di campagna che soffiava sull'esordio sembra perdersi nello sconfinato spazio celeste in compagnia della voce di Kalen Nash che viene doppiata come fatto splendidamente dai Fleet Foxes, le chitarre che zigzagano, la batteria che diventa sincopata e ipervitaminica, e il pianoforte che lascia il posto a tastiere che in alcuni punti sembrano giocare con la new vawe elettronica, ricordando oltre ai già citati Fleet Foxes, gli ultimi lavori in casa Arcade Fire, My Morning Jacket e Okkervil River.
Dall'iniziale crescendo di Here I Am Born con il suo finale, inaspettatamente cacofonico e noise; passando dall'alt -pop contagioso del  singolo Navajo, un omaggio moderno ai nativi americani; alla calata in questo mondo moderno delle atmosfere '60 alla Roy Orbison/Beach Boys della ballata Never Come Back si cammina su una enorme bolla, tra il perenne sogno e l'incubo imcombente.  
Le atmosfere si fanno tese ma dolcemente psichedeliche nelle visioni di The Nile, claustrofobiche in Get A Gun, esplosivamente industriali in On Your Time, in continua attesa di una imminente catastrofe che sembra non arrivare mai, così come il disco lascia un senso di incompiutezza.
Se fino a metà disco si viaggia nella bellezza eterea, con il passare dei minuti si rischia di galleggiare sopra ad una formula ripetitiva e stancante in cerca di un appiglio concreto per poter ricordarsi qualcosa di queste canzoni che funzionano meglio prese singolarmente. 
Se il secondo disco è sempre il più difficile nella carriera di un artista, per i Ponderosa da Atlanta, lo sarà il terzo. Tanto per capirci qualcosa.  









lunedì 20 agosto 2012

RECENSIONE: LYNYRD SKYNYRD ( Last Of A Dyin' Breed )

LYNYRD SKYNYRD  Last Of A Dyin' Breed  (Roadrunner records, 2012)

Questa volta ci siamo-o quasi. Anticipazioni e copertina sembravano regalare un ritorno agli antichi sapori sudisti, se non uguali alla ineguagliabile discografia degli anni settanta, almeno sulla scia di The Last Rebel (1993)-continuità anche nel titolo-, disco che per il sottoscritto rimane il picco della seconda parte di carriera della band di Jacksonville, un disco dove epicità, tradizione e soul (l'introduzione dei fiati fu scelta azzeccata) si sposavano in maniera ottimale se confrontata con il puro esercizio hard/southern rock di dischi poco ispirati come Twenty (1997), Edge Of Forever (1999), lo scialbo e prolisso Vicious Circle (2003)o l'ultimo God & Guns (2009), muscoloso e moderno ma  poco in linea con la storia passata della band e che inaugurava il nuovo corso con l'etichetta metal Roadrunner. Anche qui qualche episodio ruffiano e modernista non manca (Homegrown), ancora sotto la produzione di Bob Marlette, ma il clima generale che si respira mi porta a The Last Rebel, e a farmelo pensare non sono solo gli arrangiamenti orchestrali della semi-ballad pianistica Ready to Fly o i fiati e i cori dell'ottimo R and B di Do It Up Righ, presente come bonus track nella special edition, e tra le tracce migliori del disco.
La vera novità della formazione è l'inserimento di Johhny Colt al basso (anche se su disco tutte le parti di basso sono state suonate da Mike Brignadello), primo bassista dei Black Crowes che ha dichiaratamente ammesso di non averci pensato due volte quando il telefono è squillato per la chiamata di assunzione. 
Honey Hole, messa quasi a chiusura di disco può essere un ottimo mezzo pubblicitario per la futura carriera della band che vede sempre e solo il chitarrista Gary Rossington come uomo immagine di quello che è rimasto della band dopo l'incidente aereo. Una canzone che racchiude tutte le caratteristiche che hanno fatto del nome Lynyrd Skynyrd un marchio che, ancora oggi, sopravvive e attira migliaia di rockers, come avvenuto questa estate in quel di Vigevano. Indifferentemente dal pesante passato che si porta orgogliosamente dietro e che cerca di onorare nel migliore dei modi.
La slide che apre Last Of A Dyin' Breed conduce verso un trascinante boogie/rock'n'roll che si pensava perso nei tempi, invece: autostrade, piede sull'acceleratore, caldo infernale (Lucifero arriva anche qui) e vento sulla faccia si rimaterializzano come una vecchia pellicola in bianco e nero mai passata di moda, dove in veloce frequenza passa tutta la storia della band. Le chitarre di Rickey Medlocke, Rossington e Mark Matejka con l'aggiunta dell'ospite John 5, macinano riff e assoli in One Day At A Time, nel blues melmoso, moderno e descrittivo di  Mississippi Blood, nella epicità hard della funkeggiante Good Teacher, nell'incedere dell'hammond in  Nothing Comes Easy, e la particolarità di Life's Twisted scritta appositamente dai piccoli emuli Black Stone Cherry, promettente e giovane band del Kentucky che vede il realizzarsi di un piccolo sogno. 
Con fratellino Johnny Van Zant che ancora una volta ci mette tutto quello che ha per ricodare la memoria di Ronnie. Dalla roca impetuosità rock passando anche dal pigro incedere di One Day At A Time, la sognante ballad Something To Live For fino alla finale Start Livin' Life Again per sola voce e dobro guitar (suonata dall'ospite Jerry Douglas).
Vivamente consigliata l'edizione con le quattro bonus tracks: oltre alla già citata Do It Up Right, le pregievoli  Sad Song, i vivaci southern di Poor Man's Dream e Low Down Dirty. Difficile capire  il perchè siano finite fuori dalla tracklist ufficiale del disco, visto che risultano tra le  cose migliori.
Lasciamoda parte, per una volta, gli inutili e cattivi paragoni con la formazione dei seventeen e le critiche che spesso sminuiscono la band odierna, riducendola a mera cover band dei bei tempi andati, e godiamoci un disco dove Rossington e soci cercano di recuperare l'anima, spesso melodica, di una band dalle antiche e profonde radici e cucirla sopra ad un presente dove il nome Lynyrd Skynyrd genera ancora (perlomeno) rispetto reverenziale. 

 

lunedì 13 agosto 2012

RECENSIONE: RY COODER ( Election Special )

RY COODER  Election Special (Nonesuch Records, 2012)

Provate ad immaginare e proiettare in salsa (rossa) italiana, tutto quello che sto per scrivere fra poco. Rimanendo circoscritti all'ultimo decennio, negli Stati Uniti sono usciti in concomitanza delle elezioni politiche presidenziali: una raccolta di brani messi insieme da una casa discografica (Fat Wreck Chords) che appartiene ai punkster NOFX di Fat Mike dal titolo Rock Against Bush (2004) che raccoglieva, addirittura in due uscite, qualcosa come una sessantina di band rock/punk, ma non solo, schierate apertamente contro il presidente George W. Bush e la sua rielezione; rimanendo in ambito rock, come non citare la trilogia che Al Jourgensen, leader degli industrial/metal Ministry, ha dedicato all'ex rampollo Bush, sbeffeggiandolo in tutti i modi come nella stupenda ed emblematica copertina di Rio Grande Blood-2006, con un George Bush rappresentato come un Cristo in croce e immerso dentro un barile di nero petrolio; il clamoroso e acclamato Vote for Change Tour che nel 2004 ha coinvolto alcuni tra i più grandi artisti mainstream rock statunitensi ( Jackson Browne, Bruce Springsteen, REM, Pearl Jam, James Taylor, Dixie Chicks, John Mellencamp e tantissimi altri) impegnati a scoraggiare la gente nel votare Bush, promuovendo il suo avversario John Kerry, attraverso un giro di concerti itineranti lungo tutti gli Stati Uniti; l'istant-disc di Neil Young, Living with War, uscito nel 2006 che si schierava in modo esplicito contro la guerra in Iraq e il governo Bush, auspicando, tra le righe, l'arrivo di un nuovo leader (Lookin' for a Leader); il sogno di Young si avvererà molto presto con l'avvento di Barack Obama, a cui Springsteen sembra affidare anche i suoi di sogni in Workin' on a Dream (2009).
Ora Barack Obama è giunto al giro di boa del suo primo mandato che non è stato tutto rose e fiori come si sperava, ma negli States c'è chi ci mette ancora una volta la faccia per la sua riconferma. In fondo, visti i precedenti, difficilmente qualcosa di meglio è all'orizzonte. Il 6 Novembre 2012 dovrà vedersela con il candidato/avversario, il repubblicano Mitt Romney.
Questa volta è il turno di Ry Cooder che ad un solo anno di distanza dal precedente Pull Up Some Dust And Sit Down che, in parte profeticamente, ci aggiornava sullo stato di salute finanziario della nostra povera società, fa uscire il suo disco istantaneo, quello da divulgare e consumarsi-apparentemente- entro la data delle prossime elezioni americane. Sperando che il suo sforzo non sia stato invano e le canzoni possano essere ricordate nel tempo, più forti di quel titolo "Speciale Elezioni" che sa tanto di quotidiano cartaceo USA e getta. Ascoltando le canzoni si capisce, però, quanto queste resteranno, eccome. 
Se Cooder sembra vivere da desaparecido il lato prettamente concertistico della sua carriera, l'esatto contrario si può dire dei suoi ultimi dischi che ricordano, invece, un giornale (o meglio, un sito web) in continuo aggiornamento. Dopo le pagine della finanza, ora tocca a quelle di politica interna, proprio quelle che spesso vengono saltate immediatamente in cerca di qualcosa di più scandalistico e meno noioso.
Ecco che in apertura, Ry Cooder vestito da scafato redattore, per attirare subito l'attenzione dell'ascoltatore/lettore ci piazza una ironica Mutt Romney Blues, che non è altro che una visione particolare del viaggio che Seamus, il povero e malcapitato setter irlandese della famiglia Romney dovette sorbirsi durante una vacanza nel lontano 1983: viaggio di 20 ore, sì in compagnia dei padroni, ma dentro ad una cuccia installata sul tetto dell'auto con conseguenze che sfiorarono il ridicolo quando il cane fu assalito da urgenti bisogni corporali. L'episodio diventò talmente famoso che il New Yorker ci fece anche una copertina e la moglie di Romney dovette rilasciare una intervista che finì per peggiorare le cose ed aumentare l'ilarità nazionale. Cooder ci racconta di quel viaggio dal punto di vista del povero setter ("caldo di giorno, freddo di notte/dove sto andando non lo so"), proprio come fece con il gatto Buddy nello splendido My Name is Buddy (2007), in un divertente e minimale folk/blues "nero"."Capisci molte cose da come una persona tratta il suo cane".Dice Cooder.
Si schiera dalla parte di chi occupò Zuccotti Park a New York e contro chi impose lo sgombro, come nell' hard/blues chitarristico di Wall Street Part Of Town che sembra battere il tempo dei migliori Stones, anche se a Cooder di parlare delle pietre rotolanti non va  molto a genio." Anche la vostra città ha la sua Wall Street? Quando arriverà la polizia a mandarvi via, dite loro chi paga i loro stipendi" ; così come il crescente business delle prigioni narrato in  Guantanamo che sembra ricordarci il perchè la coppia Jagger/Richards, ai tempi, voleva proprio Ry Cooder in formazione. "Il primo a suonare un sol aperto davanti ai miei occhi fu Ry Cooder-tanto di cappello , devo dire, dinnanzi a Ry Cooder" firmato Keith Richards.
Ry Cooder non ha peli sulla lingua e non risparmia nessuno, creando una sorta di divisione tra colpevoli e piccoli eroi. Da una parte i colpevoli come i fratelli miliardari David e Charles Koch attaccati in Brother Is Gone guidata dal mandolino. Pessimo esempio da seguire quello dei fratelli arrivisti che sembrano aver stretto un patto con il diavolo che si ripercuote sulla povera gente, dice Cooder; poi, una bella invettiva contro i repubblicani  con Sarah Palin in testa nel country/folk da scampagnata estiva di Going To Tampa; oppure immaginando, nella ballata folk di The 90 and The 9, un dialogo di carattere politico tra un padre e il suo bambino ambientato a Los Angeles: " se parli male di loro, saranno duri con te" a proposito dell'assurda possibilità data agli ufficiali dell'esercito di presentarsi nelle aule delle scuole pubbliche, a propagandare la carriera militare spacciandola come possibile e radioso futuro di vita.

 Ma crea anche dei quadri cinematografici eccezionali: come nella povertà musicale e tradizionalista del  blues di Cold Cold Feelings, dove riesce ad immaginare un Barack Obama, solo e pensoso mentre cammina avanti ed indietro nell'oscurità dell'ufficio ovale della Casa Bianca: "prima di accusare e criticare, cammina qualche miglia nei suoi panni"; oppure l'incedere oscuro e darkeggiante del blues Kool-Aid che narra solo una delle ultime storie di razzismo verso la comunità di colore avvenute in Florida, ultimamente, e che ha visto il presidente Obama intervenire in prima persona.     
Meno vario musicalmente, se paragonato agli ultimi lavori, ma più rigoroso, diretto, vero, rispettoso e fedele alla forma Folk/blues con qualche ben assestata stoccata rock. Cooder, musicalmente non ha più nulla da dimostrare. La sua grandezza è riconosciuta, ora dobbiamo solo ascoltare cosa vuole ancora dirci. Suonato interamente da Ry Cooder con l'unico aiuto del figlio Joachim alla batteria. Election Special, a discapito del titolo, è un disco che rimarrà nel tempo ad indicare il coraggio di un artista che sta disegnando il quadro della società americana meglio di chiunque altro in questo momento.   
Ry Codder sta recitando, e gli riesce molto bene, la parte del vecchio cantore di protesta Woody Guthrie, ma conscio come da lui stesso ammesso, che la canzone politica, al giorno d'oggi, poco può fare per far smuovere le masse. E lo sa bene uno come Bob Dylan a cui sembrano interessare poco le sorti della sua America, forte di una produzione che negli anni sessanta sembra aver detto tutto quello che doveva dire, e capendo prima di tutti che le protest songs a poco sono servite. Ry Cooder, nonostante tutto, non demorde.
Il fantasma di Guthrie sembra apparire anche nel finale rock/blues battente di Take your Hand Off It, scritta con il figlio e che presenta Arnold McCuller ai cori.
Sia Guthrie-nell'anno del centenario dalla nascita- che il nuovo album, saranno celebrati a dovere il 14 Ottobre con un concerto a Washington denominato This Land Is Your Land e che vedrà Cooder impegnato insieme a Jackson Browne, Old Crow Medicine Show, Arlo Guthrie, Tom Morello e molti altri.
Ora, vorrei tornare alla domanda che vi ho fatto all'inizio...





sabato 11 agosto 2012

RECENSIONE: THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND ( Between The Ditches)

THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND  Between The Ditches  (SideOneDummy, 2012)

Se mai un giorno mi dovessi ritirare in una sperduta e verde campagna a godermi la vita, alla prima festa di compleanno organizzata in fienile, tra un barbecue e boccali di birra, per allietare i miei ospiti chiamerei la sgangherata band dell'ingombrante Reverend Peyton. Sicuro che la mia casa nella prateria possa diventare, da quel giorno, il luogo più invidiato e temuto della vallata. Proprio come in un loro recente video dentro ad un pollaio. Già me li vedoThe Reverend Peyton's Big Damn Band prendere il primo treno in partenza da Brown County nell'Indiana: valigie piene di paglia e adesivi, macchiate di sterco e urina di suino a testimoniare l'infaticabile attività concertistica nei luoghi e posti più sperduti ed impensabili (se 250 date all'anno vi sembran poche). All'interno delle valigie, l'inseparabile slide resofonica legata con le bretelle di scorta ed una canotta bianca di ricambio, la washboard della moglie-della sua stessa stazza- la signora Washboard Breezy Peyton e la batteria essenziale di cugino Aaron"Cuz" Persinger.
Il gruppo, con il suo quinto album di studio in carriera, non cambia di una nota l'approccio genuino e diretto che lo ha contraddistinto fin dalla prima uscita datata 2004, se non rallentare leggermente i ritmi, anche grazie alla collaborazione del produttore Paul Mahern. Una festa un poco più mesta, questa volta. Poco. Poco originali e sempre uguali a se stessi, si potrà anche obbiettare, ma fedeli e coerenti con la loro missione di rivisitazione. Josh Peyton ha firmato il contratto con quel diavolo del blues a quindici anni, folgorato dal Delta Blues di Charlie Patton a cui recentemente ha dedicato, in solitaria questa volta, un intero album Peyton on Patton(2011), ma soprattutto da un divino intervento chirurgico alla mano che lo ha benedetto a nuovo mago del fingerpicking, proprio come il suo idolo.  Da allora non ha mai smesso di celebrare la sua messa rustica, anzi, ha coinvolto la moglie e il fratello, poi sostituito dal cugino: se non è attaccamento alla famiglia, questo?
Un turbine indomabile dove Delta blues, Bluegrass, Hillbilly, Country e Americana si combinano e scalciano come mandrie di bufali inferociti sotto la tortura rumoristica di una infaticabile Washboard che grattugia dall'inizio alla fine mentre il nostro reverendo suona e canta con la sua voce baritonale da orco paterno.
Un immaginario fatto di canonica tradizione blues (Devils Look Like Angels, Move Along Mister), macchine e motori con l' umoristica dedica al suo pickup vintage "Chevy Cheyenne" - ben immortalato in copertina e all'interno-in Big Blue Chevy '72, fughe rocambolesche e inseguimenti in strada (Between the Ditches) e incidenti di percorso (Brokedown Everywhere); ma che sa  toccare anche il sociale e il presente usando lo humor che lo contraddistingue nel suo profetizzare il cambiamento economico  del mondo nell'approccio da AC/DC di campagna di Shake 'Em Off Like Fleas e la smania di possesso imperante in Something For Nothing e The Money Goes con tanto di armonica sbuffante; raccontarci qualcosa del suo modo concreto di intendere la vita (nell'up-tempo a tutto slide di Easy Come Easy Go) e la fede nel mid-tempo di I Don't Know e Don't Grind It Down con il mandolino impazzito.
Tra il veloce e scatenato bluegrass di Shut The Screen, il sentimentalismo "da orso" di We'll Get Through e la vena nostalgica della finale ed acustica Brown County Bound, il mio fienile di campagna si sta incendiando proprio come quello raffigurato sulla copertina del loro precedente The Wages(2010). Il treno di The Reverend Peyton's Big Damn Band è pronto a ripartire per un altra tappa. Il loro umile segno lo hanno lasciato anche stavolta. 

mercoledì 8 agosto 2012

RECENSIONE: MATT WALDON ( Oktober )

MATT WALDON   Oktober (Arkham Records, 2012)

C'è un vecchio proverbio veneto che dice: Ottobre xe quasi mato, ma nisun ghe fa el ritratto.
Il trentenne cantautore padovano Matt Waldon con il suo primo album solista non riuscirà ad invertire un proverbio centenario ma dei piccoli ritratti musicali ce li regala ugualmente, attraverso la stesura di dieci canzoni che puntano verso l'americana, dove il nostro vicino fiume Po può benissimo prendere le veci del lontano Mississippi, diventare un serpente affascinante e misterioso, conservare storie e ricordi, senza soffrire la sindrome del più debole.
Oktober giunge a coronare, o meglio far partire una carriera solista fatta di un ep ed un disco (Out of Love-2011) già registrati con la sua precedente band Miningtown, il primo ep acustico da solista Amnesia(2011), più alcune esperienze live di spessore come l'apertura ad alcuni concerti italiani di Neal Casal-che diverrà un buon amico- e la partecipazione al prestigioso SXSW festival di Austin in Texas.
Registrato all'Arkham studio di Rovigo, Oktober è impreziosito da un nutrito numero di ospiti, molti internazionali, che riescono a regalare al disco un forte carattere da esportazione oltre confine ed oceano. Insomma: Po o Mississippi, pianura padana o Arkansas non fa differenza quando irrompe l'armonica western di Dirty Roads, preceduta dalla breve intro per chitarra e banjo di Like A Secret. Country and roll sullo stile del più ruspante e dinamico Ryan Bingham e non dissimile da quello che usciva dai solchi del vecchio disco dei The Notting Hillbillies(1990) di Mark Knopfler. L'ombra del chitarrista scozzese sembra ispirare, in buona parte, anche il southern pub/rock che ricorda i primi e migliori  Dire Straits in Sad Song, con la chitarra ispiratissima del newyorchese Kevin Salem; mentre la titletrack Oktober è un rock con l'ospitata dell'amico toscano Cesare Carugi (autore del buon Here's to the Road) ai cori ed il carezzevole violino di Caitlin Cary, ex violinista dei Whiskeytown di Ryan Adams; e Can You Feel The silence è un ottimo e trascinante brano, con una grande melodia portante, prova di gruppo con Davide Gioachin al basso, Giampietro Viola alla batteria e la chitarra di Matt.
Ma le cose migliori , Oktober le regala nelle intimistiche ed introspettive ballads elettro-acustiche, dove Waldon riesce ad esprimere maggiomente le sue potenzialità compositive e melodiche, segnate ed ispirate fin da giovanissimo dalla perdita di una figura importante come quella paterna a cui tutto il disco è dedicato e che fu  spinta e coraggio per imbracciare una chitarra. La pianistica introspezione (piano suonato da MrMichael) di I Know  dove la voce di Matt viene doppiata  dalla promessa del folk francese Paloma Gil, quasi a voler ricreare l'antica intesa tra una Emmylou Harris e il compianto Gram Parsons ma trasportati ai nostri tempi dove davanti alla parola country c'è un moderno alt; il connubio tra la voce maschile e quella femminile è un buon elemento caratterizzante del disco, che tocca anche la bella Born to be Alone che ricorda l'amato Ryan Adams con l'altra voce femminile di Caitlin Cary ed il bel lavoro chitarristico di Enrico Ghetti; il teso e accecante incedere di Promises che ha il sapore dei deserti della polverosa frontiera tex-mex e dove le chitarre giocano un bel ruolo; la forza evocativa/emozionale della ballata folkie Nasty Mind mentre la conclusiva Will, ancora in coppia con la voce di Paloma Gil, è il primo singolo con tanto di videoclip che ha anticipato di un mese l'uscita del disco (3 Settembre 2012), e gioca con le ombre e le luci soffuse condotte dal violino di Carol Nuckols. 
Un altro gran bel prodotto di artigianato nostrano. Registrato e confezionato con impeccabile cura, dimostra quanto negli ultimi anni il rock italiano con radici americane abbia fatto passi da gigante, raggiungendo quell'agognato supporto, rispetto e scambio musicale con altri artisti di caratura internazionale. Una rarità fino a pochi anni fa.                                                                                        foto by Cristina Visentin




 




lunedì 6 agosto 2012

RECENSIONI: LEE BAINS III & THE GLORY FIRES(There is a Bomb in Gilead) TOM JONES (Spirit in The Room) JOHN MEELENCAMP (It's About You-DVD)

LEE BAINS III & THE GLORY FIRES   There is a Bomb in Gilead ( Alive, 2012)

Tra ruspanti e dirette schitarrate di rock'n'roll stonesiano (Centreville, Magic City Stomp) e sonnolenti, pigri ed evocativi abbagli di southern/country rock (Reba, Choctaw Summer,Righteous Ragged Songs), il debutto di Lee Bains III con i suoi Glory Fires (Justin Colburn, Blake Williamson, Matt Wurtele) si candida a diventare uno dei dischi di classic-rock dell'anno. I ragazzi provenienti da Birningham-Alabama, in soli trentotto minuti sono in grado di attraversare tutte le strade del rock americano, ora accelerando, ora passeggiando in tutta rilassatezza (il country/folk dell'acustica e solitaria Roebuck Parkway) con massima devozione e rispetto verso i grandi del passato, ma con un piglio deciso ed una sfrontatezza fresca ed originale. Quando poi la calda voce di Lee Bains tocca le vette soul come in Everything You Took, nella contagiosa The Red, Red Dir of Home e nella finale There is a Bomb in Gilead, ballad southern/soul guidata dal piano, capisci di avere di fronte una band con una marcia in più. Molto più squadra rispetto ai conterranei Alabama Shakes, a cui sono stati  accomunati, ma che in verità sembrano reggersi esclusivamente sul talento strabordante della loro cantante Brittany Howard. Ne sentiremo parlare.

TOM JONES   Spirit in the Room ( Island, 2012)

Se il precedente Praise and Blame fu uno squassante e sorprendente terremoto, Spirit in the Room è una tranquilla scossa di assestamento e riconferma di quanto la voce del gallese abbia perso troppi anni dietro alle certamente più remunerative e patinate bombe del sesso. Dodici cover, prodotte da Ethan Jones: svestite, scarnificate, rilette e rivestite di soul/blues oscuro, spirituale e tenebroso. Le sue “American Recordings“ da tramandare ai posteri. Per ora siamo a due centri su due. Con la voce che si ritrova non è un problema affrontare grandi autori come Tom Waits (la recente Bad as Me), Leonard Cohen(Tower of song), nuove leve come i Low Anthem(Charlie Darwin) e vecchi bluesman come Blind Willie Johnson (Soul of a Man), uscendone vivo e vincente. Interessante, ora, sarebbe sentirlo all'opera con materiale nuovo che viaggia su queste stesse lunghezze d'onda. Una sola domanda: mr.Jones, perché tutto così tardi?

JOHN MELLENCAMP   It's About You-DVD ( Universal, 2012)

Prima del suo primo attesissimo concerto italiano a Vigevano nel Luglio del 2011, fu trasmesso un documentario che venne subissato di fischi da parte di un pubblico impaziente di vedere il ritorno del giaguaro in Italia. Paradossalmente finì che il film durò più del concerto e alimentò non poche polemiche e malumori. Una scelta disastrosa quella di Mellencamp. Ora che le acque si sono calmate, comodamente seduti in poltrona, senza le distrazioni di fischi, urla e zanzare, possiamo goderci le immagini che raccontano la costruzione di un disco splendido come fu No Better Than This .Tra immagini on the road volutamente registrate in basso profilo dal regista Kurt Markus, backstage di studio-un ritorno alle radici insieme al produttore T-Bone Burnett-, performance live (un tour insieme a Dylan e Nelson), videoclip, il film/documentario permette di assaporare un piccolo pezzo di America che mantiene le antiche tradizioni musicali. Da non perdere il battesimo nella chiesa battista di Savannah-Georgia e i Sun Studios di Memphis vero luogo-reliquia per tutti gli amanti del rock.









venerdì 3 agosto 2012

RECENSIONI:SOULSAVERS(The Light the Dead See) MARTY STUART (Nashville,volume1) ULTRAVOX(Brilliant)

SOULSAVERS The Light the Dead See (V2, 2012)


Rich Machin e Ian Glover non ci mettono mai la faccia. Sono due lavoratori/arrangiatori/produttori all’antica a cui piace lavorare e costruire nel retropalco, lasciando alle prime donne gli applausi. Prima Mark Lanegan, ora Dave Gahan. Cambia il protagonista, non cambia il valore di una formula che ha ampiamento passato il collaudo. Lasciata, in modo quasi del tutto definitivo, l’elettronica del primo disco, superato il nero pece della profondità blues della voce di Lanegan che aveva elevato It’s Not How Far…(2007) e Broken(2009), si lanciano nell’arricchire e vestire le profonde e personali liriche scritte da Gahan, con slanci orchestrali e cori gospel che spingono il disco verso una spiritualità drammatica dove il cantante dei Depeche Mode ritrova nuovi slanci vocali sentiti di rado nel suo gruppo madre. Anche se a volte la pomposità compositiva supera la soglia limite, Take me back home, Presence of God, il singolo Longest Day, promettono di far dimenticare il pregevole lavoro fatto con Lanegan. Un applauso a tutti.



MARTY STUART Nashville, volume 1:Tear the Woodpile Down (Sugarhill Records, 2012)

Il giorno che il giovanissimo Marty Stuart, appena dodicenne, approdò a Nashville, città che rappresentava già un sogno predestinato,dovette aspettare ore prima di incontrare colui che lo invitò nella città del country per offrirgli il primo lavoro in campo musicale. In quei momenti di attesa, Stuart non perse troppo tempo e si avventurò, solo, alla scoperta della città. Quello spirito di ricerca gli rimase per tutta la carriera. Marty Stuart con i suoi dischi, le sue memorabilia raccolte in un museo e le sue trasmissioni televisive rimane una delle più fulgide memorie storiche “viventi” della country music. Adesso che anche i più grandi, uno ad uno, stanno passando a miglior vita, a lui il compito di preservare la forza e la tradizione del genere. In compagnia dei suoi fedeli Fabulous Superlatives spazia tra classic country ( Holding on to nothing), melodie notturne molto’50 (The Lonely Kind), scatenati country/rock (Tear the Woodpile Down), fino al duetto con il fuorilegge più temibile di questi anni 2000, Hank III in Picture from life’s other side.

ULTRAVOX Brilliant (EMI, 2012)

Quando parte Live, capisci che c’è tutto: la voce di Midge Ure, il pianoforte, i chorus accattivanti e melodici, i sinth new vawe, le chitarre al posto giusto, gli arrangiamenti orchestrali, da qualche parte più avanti (Satellite, Contact), c’è perfino il violino che riporta a Vienna. Tutto quello che ha fatto scuola ed influenzato milioni di band fotocopia degli anni zero, c’è. Quando arrivi all’ultima traccia Contact però ti chiedi se tutto questo non lo avevi già sentito mille altre volte, senza la differita temporale di vent‘anni e con la genuina epicità, qui sostituita dal buon mestiere. Sospinti dal fortunato tour di reunion del 2009, la formazione storica anni ‘80, attiva fino al 1984 (Midge Ure, Billy Currie, Chris Cross e Warren Cann) tenta il gran ritorno discografico. Nulla da buttare ma ci si stanca parecchio prima di arrivare alla fine, senza che qualche buona melodia si faccia ricordare. Chi ha amato solamente la prima parte di carriera con John Foxx, nemmeno si avvicinerà a questo disco, tutti gli altri potranno riprendersi le loro vecchie copie di Vienna, Rage in Eden e Lament. Sarà bellisimo lo stesso.