venerdì 20 luglio 2012

RECENSIONE/REPORTAGE live: LENNY KRAVITZ/TROMBONE SHORTY live@Dieci Giorni Suonati-Vigevano, 19 Luglio 2012

Ma cosa vai a vedere? Lenny Kravitz? Chiese l'uomo alla donna un po' sciantosa sulla cinquantina, in fila davanti al bancone del negozio di dischi, mentre si era appena fatta stampare i due biglietti per il concerto di Vigevano e attendeva per pagare. Lui dallo scaffale aveva appena sfilato le sue copie dei Gov't Mule e Dave Matthews Band ed orgoglioso e con fare saputo e saccente sbatteva i suoi cd sul bancone: io voglio questi!
Io osservavo. Cazzo, quella donna potrei essere io, però potrei essere anche l'uomo stile "alta fedeltà". Il che, un po' mi consolava. Poco.  
Girare per Vigevano prima di assistere a qualche concerto del festival Dieci Giorni Suonati è sempre una meraviglia. Credo che il signor Claudio Trotta abbia veramente azzeccato la location ideale e a misura d'uomo. Mentre a Milano si scannano tra un'arena ed un ippodromo,qui a Vigevano ci sono un centro storico ed un castello che aspettano solo di essere animati dai vari artisti che si succedono di sera in sera. Del catrame e cemento della fiera di Rho è meglio non parlare, mentre parlerei volentieri di Justine Mattera e Jane Alexander che si aggirano in zona merchandising.
Se la location non è più una sorpresa ma una conferma, Trombone Shorty che alle 20 e 45-puntualissimo-è salito sul palco, è una sorpresa fulminante. Troy Andrews, questo è il suo vero nome, con la sua band è un treno in corsa che da New Orleans si catapulta sul pubblico di Lenny Kravitz, lui che per Dave Matthews ha anche aperto i concerti. C'è ancora il signore al negozio di dischi? Si? Ditegli anche che nell'ultimo disco del polistrumentista della Louisiana, For True, ci ha suonato anche Warren Hayes dei Gov't Mule.
Basso, chitarra, batteria e tre fiati che mantengono tiro ed intensità devastanti per una buona mezz'ora. Blues, rock, soul, funk, difficile etichettare la musica di Trombone Shorty: il Lenny Kravitz del trombone. Affascinante e carismatico, guida la sua band fino al finale, quando i musicisti si scambiano gli strumenti tra loro e nessuno sembra accorgersene. Lo voglio rivedere. Mentre le zanzare, fedeli domiciliate a Vigevano, fanno anche loro la comparsata di mezz'ora per poi sparire per il resto della serata, tutto è pronto per "lenny kranivitz" come lo nominavano nel 1994 i Nailbomb di Max Cavalera (Sepultura) mandandolo a quel paese poco amichevolmente. Chi l'avrebbe mai detto che Cavalera avesse le stesse idee del signore per bene del negozio. A proposito: é ancora lì?
Prima di assistere a questo concerto mi ero documentato sulle setlist di Lenny Kravitz, scoprendo che si poteva parlare-molto più economicamente- di una sola setlist ripetuta ad oltranza. Questa sera, è stata sempre quella. Nessuna sorpresa, anche se una Sister ci poteva stare.
Inizio con Come On Get It dal suo ultimo album Black and White America(2011) e chiusura con una versione allungata di Let Love Rule, dal suo primo disco del 1989 (da cui prenderà anche Mr. Cab Driver). Mentre la band allunga, lui si aggira sotto il palco tra la gente, salutando e abbracciando tutti. Le macchine fotografiche di sesso femminile vanno in tilt. Questo bagno tra la folla sarà sempre un rituale identico nel tempo, ma non è da tutti.
In mezzo, forse recitando un copione che ammette poche intrusioni e cambiamenti, passano tutte le canzoni da "greatest hits" ( American Woman, Fly Away, Stand By my Woman) più qualche estratto dell'ultimo album: il soul autobiografico di Black and White America-un pugno alla segregazione razziale-, la super gigiona Stand ed il rock di Rockstar City Life. Il fedelissimo chitarrista Craig Ross continua a non perdere un capello e scenograficamente fa il suo dovere,così come il martellatore Frank Vanderbilt alla batteria. C'è spazio anche per la sezione fiati a tre e per Trombone Shorty che nel finale si materializza sul palco. Una band "boombastica".
Fields of Joy (su disco c'era anche l'assolo di Slash, ricordate? In quel periodo lasciava assoli-inpercettibili- un po' dappertutto, anche sui dischi di Dylan), It's Ain't Over 'til It's OverAlways on the Run mi riportano indietro al 1991 quando il buon Lenny veniva salutato come la nuova stella del rock americano, un po' derivativo nel suo atteggiarsi a nuovo Hendrix/Lennon ma con tutte le carte ancora da scoprire ed il buon intuito del giocare "vintage" prima di tanti altri. Per qualcuno il vero Kravitz si è fermato lì. Per me ha fatto ancora un passo verso Are You Gonna Go My Way e Believe. Poi le sue carte le ha giocate male-o bene a seconda dei casi- al bar delle rockstar, tra presunti plagi, (tante)donne, lustrini d'alta moda e concessioni commerciali superiori a quelle che già prometteva. I rocker lo abbandonano in fretta e lui intanto perde freschezza ed ispirazione. Il pubblico cambia velocemente ma rimane caloroso ed eterogeneo, in prevalenza femminile, naturalmente. Proprio come stasera.
Il signore al negozio di dischi sogghigna.Stasera ha passato una serata triste e monotona al bar del paese tra un karaoke ed una briscola, sognado il bar delle rockstar. La folla del Castello Sforzesco si è divertita molto, io con loro.
Sei veramente andato a vedere Lenny Kravitz? Si,e non è nemmeno la prima volta. Sai cosa ti dico, anche? Che mi sono divertito, e non è la prima volta. E' solo la seconda, comunque. Domani al bar del paese mi chiederanno questo. Scommettiamo?
SCALETTA/SETLIST: Come On Get It/  Always on the Run /American Woman/  It Ain't Over 'Til It's Over/ Mr. Cab Driver/ Black And White America/  Fields of Joy /Stand By My Woman /Believe/ Stand/ 
Rock Star City Life/ Where Are We Runnin'?/ Fly Away/ Are You Gonna Go My Way/ Let Love Rule
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martedì 17 luglio 2012

RECENSIONE: JIMMY CLIFF ( Rebirth )

JIMMY CLIFF  Rebirth  ( Sunpower-Universal, 2012)

Quella Pasqua freddolosa e frizzante del 1993 allo stadio Bentegodi di Verona me la ricordo molto bene. Su in tribuna vidi il campione olimpico Gelindo Bordin-ora abita dalle mie parti-, pochi minuti dopo, con uno scatto degno del maratoneta a pochi metri dall'arrivo, mi ritrovai nel scivoloso prato calpestato, dieci anni prima,dai tacchetti del magico e miracoloso Hellas Verona di Osvaldo Bagnoli, scudettato nella stagione 1984-85. Pioggia fino a pochi minuti prima dell'inizio del concerto, Bruce Springsteen, fazzoletto al collo, senza la E Street Band e salute un po' così, dopo una manciata di canzoni fece salire sul palco l'ospite Jimmy Cliff. I due eseguirono insieme un solo classico del reggae: Time Will Tell. Successivamente eseguì anche Many River to Cross, però inspiegabilmente senza il suo autore.
Jimmy Cliff è rimasto l'ultimo superstite di quella triade reggae "Marley-Tosh-Cliff" che raggiunse il mainstream e riuscì a sdoganare il ritmo in levare portandolo ai bianchi. Jimmy Cliff durante la sua altalenante carriera non si è fatto mancare mai nulla. Divenne l'idolo degli skinhead londinesi nei '60; intrattenne rapporti con il rock ripagati con stima reciproca (le collaborazioni con Paul Simon, Rolling Stones, Elvis Costello, Sting, Joe Strummer ) tanto da ricevere gli elogi di Dylan (Cliff ha recentemente ringraziato rifacendo impeccabilmente alla sua maniera A Hard Rain's A-gonna Fall) e lo stesso Springsteen che in scaletta ha anche la sua Trapped e  pochi mesi fa, nel marzo 2012 i due hanno duettato ancora insieme al SXSW in Texas; scrisse canzoni sociali ed impegnate come Vietnam, Hard Road to Travel, They Harder They come e Many Rivers to Cross; altre meno serie e più divertenti che gli fruttarono anche qualche soldino negli anni ottanta-vi ricordate del tormentone estivo Reggae Night? del 1983; dovette vivere gli anni più ispirati della sua carriera all'ombra di Bob Marley, quando ebbe strada libera, suo malgrado, si permise lunghi anni sabbatici; divenne perfino un celebre attore in They Harder They Come, film del 1972 con la sua immortale colonna sonora che contribuì, non poco, a diffondere il reggae in tutto il mondo.
Rebirth prende forma a otto anni di distanza dal suo ultimo lavoro Black Magic, album che pur includendo numerosi ospiti era zoppicante nelle canzoni.
Anticipato dall'Ep Sacred Fire uscito nel 2011 e che già vedeva la collaborazione con Tim Armstrong, cantante e chitarrista dei punkers americani Rancid (attesi sabato 21 Luglio al Rock in IdRho a Milano), veri eredi testual/musicali dei Clash, con le dovute proporzioni naturamente. Proprio alla produzione di Armstrong si deve questa rinascita di Cliff. Seguendo il canovaccio della parte più giamaicana dei suoi Rancid (il disco Life Won't Wait-1998, nè è brillante esempio) e dei suoi dischi solisti ska/rock steady( Poets Life-2007 ), Tim Armstrong riesce a riportare Cliff verso le radici del reggae senza cadere nelle facili soluzioni elettroniche e di synth artificiali che spesso facevano capolino nei dischi più commerciali di Cliff (mi ricordo di un  poco riuscito Breakout) ma con una vera band-la stessa che lo accompagna da solista-con lo stesso Armstrong alla chitarra, J Bonner al basso, Scott Abels alla batteria, Kevin Bivona al piano e Dan Boer all'organo, ed una nutrita sezione fiati e coriste. Prova ne è la splendida rilettura latineggiante di Guns of Brixton dei Clash. Canzone in grado di mettere d'accordo tutti, rockers, punkers e reggaers così come Ruby Soho, canzone dei Rancid inclusa in ...and Out Come the Wolves(1995) che Armstrong affida alla cura ska di Cliff. Due brillanti e fresche riletture.
Ma è il resto del disco a stupire. Un ritorno alle radici che fa muovere il sedere (provate a rimanere fermi durante lo scatenato Rhytm and Blues alla James Brown di Outsider) e pensare il cervello: Children's Bread, World Upside Down (scritta con lo scomparso "padre del reggae" Joe Higgs) sono il reggae/ska perfetto con i messaggi perfetti. Mondo sottosopra con il pane in mano alle persone sbagliate.
Cry No More  inizia con voce spezzata (ottima prova vocale in tutto il disco) e l'organo ad accompagnarla, poi sprofonda nelle radici più profonde del soul/reggae.
One more, primo singolo e presente anche in una alternate version è ska da sound system che rapisce al primo ascolto e fa coppia con Reggae Music, testamento d'amore verso la sua musica ("Reggae Music's gonna make me feel good, reggae music's gonna make me feel alright now"), roots reggae a ripercorrere cronologicamente la sua carriera dal 1962 in Orange Street ad oggi.
Bang inizia come solo i Clash avrebbe potuto fare in Sandinista! per poi diventare un reggae/rock trascinante come  Rebel Rebel con la sezione fiati a contagiare un reggae corale e frizzante. Il messaggio d'amore universale di Blessed Love e Ship is Sailing sono talmente vintage che è difficile non pensare che il buon Tim armstrong  sia per Jimmy Cliff quello che  Rick Rubin fu per la rinascita artistica di Johnny Cash.
Un disco suonato, divertente, solare e diretto che ci riconsegna un sessantaquatrenne tra i principali protagonisti della scena Reggae mondiale-anche se troppo riduttivo inserirlo in un solo genere musicale, visto il personaggio- e tra i principali diffusori di messaggi socialmente positivi ancora esistenti. Anche grazie a lui la voce dei poveri giamaicani è diventata quella di tutti i poveri del mondo alla pari dei più grandi folk singers della storia.
Qualche volta è bene dirlo alla Jimmy Cliff:"Reggae Music 's gonna make me feel good" .



vedi anche RECENSIONE: GASLIGHT ANTHEM-Handwritten (2012)






domenica 15 luglio 2012

RECENSIONE/REPORTAGE live: PATTI SMITH/VINICIO CAPOSSELA live@ COLLISIONI Festival, Barolo(CN) 14 Luglio 2012

Leggo l'etichetta: denominazione di origine controllata.Vinificato e imbottigliato all'origine da azienda agricola cascina XXX. Barolo (Italia) Alc. 14,5 % by vol.

Imposto il navigatore mentale anche se non ce n'è bisogno; andando verso il sud del Piemonte il richiamo delle valli del vino è calamita tentacolare. Due ore e mezza di viaggio, buona compagnia e il comune di Barolo compare lì, adagiato nelle Langhe, protetto dalle verdi colline dove finisce la provincia di Asti e inizia quella cuneese. Un mare verde affascinante e ricco di tradizioni enogastronomiche che si può visitare (per chi vuole concedersi una lunga vacanza da queste parti o solo una breve sosta a La Morra per un aperitivo in qualche cantina come oggi) e percorrere, seguendo la ormai famosa Strada del Barolo, percorso segnalato che vi farà entrare nel cuore delle langhe, tra vigneti e aziende agricole.
Da quattro anni, le Langhe ospitano oltre agli amanti del buon vino-presenza costante durante tutto l'anno- un festival di musica e letteratura: Collisioni. Quest'anno ad ospitare la manifestazione, nata da appassionati per appassionati, è il paese di Barolo ( poco meno di 800 abitanti). Per quattro giorni il paese si trasforma in un gigantesco bazar culturale, dove ogni piazza, ogni via, ogni mattone respira e inspira letteratura, poesia, note e parole.
Il vino Barolo creato dai Marchesi Falletti, fin dai tempi dei re Sabaudi e del Conte Cavour fu denominato "vino da re e re dei vini". Se il vero re musicale di quest'anno sarà Bob Dylan che suonerà qui lunedì 16 Luglio (il sottotitolo del festival è The Wind non a caso...), la serata di Sabato 14 Luglio ha presentato,come minimo, la sua regina e un menestrello di corte di prima grandezza. Un buon bicchiere di rosso si abbina sempre volentieri all'aurea da santità e poetessa maudit che accompagna da sempre Patti Smith, forte di un ritorno discografico-Banga-degno dei suoi anni più ispirati e sempre in debito con la sua amata Italia. Questo a Barolo è il primo dei tanti concerti di una mezza estate qui da noi.
Prima di lei un personaggio che non ha mai negato il suo amore per il vino. Vinicio Capossela, grande amante dei nettari piemontesi, cresciuto tra le vigne del nonno; in una vecchia intervista proprio al Barolo accomunò il testo della sua canzone Pasionaria: un pezzo denso, corposo e suadente proprio come il Barolo, disse.
Non dimenticherò mai, inoltre, un Traffic Festival di qualche anno fa a Torino, quando un Capossela alticcio scelse come compagno di palco ma soprattutto di bevute-scelta quantomai azzeccata- Shane MacGowan dei Pogues. Una esibizione imbarazzante con il cantante barcollante sul palco, intento a sbagliare attacchi e parole delle sue canzoni. E poi ancora Vinocolo ("...a grandi coppe bevono i barbari/Al vino scostumati/Danzano in coro, danzano in coro e ne chiedono/Ancora e ancora...) da Marinai Profeti e Balene e il sapore dell' antico Retsina ,vino bianco greco aromatizzato con resina di pino che sembra innaffiare le composizioni del suo ultimo album Rebetiko Gymnastas.
Prima di arrivare al clou della serata bisogna trascorrere il pomeriggio e la cosa si presenta piacevole e per nulla stressante vista l'enorme quantità di svago disseminato lungo tutto il paese ed un tempo che alterna sole e qualche nuvola. Tra saltimbanchi, giovani artisti e gruppi musicali da scoprire all'interno della splendida Barolo e le sue piazze, il primo assagio di Patti Smith che incontra i suoi fans in un affollatissimo incontro tra parole, poesia e splendidi ricordi sparsi in 40 anni di rock, che passano anche da Jimi Hendrix, alla Ohio di Neil Young fino ad Amy Winehouse.  Alla piacevole esibizione di Filippo Graziani, figlio del mai troppo compianto Ivan che in un, purtroppo breve, set acustico in duo fa rivivere canzoni come Pigro, Firenze (canzone triste), Agnese, Lugano Addio, Monna Lisa, Taglia la testa al gallo. Una Luciana Littizzetto lasciata orfana da David Setaris , bloccato a Londra da un passaporto scaduto ad uno Zucchero Fornaciari chiamato per raccontare gli aneddoti del  suo libro Il Suono della Domenica  e ritirare un premio, non prima di passare dal "Chocabeck" al battibecco con uno spettatore che lo apostrofa-inspiegabilmente- in malo modo. La reazione sarà alzarsi e andarsene. La nota stonata della giornata. Per altro evitabilissima.
L'organizzazione intanto è perfetta e funziona a meraviglia (ottimi i parcheggi prima di arrivare a Barolo e i bus navetta predisposti all'andata, un po' meno al ritorno) e in tutta puntualità al calar del sole entra in scena Vinicio Capossela.
Quest'anno a Barolo, proprio oggi 14 Luglio, si festeggia anche il centesimo anniversario della nascita di Woody Guthrie, il massimo esponente del folk americano del '900. Il ribelle della chitarra, maggior voce dell'America popolare e operaia che diede parola attraverso il tesoro di circa tremila canzoni (alcune ancora da scoprire) ad una parte di società meno agiata ed abbiente. A lui devono molto i più grandi cantautori americani da Dylan a Springsteen. Uno che sulla chitarra impresse indelebilmente queste parole: "This Machine Kills fasciscts".
Vinicio lo omaggia con una scaletta che cerca di pescare nella tradizione del folk italiano (perchè non solo inglese parla la lingua del folk): da una canzone del cantautore pugliese- recentemente scomparso- Enzo del Re, a quella di un altro cantastorie, sempre del Gargano come  Matteo Salvatore, passando per i canti regionali più sconosciuti, da quelli irpini a quelli delle tabaccaie del Salento. Il doveroso omaggio alla terra delle langhe, un divertente folk/blues sui treni improvvisato per la serata ed un omaggio a Bob Dylan con When The Ship Comes In. Da elogiare la scelta anticommerciale di lasciar fuori le canzoni del suo ultimissimo album "greco" da pochissimo uscito. Poi, via con le sue canzoni: il trascinante blues dei condannati a morte Billy Bud, Sulla Faccia della Terra, Pena dell'Alma, fino a Santissima dei naufragati e Ultimo Amore seduto al piano. Gran finale con il Ballo di San Vito e la prova corale della sua multietnica e grande band in grado di salutare i fans come si deve.
Giunge l'ora di una ragazzina sessantacinquenne che continua ad ipnotizzare con voce e carisma e stare sopra ad un palco con dolcezza e romantico spirito di battaglia. Piazza Colbert (per l'evento: piazza rossa) presenta un colpo d'occhio straordinario. Chi è riuscito a vederla nella sua interezza dall'alto è sbalordito dall'alto numero di persone che hanno assistito a questo primo concerto del tour italiano. La piazza, tutte le vie piccole e grandi, balconi e persino tetti brulicavano di persone e fornivano un panorama da favola incastrato perfettamente tra le mura del paese illuminato e il cielo che nel frattempo è stellato e brillava di suo.
Ma anche il palco brillava.Patti Smith sa farsi amare e come tutti i più grandi non necessita di fuochi d'artificio. Ci pensano le parole delle sue canzoni ad esplodere: Dancing Barefoot e Redondo Beach aprono già in odor di leggenda. Ma sono anche le nuove canzoni a brillare in mezzo alla storia: April Fool e Fuji-San, canzone dedicata a tutte le vittime dei disastri della natura, ma anche la dolcezza soul di This is the Girl, dedicata a Amy Winehouse e l'ululante circolarità di Banga (che dà il titolo all'ultimo album ed è anche  il nome del cane di Ponzio Pilato nel libro Il Maestro e Margherita di Bulgakov) sembrano già dei classici.
Accompagnta dai fidi Lenny Kaye alla chitarra, Jay Dee Daugherty alla batteria, Tony Shanahan al basso e al piano e Jack Petruzzelli sempre alla chitarra, che troveranno la gloria personale nel loro medley rock. Una band mica da poco.
Poi ancora Ghost Dance, un mantra che potrebbe raggiungere l'infinito, My Blakean Year, Peaceable Kingdom, Pissing in The River, Beneath the Southern Cross e l'acclamazione per quella che rimane ancora la sua canzone-in comproprietà con Springsteen- più famosa: Because the Night. Un inno rock divenuto immortale.Forse anche una delle maggiori ragioni che ha spinto molti non propriamente fan di Patti Smith ad essere qui stasera. Ma poco importa, l'importante è esserci.
E' il momento di Gloria. L'inseparabile giacca vola via. In maniche di t-shirt e fisico inalterato nel tempo conduce lo show verso il finale. Il pubblico è totalmente conquistato, lo show raggiunge il suo apice e Gloria (di Van Morrison) si presta a rendere epica la serata. L'uscita di scena dura poco. Il rientro è per Banga e l'inno assoluto People Have the Power (scritta insieme al compianto marito Fred "Sonic" Smith nel 1988) che chiudono il concerto. Le nostre mani sono tutte alzate sullo slogan che ci unisce nell' invito a perseguire i nostri sogni e lottare contro tutte le ingiustizie del mondo. La sua leggerezza sul palco amplifica la pesantezza di un messaggio universale e globale, quasi senza tempo. Una canzone che fu la sua rinascita artistica negli anni ottanta e che chiude uno splendido concerto. Manca Rock n roll Nigger, ma sarà per la prossima volta.
E Woody Guthrie, che ci ha lasciato da ben 45 anni e che quest'anno avrebbe compiuto solo cento anni, cantava This Land is Your Land. Il suo messaggio era molto più profondo ma per un giorno questa terra delle Langhe è stata la nostra terra e quella di Patti.
SETLIST/SCALETTA: Dancing Barefoot/Redondo Beach/April Fool/Fuji-San/This is the Girl/Ghost Dance/My Blakean Year/Beneath the Southern Cross/Medley band/We three/Pissing in the River/Because the Night/Peaceable Kingdom/Gloria/Banga/People Have the Power.

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venerdì 13 luglio 2012

RECENSIONE: OLD CROW MEDICINE SHOW ( Carry Me Back )

OLD CROW MEDICINE SHOW  Carry Me Back (ATO Records, 2012)

Le lettere marchiate a fuoco sulle tavole di legno iniziano ad assumere significato quando i tarli iniziano la loro opera di invecchiamento.
Gli Old Crow Medicine Show lo sanno bene fin da quando nel 1998 si formarono in quel di New York pur avendo base, da sempre, a Nashville. La loro opera di svecchiamento delle antiche tradizioni musicali americane ha fatto proseliti ed ha attecchito-proprio come i tarli-in centinaia di giovani band americane in questo ultimo decennio. Loro partirono proprio dallo spirito dei vecchi Medicine Show, rubandone il nome (gli spettacoli itineranti che fin dall '800 portavono in giro per le città americane i prodotti medicinali-apparentemente più miracolosi- reclamizzati grazie all'ausilio di spettacoli teatrali e musicali-un carosello televisivo ante litteram-), suonando vecchi traditionals senza tempo utilizzando solo strumenti a corda (Kevin Hayes al Guitjo-sorta di banjo percussivo-, Morgan Jahning al basso, Gill Landry al banjo,dobro e chitarra resofonica, Keith Secor al violino e banjo, Willie Watson alla chitarra e banjo e Cory Younts al mandolino, chitarra e tastiere)  ma con lo spirito battagliero da punk band che con gli anni non si è affievolito ma affinato sì. Grazie anche al precedente  Pusher Tennessee(2008) prodotto da Don Was che riuscì nell'impesa di smussarne gli angoli più appuntiti e grezzi, trasformandoli in una band senza tempo, segnando il loro passaggio adulto. A qualcuno questo passaggio non andò giù, ma inevitalbilmente si cresce. Genuinità sempre presente ma più controllata e pulita. 
Così come senza tempo rimangono i loro testi. Gli Old-times traditionals, gli appalachian bluegrass, pre-war blues e folk dei primi album, con gli anni, si sono trasformati in canzoni originali che mantengono l'antico spirito narrativo, sia che esplorino la vecchia e dimenticata vita rurale nel  country di Country Gal o in We Don't Grow Tobacco, duro lavoro di campagna e vecchi campi seminati  che i giovani non calpestano più; ancora campi sullo sfondo, sporchi di sangue, ma questa volta sono quelli di battaglia della guerra civile nell'irish folk che apre il disco Carry Me Back to Virginia; storie di raggazzi di montagna che esplorano la vita in Bootlegger's Boy e che hanno problemi con la legge nel velocissimo ed indiavolato bluegrass di Mississippi saturday Night guidato dall'armonica  di Ketch Secor e nel fiddletune di Sewanee Mountain in Catfight, con un incontenibile violino. Ma anche attualità, nella commovente storia di Levi, loro fan morto nella guerra in Iraq nel 2009, divertimento, nelle atmosfere ragtime da primi del novecento in Steppin' Out e romanticismo nella cullante Genevieve e nella ballata folkie Ain't It Enough. 
Ways Of Man chiude come solo uno stagionato e saggio Willie Nelson potrebbe fare: riflessiva e sommessa analisi sul senso della vita con Critter Fuqua (tra i fondatori della band e a quanto pare reintegrato in formazione) e Jim Lauderdale ospiti alle voci.
Prodotto da Ted Hutt (già al lavoro con Flogging Molly, Lucero e Gaslight Anthem) e registrato al Sound Emporium di Nashville, Carry Me Back è la conferma che gli Old Crow Medicine Show, a parte qualche episodio tirato, non sono più gli scavezzacollo incontrollabili di inizio carriera ma un band che ora è in grado di attraversare tutta l'America da nord a sud, raccogliere dimenticate storie, inciderle sul legno e aspettare con pazienza che i tarli entrino in azione.







mercoledì 11 luglio 2012

INTERVISTA a MARIO RANIERI-autore del libro FACE TO FACEBOOK



"Gli aggiornamenti quotidiani tipo 'sveglio, mi sono vestito, colazione, sono caduto' fanno sembrare le persone ancora più sciocche di quanto non siano" firmato Morrissey- rispondendo ad una domanda sui social network apparsa su XL-la Repubblica di  Luglio/Agosto 2012

A cosa stai pensando? Questa domanda ci sta accompagnando da alcuni anni. Uno sfinimento. Devo essere sincero: l'ho quasi sempre ignorata, poche volte ho risposto. Non mi piace mettere in comune con altri il mio stato d'animo, i miei pensieri, l'umore e le mie attività giornaliere (quelle cose del tipo Enzo Curelli si trova qui con...Morrissey hai ragione!!!) A volte non riesco a farlo con chi  mi è vicino, figuriamoci se riesco con chi non vedo e -a volte- nemmeno conosco. Preferisco usare Facebook per condividere le mie passioni: la musica su tutto, qualche foto e poco altro, in verità. Chi è interessato legge, gli altri possono passare ad un altro profilo. Proprio grazie alla musica ho conosciuto tante persone, tra queste un certo Mario's Ranieri. Era una recensione dei Casino Royale, quella di Io e la mia ombra, disco del loro ritorno discografico uscito nel 2011. La mia classica e ragionata attività di spam colpì anche lui (chiedo scusa a tutti quelli a cui ho rotto le balle con i miei link-però per questo, facebook rimane un potentissimo mezzo pubblicitario). Amicizia richiesta e accettata. Scopro la sua bacheca piena di frasi e osservazioni: ciniche, non-sense, dirette, vere, personali, divertenti, appassionate.
Mi dice che sta scrivendo un libro. Non passa molto tempo...il suo sogno si avverà.
"FACE To FACEBOOK è un libro che descrive chi fa uso di facebook, in tono ironico e non solo, troverai mie citazioni, vignette sulla crisi di governo, poesie metropolitane e non solo, un libro che non segue un filone logico, ogni pagina è figlia di se stessa, troverai tutto logico, illogico,surreale, tinto, stinto, anormale, reale, un libro che non impegna leggibile in un paio di ore di puro relax, ti accorgerai che in fondo siamo tutti uguali nella nostra diversità(non proprio tutti) se non sarà di tuo gradimento saprai che la carta è infiammabile, ricorda siamo tutti codici a barre, buon divertimento..."
Così, lo stesso Mario descrive il suo libro sul retrocopertina, facendosi la migliore delle pubblicità possibili.
Voglio presentare anche a voi il mio amico, se vorrete da oggi potrebbe diventare anche vostro...su facebook naturalmente.

-Nel libro, traspare il tuo invito ad usare facebook in modo più intelligente, di quanto in verità è usato dalla maggioranza delle persone. Così come la televisione, è diventato un mezzo molto passivo: giochetti stile "farmville", frasi fatte, link tutti uguali....ecc. Ti ricordi perchè sei entrato in facebook e perchè continui a rimanerci?
ciao Enzo, in verita' son stato tra gli ultimi dei miei amici ad entrare in facebook, forse per rimanere al passo con i tempi? non so, penso che facebook dopo un po' di tempo diventa logorante, solite cose solite frasi tutte uguali, tutti incazzati con la societa' ma in fondo felici di essere tra la massa, credo per la grande solitudine che oggi regna sovrana tra i giovani( mancanza di veri ideali), ci rimango molto probabilmente solo perche' questo mezzo di comunicazione mi ha permesso di conoscere anche gente in gamba, ( ad es. Enzo Curelli)
diciamo che non invito ad usare facebook in modo piu' intelligente, ho voluto dimostrare come tante persone siano vuote di fantasia quindi ricorrono ad un link per dimostrare chi sono, in fondo non sanno esprimersi con parole proprie ma hanno bisogno di un supporto cosi come nella vita!( paura di affrontare le cose, mettendo in mostra cio' che non sono ' veramente)
-Ora mi trasformo nel tuo "ego" e ti chiedo: Mario, non sei un po' troppo critico?
sicuramente sono molto critico, ma il mio pseudo libro e' un viaggio a 360 gradi in quello che vedo oggi nella societa' e tra i giovani, piu' che critico un libro pessimistico, oggi e' difficile almeno per me essere ottimista e questo lo riscontro anche tra i miei simili.
-Nei ringraziamenti, a fine libro, ringrazi chi ti ha licenziato, dicendo che ti ha dato l'opportunità e il tempo per scrivere.(Qui mi ci ritrovo molto). Quanto tempo è passato dalla fine del tuo lavoro all'idea di iniziare a scrivere-è un sogno che coltivavi da tanto? In tempi come questi mi sembra un buon segnale verso tutti quelli che si potranno trovare nelle tue condizioni. Tutti noi abbiamo delle risorse che, a volte, per essere scoperte, hanno bisogno di una forte spinta. Dalle cose brutte possono nascere cose molto più belle.
il mio libro era gia' in cantiere da un po', ma lavorando non avevo proprio tempo materiale, in questi mesi di " pensione forzata" ho cercato di dedicarmi alla mia passione..scrivere!!!!...come dici tu, ognuno di noi ha delle potenzialita' e sicuramente rimanere senza lavoro mi ha dato l' opportunita' di scrivere senza sosta , ho sfogato il mio malessere mettendo a nudo i miei pensieri e credo ci voglia coraggio, coraggio che tanti non hanno ma io sono una persona semplice e non ho avuto problemi a mettermi a nudo!Credo che ognuno di noi in tempi morti debba mettersi alla prova, io l'ho fatto per sopravvivere a me stesso.
-Vivi un piccolo paese di provincia. Te lo fai bastare?
si vivo in un paesino di 1500 anime e me lo faccio bastare certo! mi piacerebbe vivere in una grande citta' ma scapperei subito, sono nato in campagna dove ancora sento odori che mi fanno sentire vivo.
-C'è anche una vena nostalgica. Un ricordo molto vivido dei tempi passati: i giochi, le merende dell'adolescenza. Come ti trovi in questi tempi da "facebook"?
Hai perfettamente ragione Enzo c'e' una ventata di nostalgia forse un tifone!!! sono un nostalgico aime', legato alla mia terra ai miei luoghi; se mi chiedi come vivo in questi tempi da facebook ti rispondo che non mi ci ritrovo, ma la vivo con filosofia in fondo purtroppo e' entrato a far parte un po' di tutti nel bene e nel male.
-Tu le merendine le mangi con gusto o le rubi?
Le merendine le ho sempre rubate!
-Di Gianni Miraglia cosa mi dici?
Gianni Miraglia mi ha ispirato molto, lo ritengo un genio della comunicazione, il suo modo di scrivere e' originale, e' una macchietta! ha risorse infinite, ho letto i suoi libri, secondo me merita molto di piu' di quello che e'! sono convinto che potrebbe tenere testa a chiunque penso sia unico ed inimitabile, questo fa di lui un artista con la A maiuscola!
-Perchè la musica ti salva la vita? Te lo chiede uno che senza musica non vivrebbe!!!
La musica salva la vita o comunque nel mio caso ti rimette in strada, nella mia vita ho passato momenti non felici e quando tutto sembrava perso la musica mi ridava la speranza, per questo ringraziero' per sempre CASINO ROYALE grazie alla loro musica ho cambiato la mia vita, non chiedermi in che modo o perche' posso solo dirti che la musica ( in questo caso la loro musica) ha questo potere.
-Oltre ai tuoi tanti pensieri, nel libro c'è un piccolo racconto Horror e alcune poesie. Il tuo futuro potrebbe essere lì?
 il mio futuro non e' nella poesia, le mie poesie non sono al miele, odio le parole toppo sdolcinate, piu' che poesie sono stati d'animo, ma credo non ne scriveroì piu, mi hanno stancato.
-Cosa ti aspettavi dal libro? Cosa, invece hai ottenuto? Se non sbaglio sei già al lavoro su qualcos'altro?
cosa mi aspettavo dal libro? niente di particolare credimi, e' una grande soddisfazione personale, ho ottenuto molti consensi positivi e molte vendite piu' di quello che potevo immaginare quindi doppia soddisfazione, ripeto ho voluto lasciare il mio libro scorretto in modo che mi rispecchiasse come persona confusionaria, che non segue un filo logico nemmeno nella vita, il mio libro e' mio figlio mettiamola cosi, tutto suo padre! non mi ritengo uno scrittore ho voluto lasciare qualcosa di me, il mio modo di vedere le cose visibile a tutti!
Sto scrivendo un nuovo libro, non segue la scia precedente, ma voglio che questo nuovo libro sia corretto anche grammaticalmente, voglio vedere se sono maturato un po'! una nuova sfida personale, oltre alla grande passione.
scrivere mi aiuta a parlare con me stesso mi ipnotizza tra virgolette, entro in una sorta di vuoto dove i brutti pensieri rimangono fuori, scrivere mi aiuta a ritrovarmi tutte quelle volte che mi perdo.e' un ottimo medico!
p.s. il libro di Mario come già anticipato dalla sua presentazione  presente sul retrocopertina e confermato dall'ultima sua risposta è volutamente sgrammaticato come le sue risposte. Non subissatelo di insulti. Per quelli infierite su di me.





domenica 8 luglio 2012

RECENSIONE: GIANT GIANT SAND ( Tucson )

GIANT GIANT SAND   Tucson ( Fire Records, 2012)

La trama dell'opera-divisa in tre parti con tanto di sipari alzati ed abbassati- messa in piedi da Howe Gelb potrebbe essere il sogno di qualunque uomo di mezza età come lui, ancora sognatore e desideroso di lasciarsi alle spalle una vita trascinata e monotona (non il suo caso ovviamente) in favore di quel qualcosa che possa  far urlare a gran voce: "sono(ancora)vivo!!!". Quello che fa la differenza è però l'ambientazione. Non tutti hanno il confine messicano a portata di strada. Oppure il sogno per noi sta proprio lì?
Tucson-A country rock opera è quanto di più ambizioso Gelb abbia inseguito e creato in carriera. Allo stesso tempo i 70 minuti e le 19 canzoni che lo compongono sono anche le cose più orecchiabili, dirette e facili pervenute fino ad ora dalla sua scrittura. "Tanta roba" si direbbe, tanto da obbligare Gelb ad aggiungere un altro "Giant" al nome della band: solo così,  a denominazione Giant Giant Sand, si riesce a contenere l'intera storia (ben documentata nel libretto incluso) e l'esercito di musicisti- molti dei quali proprio di Tucson-che si sono uniti al gruppo danese che lo accompagna ormai da un decennio- l'ultimo disco inciso fu Blurry Blue Mountain del 2010. Mai Danimarca e Messico furono così vicine. Mai si era respirata tanta aria calda di frontiera nelle sale d'incisione danesi e svizzere dove il disco ha preso forma e sostanza.
In Tucson la musica dei Giant Giant Sand raggiunge la sublimazione perfetta: i tanti strumenti usati, ambientazione geografica e storia narrata sono un corpo unico lanciato verso sud. La tormentata vita di un comune mortale che lascia sicurezze e affetti sentimentali in quel di Tucson, Arizona (città natale di Gelb) per andare incontro alla felicità che presto si trasforma in incertezza lungo il confine messicano (un viaggio inverso rispetto ai tanti messicani in fuga), al mistero e ad un presente che sembra presentarsi più duro di quello che si immaginava: galera, conoscenze poco raccomandabili e amori di contrabbando sono sempre dietro l'angolo.
Tutto l'immaginario musicale di Gelb è qui riunito, in una unica e lunga strada segnata da cactus verdi ed illuminata da palle stroboscopiche: dal walzer desertico ed oscuro di Wind blown waltz  a quello confidenziale/esistenziale di Plane of Existence;  al crescendo mariachi di Forever and a Day con la tromba di Jon Villa; al country battente bandiera nostalgia sulla scia del man in black Johnny Cash in Lost Love e Thing Like That; ai passi da ballo scanditi dai tacchi sul pavimento del tango/blues di Undiscovered Country; al breve blues primordiale di Mostly Wrong.
Howe Gelb lascia spesso voce ad altri, quasi volesse amplificare e rendere operativo quel giant in più nel monicker:  a Brian Lopez nella delicata e jazzata Love Comes Over You; nel ballabile in lingua ispanica,etno-messicano alla Calexico di Carinito e in Out of the Blue (corale cover di The Band) insieme a Jon Villa, Gabriel Sullivan (profonda voce solista nella superba e crepuscolare The Sun belongs to you) e Lonna Kelley che interpreta da sola con soave leggerezza una sexy, romantica e jazzata  Ready or Not e in duetto Not the End of the World; Carice Van Houten voce insieme a Gelb nel divertente e trascinante rock'n'roll/surfer We don't play tonight; al coro di bambini che segna il "passo dopo passo" di Recovery Mission.
Quello che a prima vista si presenta come un progetto lungo e ambizioso è invece un viaggio eccitante che non conosce la stanchezza, ma si appaga con l'istinto della scoperta ed il cuore sanguinante di sentimenti. Si arriva alla spoglia e solitaria New River che chiude il disco con rinnovata freschezza messaggera, dopo aver passato guai con la legge, frequentato locali poco raccomandabili, aver interpretato messaggi criptici/psichedelici e conosciuto (forse) la donna della vita. Gelb chiude il suo/nostro impolverato viaggio così:
"...and finally you are so much/ like the river/ beautiful,twisted and blue/ you appear to be here forever/ but really just passing through...the river here is ancient/ but the waters are always new..."
Siamo solo di passaggio, proprio come un fiume. Ma ne vale la pena.












mercoledì 4 luglio 2012

RECENSIONE: GLEN HANSARD (Rhythm and Repose)

GLEN HANSARD  Rhythm and Repose (ANTI records, 2012)

In principio, a tredici anni, c'era la musica di strada per le vie di Dublino (l'attività di busker continua ancora adesso che è famoso come forma di divertimento e autoanalisi), poi ci fu The Commitments, celebre film di Alan Parker, affresco illuminato di una Dublino dove i giovani cercavano nella musica il sollievo che la società non riusciva dare loro. Tra i tanti musicisti e attori non professionisti che contribuirono a rendere The Commitments un film di culto, molti si sono persi, ma tanti altri, proprio da quel 1991, hanno iniziato una nuova carriera. Tra questi ci fu il rosso Glen Hansard che nella pellicola interpretava il simpatico Outspan Foster, chitarrista della band soul protagonista del film di Parker.
Hansard che non ama parlare troppo di quel film, da allora ha continuato una carriera in crescendo: ha inciso sette dischi con il suo primo e principale gruppo rock The Frames e tre con il duo The Swell Season, insieme a Markèta Irglovà (che diventerà sua compagna) arrivando a vincere con questi ultimi nel 2008 un oscar per la miglior colonna sonora con Falling Slowly, canzone contenuta nella soundtrack del film indipendente-recentemente diventato un musical- Once che ha avuto un gran successo in America e che lo vede impegnato anche come attore protagonista insieme alla Irglovà. Poi, ancora tante soddisfazioni: come aprire i concerti  australiani di Bob Dylan-uno dei suoi idoli musicali di sempre insieme a Van Morrison-; le recenti collaborazioni con Eddie Vedder per Ukulele Songs-voce in Slepless Nights; aver conosciuto un giovanissimo Jeff Buckley che faceva il roadie per i suoi Frames.
Ora arriva il suo primo lavoro solista scritto nell'ultimo anno e mezzo a New York, città dove si è rifugiato per trovare ispirazione dopo la lontananza dalla compagna Markèta. Quello che ne è uscito è un disco dalle tinte acustiche, spoglio e solitario dove il carattere romantico dei testi è forza ma anche principale difetto se bisogna forzatamente indicarne uno. Un disco che prende le distanze dal rock dei Frames, continuando invece il lavoro fatto con i Swell Season, con una sapiente attività di sottrazione ad esaltare il carattere intimistico delle canzoni: chitarra acustica e pianoforte formano l'intelaiatura di canzoni appese al phatos come You will become, PhilanderThe Storm it's coming con i suoi archi in evidenza suonati da Nico Muhly e Rob Moose; il crescendo di  High Hope e Bird of Sorrow con la  forte vocalità dall'anima nera in primo piano (ricordate: "Gli Irlandesi sono i più negri d'Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino..."); Maybe Not tonight tra west coast e il soul tutto irlandese dell'amato Van Morrison che prevale anche nel soul orchestrale di Love don't leave me waiting; la delicatezza di What are we gonna do (con la presenza della Irglovà alla voce), e Races guidata dal banjo, vero punto centrale e tematico del lavoro; il folk finale di Song of Good Hope.  
Qualche guizzo diverso ce lo regala Talking with the Wolves sapientemente costruita su un tappeto elettronico mai invasivo-nonostante la presenza di chitarre elettriche- ma perfettamente inserito sulle trame leggere dell'intero disco. 
Prodotto da Thomas Bartlett e suonato con la partecipazione di  illustri gregari della musica americana: Brad Albetta al basso, Ray Rizzo alla batteria, da David Mansfield alla slide guitar, visto nel lontano 1975 nella Rolling Thunder Revue di Bob Dylan e session man per tantissimi altri artisti a Javier Mas chitarrista presente nella band live di Leonard Cohen fino a numerosi componenti della sezione fiati che Bruce Springsteen sta portando in giro per il mondo nel suo ultimo tour.
Rhytm and Repose è un disco d'altri tempi, dove l'uniformità romantica dei toni bassi prevale, finendo per scoperchiare e colare come glassa abbondante in un barattolo troppo piccolo e pieno. I golosi non si lamenteranno e ripuliranno il tutto. Ai diabetici, malati di chitarre, rimando ai suoi dischi con i Frames. Questo è un disco intenso, fortemente influenzato dalla solitaria situazione di un uomo messo di fronte alla realtà dei sentimenti. Hansard si espone denudandosi con esplicita sincerità ed intimità. Glen Hansard presenterà il nuovo album il 18 Luglio 2012 al Botanique Festival di Bologna, durante la sua unica data italiana.













martedì 3 luglio 2012

RECENSIONE: BLACK MOUNTAIN ( Year Zero-The Original Soundtrack)

BLACK MOUNTAIN  Year Zero-The Original Soundtrack  ( Jagjaguwar , 2012)

Tuffo in mare per i canadesi Black Mountain. Dalle accecanti visioni delle rosse terre desertiche alle alte onde dell'oceano.
Year Zero è un film di nicchia diretto da Joe G.che racconta le gesta di un manipolo di sopravvissuti ad una sorta di disastro apocalittico. Rifugiatosi in un isola delle meraviglie incastrata in mezzo ai detriti rimasti di quello che fu il mondo prima della catastrofe, il surf diventa lo sport che li riporta ad un contatto primordiale con la natura, dove la libertà diventa la parola d'ordine numero uno. Girato per il mondo con una telecamera con pellicola Super 16 mm, promette scene di altissimo spettacolo sportivo, riprese splendide e vivide, e l' interpretazionne da parte di alcuni dei migliori campioni di questo sport ( i fratelli Damien e C.J. Hobgood, Dion Agius, Nate Taylor...), incontrando subito l'approvazione della comunità dei surfisti.
Ai Black Mountain è stata affidata la colonna sonora. Il gruppo che sta godendo un momento di grande successo, confermato dall'ultimo Wilderness Heart(2010), ha pensato di raccogliere quattro vecchie canzoni già apparse sui precedenti tre dischi ed affiancare loro cinque nuove composizioni, scritte appositamente per la pellicola. Nulla di assolutamente nuovo, quindi, ma qualche interessante novità colora le nuove canzoni, indicando nuove possibili strade, confermando quanto la musica dei canadesi guidati da Stephen McBean, sia assolutamente aperta e senza confini. La natura del film aiuta e sposa la fervida fantasia del gruppo di Vancouver.
Gli scenari della pellicola, che alla fine cercano di porre lo sguardo e l'attenzione su temi ambientalistici, sono manna dal cielo per lo psych/rock dei Black Mountain che ci si tuffano-è il caso di dirlo- senza indugi. Ne escono 50 minuti di viaggio per mente e corpo che, per chi conosce già il gruppo, non costituiranno una grande novità.
La lunga ed ipnotica Bright Lights, qui accorciata di qualche minuto, contenuta in The Future(2008) , insieme ai cambi umorali della bella Tyrants, in bilico tra acustiche e stordenti parti di quiete ed esplosioni elettriche hard; Wilderness Heart, title track del loro ultimo album, pesante cavalcata in odor di Sabbath, puntellata dall'hammond e guidata dalla voce di  Amber Webber; e le improvvisazioni free in stile Frank Zappa/Captain  Beefheart di Modern Music, con il sax che impazza, provenienti dal primo album del gruppo, rappresentano il lato già conosciuto della colonna sonora.
Se il nuovo ed inedito singolo Mary Lou e la conclusiva e distorta Breathe sono la conferma di quanto fatto fino ad ora, le altre tre nuove composizioni  si immergono dentro alla silenziosità ovattata delle onde che travolgono: la liquidità dell'iniziale ed inquieta Phosphorescent Waves, avvolta dentro a fluide trame guidate dai Synth e Moog che riportano al kraut rock con la splendida prova vocale di Amber Webber che, invece, nella corta Embrace Euphoria-pura canzone di collegamento che troverà certamente il suo habitat naturale nella pellicola-, si fa recitativa, così come in Sequence, vera sorpresa del disco che viaggia alla riscoperta delle prime note elettroniche provenienti dai '70, immergendosi in visioni atmosferiche ed ambientali.
Sicuramente si poteva fare qualcosa in più per giustificare l'acquisto di un disco che presenta quattro canzoni già edite e conosciute. Questa rimane, comunque, una colonna sonora e come tale va presa e digerita. Rimane, invece, la concreta affermazione di un gruppo che pescando dal passato ha creato un proprio suono, sempre in movimento, personale ed imprevedibile.
Le tracce inedite creano gran contrasto con le vecchie composizioni, innescando curiosità su quanto potranno influire sulle prossime mosse del gruppo.







venerdì 29 giugno 2012

retroRECENSIONE: TOM PETTY & the HEARTBREAKERS ( The Live Anthology )

TOM PETTY & the HEARTBREAKERS  The Live Anthology ( Reprise Records, 2009)
da Debaser.it -24 Novembre 2009

Venerdì 29 Giugno 2012 a Lucca, il concerto più atteso dell'anno: Tom Petty and the Heartbreakers. Ripasso con il box live uscito tre anni fa.

Succede spesso che dietro a dei grandi artisti si nascondano delle grandi band. Solo restando in America non si può non citare The Band di Bob Dylan, i Crazy Horse di Neil Young o la E-Street Band di Springsteen. Band che spesso avrebbero meritato due parole in più, scindendo il loro valore a quello dei singoli artisti a cui fanno da accompagnamento, anche se a volte è difficile pensare l'uno senza l'altro. Forse proprio alla E-Street Band si può paragonare il cammino degli Heartbreakers di Tom Petty e proprio al live 1975-1985 di Springsteen si può associare questo The live Anthology di Tom Petty, soprattutto nella forma in cui è stato pensato e creato.

In sede live esce allo scoperto il valore di questa band, sicuramente una delle migliori macchine da rock'n'roll che gli States abbiano mai proposto. Tom Petty, stavolta, fa le cose in grande: a distanza di 24 anni dall'ultimo live degno di nota della sua carriera, "Pack up the plantation-Live!"(1985) fa uscire un box di 4 cd contenente 48 canzoni, tra cui alcune interessanti cover mai uscite prima.
Il metodo di raccolta e di assemblaggio del lavoro non ricalca nessun particolare ordine cronologico o temporale di tour, ma mischia sapientemente le canzoni, vecchie, nuove e covers. Canzoni scelte direttamente da Petty e dal fido amico e chitarrista Mike Campbell e confezionate all'interno di un box cartonato dalla grafica vintage affascinante creato da Shepard Fairey. Scorrendo il libretto incluso, non faraonico ma essenziale (qualche foto in più l'avrei messa) si può notare anche quanto gli Heartbreakers abbiano apportato pochissimi cambiamenti nella line up dal 1980, anno da cui vengono prese le canzoni più vecchie, al 2007. Le uniche degne di nota: il cambiamento del batterista storico Stan Lynch sostituito da Steve Ferrone e il cambiamento del bassista, avvenuto nel 1982, quando Howie Epstein sostituì Ron Blair. Ma si sa, il sodalizio di Petty con alcuni di questi musicisti va ricercato addirittura nella storica formazione dei Mudcrutch, che solamente due anni fa fece uscire l'album che sarebbe dovuto uscire nei lontani primi anni settanta.
Accanto ai più grandi successi di Petty, "Refugee", "American Girl", "Even the losers", "Learning to fly", "Mary Jane's last dance", tanto per citare qualche titolo, compaiono delle chicche che faranno dei vostri soldi, un buon investimento in buona musica, sottolineando anche il buon prezzo del tutto.Capita così di trovarsi di fronte ad una "Friend of the devil" dei Grateful Dead, registrata al Fillmore di San Francisco nel 1997 o ad una recente riproposizione di "Mystic Eyes" di Van Morrison del 2006, alla sempre divertente "Green onions" di Booker T, o ad una "Good good lovin'" di James Browne, ad "Oh Well" dei Fleetwood Mac targati Peter Green e tante altre ancora che, con sorpresa, usciranno fuori dalle vostre casse.
Un lavoro esauriente che certamente rende giustizia ad un autore e ad una band che in sede live hanno costruito la loro storia. Come dimenticare quando il signor Dylan li scelse per accompagnarlo in alcuni tour di metà anni ottanta. Come scrive Petty nell'introduzione all'opera, questo vuole anche essere un lavoro di memoria, per ricordare i bei tempi, i luoghi e le persone incontrate nei diversi anni di tour.
Per noi ascoltatori rimangono una cinquantina di canzoni da ascoltare ricordando un rocker che da anni lavora per entrare nella ristretta cerchia dei migliori autori americani degli ultimi 30 anni. Sicuramente un'operazione del genere sarà preludio, lo spero, per una nuova rinascita artistica di Petty e forse per portare live in tutto il mondo il suo repertorio, sperando tocchi finalmente anche l'Italia. Ultima annotazione per chi ha più soldi da spendere: a breve usciranno altre versione di questo box con cd, dvd e gadgets aggiuntivi ma credo proprio che il prezzo non sarà più tanto popolare... da avere assolutamente!!
pubblicata in origine su Debaser.it 24 Novembre 2009



mercoledì 27 giugno 2012

RECENSIONE: CORY CHISEL and the WANDERING SONS ( Old Believers )

CORY CHISEL and the WANDERING SONS  Old Believers ( ReadyMade Records , 2012)

Cory Chisel ha il tocco antico del vecchio cantautore artigiano. Di chi sente la necessità di comunicare attraverso le liriche delle sue canzoni, di trasmettere sensazioni, di dare speranza senza alzare troppo la voce e i volumi, ma giocando dentro le proiezioni delle ombre, ora scure ora più chiare, di una vita che sa dare e prendere, a volte avvisandoti, molte no.
Old Believers è un titolo che può rivelare tanto, così come la sua infanzia trascorsa al capezzale di un padre predicatore, una madre che suonava l'organo ed il pianoforte ed uno zio musicista che lo ha introdotto al blues. I passi successivi sono venuti di conseguenza.
"Non è stata dura saltare da John Lee Hooker a Joe Strummer, il passo successivo era Bob Dylan"
Lui e sua sorella non potevano che crescere con sani principi spirituali e cantando. Detta così potrebbe essere l'infanzia vissuta nell'immediato dopoguerra in qualche sperduto villaggio rurale di quell'America povera e contadina che ci piace ancora sognare. Invece Cory Chisel, sì è cresciuto tra le miniere di Babbitt nel Minnesota e le pianure rurali di Appleton  nel Wisconsin, ma di anni ne ha solo trenta, è nato negli anni ottanta quando i suoi idoli musicali avevano (quasi) tutti dato il loro meglio.
Questo è il secondo disco che esce a nome Cory Chisel and the Wandering, dopo il precedente  Death won't sent a Letter del 2009 che aveva colpito la critica. Ad oggi dietro a quel "...and the Wandering Sons" si nasconde la sola Adriel Denae che divide con Cory le parti vocali e suona le percussioni; a lei l'apertura del disco nella corta, spoglia e minimale This is How it Goes, il duetto in Seventeen e il compito di doppiarne la voce nelle restanti canzoni.
Prima era un gruppo vero e proprio, The Wandering Sons, con all'attivo già un paio di dischi e alcuni Ep.
La forte spiritualità e saggezza delle liriche, fortemente influenzate dal suo idolo Johnny Cash,-"Sono cresciuto senza sapere se Johnny Cash era un cantautore, uno dei miei nonni o un attore. A me lui appariva tutte queste cose insieme"- hanno trovato nell'incontro con Brendan Benson (anche nei The Racounteurs di Jack White), oltre che un grande amico, un musicista/produttore in grado di far risaltare la sua musica.
Come se non bastasse recentemente ha avuto modo di collaborare e scrivere una canzone con Rosanne Cash. Un po' il cerchio che si chiude.
Registrato in sole due settimane al Welcome 1979 di Nashville, con un manipolo nutrito di musicisti tra cui spiccano i due ex Cardinals di Ryan Adams (Brad Pemberton alla batteria, Jon Graboff alla chitarra e pedal steel), Brady Surface al basso, Ian Craft al banjo, violino, dobro e mandolino.
Con l'età  reale di un trentenne e la saggezza apparente di un anziano che sembra voltarsi indietro e rivedere i momenti in bianco e nero di una vita passata: dal rock/soul di Please Tell Me e I've Been Accused guidata dall'organo di Andrew Higley; i momenti di assoluta bellezza di Foxgloves, profonda e malinconica nel suo crescendo; il violino che invita al ballo sommesso e meditativo in Time Won't Change, dalle parti di The Lonesome Jubilee di Mellencamp; il folk/blues acustico con armonica e banjo di Over Jordan; la raffinatezza della conclusiva Wood Drake cantata con voce e trasporto soul.
Musicalmente, sa citare i grandi come Bob Dylan nel country/folk di Never Meant to Love You, Van Morrison in Old Love e Graham Nash nell'incedere di quel pianoforte che batte note di romanticismo in Laura e nostalgia in Seventeen.
Cory Chisel si denuda e trova nella musica i quadri dove poter imprimere le sue leggere pennellate folk, intrise di soul/gospel, blues e country.
A Chisel non piace troppo apparire, per questo il suo Old Believers potrebbe passare inosservato. Sarebbe un gran delitto, visto il background profondo e sincero di un artista che non vuole rivoluzioni ma solamente portare avanti tradizioni nel totale rispetto e riverenza verso i grandi e di chi ha voglia di scoprirlo.