SHOOTER JENNINGS Family Man (ent.ONE, 2012)
Dopo le sbornie da rock opera del prolisso e futuristico Black Ribbons(2010), Shooter Shennings abbandona le manie di grandezza e realizza l'album più personale ed introspettivo della sua carriera. Quello che anche papà Waylon avrebbe potuto apprezzare con fierezza. Registrato e prodotto da lui stesso a New York con una band nuova di zecca, Family Man è solo la prima parte di un progetto musicale più ampio, con il secondo tempo che dovrebbe uscire il prossimo settembre.Un album essenzialmente country ed intimista che sembra riportare ordine nella carriera di Shooter e confermare quanto il titolo dell'album esprime:la maturità artistica e personale di un uomo, papà di due bimbi, sposato con l'attrice Drea De Matteo, che superati i trent'anni sente il bisogno di bilanci e profonde riflessioni lasciando da parte (temporaneamente?) la spavalderia un po' sopra le righe da southern rocker che lo ha sempre contraddistinto. L'ascolto del country crepuscolare di Daddy's Hands, speciale dedicata al padre malato della compagna che ha riacceso in lui vecchi fantasmi, dedica estendibile a tutte le figure paterne che ci hanno lasciato prematuramente(papà Waylon compreso), la solitaria e nera Black Dog, sulla scia dell'ultimo Johnny Cash e la finale Born Again con il violino dell'ospite Eleanor Whitmore sono un biglietto da visita più che credibile. Insieme al country più tradizionale che esce dalla dedica d'amore di The Deed and the Dollar e da Summer Dreams(Al'Song), si fanno notare il blues acustico di The family tree e la più radiofonica del lotto The Long Road Ahead con la chitarra di Tom Morello, ormai richiesto come il prezzemolo in cucina, ma presenza quasi indecifrabile come nel disco di Springsteen, se non per un brevissimo assolo. Più consistente, nello stesso brano, la presenza del violino ed il controcanto di Eleanor Whitmore.
Per chi invece ha sempre preferito la sua vena da rocker rimangono l'iniziale confessione honky tonk The Real Me e le chitarre elettriche di Manifesto N.4 e della più pesante e polverosa Southern Family Anthem, dove a mettersi in mostra è la nuova band che lo accompagna, The Triple Crown.
Shooter Jennings continua il suo personale viaggio nella musica, iniziato in tenera età sopra i tour bus insieme a papà Waylon e mamma Jessi Colter. Un viaggio a volte confuso, altre volte più delimitato e messo a fuoco come in questo Family Man. Un figlio d'arte paragonabile solamente ad un altro figlio/nipote d'arte: Hank III.
vedi anche: LUCERO-Women & Work
vedi anche: NORDGARDEN-You Gotta Get Ready
vedi anche: The KENNETH BRIAN BAND- Welcome to Alabama
vedi anche: SHOOTER JENNINGS-The Other Life (2013)
martedì 20 marzo 2012
domenica 18 marzo 2012
RECENSIONE: PONTIAK (Echo Ono)
PONTIAK Echo Ono ( Thrill Jockey, 2012)
Appena passati in tour in Italia (purtroppo me li sono persi e a quanto pare...ho sbagliato), i Pontiak sono uno gruppo da maneggiare con grande cura. Al terzo ascolto, però, se amate il post-stoner psichedelico senza barriere e steccati, sarete già conquistati dal trio , formato da tre fratelli (abbandonate subito l'idea di paragonarli ai fratelli Followill dei Kings Of Leon, qui siamo su altri territori, fortunatamente).
Echo Ono è il loro nono disco in soli sette anni e promette di saggiare la maturità dei fratelli Carney -che leggenda vuole domiciliati con rispettive famiglie sotto lo stesso tetto di una fattoria nelle Blue Ridge Mountains nel cuore della Virginia-, elevandoli a gruppo tra i più interessanti in circolazione, grazie a canzoni più dirette ed immediate rispetto al recente passato ma soprattutto grazie alla grande capacità di riunire sotto lo stesso tetto hard, psichedelia, stoner (poco questa volta) ed una vena folk molto più marcata e sorprendentemente efficace soprattutto nella parte centrale del disco. Le belle armonie vocali di Vain Carney nella straniante Silver Shadow, The EXpanding Sky e Stay Out What a sight sono un saggio di bravura e di coesione che richiama il forte legame sia di sangue che con il territorio e la natura che li circonda, non allontanandosi troppo dalla prima psichedelia pinkfloydiana e la libertà hippy e rurale da west coast, ma prendendo invece le distanze dagli agi della società moderna, guadagnandone in ispirazione, colori e simpatia. Quasi dei Fleet Foxes elettrici.
Prima di arrivare qui, dovrete passare per l'iniziale hard/grunge di Lions Of Least dove il basso pulsante di Jennings non è mai in ombra ma gioca parti importanti quanto i duri riff chitarristici di una canzone tanto breve quanto efficace, puntellata dall'organo e non così lontana da quanto proposto dai Black Mountain, così come in Across The Steppe che richiama i cari ed amati Kyuss. La produzione di tutto l'album è voltumante scarna e live, strumentazione assolutamente vintage con poche concessioni a qualche organo e mellotron di abbellimento. Strumenti analogici e minimalismo allo stato puro per far risaltare il tutto, così su disco e ancor di più live. A beneficiarne sono le improvvise scariche elettriche di The North Coast e i grossi riff di Left with Lights, vero punto d'incontro tra il passato hard/blues dei '70 e l'alt rock '90.
A concludere, quasi a seguire la scaletta di un ipotetico concerto, due canzoni che fanno completamente perdere la cognizione temporale: Royal Colors parte psichedelica e soffusa per concludersi in modo colossale, immediatamente ripresa dalla conclusiva Panoptica, sei minuti strumentali di pura cacofonia psichedelica con la batteria di Lain libera di sfogarsi e feedback chitarristici disturbanti a disegnare l'ultima delle tante sfumature musicali che i Pontiak sono riusciti a dipingere in poco più di mezz'ora in uno dei dischi da playlist di fine anno.
Appena passati in tour in Italia (purtroppo me li sono persi e a quanto pare...ho sbagliato), i Pontiak sono uno gruppo da maneggiare con grande cura. Al terzo ascolto, però, se amate il post-stoner psichedelico senza barriere e steccati, sarete già conquistati dal trio , formato da tre fratelli (abbandonate subito l'idea di paragonarli ai fratelli Followill dei Kings Of Leon, qui siamo su altri territori, fortunatamente).
Echo Ono è il loro nono disco in soli sette anni e promette di saggiare la maturità dei fratelli Carney -che leggenda vuole domiciliati con rispettive famiglie sotto lo stesso tetto di una fattoria nelle Blue Ridge Mountains nel cuore della Virginia-, elevandoli a gruppo tra i più interessanti in circolazione, grazie a canzoni più dirette ed immediate rispetto al recente passato ma soprattutto grazie alla grande capacità di riunire sotto lo stesso tetto hard, psichedelia, stoner (poco questa volta) ed una vena folk molto più marcata e sorprendentemente efficace soprattutto nella parte centrale del disco. Le belle armonie vocali di Vain Carney nella straniante Silver Shadow, The EXpanding Sky e Stay Out What a sight sono un saggio di bravura e di coesione che richiama il forte legame sia di sangue che con il territorio e la natura che li circonda, non allontanandosi troppo dalla prima psichedelia pinkfloydiana e la libertà hippy e rurale da west coast, ma prendendo invece le distanze dagli agi della società moderna, guadagnandone in ispirazione, colori e simpatia. Quasi dei Fleet Foxes elettrici.
Prima di arrivare qui, dovrete passare per l'iniziale hard/grunge di Lions Of Least dove il basso pulsante di Jennings non è mai in ombra ma gioca parti importanti quanto i duri riff chitarristici di una canzone tanto breve quanto efficace, puntellata dall'organo e non così lontana da quanto proposto dai Black Mountain, così come in Across The Steppe che richiama i cari ed amati Kyuss. La produzione di tutto l'album è voltumante scarna e live, strumentazione assolutamente vintage con poche concessioni a qualche organo e mellotron di abbellimento. Strumenti analogici e minimalismo allo stato puro per far risaltare il tutto, così su disco e ancor di più live. A beneficiarne sono le improvvise scariche elettriche di The North Coast e i grossi riff di Left with Lights, vero punto d'incontro tra il passato hard/blues dei '70 e l'alt rock '90.
A concludere, quasi a seguire la scaletta di un ipotetico concerto, due canzoni che fanno completamente perdere la cognizione temporale: Royal Colors parte psichedelica e soffusa per concludersi in modo colossale, immediatamente ripresa dalla conclusiva Panoptica, sei minuti strumentali di pura cacofonia psichedelica con la batteria di Lain libera di sfogarsi e feedback chitarristici disturbanti a disegnare l'ultima delle tante sfumature musicali che i Pontiak sono riusciti a dipingere in poco più di mezz'ora in uno dei dischi da playlist di fine anno.
venerdì 16 marzo 2012
RECENSIONE: LUCERO (Women & Work)
LUCERO Women & Work ( ATO Records, 2012)
Avete presente la straniante sensazione da post serata alcolica e bagordi che si prova al risveglio in una domenica mattina come tante altre, resa diversa solamente dalle cronache spinte provenienti dai ricordi del sabato appena trascorso? La stessa provata dal gruppo di amici protagonisti del film Una notte da Leoni dopo aver slacciato i sensi inibitori a Las Vegas? Il film del regista Todd Phillips non è un esempio altissimo ma rende pienamente l'idea di quell'humor tra il divertito ed il melanconico che ti assale al risveglio. Quella è la sensazione che il nuovo album dei Lucero, il settimo della loro carriera, mi ha lasciato. Women & Work non ripete vecchie e calpestate formule, per cui se non volete rimanere delusi: allargate e aprite bene le vostre menti. Se in testa avete ancora i loro vecchi, rozzi e diretti dischi con le liriche intrise di incazzoso pessimismo, lasciate, oppure rilanciate(consigliato). Women & Work dividerà. A me è piaciuto. Molto.
Questa volta i fiati, che sono apparsi per la prima volta nella loro musica nel precedente 1372 Overton Park , si impossessano completamente della scena ed il Menphis sound, almeno nella prima parte del disco, è presente e dominante. Ben Nichols perde qui la sua peculiare e riconoscibile voce e si adatta maggiormente a canzoni più stratificate e soul, dalla produzione(affidata a Ted Hutt) certo più pulita, ma pienamente trascinanti e dirette. Come rimanere impassibili di fronte ad un honk-tonk intriso di soul come la title track Women & Work, con i fiati di Jim Spake e Scott Thompson ad imperversare come fossimo dentro ad uno dei più chiassosi bar con tante bevute al bancone che ti aspettano durante la nottata. Il bar Buccaneer non appare così tante volte in modo casuale durante l'ascolto del disco, tanto da rendere Juniper un Southern boogie ad alta gradazione alcolica.
La ricetta è semplice, almeno in questa prima parte di canzoni: il duro lavoro di una settimana, per un semplice uomo del sud, merita una giusta rincompensa nel fine settimana: donne e alcol, per quanto il tutto possa apparire semplicistico e retorico, rappresentano il vero diversivo per milioni di americani(per la gioia delle femministe)."Si lavora tutta la settimana, pensando alle donne e al weekend", dice Nichols." 'Downtown'(la canzone in apertura) è Venerdì sera, 'Go Easy'(la canzone posta in chiusura) è Domenica mattina. Il resto del disco è la parte in mezzo".
Bramare l'appuntamento con una ragazza il sabato sera e progettare la fuga in sua compagnia nelle ballads intrise di soul It May be Too Late e Who You waiting On? è l'unico sogno romantico concesso.
Invitare a lasciarsi andare e divertirsi con l'arrivo del fine settimana, e poi farsi scappare la promessa "tanto sarò buono stanotte" nell'iniziale On My Way Downtown (e la sua breve intro, non lontana dal Jersey Sound di Southside Johnny) è beffardo e poco rassicurante: a cosa dobbiamo credere? All'onestà, visto come prosegue il disco.
La seconda parte del lavoro è un piccolo bilancio di vita dopo le follie delle ore piccole: la solitudine e le laceranti relazioni amorose (I Can't stand to leave You), rimpianti e profonde riflessioni di vita (la bella When I was Young), i silenzi dei luoghi (Sometimes), musicati su cullanti, desertiche e riflessivie country/rock songs che faranno storcere il naso a chi ricorda i primi e grezzi passi della band.
L'unica concessione al passato sembra arrivare dai pruriti rock'n'roll di Like Lightning, dove la voce di Ben Nichols torna roca nel raccontare di donne, labbra e baci tuonanti.
Sicuramente la canzone simbolo del disco, nel rappresentare così bene le varie sfumature del nuovo suono dei Lucero.
Il disco si conclude con il migliore degli auspici: "vai felice". Go Easy è una gospel-song corale e contagiosa che non ti aspetti ma che accogli con il sorriso, accompagnata dalle voci femminili delle "the Ho-Moams" e di Amy Lavere.
In un momento in cui tutti guardano al passato e alle radici della musica (come i compagni di tour Social Distortion), anche i Lucero si guardano indietro e ritrovano la loro città: Memphis vuol dire Stax, Sun e Elvis.
"Quando abbiamo iniziato, stavamo costruendo su fondamenta che non conoscevamo ancora", afferma il chitarrista Brian Venable."Ascoltando di nuovo le nostre cose passate, ci sono molti riferimenti ai vecchi Sun Records. Allora, non l'abbiamo percepito ma riusciamo a farlo solamente ora"
La stella luminosa per qualcuno avrà la sua luce affievolita, io continuo a vederla ben luminosa. Il loro sound e la line up si stanno arricchendo(pianoforti, lap steel, fiati) con il passare degli anni, non venendo mai meno alla loro attitudine e raccontando una parte di States meglio di chiunque altro. E poi, come imbrigliare musicalmente una band nata camminando lungo Beale Street a Memphis?
I nostri che rimangono ai lavori forzati all'interno di un tipico diner americano (nelle foto del booklet) la dicono lunga su come sia andata la sera prima. Dopo il weekend c'è sempre un lunedi.
vedi anche: SOUTHSIDE JOHHNY and The ASBURY JUKES-Pills and Ammo
vedi anche: GASLIGHT ANTHEM-American Slang
Avete presente la straniante sensazione da post serata alcolica e bagordi che si prova al risveglio in una domenica mattina come tante altre, resa diversa solamente dalle cronache spinte provenienti dai ricordi del sabato appena trascorso? La stessa provata dal gruppo di amici protagonisti del film Una notte da Leoni dopo aver slacciato i sensi inibitori a Las Vegas? Il film del regista Todd Phillips non è un esempio altissimo ma rende pienamente l'idea di quell'humor tra il divertito ed il melanconico che ti assale al risveglio. Quella è la sensazione che il nuovo album dei Lucero, il settimo della loro carriera, mi ha lasciato. Women & Work non ripete vecchie e calpestate formule, per cui se non volete rimanere delusi: allargate e aprite bene le vostre menti. Se in testa avete ancora i loro vecchi, rozzi e diretti dischi con le liriche intrise di incazzoso pessimismo, lasciate, oppure rilanciate(consigliato). Women & Work dividerà. A me è piaciuto. Molto.
Questa volta i fiati, che sono apparsi per la prima volta nella loro musica nel precedente 1372 Overton Park , si impossessano completamente della scena ed il Menphis sound, almeno nella prima parte del disco, è presente e dominante. Ben Nichols perde qui la sua peculiare e riconoscibile voce e si adatta maggiormente a canzoni più stratificate e soul, dalla produzione(affidata a Ted Hutt) certo più pulita, ma pienamente trascinanti e dirette. Come rimanere impassibili di fronte ad un honk-tonk intriso di soul come la title track Women & Work, con i fiati di Jim Spake e Scott Thompson ad imperversare come fossimo dentro ad uno dei più chiassosi bar con tante bevute al bancone che ti aspettano durante la nottata. Il bar Buccaneer non appare così tante volte in modo casuale durante l'ascolto del disco, tanto da rendere Juniper un Southern boogie ad alta gradazione alcolica.
La ricetta è semplice, almeno in questa prima parte di canzoni: il duro lavoro di una settimana, per un semplice uomo del sud, merita una giusta rincompensa nel fine settimana: donne e alcol, per quanto il tutto possa apparire semplicistico e retorico, rappresentano il vero diversivo per milioni di americani(per la gioia delle femministe)."Si lavora tutta la settimana, pensando alle donne e al weekend", dice Nichols." 'Downtown'(la canzone in apertura) è Venerdì sera, 'Go Easy'(la canzone posta in chiusura) è Domenica mattina. Il resto del disco è la parte in mezzo".
Bramare l'appuntamento con una ragazza il sabato sera e progettare la fuga in sua compagnia nelle ballads intrise di soul It May be Too Late e Who You waiting On? è l'unico sogno romantico concesso.
Invitare a lasciarsi andare e divertirsi con l'arrivo del fine settimana, e poi farsi scappare la promessa "tanto sarò buono stanotte" nell'iniziale On My Way Downtown (e la sua breve intro, non lontana dal Jersey Sound di Southside Johnny) è beffardo e poco rassicurante: a cosa dobbiamo credere? All'onestà, visto come prosegue il disco.
La seconda parte del lavoro è un piccolo bilancio di vita dopo le follie delle ore piccole: la solitudine e le laceranti relazioni amorose (I Can't stand to leave You), rimpianti e profonde riflessioni di vita (la bella When I was Young), i silenzi dei luoghi (Sometimes), musicati su cullanti, desertiche e riflessivie country/rock songs che faranno storcere il naso a chi ricorda i primi e grezzi passi della band.
L'unica concessione al passato sembra arrivare dai pruriti rock'n'roll di Like Lightning, dove la voce di Ben Nichols torna roca nel raccontare di donne, labbra e baci tuonanti.
Sicuramente la canzone simbolo del disco, nel rappresentare così bene le varie sfumature del nuovo suono dei Lucero.
Il disco si conclude con il migliore degli auspici: "vai felice". Go Easy è una gospel-song corale e contagiosa che non ti aspetti ma che accogli con il sorriso, accompagnata dalle voci femminili delle "the Ho-Moams" e di Amy Lavere.
In un momento in cui tutti guardano al passato e alle radici della musica (come i compagni di tour Social Distortion), anche i Lucero si guardano indietro e ritrovano la loro città: Memphis vuol dire Stax, Sun e Elvis.
"Quando abbiamo iniziato, stavamo costruendo su fondamenta che non conoscevamo ancora", afferma il chitarrista Brian Venable."Ascoltando di nuovo le nostre cose passate, ci sono molti riferimenti ai vecchi Sun Records. Allora, non l'abbiamo percepito ma riusciamo a farlo solamente ora"
La stella luminosa per qualcuno avrà la sua luce affievolita, io continuo a vederla ben luminosa. Il loro sound e la line up si stanno arricchendo(pianoforti, lap steel, fiati) con il passare degli anni, non venendo mai meno alla loro attitudine e raccontando una parte di States meglio di chiunque altro. E poi, come imbrigliare musicalmente una band nata camminando lungo Beale Street a Memphis?
I nostri che rimangono ai lavori forzati all'interno di un tipico diner americano (nelle foto del booklet) la dicono lunga su come sia andata la sera prima. Dopo il weekend c'è sempre un lunedi.
vedi anche: SOUTHSIDE JOHHNY and The ASBURY JUKES-Pills and Ammo
vedi anche: GASLIGHT ANTHEM-American Slang
mercoledì 14 marzo 2012
RECENSIONE: CIRCO FANTASMA ( Playing with the Ghost)
CIRCO FANTASMA Playing woith the Ghost ( Antistar, 2012)
E' un grande piacere e orgogliosamente patriottico constatare che sia un gruppo italiano a ricordare la figura di un personaggio come il londinese Nikki Sudden a sei anni dalla morte. Ex leader dei seminali Swell Maps insieme al fratello Epic Soundtracks(anche lui morto prematuramente ancor prima, nel 1997), in seguito nei Jacobites , infine ispirato cantastorie decadente in solitaria, là dove finiva Dylan ed iniziavano i Rolling Stones, prima di morire prematuramente nel 2006 dopo aver dato alle stampe il bello The Truth doesn't Matter, disco dove emergevano tutte le sfumature della sua carriera solista in bilico tra l'acustico e l'elettrico, il romantico sognatore e il reale perdente. Figura spesso sottovalutata, Nikki Sudden è un personaggio ancora tutto da scoprire, insieme alla sua ispirata vena poetica.
I milanesi Circo Fantasma non sono nuovi ad omaggi del genere.
Playing with the ghost, quinto album del terzetto, esce a quattro anni di distanza dal precedente I Knew Jeffrey Lee che ricordava un'altro leader scomparso, quello dei Gun Club, appunto, e che fu l'ideale prosecuzione e omaggio dello storico progetto I Knew Buffallo Bill del 1987, il "supergruppo alternativo" di cui facevano parte gli eroi amati dai Circo Fantasma.
L'ascolto di Playing with The Ghost lascia veramente una scia di commozione mista a tristezza con groppo in gola, tanto il fantasma di Sudden sembra impossessarsi dei solchi delle canzoni in cui la sua anima rivive ancora una volta. Prima di morire Sudden riuscì a collaborare con Nicola Cereda(chitarra e voce), Roberto De Luca(basso) e Carlo Cereda(organo, piano), più Alessio Russo alla batteria. I risultati di questa collaborazione si possono ascoltare nelle due canzoni scritte insieme ai Circo Fantasma: gli undici minuti in crescendo di When the Pope Goes to Avignon e nella spoken song The Port of Farewell , con la voce di Sudden che ci parla e catechizza per l'ultima volta. Le altre canzoni dove aleggia il fantasma piratesco di Sudden sono le reinterpretazioni di sue canzoni: Kiss At Dawn, canzone da ultimo bacio d'addio in preda ad una post sbronza "ballerina" ai Caraibi, la lenta delicatezza alticcia di When I Cross the Line e la tanto bella quanto troppo corta (purtroppo) The Road Of Broken Dreams cantata da Jeremy S. Gluck(Barracudas) e con l'organo di Amury Cambuzat(Ulan Bator) a tingere il tutto di fosco e antico. L'ultima anima di Sudden esce prepotente da Where The Rivers End (cantata dallo scrittore Phil Shoenfel), canzone dei suoi Jacobites, progetto messo insieme con il fraterno amico Dave Kusworth.
I Circo Fantasma chiamano in casa altri spettri, oltre a quello di Sudden.
Ad infestare la casa di vibrazioni e pelle d'oca ci pensano la rivisitazione dark-country/folk di Marry Me(Lie! Lie!) dei These Immortal Souls del defunto Rowland S. Howard e Carry Home dei Gun Club a rimarcare ancora una volta quanto la band di Jeffrey Lee Pierce occupi un posto speciale nella musica dei milanesi.
Oltre all'iniziale delicatezza affidata a The Garden (Einsturzende Neubauten) e all'aggressività di Nick The Stripper dei Birthday Party , è da segnalare la bella The Devil's Hole, interpretata da Phil Shoenfel (autore del romanzo culto “Junkie Love”, contrasto e convivenza tra eroina e amore), una darkeggiante western song che si sviluppa e trasforma in un rock'n'roll metropolitano affogato nell'alcol etilico.
Infine Shooting Star, tra vecchi saloon western e insegne al neon traballanti e The Ghost in Me, finale jazz/folk degno di quel gran signore di Pomona che di cognome fa Waits a testimoniare che anche le loro composizioni possono competere con i fantasmi citati a cui il disco è dedicato e perchè no, anticipare le prossime mosse della band.
Chiudetevi in casa, spegnete le luci e iniziate a giocare con i fantasmi.
Credo sarà dura per tutti, quest'anno, eguagliare i picchi di emotività raggiunti dai Circo Fantasma. Il loro personale omaggio ai quei miti decadenti del rock che non avranno mai le copertine che altre defunte rockstar continuano ad avere, a volte in modo del tutto gratuito, sa toccare le corde giuste.
Quando il rock muore, risorge, trafigge e vince. Ancora una volta.
vedi anche MARK LANEGAN Band-Blues Funeral
E' un grande piacere e orgogliosamente patriottico constatare che sia un gruppo italiano a ricordare la figura di un personaggio come il londinese Nikki Sudden a sei anni dalla morte. Ex leader dei seminali Swell Maps insieme al fratello Epic Soundtracks(anche lui morto prematuramente ancor prima, nel 1997), in seguito nei Jacobites , infine ispirato cantastorie decadente in solitaria, là dove finiva Dylan ed iniziavano i Rolling Stones, prima di morire prematuramente nel 2006 dopo aver dato alle stampe il bello The Truth doesn't Matter, disco dove emergevano tutte le sfumature della sua carriera solista in bilico tra l'acustico e l'elettrico, il romantico sognatore e il reale perdente. Figura spesso sottovalutata, Nikki Sudden è un personaggio ancora tutto da scoprire, insieme alla sua ispirata vena poetica.
I milanesi Circo Fantasma non sono nuovi ad omaggi del genere.
Playing with the ghost, quinto album del terzetto, esce a quattro anni di distanza dal precedente I Knew Jeffrey Lee che ricordava un'altro leader scomparso, quello dei Gun Club, appunto, e che fu l'ideale prosecuzione e omaggio dello storico progetto I Knew Buffallo Bill del 1987, il "supergruppo alternativo" di cui facevano parte gli eroi amati dai Circo Fantasma.
L'ascolto di Playing with The Ghost lascia veramente una scia di commozione mista a tristezza con groppo in gola, tanto il fantasma di Sudden sembra impossessarsi dei solchi delle canzoni in cui la sua anima rivive ancora una volta. Prima di morire Sudden riuscì a collaborare con Nicola Cereda(chitarra e voce), Roberto De Luca(basso) e Carlo Cereda(organo, piano), più Alessio Russo alla batteria. I risultati di questa collaborazione si possono ascoltare nelle due canzoni scritte insieme ai Circo Fantasma: gli undici minuti in crescendo di When the Pope Goes to Avignon e nella spoken song The Port of Farewell , con la voce di Sudden che ci parla e catechizza per l'ultima volta. Le altre canzoni dove aleggia il fantasma piratesco di Sudden sono le reinterpretazioni di sue canzoni: Kiss At Dawn, canzone da ultimo bacio d'addio in preda ad una post sbronza "ballerina" ai Caraibi, la lenta delicatezza alticcia di When I Cross the Line e la tanto bella quanto troppo corta (purtroppo) The Road Of Broken Dreams cantata da Jeremy S. Gluck(Barracudas) e con l'organo di Amury Cambuzat(Ulan Bator) a tingere il tutto di fosco e antico. L'ultima anima di Sudden esce prepotente da Where The Rivers End (cantata dallo scrittore Phil Shoenfel), canzone dei suoi Jacobites, progetto messo insieme con il fraterno amico Dave Kusworth.
I Circo Fantasma chiamano in casa altri spettri, oltre a quello di Sudden.
Ad infestare la casa di vibrazioni e pelle d'oca ci pensano la rivisitazione dark-country/folk di Marry Me(Lie! Lie!) dei These Immortal Souls del defunto Rowland S. Howard e Carry Home dei Gun Club a rimarcare ancora una volta quanto la band di Jeffrey Lee Pierce occupi un posto speciale nella musica dei milanesi.
Oltre all'iniziale delicatezza affidata a The Garden (Einsturzende Neubauten) e all'aggressività di Nick The Stripper dei Birthday Party , è da segnalare la bella The Devil's Hole, interpretata da Phil Shoenfel (autore del romanzo culto “Junkie Love”, contrasto e convivenza tra eroina e amore), una darkeggiante western song che si sviluppa e trasforma in un rock'n'roll metropolitano affogato nell'alcol etilico.
Infine Shooting Star, tra vecchi saloon western e insegne al neon traballanti e The Ghost in Me, finale jazz/folk degno di quel gran signore di Pomona che di cognome fa Waits a testimoniare che anche le loro composizioni possono competere con i fantasmi citati a cui il disco è dedicato e perchè no, anticipare le prossime mosse della band.
Chiudetevi in casa, spegnete le luci e iniziate a giocare con i fantasmi.
Credo sarà dura per tutti, quest'anno, eguagliare i picchi di emotività raggiunti dai Circo Fantasma. Il loro personale omaggio ai quei miti decadenti del rock che non avranno mai le copertine che altre defunte rockstar continuano ad avere, a volte in modo del tutto gratuito, sa toccare le corde giuste.
Quando il rock muore, risorge, trafigge e vince. Ancora una volta.
vedi anche MARK LANEGAN Band-Blues Funeral
martedì 13 marzo 2012
RECENSIONE: ORANGE GOBLIN ( A Eulogy For The Damned )
ORANGE GOBLIN A Eulogy For The Damned (Candlelight, 2012)
Con l'annunciato ritiro (o presunto tale) dei capostipiti Cathedral, sulle spalle degli Orange Goblin pesa il duro fardello di portare avanti la scena doom/stoner britannica che ha avuto il suo culmine negli anni novanta. Ricordo con piacere il fumoso concerto dei Cathedral al defunto Barrumba di Torino nel 1999. Gli Orange Goblin, vera e propria scoperta di Lee Dorrian, accompagnarono insieme ai Terra Firma la band di Coventry, avendo modo di espandere la propria fama anche al di fuori del Regno Unito, facendo una gran bella figura e proponendosi come una delle più fulgide realtà in grado di unire l'ossianico doom britannico con i deserti stoner d'oltreoceano, il tutto suonato con piglio da punk-bykers inferociti.
Gli Orange Goblin targati 2012, sfornano il disco più eclettico e versatile della loro carriera. Abbandonate le influenze più psichedeliche/cosmiche e pesanti dei primissimi dischi, la creatura del sempre istrionico e temibile cantante Ben Ward, con gli anni, ha saputo rinnovarsi e A Eulogy For The Damned sembra essere la giusta via di mezzo tra i primissimi e fumati album( Frequencies From Planet Ten-1997, Time Travelling Blues-1998) e il discorso iniziato dieci anni fa, con l'uscita di Coupe De Grace (2002) con l'aggiunta di una vena blues/melodica a fare da collante.
Accanto alle radici del passato, comunque sempre presenti ascoltando canzoni come la pesante epicità di Death Of Aquarius, l'iniziale Red Tide Rising, la pesantezza doom che si alterna con i veloci break di The Fog, o la finale, lunga e progressiva suite della titletrack, troviamo un avvicinamento alle radici metal NWOBHM ed una varietà di composizione che pur toccando maggiormente la melodia non snatura le profonde radici della band.
Le chitarre (Joe Hoare) alla Thin Lizzy di Acid Trial, lo spirito del primo metal britannico NWOBHM che aleggia nella veloce cavalcata The Bishops Wolf con l'intrusione di un organo Hammond che riporta ai '70, il viscerale rock'n'roll di The Filthy And The Few danno l'esempio della grande ecletticità raggiunta dalla band londinese.
Una menzione particolare meritano: Save from Myself, un southern rock con ottimi assoli di derivazione blues, dove la voce da poco di buono di Ward, diventa espressiva e melodica, i cori diventano catchy , ricordandomi la dimenticata e sfortunata band The Four Horsemen;
poi c'è la breve e curiosa Return To Mars, un funk travestito da pesante hard rock, saltellante, groovy e psichedelica.
Forse non è il loro migliore album, ma è una chiara dimostrazione di crescita e maturità artistica che arriva a cinque anni dal loro ultimo e pesante disco Healing Through Fire (2007) e come successo con The Hunter dei Mastodon, pur con le dovute differenze, potrebbe farli uscire dal grande club dei gruppi cult.
vedi anche CORROSION OF CONFORMITY
Con l'annunciato ritiro (o presunto tale) dei capostipiti Cathedral, sulle spalle degli Orange Goblin pesa il duro fardello di portare avanti la scena doom/stoner britannica che ha avuto il suo culmine negli anni novanta. Ricordo con piacere il fumoso concerto dei Cathedral al defunto Barrumba di Torino nel 1999. Gli Orange Goblin, vera e propria scoperta di Lee Dorrian, accompagnarono insieme ai Terra Firma la band di Coventry, avendo modo di espandere la propria fama anche al di fuori del Regno Unito, facendo una gran bella figura e proponendosi come una delle più fulgide realtà in grado di unire l'ossianico doom britannico con i deserti stoner d'oltreoceano, il tutto suonato con piglio da punk-bykers inferociti.
Gli Orange Goblin targati 2012, sfornano il disco più eclettico e versatile della loro carriera. Abbandonate le influenze più psichedeliche/cosmiche e pesanti dei primissimi dischi, la creatura del sempre istrionico e temibile cantante Ben Ward, con gli anni, ha saputo rinnovarsi e A Eulogy For The Damned sembra essere la giusta via di mezzo tra i primissimi e fumati album( Frequencies From Planet Ten-1997, Time Travelling Blues-1998) e il discorso iniziato dieci anni fa, con l'uscita di Coupe De Grace (2002) con l'aggiunta di una vena blues/melodica a fare da collante.
Accanto alle radici del passato, comunque sempre presenti ascoltando canzoni come la pesante epicità di Death Of Aquarius, l'iniziale Red Tide Rising, la pesantezza doom che si alterna con i veloci break di The Fog, o la finale, lunga e progressiva suite della titletrack, troviamo un avvicinamento alle radici metal NWOBHM ed una varietà di composizione che pur toccando maggiormente la melodia non snatura le profonde radici della band.
Le chitarre (Joe Hoare) alla Thin Lizzy di Acid Trial, lo spirito del primo metal britannico NWOBHM che aleggia nella veloce cavalcata The Bishops Wolf con l'intrusione di un organo Hammond che riporta ai '70, il viscerale rock'n'roll di The Filthy And The Few danno l'esempio della grande ecletticità raggiunta dalla band londinese.
Una menzione particolare meritano: Save from Myself, un southern rock con ottimi assoli di derivazione blues, dove la voce da poco di buono di Ward, diventa espressiva e melodica, i cori diventano catchy , ricordandomi la dimenticata e sfortunata band The Four Horsemen;
poi c'è la breve e curiosa Return To Mars, un funk travestito da pesante hard rock, saltellante, groovy e psichedelica.
Forse non è il loro migliore album, ma è una chiara dimostrazione di crescita e maturità artistica che arriva a cinque anni dal loro ultimo e pesante disco Healing Through Fire (2007) e come successo con The Hunter dei Mastodon, pur con le dovute differenze, potrebbe farli uscire dal grande club dei gruppi cult.
vedi anche CORROSION OF CONFORMITY
lunedì 12 marzo 2012
RECENSIONE: FRANCESCO PIU ( ma-moo tones)
FRANCESCO PIU ma-moo tones ( Groove Company, 2012)
Che la Sardegna fosse terra di blues, già lo sapevamo e mi piace citare anche la letteratura contemporanea con Flavio Soriga e il titolo del suo bel libro Sardinia Blues, per rimarcarne il concetto, che sia attinente o meno. Da oggi,Francesco Piu ha pensato bene di metterci un suggello ufficiale.
Come avvenuto per Jaime Dolce, anche Francesco Piu è stato una delle tante chitarre che ho conosciuto attraverso i concerti e i dischi di Davide Van De Sfroos.
Il piccolo chitarrista sardo ha già all'attivo due album solisti (Blues Journey-2007 e Live ad Amigdala Theatre-2010) ed una sfilza di collaborazioni live e di studio da far impallidire tanto quanto il suo modo di suonare, senza contare i numerosi riconoscimenti ed apprezzamenti nazionali ed internazionali (Guitar Club l'ha definito:una vera e propria forza della natura) che con l'uscita di ma-moo tones lo trasformano, nel giro di undici canzoni, da promessa a una delle più fulgide realtà musicali italiane ed europee.
Come nel romanzo di Soriga, volutamente privo di punteggiatura, cascata di parole libere di diffondersi e oltrepassare confini della carta e raggiungere l'obiettivo, anche Francesco Piu riesce, anche grazie all'aiuto preziosissimo di Daniele Tenca in fase di scrittura dei pezzi e del mitico bluesman newyorchese, ma cittadino del mondo, Eric Bibb( appena uscito il suo nuovo album Deeper in the Well) in fase di produzione artistica, a liberare note dalla sua chitarra, facendole letteralmente volare dentro a canzoni che non hanno paura di travalicare il puro blues per esplorare altri territori.
Con una copertina (ritratta la tipica maschera di carnevale sarda Mamuthones) che non sfigurerebbe nella vetrina di qualsiasi negozio di vinili della Louisiana, ma-moo tones sa omaggiare devotamente il passato quanto calarsi nel presente grazie alla complicità ed immediatezza del più classico blues-trio: in compagnia di Davide Speranza all'armonica e Pablo Leoni alla batteria. La tradizione e le radici risiedono dentro alle tre cover del disco: Soul Of a Man di Blind Willie Johnson per sola chitarra elettrica e percussioni, nella strumentale Third Stone From the Sun di Hendrix suonata con una vecchia chitarra 1900' Parlour e nella rilettura del traditional Trouble So Hard con tanto di sampler di campane Mamutones a legare simbolicamente la Sardegna con le paludi degli States.
Paludi, mistero e sacri riti che spuntano dalle uniche due canzoni autografe( musica e parole) di Francesco Piu nel beat/blues alla Bo Diddley di Down On My Knees con la chitarra resofonica ed in Overdose Of Sorrow dove compare la chitarra baritono di Eric Bibb
Dalle profonde radici si risale fino a trovare le influenze reggaeggianti di Hooks in my skin( quando è necessario chiudere le porte con il passato e cercare la propria strada), i puri pezzi di bravura di Colors, percussiva e ritmata per sola acustica e batteria e Stand by Button guidata dal banjo.
Caducità di questo presente che poco si avvicina alla terra promessa nella iniziale, tirata ed elettrica The End Of Your Spell con un banjo infiltrato e malandrino dentro all'impetuosità della Lap Steel, alla cadenzata rapacità di Over You, singolo con tanto di video. E poi, lascio per ultima Blind Track, per me,vero gioiello di questo disco: una lenta e sentita ballad, dove si può apprezzare, oltre che l'ispirata e buona voce del chitarrista sardo, anche il grado di maturità raggiunto in fase di scrittura dei pezzi con la complicità di Daniele Tenca. Ecco, Francesco Piu e Daniele Tenca: il blues ha due buone ragioni in più per piantare le proprie radici nella profondità della terra italica. Qui la bella intervista a Francesco Piu su Black&Blue Blog di Alessandro Zoccarato
vedi anche JAIME DOLCE'S INNERSOLE-Sometimes Now
Che la Sardegna fosse terra di blues, già lo sapevamo e mi piace citare anche la letteratura contemporanea con Flavio Soriga e il titolo del suo bel libro Sardinia Blues, per rimarcarne il concetto, che sia attinente o meno. Da oggi,Francesco Piu ha pensato bene di metterci un suggello ufficiale.
Come avvenuto per Jaime Dolce, anche Francesco Piu è stato una delle tante chitarre che ho conosciuto attraverso i concerti e i dischi di Davide Van De Sfroos.
Il piccolo chitarrista sardo ha già all'attivo due album solisti (Blues Journey-2007 e Live ad Amigdala Theatre-2010) ed una sfilza di collaborazioni live e di studio da far impallidire tanto quanto il suo modo di suonare, senza contare i numerosi riconoscimenti ed apprezzamenti nazionali ed internazionali (Guitar Club l'ha definito:una vera e propria forza della natura) che con l'uscita di ma-moo tones lo trasformano, nel giro di undici canzoni, da promessa a una delle più fulgide realtà musicali italiane ed europee.
Come nel romanzo di Soriga, volutamente privo di punteggiatura, cascata di parole libere di diffondersi e oltrepassare confini della carta e raggiungere l'obiettivo, anche Francesco Piu riesce, anche grazie all'aiuto preziosissimo di Daniele Tenca in fase di scrittura dei pezzi e del mitico bluesman newyorchese, ma cittadino del mondo, Eric Bibb( appena uscito il suo nuovo album Deeper in the Well) in fase di produzione artistica, a liberare note dalla sua chitarra, facendole letteralmente volare dentro a canzoni che non hanno paura di travalicare il puro blues per esplorare altri territori.
Con una copertina (ritratta la tipica maschera di carnevale sarda Mamuthones) che non sfigurerebbe nella vetrina di qualsiasi negozio di vinili della Louisiana, ma-moo tones sa omaggiare devotamente il passato quanto calarsi nel presente grazie alla complicità ed immediatezza del più classico blues-trio: in compagnia di Davide Speranza all'armonica e Pablo Leoni alla batteria. La tradizione e le radici risiedono dentro alle tre cover del disco: Soul Of a Man di Blind Willie Johnson per sola chitarra elettrica e percussioni, nella strumentale Third Stone From the Sun di Hendrix suonata con una vecchia chitarra 1900' Parlour e nella rilettura del traditional Trouble So Hard con tanto di sampler di campane Mamutones a legare simbolicamente la Sardegna con le paludi degli States.
Paludi, mistero e sacri riti che spuntano dalle uniche due canzoni autografe( musica e parole) di Francesco Piu nel beat/blues alla Bo Diddley di Down On My Knees con la chitarra resofonica ed in Overdose Of Sorrow dove compare la chitarra baritono di Eric Bibb
Dalle profonde radici si risale fino a trovare le influenze reggaeggianti di Hooks in my skin( quando è necessario chiudere le porte con il passato e cercare la propria strada), i puri pezzi di bravura di Colors, percussiva e ritmata per sola acustica e batteria e Stand by Button guidata dal banjo.
Caducità di questo presente che poco si avvicina alla terra promessa nella iniziale, tirata ed elettrica The End Of Your Spell con un banjo infiltrato e malandrino dentro all'impetuosità della Lap Steel, alla cadenzata rapacità di Over You, singolo con tanto di video. E poi, lascio per ultima Blind Track, per me,vero gioiello di questo disco: una lenta e sentita ballad, dove si può apprezzare, oltre che l'ispirata e buona voce del chitarrista sardo, anche il grado di maturità raggiunto in fase di scrittura dei pezzi con la complicità di Daniele Tenca. Ecco, Francesco Piu e Daniele Tenca: il blues ha due buone ragioni in più per piantare le proprie radici nella profondità della terra italica. Qui la bella intervista a Francesco Piu su Black&Blue Blog di Alessandro Zoccarato
vedi anche JAIME DOLCE'S INNERSOLE-Sometimes Now
giovedì 8 marzo 2012
RECENSIONE: JAIME DOLCE'S INNERSOLE ( Sometimes Now)
JAIME DOLCE'S INNERSOLE Sometimes Now (autoproduzione, 2011)
Conobbi per la prima volta la chitarra dell'americano Jaime Dolce, solo dopo il suo sodalizio con Davide Van De Sfroos, con il quale incise Pica!(2007) e girò l'Italia in Tour. Personaggio simpatico e genuino dal ricco passato musicale, nato musicalmente nei primissimi anni novanta a New York, dove tra le numerose collaborazioni può vantare la lead guitar nella band di Mason Casey.
Sul finire degli anni novanta arrivò in Italia che diventa presto la sua seconda patria. Anche nel nostro paese riesce a collaborare a numerosi progetti e mettere in piedi la sua personale band: Jaime Dolce's Innersole, appunto.
Il suo nuovo album mi arriva inaspettato, dopo averlo perso di vista per qualche anno, ma mi conferma quanto il suo blues cerchi di spostarsi dalla canonicità per percorrere nuove e fantasiose strade, riuscendo ad uscire dai soliti steccati imposti dal genere ma soprattutto riuscendo a non fare della chitarra un mezzo onanistico di mera bravura tecnica ma rendendola parte integrante delle canzoni, magari a scapito dei puristi del genere.
Accompagnato da Matteo Sodini alla batteria, Stefano Castelli al basso e Filippo Buccianelli alle tastiere, Sometimes Now è un disco immediato e viscerale, senza fronzoli a cui fa fede la velocità con cui è stato registrato negli studi dei fratelli Poddighe a Brescia. Lo stesso Jaime nelle note introduttive al disco spiega quanto l'incontro con i due fratelli bresciani sia avvenuto per puro caso via
facebook ma in pratica gli abbia dato la possibilità di registrare il disco della vita, grazie ad uno studio di registrazione che ha permesso a lui e la band di registrare tutto in analogico, mettendo in musica le gioie e i dolori della sua vita.
Voce profonda, con forti sfumature black e chitarra ispirata sia nel rileggere ed omaggiare Robert Johnson nell'iniziale commistione tra Hendrix e funk di Stop Breaking Down e nella torrenziale Steady Rolling Man; sia nelle canzoni autografe che sanno passare dagli inserti reggae di Shots Of Fire e della strumentale Trippy Nina, i momenti acustici di I Do, al soul con la chitarra contagiosa e sognante della bella Arrendere, i sapori soul/tex-mex di The Movie Song e la bella Long way, ballad sorretta dall'hammond con l'ispirato assolo finale, pieno di feeling.
Fino ad arrivare al gran finale corale con Space Captain , la canzone di Matthew Moore che risplendeva nel grande Mad Dogs & Englishmen di Joe Cocker.
Foto:Aglientu Summer Festival
vedi anche: FRANCESCO PIU ma-moo tones
Conobbi per la prima volta la chitarra dell'americano Jaime Dolce, solo dopo il suo sodalizio con Davide Van De Sfroos, con il quale incise Pica!(2007) e girò l'Italia in Tour. Personaggio simpatico e genuino dal ricco passato musicale, nato musicalmente nei primissimi anni novanta a New York, dove tra le numerose collaborazioni può vantare la lead guitar nella band di Mason Casey.
Sul finire degli anni novanta arrivò in Italia che diventa presto la sua seconda patria. Anche nel nostro paese riesce a collaborare a numerosi progetti e mettere in piedi la sua personale band: Jaime Dolce's Innersole, appunto.
Il suo nuovo album mi arriva inaspettato, dopo averlo perso di vista per qualche anno, ma mi conferma quanto il suo blues cerchi di spostarsi dalla canonicità per percorrere nuove e fantasiose strade, riuscendo ad uscire dai soliti steccati imposti dal genere ma soprattutto riuscendo a non fare della chitarra un mezzo onanistico di mera bravura tecnica ma rendendola parte integrante delle canzoni, magari a scapito dei puristi del genere.
Accompagnato da Matteo Sodini alla batteria, Stefano Castelli al basso e Filippo Buccianelli alle tastiere, Sometimes Now è un disco immediato e viscerale, senza fronzoli a cui fa fede la velocità con cui è stato registrato negli studi dei fratelli Poddighe a Brescia. Lo stesso Jaime nelle note introduttive al disco spiega quanto l'incontro con i due fratelli bresciani sia avvenuto per puro caso via
facebook ma in pratica gli abbia dato la possibilità di registrare il disco della vita, grazie ad uno studio di registrazione che ha permesso a lui e la band di registrare tutto in analogico, mettendo in musica le gioie e i dolori della sua vita.
Voce profonda, con forti sfumature black e chitarra ispirata sia nel rileggere ed omaggiare Robert Johnson nell'iniziale commistione tra Hendrix e funk di Stop Breaking Down e nella torrenziale Steady Rolling Man; sia nelle canzoni autografe che sanno passare dagli inserti reggae di Shots Of Fire e della strumentale Trippy Nina, i momenti acustici di I Do, al soul con la chitarra contagiosa e sognante della bella Arrendere, i sapori soul/tex-mex di The Movie Song e la bella Long way, ballad sorretta dall'hammond con l'ispirato assolo finale, pieno di feeling.
Fino ad arrivare al gran finale corale con Space Captain , la canzone di Matthew Moore che risplendeva nel grande Mad Dogs & Englishmen di Joe Cocker.
Foto:Aglientu Summer Festival
vedi anche: FRANCESCO PIU ma-moo tones
mercoledì 7 marzo 2012
INTERVISTA a CESARE CARUGI
Il suo Here's to the Road non ha nulla da invidiare ai grandi dischi provenienti dagli States. Un disco dove i temi del viaggio e del tempo guidano le cinematografiche liriche, vero punto di forza di un lavoro con pochi difetti, sospese tra velato romanticismo e fughe di libertà.
Cesare Carugi ci parla di questi viaggi, degli ospiti e amici incontrati durante il suo cammino di vita e musicale, le sue passioni, le difficoltà giornaliere nel fare musica live, stando lontano dai grandi circuiti e la pigrizia dell'ascoltatore medio:"...manca la curiosità, si parla di musica ma le persone non sono stimolate ad uscire dal guscio, non vedono oltre la punta del loro naso..."
Here's To The Road sta ottenendo buoni riscontri sia in Italia che all'estero. Te lo aspettavi?Non proprio, o meglio, non mi aspettavo un entusiasmo così unilaterale. Ero soddisfatto del lavoro svolto però rimane comunque una sensazione personale.
Sei arrivato ad incidere il tuo primo disco, anticipato dall'ep Open 24Hrs, dopo i trent'anni d'età. Cosa è successo prima?Altre cose, lunghe pause, qualche serata a suonare le solite cover, impantanandomi in una realtà che adesso combatto fermamente. Poi c’è chi mi ha dato l’input a riprendere la scrittura e a rimettermi in gioco, e ho preso la palla al balzo
Le tue canzoni con le loro storie, i viaggi, i loro paesaggi ci portano direttamente negli Stati Uniti e mi vengono in mente le belle Goddbye Graceland, Dakota Lights & The Man who shot JohnLennon o Too Late to Leave Montgomery. Potrebbero rivivere in un contesto tutto Italiano? In futuro potresti lasciarti ispirare dalla tua terra?Spesso e volentieri non è il dove sono che mi ispira ma il cosa vedo. “Here’s To The Road” ha un approccio visivo tutto americano, ma le strade dove è nato sono anche quelle italiane. La strada è la strada ovunque tu vada.
Il tema del viaggio è ricorrente nei tuoi testi. Più voglia di fuga o conoscenza?Entrambi, qualsiasi fuga bene o male ti porta a fermarti prima o poi. Però c’è anche il senso di libertà, d’immaginazione, di osservare i grandi spazi. Il viaggio a modo suo è un bagaglio culturale immenso, e non è mai fine a sé stesso. Non sono un “leather tramp” (così in America definiscono i viaggiatori senza meta, tutti sacco a pelo e autostop), anzi, sono puntiglioso e studio sempre bene la situazione. Il viaggio è una cosa seria.
Tanti ospiti in questo tuo disco: da DanieleTenca a Riccardo Maffoni fino a Michael McDermott . Vuoi presentarli e spiegare come sono nate queste collaborazioni?Michael McDermott è uno dei personaggi che più hanno influenzato la mia scrittura negli ultimi anni. Nel 1991 fece un esordio col botto con “620 West Surf” che gli dette gran successo e varie etichette, come al solito inutili, di “nuovo Dylan” o “nuovo Springsteen”… Poi le cose con gli anni cambiarono, Michael è una persona troppo sensibile per fare la rockstar… Durante il suo tour italiano la scorsa estate rimase colpito dalla canzone e gli proposi il duetto. Accettò, con mia sorpresa, perché conoscendolo è una persona che tiene molto alla sua privacy e difficilmente si concede a cose come queste. Penso sia stato per il buon vecchio e sano valore dell’amicizia. Che poi è quella cosa che mi ha permesso di fare anche le altre collaborazioni.
Riccardo Maffoni ha un curriculum lungo un braccio, dal primo posto a Sanremo Giovani nel 2006 alla vittoria al Festival di Castrocaro, alle finali di Recanati ad altri premi, e concerti d’apertura per PFM, Van Morrison, Nomadi, Alanis Morissette… Daniele Tenca è on the road da un pezzo e sta portando avanti un progetto alquanto rispettabile sul blues unito alle problematiche della sicurezza sul lavoro. Ma credo debbano essere nominati tutti coloro che hanno partecipato, dal mio amico Massimiliano Larocca a Giulia Millanta, da Leo Ceccanti a Mike Ballini, dal mitico Fulvio A.T. Renzi a Gianni Gori, da Gianfilippo Boni (che ha anche mixato il disco) a Jacopo Creatini, fino a Lele Bianchi (ha suonato tutte le batterie) e Matteo Barsacchi (da cui ho registrato il 90% del disco). Un ringraziamento va anche a un fuoriclasse del mastering, Tommy Bianchi, il cui tocco ha dato una spinta pazzesca all’intero lavoro.
Due tra i migliori dischi del 2011 arrivano da Cecina. Il tuo e l'esordio dei Verily So. Sarà solo un caso o da quelle parti crescete a pane e buona musica?Magari è proprio perché mancano pane e buona musica che cerchiamo di sfondare il muro della mediocrità?! A parte gli scherzi, conosco Simone Stefanini ormai da un paio di decenni e ho sempre rispettato la sua verve musicale, quindi quanto di buono ha fatto coi Verily So non mi stupisce.
Quando si parla di rock in Italia, il grande pubblico nazionalpopolare tende a circoscriverlo attraverso i soliti nomi noti(Ligabue, Vasco Rossi...). Da musicista come ti poni di fronte a questa "pigrizia" tutta italiana verso il rock. Pensi si possa fare veramente qualcosa per invertire questa tendenza, spronando a cercare nel sottobosco o c'è veramente poco da fare.La pigrizia musicale non è solo un problema italiano comunque. Spesso e volentieri le majors vincolano troppo il panorama musicale, e quello che ti viene dato in pasto è quello che a loro rende introiti, e la gente, già pigra di suo, prende quello che gli viene dato. Manca la curiosità, si parla di musica ma le persone non sono stimolate ad uscire dal guscio, non vedono oltre la punta del loro naso. Brutto a dirsi, ma negli ultimi quindici anni c’è stato un vero e proprio crollo della cultura musicale. Spesso ci infilano negli orecchi cose che definiamo “nuove”, solo perché un qualche ufficio stampa ha avuto il colpo di fortuna di piazzarle bene. Penso all’exploit dei Black Keys nei mesi scorsi, ma forse nessuno sa che i Black Keys esistono da un decennio, e che “El Camino” è il disco più brutto della loro carriera.
Hai avuto modo di aprire concerti per importanti nomi del rock americano. Qual'è l'esperienza che ti è rimasta più a cuore?
Ho aperto per Jesse Malin, Michael McDermott, Bocephus King, Matthew Ryan, Israel Gripka e tanti altri, tutte esperienze interessantissime. Forse quella più emozionante resta il concerto d’apertura a Willie Nile della scorsa estate, davanti a 400 persone nella splendida cornice della Rocca di Cento, conclusa poi con una jam finale sul palco con Willie e la band spagnola Stormy Mondays a fine serata. Fatico a pensare a un musicista che ti trasmette entusiasmo più di Willie Nile. Un carissimo amico con un cuore enorme.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nell'organizzare delle date live in Italia e come presenterai il disco nelle prossime date del tour? Sarai da solo o accompagnato dalla band?Potrei ricollegarmi ai discorsi che facevo sulla pigrizia delle persone, unisco le solite problematiche organizzative e lo spazio che purtroppo viene dato sempre di più alle troppe cover band, che rimangono “macchine per invogliare il pubblico” ma che artisticamente propongono la solita solfa. C’è bisogno di aria fresca e di talento, di fotocopie in giro ce ne sono troppe, e bisogna osare, fare un passo avanti e mettersi in gioco. In quel modo si resta bloccati in mezzo alla strada della mediocrità generale, in attesa di essere investiti. Sto presentando il disco proponendo diversi tipi di show, dall’acustico in solitaria al duo, fino al Double Show che stiamo portando avanti io e Riccardo Maffoni, sulla scia del connubio Dylan-Knopfler. Spero per l’estate di avere la possibilità di fare delle cose in trio. Con la band mi piacerebbe moltissimo, mancano tempo e pazienza in questo momento, quindi vedremo in futuro.
Qual'è il tuo primo ricordo legato alla musica americana? Un disco, un concerto...
La prima cosa che mi viene in mente è il breve show di Porter Wagoner che vidi alla Grand Ole Opry a Nashville. Ricordo che arrivai a Nashville la sera prima ed ero ancora distrutto dalla fatica, ma vedere quest’uomo di quasi ottant’anni con l’entusiasmo di un quindicenne mi ha rimesso al mondo. Se penso a un disco non posso non citare “Soldier” di Calvin Russell. Non è il suo disco migliore, ma è stato il mio personale apripista per la music roots americana.
Bob Dylan, Bruce Springsteen, Neil Young, Tom Petty...o chi vuoi tu. Dovessi scegliere uno solo di loro, con chi collaboreresti per un disco scritto a quattro mani, e perchè?Non sarebbe male avere i testi di Dylan con l’entusiasmo del Boss, la voce di Neil, e la backing band di Tom Petty. Sono 4 autori diversi e se ne stanno lassù nella mia lista personale di mostri sacri. Ma se dovessi sceglierne uno, pensando al mio modo di fare musica, sceglierei il Tom Petty di “Wildflowers”, quello che si sposa di più alla mia concezione di suono e di emozionalità.
C'è già un disco che ti ha colpito in questi primi mesi del 2012 e che consiglieresti? Per ora buoni dischi, come “Wrecking Ball” di Springsteen, i lavori di Craig Finn e Anais Mitchell, o gli Shearwater. Però il mio 2012 è stato letteralmente folgorato dal nuovo di Mark Lanegan. Ha ricreato le sue vecchie concezioni, è provocatorio, è potente, è profondo. Lo adoro.(...condivido pienamente)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Here's to the Road (2011)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
vedi anche INTERVISTA ai W.I.N.D.
Cesare Carugi ci parla di questi viaggi, degli ospiti e amici incontrati durante il suo cammino di vita e musicale, le sue passioni, le difficoltà giornaliere nel fare musica live, stando lontano dai grandi circuiti e la pigrizia dell'ascoltatore medio:"...manca la curiosità, si parla di musica ma le persone non sono stimolate ad uscire dal guscio, non vedono oltre la punta del loro naso..."
Here's To The Road sta ottenendo buoni riscontri sia in Italia che all'estero. Te lo aspettavi?Non proprio, o meglio, non mi aspettavo un entusiasmo così unilaterale. Ero soddisfatto del lavoro svolto però rimane comunque una sensazione personale.
Sei arrivato ad incidere il tuo primo disco, anticipato dall'ep Open 24Hrs, dopo i trent'anni d'età. Cosa è successo prima?Altre cose, lunghe pause, qualche serata a suonare le solite cover, impantanandomi in una realtà che adesso combatto fermamente. Poi c’è chi mi ha dato l’input a riprendere la scrittura e a rimettermi in gioco, e ho preso la palla al balzo
Le tue canzoni con le loro storie, i viaggi, i loro paesaggi ci portano direttamente negli Stati Uniti e mi vengono in mente le belle Goddbye Graceland, Dakota Lights & The Man who shot JohnLennon o Too Late to Leave Montgomery. Potrebbero rivivere in un contesto tutto Italiano? In futuro potresti lasciarti ispirare dalla tua terra?Spesso e volentieri non è il dove sono che mi ispira ma il cosa vedo. “Here’s To The Road” ha un approccio visivo tutto americano, ma le strade dove è nato sono anche quelle italiane. La strada è la strada ovunque tu vada.
Il tema del viaggio è ricorrente nei tuoi testi. Più voglia di fuga o conoscenza?Entrambi, qualsiasi fuga bene o male ti porta a fermarti prima o poi. Però c’è anche il senso di libertà, d’immaginazione, di osservare i grandi spazi. Il viaggio a modo suo è un bagaglio culturale immenso, e non è mai fine a sé stesso. Non sono un “leather tramp” (così in America definiscono i viaggiatori senza meta, tutti sacco a pelo e autostop), anzi, sono puntiglioso e studio sempre bene la situazione. Il viaggio è una cosa seria.
Tanti ospiti in questo tuo disco: da DanieleTenca a Riccardo Maffoni fino a Michael McDermott . Vuoi presentarli e spiegare come sono nate queste collaborazioni?Michael McDermott è uno dei personaggi che più hanno influenzato la mia scrittura negli ultimi anni. Nel 1991 fece un esordio col botto con “620 West Surf” che gli dette gran successo e varie etichette, come al solito inutili, di “nuovo Dylan” o “nuovo Springsteen”… Poi le cose con gli anni cambiarono, Michael è una persona troppo sensibile per fare la rockstar… Durante il suo tour italiano la scorsa estate rimase colpito dalla canzone e gli proposi il duetto. Accettò, con mia sorpresa, perché conoscendolo è una persona che tiene molto alla sua privacy e difficilmente si concede a cose come queste. Penso sia stato per il buon vecchio e sano valore dell’amicizia. Che poi è quella cosa che mi ha permesso di fare anche le altre collaborazioni.
Riccardo Maffoni ha un curriculum lungo un braccio, dal primo posto a Sanremo Giovani nel 2006 alla vittoria al Festival di Castrocaro, alle finali di Recanati ad altri premi, e concerti d’apertura per PFM, Van Morrison, Nomadi, Alanis Morissette… Daniele Tenca è on the road da un pezzo e sta portando avanti un progetto alquanto rispettabile sul blues unito alle problematiche della sicurezza sul lavoro. Ma credo debbano essere nominati tutti coloro che hanno partecipato, dal mio amico Massimiliano Larocca a Giulia Millanta, da Leo Ceccanti a Mike Ballini, dal mitico Fulvio A.T. Renzi a Gianni Gori, da Gianfilippo Boni (che ha anche mixato il disco) a Jacopo Creatini, fino a Lele Bianchi (ha suonato tutte le batterie) e Matteo Barsacchi (da cui ho registrato il 90% del disco). Un ringraziamento va anche a un fuoriclasse del mastering, Tommy Bianchi, il cui tocco ha dato una spinta pazzesca all’intero lavoro.
Due tra i migliori dischi del 2011 arrivano da Cecina. Il tuo e l'esordio dei Verily So. Sarà solo un caso o da quelle parti crescete a pane e buona musica?Magari è proprio perché mancano pane e buona musica che cerchiamo di sfondare il muro della mediocrità?! A parte gli scherzi, conosco Simone Stefanini ormai da un paio di decenni e ho sempre rispettato la sua verve musicale, quindi quanto di buono ha fatto coi Verily So non mi stupisce.
Quando si parla di rock in Italia, il grande pubblico nazionalpopolare tende a circoscriverlo attraverso i soliti nomi noti(Ligabue, Vasco Rossi...). Da musicista come ti poni di fronte a questa "pigrizia" tutta italiana verso il rock. Pensi si possa fare veramente qualcosa per invertire questa tendenza, spronando a cercare nel sottobosco o c'è veramente poco da fare.La pigrizia musicale non è solo un problema italiano comunque. Spesso e volentieri le majors vincolano troppo il panorama musicale, e quello che ti viene dato in pasto è quello che a loro rende introiti, e la gente, già pigra di suo, prende quello che gli viene dato. Manca la curiosità, si parla di musica ma le persone non sono stimolate ad uscire dal guscio, non vedono oltre la punta del loro naso. Brutto a dirsi, ma negli ultimi quindici anni c’è stato un vero e proprio crollo della cultura musicale. Spesso ci infilano negli orecchi cose che definiamo “nuove”, solo perché un qualche ufficio stampa ha avuto il colpo di fortuna di piazzarle bene. Penso all’exploit dei Black Keys nei mesi scorsi, ma forse nessuno sa che i Black Keys esistono da un decennio, e che “El Camino” è il disco più brutto della loro carriera.
Hai avuto modo di aprire concerti per importanti nomi del rock americano. Qual'è l'esperienza che ti è rimasta più a cuore?
Ho aperto per Jesse Malin, Michael McDermott, Bocephus King, Matthew Ryan, Israel Gripka e tanti altri, tutte esperienze interessantissime. Forse quella più emozionante resta il concerto d’apertura a Willie Nile della scorsa estate, davanti a 400 persone nella splendida cornice della Rocca di Cento, conclusa poi con una jam finale sul palco con Willie e la band spagnola Stormy Mondays a fine serata. Fatico a pensare a un musicista che ti trasmette entusiasmo più di Willie Nile. Un carissimo amico con un cuore enorme.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nell'organizzare delle date live in Italia e come presenterai il disco nelle prossime date del tour? Sarai da solo o accompagnato dalla band?Potrei ricollegarmi ai discorsi che facevo sulla pigrizia delle persone, unisco le solite problematiche organizzative e lo spazio che purtroppo viene dato sempre di più alle troppe cover band, che rimangono “macchine per invogliare il pubblico” ma che artisticamente propongono la solita solfa. C’è bisogno di aria fresca e di talento, di fotocopie in giro ce ne sono troppe, e bisogna osare, fare un passo avanti e mettersi in gioco. In quel modo si resta bloccati in mezzo alla strada della mediocrità generale, in attesa di essere investiti. Sto presentando il disco proponendo diversi tipi di show, dall’acustico in solitaria al duo, fino al Double Show che stiamo portando avanti io e Riccardo Maffoni, sulla scia del connubio Dylan-Knopfler. Spero per l’estate di avere la possibilità di fare delle cose in trio. Con la band mi piacerebbe moltissimo, mancano tempo e pazienza in questo momento, quindi vedremo in futuro.
Qual'è il tuo primo ricordo legato alla musica americana? Un disco, un concerto...
La prima cosa che mi viene in mente è il breve show di Porter Wagoner che vidi alla Grand Ole Opry a Nashville. Ricordo che arrivai a Nashville la sera prima ed ero ancora distrutto dalla fatica, ma vedere quest’uomo di quasi ottant’anni con l’entusiasmo di un quindicenne mi ha rimesso al mondo. Se penso a un disco non posso non citare “Soldier” di Calvin Russell. Non è il suo disco migliore, ma è stato il mio personale apripista per la music roots americana.
Bob Dylan, Bruce Springsteen, Neil Young, Tom Petty...o chi vuoi tu. Dovessi scegliere uno solo di loro, con chi collaboreresti per un disco scritto a quattro mani, e perchè?Non sarebbe male avere i testi di Dylan con l’entusiasmo del Boss, la voce di Neil, e la backing band di Tom Petty. Sono 4 autori diversi e se ne stanno lassù nella mia lista personale di mostri sacri. Ma se dovessi sceglierne uno, pensando al mio modo di fare musica, sceglierei il Tom Petty di “Wildflowers”, quello che si sposa di più alla mia concezione di suono e di emozionalità.
C'è già un disco che ti ha colpito in questi primi mesi del 2012 e che consiglieresti? Per ora buoni dischi, come “Wrecking Ball” di Springsteen, i lavori di Craig Finn e Anais Mitchell, o gli Shearwater. Però il mio 2012 è stato letteralmente folgorato dal nuovo di Mark Lanegan. Ha ricreato le sue vecchie concezioni, è provocatorio, è potente, è profondo. Lo adoro.(...condivido pienamente)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Here's to the Road (2011)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
vedi anche INTERVISTA ai W.I.N.D.
lunedì 5 marzo 2012
RECENSIONE: CORROSION OF CONFORMITY ( Corrosion Of Conformity)
CORROSION OF CONFORMITY Corrosion Of Conformity (Candlelight, 2012)
Avevo accettato il tour nella vecchia formazione a tre, quella storica di Animosity (1985), pur avendo sempre amato il secondo periodo della band con Keenan alla voce. Sembrava uno dei tanti tour commemorativi (sempre più di moda) per festeggiare un disco epocale e basilare del crossover thrash/core. Mi andò giù un pò meno il fatto che i tre membri originali ( Mike Dean, Wood Weatherman con il rientro in formazione dopo undici anni del batterista, imbolsito dal tempo, Reed Mullin) fossero entrati subito in studio senza Pepper Keenan, ormai in pianta stabile nei Down, per lavorare a dei nuovi pezzi. L'idea che mi ero fatto era quella di un disco intransigentemente hardcore a ricordare le prime mosse dei tre fondatori originali del gruppo, rinnegando la seconda parte di carriera,
Ora, dopo l'ascolto di Corrosion Of Conformity mi sono dovuto ricredere, in quanto dentro a queste nuove tredici canzoni risiede l'intera (vera) anima dei C.O.C., quella primitiva e hardcore della prima parte di carriera e quella Stoner/southern '70 di un disco epocale come Deliverance ed i suoi successori, meno ispirati, come Wiseblood(1996) e il più accessibile e ruffiano America's Volume Dealer (2000), che pur essendo ottimi dischi, sembravano meno freschi e una copia del precedente.
Appurato che la separazione da Kennan è stata consenziente ( si parla di un prossimo ritorno nella formazione a quattro), Corrosion Of Conformity recupera la grezza attitudine thrash/hardcore degli anni ottanta inserendola alla perfezione dentro alle trame fangose, rallentate e sludge/doom degli anni novanta. Quello che è uscito è senza dubbio il disco più rappresentativo della band (attenzione non il migliore): quello ideale da mettere in mezzo tra Animosity e Deliverance, prendendo il posto che fu di Blind uscito nel 1991 e che fece da spartiacque tra il primo e secondo tempo di carriera dei C.O.C.
Forse qualcuno lamenterà il classico piede in due staffe. Semplicemente, credo più ad un tentativo di unire le due vere anime della band e tutte le esperienze accumulate in quasi trent'anni di carriera. Cosa altrimenti impossibile con Keenan in formazione; a tal riguardo le parole del bassista Mike Dean nell'intervista inclusa nel libretto sono esplicite: Pepper possiede un'influenza creativa molto grande; quando non c'è, ognuno di noi può ritagliarsi il suo spazio...
Concetto che esce fortemente ascoltando canzoni come l'iniziale Psychic Vampire un concentrato di primi Metallica, accelerazioni hardcore e rallentamenti in stile Volume IV dei Black Sabbath, (nelle parole, sempre di Mike Dean), in River Of Stone, nel lento e sulfureo incedere di The Doom interrotto da belluine ripartenze e nella bonus track Canyon City con i suoi riff di chitarra ispirati dai grandi Trouble ed il curioso inserimento delle vocals campionate di Bon Scott nel chorus.
Puro hardcore/punk sono invece Leeches con il travolgente anthem: "Leeches are Speechless", nella crisi finanziaria trattata nella velocissima The Moneychangers, nel delirante punto di vista di un topo verso noi abbietti umani nel punk/core "alla Bad Brains" di Rat City.
La lisergica e desertica strumentale El Lamento De Las Cabras è un diversivo che fa tirare un sospiro di sollievo prima dei travolgenti riff di chitarra di Woodroe Weatherman in Your Tomorrow, canzone che si pone di rispondere all'antico ed irrisolto quesito di quanto sia utile la guerra.
Weaving Spiders Come Not Here è un lento macigno sludge/doom con le vocals del batterista Mullin che scrive anche le invettive sociali della panteriana What You Despise Is What You've Become; pesantezza e chitarre voivodiane in Time Of Trials, thrash metal nell'altra bonus track The Same Way.
Il tutto sotto la regia del fido John Custer e registrato nello Studio 606 West del loro grande fan Dave Grohl a Northbridge in California.
Un disco senza compromessi, diretto, tagliente ma anche ibrido e personale pur nell'estrema gamma di influenze musicali messe in gioco. Il classico disco in grado di dividere i fans, ma che nella sua irruenza presenta tante sfumature e si rivela una vera sorpresa...e se i veri C.O.C. siano veramenti questi? Ad Aprile, unica data italiana al Rock n Roll arena di Romagnano Sesia(NO).
CORROSION OF CONFORMITY-Deliverance(1994)
vedi anche ORANGE GOBLIN A Eulogy For The Damned (2012)
Avevo accettato il tour nella vecchia formazione a tre, quella storica di Animosity (1985), pur avendo sempre amato il secondo periodo della band con Keenan alla voce. Sembrava uno dei tanti tour commemorativi (sempre più di moda) per festeggiare un disco epocale e basilare del crossover thrash/core. Mi andò giù un pò meno il fatto che i tre membri originali ( Mike Dean, Wood Weatherman con il rientro in formazione dopo undici anni del batterista, imbolsito dal tempo, Reed Mullin) fossero entrati subito in studio senza Pepper Keenan, ormai in pianta stabile nei Down, per lavorare a dei nuovi pezzi. L'idea che mi ero fatto era quella di un disco intransigentemente hardcore a ricordare le prime mosse dei tre fondatori originali del gruppo, rinnegando la seconda parte di carriera,
Ora, dopo l'ascolto di Corrosion Of Conformity mi sono dovuto ricredere, in quanto dentro a queste nuove tredici canzoni risiede l'intera (vera) anima dei C.O.C., quella primitiva e hardcore della prima parte di carriera e quella Stoner/southern '70 di un disco epocale come Deliverance ed i suoi successori, meno ispirati, come Wiseblood(1996) e il più accessibile e ruffiano America's Volume Dealer (2000), che pur essendo ottimi dischi, sembravano meno freschi e una copia del precedente.
Appurato che la separazione da Kennan è stata consenziente ( si parla di un prossimo ritorno nella formazione a quattro), Corrosion Of Conformity recupera la grezza attitudine thrash/hardcore degli anni ottanta inserendola alla perfezione dentro alle trame fangose, rallentate e sludge/doom degli anni novanta. Quello che è uscito è senza dubbio il disco più rappresentativo della band (attenzione non il migliore): quello ideale da mettere in mezzo tra Animosity e Deliverance, prendendo il posto che fu di Blind uscito nel 1991 e che fece da spartiacque tra il primo e secondo tempo di carriera dei C.O.C.
Forse qualcuno lamenterà il classico piede in due staffe. Semplicemente, credo più ad un tentativo di unire le due vere anime della band e tutte le esperienze accumulate in quasi trent'anni di carriera. Cosa altrimenti impossibile con Keenan in formazione; a tal riguardo le parole del bassista Mike Dean nell'intervista inclusa nel libretto sono esplicite: Pepper possiede un'influenza creativa molto grande; quando non c'è, ognuno di noi può ritagliarsi il suo spazio...
Concetto che esce fortemente ascoltando canzoni come l'iniziale Psychic Vampire un concentrato di primi Metallica, accelerazioni hardcore e rallentamenti in stile Volume IV dei Black Sabbath, (nelle parole, sempre di Mike Dean), in River Of Stone, nel lento e sulfureo incedere di The Doom interrotto da belluine ripartenze e nella bonus track Canyon City con i suoi riff di chitarra ispirati dai grandi Trouble ed il curioso inserimento delle vocals campionate di Bon Scott nel chorus.
Puro hardcore/punk sono invece Leeches con il travolgente anthem: "Leeches are Speechless", nella crisi finanziaria trattata nella velocissima The Moneychangers, nel delirante punto di vista di un topo verso noi abbietti umani nel punk/core "alla Bad Brains" di Rat City.
La lisergica e desertica strumentale El Lamento De Las Cabras è un diversivo che fa tirare un sospiro di sollievo prima dei travolgenti riff di chitarra di Woodroe Weatherman in Your Tomorrow, canzone che si pone di rispondere all'antico ed irrisolto quesito di quanto sia utile la guerra.
Weaving Spiders Come Not Here è un lento macigno sludge/doom con le vocals del batterista Mullin che scrive anche le invettive sociali della panteriana What You Despise Is What You've Become; pesantezza e chitarre voivodiane in Time Of Trials, thrash metal nell'altra bonus track The Same Way.
Il tutto sotto la regia del fido John Custer e registrato nello Studio 606 West del loro grande fan Dave Grohl a Northbridge in California.
Un disco senza compromessi, diretto, tagliente ma anche ibrido e personale pur nell'estrema gamma di influenze musicali messe in gioco. Il classico disco in grado di dividere i fans, ma che nella sua irruenza presenta tante sfumature e si rivela una vera sorpresa...e se i veri C.O.C. siano veramenti questi? Ad Aprile, unica data italiana al Rock n Roll arena di Romagnano Sesia(NO).
CORROSION OF CONFORMITY-Deliverance(1994)
vedi anche ORANGE GOBLIN A Eulogy For The Damned (2012)
venerdì 2 marzo 2012
INTERVISTA agli HOGJAW
Ho raggiunto Elvis D (bassista di lontane origini italiane) dei southern rocker Hogjaw, per alcune veloci domande. Il gruppo dell'Arizona ha appena pubblicato il suo terzo album, Sons Of Western Skies, un concentrato di southern rock/hard stoner dal grande impatto, sincero, diretto ma soprattutto divertente e positivo. Aspettando il loro arrivo in Italia...
L'anno scorso il vostro tour italiano è stato cancellato. Perchè? Quando potremo vedervi qui in Italia?
Il nostro tour è stato cancellato e ancora oggi non sappiamo le specifiche ragioni. Speriamo di tornare presto in Italia grazie al buon lavoro della teenageheadmusic( booking manager per l'Europa). Io sono italiano (la mia famiglia di cognome fa De Luca e sono siciliani), e adoro visitare la mia terra di origine.
La vostra biografia è curiosa. Quando e come si sono formati gli Hogjaw?
Gli Hogjaw si sono formati nel 2006, da un gruppo di vecchi amici di scuola. Suonavamo tutti insieme nella prima band. Se cerchi su youtube troverai una clip (Hogjaw the movie pt.1), nella prima parte del video potrai vedere noi quattro che suoniamo insieme nel lontano 1988.
Così, si può dire che gli Hogjaw si sono formati sia nel 2006 come nel 1988.
Qual'è stato il momento musicale che via ha fatto pensare:"ok...vogliamo suonare quella cosa"? Tra i padri del Southern rock come Lynyrd Skynyrd /Molly Hatchet e band come i Clutch, avete creato qualcosa di ibrido e speciale. Da quali bands siete stati influenzati?
Jonboat (voce e chitarra) e Kreg (chitarra) avevano già scritto molte canzoni insieme e quando ci siamo uniti io e Kwall (batteria) e la band è diventata Hogjaw, il materiale è letteralmente balzato fuori dalle chitarre per entrare nei nastri. In tre mesi avevamo sei canzoni demo (il primo demo EP Cheap Whiskey che diventò il primo album Devil in Details).
Le influenze di Skynyrd e Clutch ci sono perchè loro sono il meglio e amiamo quello che fanno.
Perchè un titolo come "Sons of Western skies"?
Mentre stavamo scrivendo i testi per Ironwood (il disco uscito nel 2010), volevamo scrivere una canzone con quel titolo, ma rimase fuori dal disco perchè non fu mai finita. Durante la lavorazione di questo nuovo album, Kwal la ritirò fuori ed è diventata anche il titolo dell'album.
Il vostro nuovo album sembra diviso in due parti. Le prime quattro canzoni sono compatte e suonano classicamente southern, la seconda parte è diversa: canzoni come Everyone's goin Fishin sono molto curiose(una delle mie preferite), Minstream Trucker è un canoninco Blues, The Sum Of All Things è in grado di disegnare ed evocare ampi spazi. Come è cambiato il vostro modo di comporre dal debutto a oggi?
Siamo cresciuti molto. Abbiamo scritto canzoni per più di vent'anni, ora da cinque anni le scriviamo sotto il nome Hogjaw senza mai chiuderci dentro a degli steccati. Negli anni abbiamo fatto molte esperienze: musica acustica, live album, molti esperimenti ma ora finalmente abbiamo trovato la nostra strada anche con canzoni più lunghe e complesse. Queste canzoni non le ascolterai molto spesso in radio, ma ai nostri fans piacciono perchè fanno compiere a loro molti viaggi mentali ed è quello che vogliamo fare con la nostra musica; portarli fuori dai loro uffici, dalle loro case, farli viaggiare nelle highways, portarli a pescare, ai party mentre si ubriacono, insomma divertirli.
Cosa pensate del movimento Stoner degli anni '90? I deserti dell'Arizona sono stati una buona ispirazione?
Lo Stoner rock ci piace! Abbiamo suonato con molte bands stoner e fatto amicizia molto velocemente. L'Arizona non ha avuto una grande scena stoner ma quei dischi li abbiamo ascoltati molto. I miei gruppi preferiti sono gli Sleep e gli Split Hoof da Austin (Texas).
Quali sono i vostri piani per i prossimi tour?
Un bel tour alla Iron Maiden! Suonare in ogni posto possibile!
Durante i tour mondiali riuscite ad andare a pesca?
Noi amiamo la pesca, ma bisogna fare molta attenzione ad avere le licenze. Se il nostro management ce le pagherà, il prossimo anno avremo molti pesci! :)
Ok, per concludere quali sono gli ultimi album che avete ascoltato nel tour bus?
Questa è facile, me li ricordo come fosse ieri. Rebel Son (Choke on Smoke), Danko Jones (We sweet blood), Hank III (Straight to Hell), Beat Farmers, Kylesa (stoner rock!), Southern Culture on the skids.
Recensione: HOGJAW Sons Of The Western Skies
lunedì 27 febbraio 2012
RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN ( Wrecking Ball )
BRUCE SPRINGSTEEN Wrecking Ball ( Sony Records, 2012)
"Dio aiuti Springsteen nel giorno in cui qualcuno deciderà che non è più lui il dio del rock'n'roll. Non l'ho mai visto suonare non sono uno spettatore che segue le mode ma ho sentito dire un gran bene di lui. Oggi che parla di fughe, di automobili e di corse dietro alle ragazze ha tutti i fan ai suoi piedi. E' ciò che vogliono da lui adesso. Ma quando si ritroverà più vecchio a fronteggiare il suo successo, sarà più dura." John Lennon
John Lennon per una volta fu cattivo profeta e per un paio di anni, suo malgrado, si perse Nebraska, il disco da cui Springsteen iniziò a prendersi in mano il futuro sociale del suo paese, raccontando le ferite della sua America dentro alle storie disperate dei suoi uomini qualunque. Ma all'ex Beatles questo possiamo perdonarlo. In più, per ora, nessuno si è accollato il gravoso compito di decidere se Springsteen è o non è più il dio del rock'n'roll. Il sold out annunciato delle prossime tappe del tour italiano, però, parlano chiaro.
Le probabilità di rimanere soddisfatti al cento per cento di un disco di Springsteen da qui agli ultimi vent'anni è un po' come chiedere ad un fan dello stesso quale sia il proprio disco preferito e sentirsi rispondere con il titolo di un album post 1984. Può succedere ma raramente: troppe aspettative, troppi proclami e sinceramente, troppi dischi inarrivabili nei suoi primi venti anni di carriera. Forse solamente The Rising e We Shall Overcome -The Seeger Sessions potrebbero rientrare in graduatoria. Proprio da questi due ultimi dischi sembra ripartire Wrecking Ball. Dal primo riprende l'uniformità delle liriche a tema e, purtroppo, certi suoni artefatti e fastidiosi; dal secondo l'idea di quel irish/folk combattente, corale ed impegnato che già aveva sperimentato di suo pugno con la composizione di American Land (...guarda caso, presente nella deluxe edition di Wrecking Ball, insieme alla bella ed oscura Swallowed Up (In the Belly of the Whale)), tanto da diventare la sigla di chiusura degli ultimi tour. Io, un disco completo e autografo sulla scia delle Seeger Sessions prima o poi me lo sarei aspettato. Ma dovrò ancora attendere, perchè Wrecking Ball, aveva tutti i numeri per esserlo, ma lo è a metà.
Musicalmente vuole essere troppe cose, senza esserne nemmeno una. Prendiamo una canzone a caso: l'evangelica Rocky Ground. Parte con dei loop elettronici a metronomo (dal successo di Streets Of Philadelphia, Springsteen li inserisce spesso e volentieri e non si sa bene il perchè) e finisce come una canzone Hip Hop con l'aggiunta di un coro black e gospel (molto presenti su tutto il disco) che francamente delude e poco convince nell'insieme. Perchè rovinare Easy Money, This Depression, l'irish march della bella Death To My Hometown con quella percussioni pompate che già davano fastidio e sembravano superate ai tempi di Born In The USA?La E Street Band svolge un ruolo molto marginale, superata dagli strumentisti della Seeger Sessions Band(violini e strumenti a fiato in gran quantità). Il muro di suono abbattutto dalla palla distruttrice. Le chitarre elettriche sono poche e quando si sentono sono quelle dell'ospite Tom Morello nel finale di Jack Of All Trades ed in This Depression, però, pure loro svolgono un compito assai modesto, tanto da distinguersi con difficoltà, così lontane dai caratteristici e funanbolici effetti a cui Morello ci ha abituato fin dai suoi esordi con i Lock Up per non parlare dei suoi seguenti e più fortunati gruppi dove il suo stile diventerà un marchio di fabbrica.
Tanti fiati a sopperire l'assenza di big Clarence: da quelle trombe nella finale We are Live che ricordano tanto la Ring Of Fire di Cash, a quelle della title track o della splendida Jack Of All trades, ballata in crescendo vecchio stampo e tra le cose migliori insieme a You've Got It.
Il primo singolo We Take Care Of Our Own svolge il compito che svolsero singoli come Human Touch o Radio Nowhere, senza infamia e senza lode, canzoni totalmente spiazzanti che nulla hanno a che fare con il resto del disco.
Insomma sì, Rick Rubin, io ci aggiungo Ry Cooder, avrebbero reso questo disco un capolavoro. Lo dicono tutti. Lo dico anch'io. Con buona pace delle idee innovative(?) del produttore Ron Aniello. Per chi voglia approfondire le tematiche: la bella recensione del maestro Paolo Vites.Se musicalmente mi ha parzialmente deluso, i testi sono quanto di più coeso, duro ed ispirato scritto da Springsteen dai tempi di The Rising, creando un' asincronia tra musica e testi che dopo aver visto, recentemente, Bruce cantare sul palco e su disco in compagnia di gruppi rock come Gaslight Anthem e Dropkick Murphys, non mi aspettavo. Dai roboanti proclami mi attendevo un disco tagliente e spigoloso, anche strumentalmente.
Momentaneamente abbandonato l'impegno e il lavoro per costruire il grande sogno che animava il precedente Working for a Dream -forse non si è avuto nemmeno il tempo necessario per iniziarlo quel lavoro- che la nuova scure della recessione è piombata tagliando il mondo in due.
Come fatto da Ry Cooder (ancora lui) con il suo recente e bellissimo Pull Up Some Dust and Sit Down ( disco splendido e perfetto) e dallo stesso Tom Morello in World Wide Rebel Songs, anche il grande cuore di Springsteen non poteva sottrarsi e nascondersi nel nulla. Bisogna darne atto. Ecco quindi che il motto "distruggere per ricostruire" diventa anima e modus operandi del disco. Il giovane degli anni settanta che si alzava ogni mattina per l'ennesima e noiosa giornata lavorativa, quello che passava il tempo libero gareggiando in automobile giù in città e trovava anche il tempo per sognare la terra promessa, ora impugna una pistola Smith & Wesson 38 e si aggira per le vie in cerca di soldi facili (Easy Money), perchè ora si muore anche senza essere colpiti da bombe, fucili e cannoni, ma standosene comodamente stesi sul divano di casa nella propria città (Death to my Hometown).
Se scappi alla morte, in qualche modo ti viene a cercare nella maniera più subdola e meno dignitosa. Quella vecchia ragione per vivere che si trovava al calar del sole, dov'è finita? Affogata nella depressione economica ma con ancora un appiglio nel cuore e nell'amore che esce da You've Got It, con quel mood desertico che riporta al disco più sottovalutato di Springsteen, Lucky Town (che errore, all'epoca, farlo uscire insieme a Human Touch).
Poi, ci sono le già conosciute Wrecking Ball, rivestita di Irish folk e Land of Hope and Dreams, messa lì per ricordare il fratellone Clemons che ci regala il suo ultimo assolo terreno.
Meglio del suo predecessore Working on a Dream ma con il rimpianto del capolavoro mancato.
Ora sarà interessante vederlo riproposto dal vivo e visto la composizione della nuova band che lo accompagnerà nel prossimo tour insieme alla fida E Street Band, canzoni come Shackled and Drawn, Easy Money e Death to My Hometown potrebbero diventare travolgenti. Come sempre si ritorna ai live e lì il dio del rock'n'roll è sempre lui. Con buona pace del povero Lennon.
RECENSIONE/REPORT live: BRUCE SPRINGSTEEN live-SAN SIRO, Milano 7 Giugno 2012
RECENSIONE/REPORT live: BRUCE SPRINGSTEEN live-Stadio Euganeo, Padova 31 Maggio 2013
"Dio aiuti Springsteen nel giorno in cui qualcuno deciderà che non è più lui il dio del rock'n'roll. Non l'ho mai visto suonare non sono uno spettatore che segue le mode ma ho sentito dire un gran bene di lui. Oggi che parla di fughe, di automobili e di corse dietro alle ragazze ha tutti i fan ai suoi piedi. E' ciò che vogliono da lui adesso. Ma quando si ritroverà più vecchio a fronteggiare il suo successo, sarà più dura." John Lennon
John Lennon per una volta fu cattivo profeta e per un paio di anni, suo malgrado, si perse Nebraska, il disco da cui Springsteen iniziò a prendersi in mano il futuro sociale del suo paese, raccontando le ferite della sua America dentro alle storie disperate dei suoi uomini qualunque. Ma all'ex Beatles questo possiamo perdonarlo. In più, per ora, nessuno si è accollato il gravoso compito di decidere se Springsteen è o non è più il dio del rock'n'roll. Il sold out annunciato delle prossime tappe del tour italiano, però, parlano chiaro.
Le probabilità di rimanere soddisfatti al cento per cento di un disco di Springsteen da qui agli ultimi vent'anni è un po' come chiedere ad un fan dello stesso quale sia il proprio disco preferito e sentirsi rispondere con il titolo di un album post 1984. Può succedere ma raramente: troppe aspettative, troppi proclami e sinceramente, troppi dischi inarrivabili nei suoi primi venti anni di carriera. Forse solamente The Rising e We Shall Overcome -The Seeger Sessions potrebbero rientrare in graduatoria. Proprio da questi due ultimi dischi sembra ripartire Wrecking Ball. Dal primo riprende l'uniformità delle liriche a tema e, purtroppo, certi suoni artefatti e fastidiosi; dal secondo l'idea di quel irish/folk combattente, corale ed impegnato che già aveva sperimentato di suo pugno con la composizione di American Land (...guarda caso, presente nella deluxe edition di Wrecking Ball, insieme alla bella ed oscura Swallowed Up (In the Belly of the Whale)), tanto da diventare la sigla di chiusura degli ultimi tour. Io, un disco completo e autografo sulla scia delle Seeger Sessions prima o poi me lo sarei aspettato. Ma dovrò ancora attendere, perchè Wrecking Ball, aveva tutti i numeri per esserlo, ma lo è a metà.
Musicalmente vuole essere troppe cose, senza esserne nemmeno una. Prendiamo una canzone a caso: l'evangelica Rocky Ground. Parte con dei loop elettronici a metronomo (dal successo di Streets Of Philadelphia, Springsteen li inserisce spesso e volentieri e non si sa bene il perchè) e finisce come una canzone Hip Hop con l'aggiunta di un coro black e gospel (molto presenti su tutto il disco) che francamente delude e poco convince nell'insieme. Perchè rovinare Easy Money, This Depression, l'irish march della bella Death To My Hometown con quella percussioni pompate che già davano fastidio e sembravano superate ai tempi di Born In The USA?La E Street Band svolge un ruolo molto marginale, superata dagli strumentisti della Seeger Sessions Band(violini e strumenti a fiato in gran quantità). Il muro di suono abbattutto dalla palla distruttrice. Le chitarre elettriche sono poche e quando si sentono sono quelle dell'ospite Tom Morello nel finale di Jack Of All Trades ed in This Depression, però, pure loro svolgono un compito assai modesto, tanto da distinguersi con difficoltà, così lontane dai caratteristici e funanbolici effetti a cui Morello ci ha abituato fin dai suoi esordi con i Lock Up per non parlare dei suoi seguenti e più fortunati gruppi dove il suo stile diventerà un marchio di fabbrica.
Tanti fiati a sopperire l'assenza di big Clarence: da quelle trombe nella finale We are Live che ricordano tanto la Ring Of Fire di Cash, a quelle della title track o della splendida Jack Of All trades, ballata in crescendo vecchio stampo e tra le cose migliori insieme a You've Got It.
Il primo singolo We Take Care Of Our Own svolge il compito che svolsero singoli come Human Touch o Radio Nowhere, senza infamia e senza lode, canzoni totalmente spiazzanti che nulla hanno a che fare con il resto del disco.
Insomma sì, Rick Rubin, io ci aggiungo Ry Cooder, avrebbero reso questo disco un capolavoro. Lo dicono tutti. Lo dico anch'io. Con buona pace delle idee innovative(?) del produttore Ron Aniello. Per chi voglia approfondire le tematiche: la bella recensione del maestro Paolo Vites.Se musicalmente mi ha parzialmente deluso, i testi sono quanto di più coeso, duro ed ispirato scritto da Springsteen dai tempi di The Rising, creando un' asincronia tra musica e testi che dopo aver visto, recentemente, Bruce cantare sul palco e su disco in compagnia di gruppi rock come Gaslight Anthem e Dropkick Murphys, non mi aspettavo. Dai roboanti proclami mi attendevo un disco tagliente e spigoloso, anche strumentalmente.
Momentaneamente abbandonato l'impegno e il lavoro per costruire il grande sogno che animava il precedente Working for a Dream -forse non si è avuto nemmeno il tempo necessario per iniziarlo quel lavoro- che la nuova scure della recessione è piombata tagliando il mondo in due.
Come fatto da Ry Cooder (ancora lui) con il suo recente e bellissimo Pull Up Some Dust and Sit Down ( disco splendido e perfetto) e dallo stesso Tom Morello in World Wide Rebel Songs, anche il grande cuore di Springsteen non poteva sottrarsi e nascondersi nel nulla. Bisogna darne atto. Ecco quindi che il motto "distruggere per ricostruire" diventa anima e modus operandi del disco. Il giovane degli anni settanta che si alzava ogni mattina per l'ennesima e noiosa giornata lavorativa, quello che passava il tempo libero gareggiando in automobile giù in città e trovava anche il tempo per sognare la terra promessa, ora impugna una pistola Smith & Wesson 38 e si aggira per le vie in cerca di soldi facili (Easy Money), perchè ora si muore anche senza essere colpiti da bombe, fucili e cannoni, ma standosene comodamente stesi sul divano di casa nella propria città (Death to my Hometown).
Se scappi alla morte, in qualche modo ti viene a cercare nella maniera più subdola e meno dignitosa. Quella vecchia ragione per vivere che si trovava al calar del sole, dov'è finita? Affogata nella depressione economica ma con ancora un appiglio nel cuore e nell'amore che esce da You've Got It, con quel mood desertico che riporta al disco più sottovalutato di Springsteen, Lucky Town (che errore, all'epoca, farlo uscire insieme a Human Touch).
Poi, ci sono le già conosciute Wrecking Ball, rivestita di Irish folk e Land of Hope and Dreams, messa lì per ricordare il fratellone Clemons che ci regala il suo ultimo assolo terreno.
Meglio del suo predecessore Working on a Dream ma con il rimpianto del capolavoro mancato.
Ora sarà interessante vederlo riproposto dal vivo e visto la composizione della nuova band che lo accompagnerà nel prossimo tour insieme alla fida E Street Band, canzoni come Shackled and Drawn, Easy Money e Death to My Hometown potrebbero diventare travolgenti. Come sempre si ritorna ai live e lì il dio del rock'n'roll è sempre lui. Con buona pace del povero Lennon.
RECENSIONE/REPORT live: BRUCE SPRINGSTEEN live-SAN SIRO, Milano 7 Giugno 2012
RECENSIONE/REPORT live: BRUCE SPRINGSTEEN live-Stadio Euganeo, Padova 31 Maggio 2013
sabato 25 febbraio 2012
RECENSIONE/REPORTAGE live: D-A-D Live@GLAM ATTAKK -Rock n Roll Arena-Romagnano Sesia(NO),24/02/2012
Volete diventare ricchi e famosi come i Guns n'Roses?"No, sicuramente no. E' un successo troppo stressante quello;devono essere persone davvero molto forti per non scoppiare, circondati come sono da tanto nervosismo e tante chiacchiere.Vorrei, però, riuscire a raggiungere il loro livello economico:avremmo, in questo modo, la possibilità di suonare in tutto il mondo e raggiungere tutti i nostri fans". Così parlò Jesper Binzer (Cantante e chitarrista dei D-A-D) in una vecchia intervista rilasciata ad HM nel 1992Vent'anni dopo, i danesi D-A-D, famosi e ricchi non lo sono mai diventati, ma un piccolo e importante particolare li rende assolutamente superiori all'attuale baraccone messo in piedi da Axl e comparse al seguito (loro sì, sono effetivamente scoppiati vent'anni fa...): l'onestà, l'attitudine e la coesione tra i membri a trent'anni dalla formazione della band è rimasta invariata(particolare non da poco per un gruppo di nicchia).
Anche se la fama nazionalpopolare che li accompagna in patria non corrisponde al titolo da cult band in giro per il mondo, i D-A-D. sono, ancora oggi, un gruppo con un seguito affezionato e devoto. Stasera lo si è testato.
Quello che doveva essere uno dei due loro concerti in Italia (l'altro a Pinarella di Cervia) si è trasformato, con l'aggiunta di tre band italiane , nella quattordicesima edizione del festival annuale Glam Attakk. Anche quest'anno (l'anno scorso ci fu Michael Monroe) ad ospitare la manifestazione ci pensa il sempre più meritevole Rock n Roll Arena, locale ormai assurto a vero polo di attrazione per la musica pesante nel nord Italia.
Serata ricca e lunga, aperta dai Waste Pipes di Rivoli (TO). Attivi da una decina di anni e fautori di un rock fortemente influenzato dagli anni settanta con l'ugola del cantante Chris, vera protagonista.
Seguono i lucchesi H.a.r.e.m., carriera quasi ventennale alle spalle con il carismatico leader e cantante Freddy Delirio(già tastierista nei Death SS di Steve Sylvester) a guidare le canzoni attraverso il loro piglio street hard rock dal taglio sinistro.
A ridosso dei D-A-D salgono sul palco gli altri torinesi Hollywood Killerz,
promotori di questo festival dal 1999 ed ormai diventato appuntamento fisso e seguito. Il gruppo ha occasione di presentare anche nuovi brani dal disco di prossima uscita che seguirà il fortunato Dead On Arrival uscito nel 2010. Un concentrato di street rock'n'roll punk, tagliente ed incalzante il loro.
Alle 23 passate, salgono sul palco gli headliner della serata D-A-D( ...anche se, a dire la verità, poco o nulla hanno avuto a che fare con il glam durante tutta la loro lunga carriera). L'arena nel frattempo si è riempita. C'è da presentare il loro ottimo e recentissimo disco " DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK" e proprio per dimostrare quanto il gruppo tenga alle nuove composizioni (un bel crocevia tra il loro passato rock'n'roll e la pesantezza grunge di metà carriera), gli estratti sono parecchi ad iniziare dall'apertura di concerto affidata a New Age Movin In. Nemmeno il tempo di riscaldarsi che dopo pochissime note di Jihad, problemi all'impianto audio/luci bloccano la performance.
Ma quello che può essere un incidente diventa teatrino e presupposto per dimostrare tutta l'esperienza accumulata in anni di concerti, mista alla ineguagliabile capacità di divertire ed intrattenere i fans da sopra un palco. Il cantante Jesper ed il bassista Stig sono maestri. Tutto si sistema, non senza qualche difficoltà, ed il concerto può riprendere.
La nomea di gruppo folle e spettacolare che li accompagna dal vivo, non viene disattesa fin dalle prime battute e il bassista Stig Pedersen grazie ai suoi innumerevoli, folli e bizzarri bassi a due corde( da quello trasparente all'ormai mitico missile, compagno di mille concerti), alle pose e arrampicate sopra a casse e batteria, mantiene lo spettacolo promesso. I fotografi ringraziano.
Il nuovo album viene sviscerato per bene: The end, Last Time In Neverland, The Place Of The Heart, più la darkeggiante ballad We All Fall down con il chitarrista Jacob A. Binzer alle tastiere ed il trascinante nuovo singolo I wan't what she 's Got, sul finire del quale a mettersi in mostra è il batterista Laust Sonne, ultimo entrato nella band nell' ormai lontano 1999 ma diventato importantissimo nel suono del gruppo grazie al suo stile elegante dal passato retaggio jazzistico."We want What Laust's Got".Tutte le sfumature della loro musica vengono messe in scena: gli esordi con il cowpunk'n'roll di Riding with Sue e nella finale It's After Dark con il bassista Stig alla voce. Il periodo di maggior successo a cavallo tra il 1989 e 1992 con l'anthemica Point Of View, la già citata Jihad e l'immancabile hit Slleping My Day Away estrapolate da No Fuel Left For The Pilgrims(1989), più il rock'n'roll di Grow or Pay e la tiratissima Bad Craziness da Riskin' it all(1991).
Ci fu anche il periodo durante il quale i D-A-D, come centinaia di altri gruppi, dovettero scendere a compromessi con il Grunge per rimanere in pista, ma lo fecero molto bene: la pesante Reconstrucdead ce lo ricorda , insieme alle più recenti Everything Glows e Monster Philosophy.
I D-A-D si divertono ancora e fanno divertire con il loro compromesso così ben incastrato tra energia e melodia, i loro chorus memorizzabili, le svisate
country/western che ogni tanto riaffiorano dal passato e una tenuta di palco da veri maestri con Jesper Binzer sempre pronto a coinvolgere il pubblico con i suoi "esperimenti" e sempre capace nel tirar fuori un sorriso.
Peccato che il tempo tiranno cancelli dalla scaletta la ballad Laugh'N'A 1/2 che non sarebbe dispiaciuta a nessuno per concludere la lunga serata.
SETLIST: A New Age Movin In/Jihad/The End/Everything Glows/Point Of View/Monster Philosiphy/Reconstrucdead/Ridin' with Sue/Last Time in Neverland/Grow or Pay/We All Fall Down/I Want What She's Got/Evil Twin/Bad Craziness/The Place Of The Heart/Sleeping My day away/It's After Dark
RECENSIONE: D-A-D "DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK"
giovedì 23 febbraio 2012
RECENSIONE: HOGJAW ( Sons Of The Western Skies )
HOGJAW Sons Of The Western Skies ( Swampjawbeamusic, 2012)
Con il terzo album Sons Of The Western Skies, gli Hogjaw dall'Arizona rivendicano di diritto un posto tra le migliori Southern rock band contemporanee. Amici fin dai tempi di scuola, hanno dovuto aspettare vent'anni prima di unirsi come band nel 2006.
Già dai primi due album Devil in Details (2008) e Ironwood (2010) si erano fatti notare per il loro roccioso e solido hard southern rock, tanto vicino alla tradizione dei Lynyrd Skynyrd quanto alle band più leggendarie, heavy e toste del movimento quali Molly Hatchet, Doc Holliday, Blackfoot e Hydra, senza tuttavia snobbare e nascondere la pesantezza, il carattere ed una presenza scenica più moderna e vicina allo stoner rock di gruppi come i Clutch, avvicinati anche con il look da trasandati boscaioli redneck.
Gruppo con pochi fronzoli: diretto, viscerale e schietto. Il poker di canzoni che aprono il loro terzo album ne sono una prova inconfutabile.
Spoonfed, Hells Half Home of Mine, Road Of Fools e Six Shots picchiano giù duro, non facendosi apprezzare per l'originalità quanto per il loro carattere rozzo, solido e concreto. Le chitarre di Jones e Kreg Self lavorano duro e giocano con gli assoli in Six Shots, una cavalcata d'impronta heavy che non lascia prigionieri.
Poi, si arriva a Everyone's Goin Fishin, un divertente boogie/soul con il basso di Elvis DD ed un sax contagioso che ci introducono alla vera passione/hobby dei nostri: la pesca( a tal proposito, su alcuni loro video, potete trovarli impegnati durante le loro divertenti -ma professionali-battute in alto mare).
Look to the Sky è una classica southern ballad: otto minuti di spazi infiniti, terra rossa e la "grossa"voce di Jonboat Jones a condurre metà canzone, mentre l'altra metà è strumentale e free.
Mainstream Trucker(18 wheeler mix) è un canonico e terroso blues con l'armonica che serpeggia in lungo ed in largo, a cui fa seguito la tambureggiante Midnight Run To Cleator, con la batteria di Kwall a tenere il ritmo come una marcia forsennata. Ecco che si inizia a capire quanto gli Hogjaw, a loro modo, siano un gruppo fuori dagli schemi: accelerazioni e rallentamenti in odor di stoner '90 a tradire il chiaro retaggio metal della band.
A chiudere la lunga western ballad The Sum Of All Things, i confini si riallargano ed i tipici paesaggi americani si rimpossessano della scena.
Canzoni di vere e sincere persone per veri e sinceri ascoltatori.
Nessun trucco e nessun inganno.
INTERVISTA HOGJAW
Con il terzo album Sons Of The Western Skies, gli Hogjaw dall'Arizona rivendicano di diritto un posto tra le migliori Southern rock band contemporanee. Amici fin dai tempi di scuola, hanno dovuto aspettare vent'anni prima di unirsi come band nel 2006.
Già dai primi due album Devil in Details (2008) e Ironwood (2010) si erano fatti notare per il loro roccioso e solido hard southern rock, tanto vicino alla tradizione dei Lynyrd Skynyrd quanto alle band più leggendarie, heavy e toste del movimento quali Molly Hatchet, Doc Holliday, Blackfoot e Hydra, senza tuttavia snobbare e nascondere la pesantezza, il carattere ed una presenza scenica più moderna e vicina allo stoner rock di gruppi come i Clutch, avvicinati anche con il look da trasandati boscaioli redneck.
Gruppo con pochi fronzoli: diretto, viscerale e schietto. Il poker di canzoni che aprono il loro terzo album ne sono una prova inconfutabile.
Spoonfed, Hells Half Home of Mine, Road Of Fools e Six Shots picchiano giù duro, non facendosi apprezzare per l'originalità quanto per il loro carattere rozzo, solido e concreto. Le chitarre di Jones e Kreg Self lavorano duro e giocano con gli assoli in Six Shots, una cavalcata d'impronta heavy che non lascia prigionieri.
Poi, si arriva a Everyone's Goin Fishin, un divertente boogie/soul con il basso di Elvis DD ed un sax contagioso che ci introducono alla vera passione/hobby dei nostri: la pesca( a tal proposito, su alcuni loro video, potete trovarli impegnati durante le loro divertenti -ma professionali-battute in alto mare).
Look to the Sky è una classica southern ballad: otto minuti di spazi infiniti, terra rossa e la "grossa"voce di Jonboat Jones a condurre metà canzone, mentre l'altra metà è strumentale e free.
Mainstream Trucker(18 wheeler mix) è un canonico e terroso blues con l'armonica che serpeggia in lungo ed in largo, a cui fa seguito la tambureggiante Midnight Run To Cleator, con la batteria di Kwall a tenere il ritmo come una marcia forsennata. Ecco che si inizia a capire quanto gli Hogjaw, a loro modo, siano un gruppo fuori dagli schemi: accelerazioni e rallentamenti in odor di stoner '90 a tradire il chiaro retaggio metal della band.
A chiudere la lunga western ballad The Sum Of All Things, i confini si riallargano ed i tipici paesaggi americani si rimpossessano della scena.
Canzoni di vere e sincere persone per veri e sinceri ascoltatori.
Nessun trucco e nessun inganno.
INTERVISTA HOGJAW
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